www.gliamicidellamusica.net Pubblicato il 10 Luglio 2015 Due Quartetti per un'esaustiva esecuzione dei lavori del compositore boemo L'integrale Bartók servizio di Edoardo Farina RAVENNA - Tra le proposte concertistiche di Ravenna Festival 2015 relative alla musica classica, è sicuramente degno di considerazione la presenza del quartetto Accord composto da Péter Mező violino, Csongor Veér violino, Péter Kondor viola, Mátyás Ölveti violoncello, nato nel 2001 per iniziativa di quattro studenti dell’Accademia “Ferenz Liszt” di Budapest, oggi dal curriculum straordinario, e Kelemen, formato da Barnabàs Kelemen violino, Katalin Kokas violino e viola, Gabor Homoki violino e viola, Laszlo Fenyö violoncello, vincitore del “Premio Paolo Borciani” 2014, (Concorso Internazionale per quartetti d’archi di Reggio Emilia), costituitosi nel 2009 anch’esso nella capitale ungherese, e dai componenti attivi anche in qualità di solisti. Due distinte serate e tre concerti nella rara esecuzione dell’interpretazione dell’integrale dei Quartetti originali di Béla Bartók e a conclusione l’Ottetto in mi b emolle maggiore per archi op. 20 di Mendelssonh. Béla Viktor János Bartók, è stato tra i più importanti compositori, ungheresi, studioso della musica popolare dell'Europa orientale e del Medio Oriente, pianista e pioniere dell'etnomusicologia. Nato in Romania nel 1881 e scomparso nel 1945 a New York, viene quest’anno ricordato in occasione delle celebrazioni per il 70° anniversario della morte. Presso la suggestiva sede del Chiostro della Biblioteca Classense della città romagnola, dapprima da parte dell’Accord sono stati proposti nel tardo pomeriggio del 7 luglio il Quartetto n.1 op. 7 BB52 , il n.3 BB93, e nella stessa serata, eseguiti dal Kelemen, il n.4 BB95 e il n.5 BB110 , dandoci la possibilità di apprezzare l’integrale per archi in una autentica conoscenza profonda del contrappunto. Abilità ineguagliabile nella combinazione di diversi centri tonali, esplorazione di nuove tecniche timbriche e strumentali e soprattutto, un ritmo che affonda le proprie radici nel cuore oscuro della musica popolare magiara che si fa struttura. È qui che è racchiusa la vera essenza del gesto compositivo di Bartók: non è un caso che la loro elaborazione punteggi buona parte del suo arco creativo, dal 1908 fino a quel 1940 che lo vide costretto alla difficile scelta di lasciare l’Europa in guerra ed emigrare negli Stati Uniti. I sei Quartetti sono un momento fondamentale nella storia della musica della prima metà del Ventesimo secolo, accanto a quelli dei compositori della Scuola di Vienna: ma mentre le composizioni per Quartetto d'archi di Schönberg - e ancor più quelle di Berg e Webern - non costituiscono un gruppo compatto, queste pagine di Bartók rivelano, pur nella loro diversità, una grande omogeneità e coerenza. Inoltre ognuna di loro marca una tappa nell'evoluzione del suo linguaggio, segnando un percorso coerente lungo più di trent'anni e intessendo una fitta rete di somiglianze e relazioni con le altre partiture. Musicalmente non facili all’ascolto, come tutto l’Espressionismo a cui queste opere appartengono per via di numerosi atonalismi e sperimentalismi cromatici, l'evoluzione del linguaggio di Bartók può essere tracciata proprio sulla base delle esecuzioni qui in cartellone: la fase della presa di distanza dal post-romanticismo nel primo, la fase espressionista nel secondo, la fase della ricerca più audace e della concentrazione estrema nel terzo, l'adozione della forma ad arco (cinque movimenti disposti in modo concentrico) nel quarto, la fase del riavvicinamento alla tonalità nel quinto, infine il momento del doloroso distacco dall'Ungheria nel sesto (un settimo quartetto restò allo stato di progetto). Non è un caso se Beethoven torna spesso come un paragone ineludibile nei discorsi sui Quartetti di Bartók, perché sono dei gradini ineludibili per giungere alla comprensione dell'arte di questi due musicisti, ma anche perché nessun altro gruppo di Quartetti posteriore a Beethoven propone un così audace rinnovamento della struttura di questo genere, occupando una posizione predominante non solo nell'opera del loro autore ma anche nella produzione quartettistica contemporanea potendo essere considerati un'espressione fra le più alte e compiute della musica del nostro secolo per quanto riguarda la ricerca linguistica, l'invenzione formale e la sensibilità timbrica. Al pari degli ultimi Quartetti di Beethoven, essi si presentano come un ciclo organico e hanno una funzione riepilogativa di tutta una serie di esperienze stilistiche. Ma a differenza degli ultimi cinque di Beethoven, che circoscrivono un periodo limitato seppure di fondamentale importanza nella produzione del loro autore (ciò che comunemente va sotto il nome di tardo stile), i Quartetti di Bartók abbracciano quasi l'intera carriera del compositore e ne accompagnano lo sviluppo lungo il cammino verso la sempre più piena, matura realizzazione della sua personalità; con una pregnanza e una densità che hanno pochi riscontri nel panorama della musica contemporanea e non hanno mai cessato per questo di esercitare sugli esecutori e sugli ascoltatori un sottile fascino d'attualità. In questi lavori Bartók condensa all'estremo, come in una sorta di diario segreto, la propria ricerca compositiva: nell'essenzialità della scrittura di quella che fu da sempre considerata la più pura e nobile delle forme strumentali classiche, egli rispecchia tutte le ansie e le aspirazioni di un'intima, e sia pure a tratti problematica, necessità creativa, confrontandola con le tendenze del proprio tempo e proclamandola in una concezione musicale interamente nuova. Tra il primo e l'ultimo dei sei Quartetti intercorrono trent'anni: dal 1909 al 1939. Sono date significative, giacché segnano momenti fondamentali tanto nell'evoluzione stilistica di Bartók quanto nelle vicende della sua vita: rispettivamente la svolta dopo un periodo di crisi, che si attua proprio con la chiarificazione del Primo Quartetto, e la decisione di abbandonare l'Ungheria per motivi politici e di trasferirsi negli Stati Uniti (il Sesto Quartetto è l'ultima opera scritta da Bartók in patria). Non a caso in uno scritto pubblicato sulla "Revue Musicale" nel 1921, Zoltàn Kodàly, che di Bartók era stato il punto di riferimento negli anni più acuti della crisi (una crisi di identità provocata dalla difficoltà di armonizzare la tradizione colta con le nuove istanze di una musica nazionale e autenticamente popolare), riconosceva nel Primo Quartetto il superamento di un dramma interiormente vissuto: una specie di "ritorno alla vita" di un'anima approdata alla foce del nulla. Grande capacità espressiva da parte di tutti i musicisti, studio meticoloso e attento sincronismo, caratterizzano l’esatta interpretazione di queste difficili pagine da parte di due formazioni assolutamente perfette e prive di discussione, per fondersi in un unico gruppo a conclusione della seconda serata l’8 luglio dopo l’esecuzione del Quartetto n. 2 op.17 e il n. 6 BB119 , con uno dei capolavori giovanili di Mendelssohn, l'Ottetto in mi b emolle maggiore per 4 violini, 2 viole e 2 violoncelli op. 20, completato il 20 ottobre 1825. L'autore scrisse sulla partitura autografa queste parole: «Questo Ottetto va suonato da tutti gli strumenti nello stile di un'orchestra sinfonica. I piani e i forti deb b ono essere rispettati attentamente e sottolineati con più forza di quanto si usa in opere di questo genere». In effetti l'Ottetto presenta una scrittura abbastanza complessa e rivela a tratti un respiro sinfonico, anche nel rispetto della sua ridotta forma strumentale. Strutturato nei quattro tempi canonici, l'Allegro moderato con fuoco iniziale in mi bemolle maggiore è caratterizzato da un tema morbido e flessuoso, riproposto più volte nel corso del primo movimento, che è il più esteso dei quattro. Molto belle ed espressive le modulazioni e il gioco del ritardo e del crescendo che conferisce un senso misterioso all'elegante stesura armonica. Lo sviluppo sembra ad un certo punto arrestarsi, per poi riprendere con rinnovata energia giovanile. Seguito dall'Andante in do minore, poggia su una melodia delicatamente elegiaca ed è un momento di assorta contemplazione, pur nella varietà e nell'intreccio delle tonalità. La pagina più caratteristica e significativa dell'Ottetto è lo Scherzo-Allegro leggierissimo in sol minore del terzo tempo: qui si rivela la cifra espressiva del migliore Mendelssohn, quello universalmente ammirato del fantasioso e magico Sogno di una notte d'estate . Tutto è semplice, chiaro e scorrevole e la polifonia strumentale è quanto mai leggera e impalpabile, in un quadro sonoro formalmente ineccepibile. Conclusione con il Presto finale in mi bemolle maggiore, una fuga in cui si rivela la solida preparazione contrappuntistica del musicista e l'abilità nel trattare con straordinaria sicurezza le capacità espressive del complesso strumentale presente, avendo costituito in tal modo una piccola orchestra sinfonica di Budapest per una vera e propria “maratona”: quello che ci vuole per l’irrequieto e innovativo Ottetto di Mendelssohn. Crediti fotografici: Zani-Casadio per Ravenna Festival Nella miniatura in alto: il compositore Béla Bartók (foto di repertorio) Al centro: il Quartetto Accord In basso: il Quartetto Kelemen