Omundu niki? Affinché la scuola non ci sia … foresta di Giorgia Mendola* Tutto è bene, dunque, quel che … comincia bene. Come avevamo anticipato sul numero zero di questa rivista, infatti, approfittiamo del tema proposto attraverso l’ultima fatica di Maria De Benedetti (Psicologia e didattica. Editrice La Scuola, 2014), presentato di recente presso il Polo Uni-Astiss e chiamiamo a dibattito i nostri visitatori. Lo facciamo riproponendo gli interventi degli ospiti di quella serata, partendo proprio – dulcis in fundo – dall’ultima persona intervenuta: Giorgia Mendola. Ne siamo lieti per due motivi, in particolare: il primo perché la dottoressa Mendola è una studiosa originale, in grado di coniugare la profondità dei propri contenuti alla leggerezza espositiva con cui li rappresenta. Il secondo, invece, non meno importante perché coglie in pieno la tradizione del Cepros, è che Giorgia è anche una “giovane” antropologa. Giovane e capace, come i tanti altri che interverranno in futuro su questa pagina online e verso i quali “Identità” si pone il dovere, civile, di offrire uno spazio editoriale. Uno spazio dovuto – questa, almeno, la nostra linea – a quanti pur non possedendo (ancora) i titoli per apparire su più prestigiosi (?) palcoscenici culturali, hanno comunque idee nuove e convincenti da proporre e da mettere in gioco. Un’opportunità, se vogliamo, che offriamo a chiunque abbia i numeri per poterla prendere al volo, socializzando con chi voglia esprimere un proprio punto di vista sui vari argomenti, per quanto eventualmente differente dal nostro. E del resto, il Cepros – Asti Onlus non è appunto un Centro di Promozione delle Opportunità di Socializzazione? Devo dirlo. Come antropologa, quell’esordio di Maria De Benedetti a proposito della sua esigenza di allestire un “progetto uomo” in ambito scolastico: «Al di là dell’antropologia, delle culture, delle religioni» - scrive infatti l’autrice - non mi ha convinto. Ma come, “Al di là”? Anzi,sono stati proprio quei termini che mi ha fatto tornare alla memoria l’incipit di un canto-preghiera nande che reputo paradigmatico di un progetto del genere. I baNande sono un una popolazione che risiede sulle colline del Nord Kivu, in Congo. Fino agli anni ‘Quaranta del Novecento erano soliti iniziare il rito che avrebbe permesso ai ragazzini di entrare nell’età adulta, cantando “Omundu, niki? In una casa, in una famiglia, in un villaggio; Omundu, niki? cioè: “Un essere umano, che cos è?”. O ancora: “Che tipo di uomo è quello che prende forma tra i confini della cultura nande?”. I giovani baNande cercavano risposta a questa domanda tramite il rito di iniziazione, che prevedeva un viaggio solitario nella foresta, della durata di sei mesi. Ora: sicuramente, frequentare la scuola italiana non è così rischioso come affrontare la foresta congolese, ma è vero anche che l’istituzione scolastica in senso generale dovrebbe sentirsi obbligata ad assolvere lo stesso compito di quel viaggio, ossia: fare umanità. O antropo-poiesi, per dirla con un termine caro all’antropologia di questi anni. Un’altra definizione? Quella proposta da De Benedetti col suo ultimo lavoro: il progetto uomo. Un processo assimilabile all’assumere un’identità, se vogliamo: un compito, quindi, dal quale l’essere umano non può esimersi. Un’impresa ostica, ma necessaria, così come lo sono i momenti di crisi e di riflessione (al pari di vivere da soli nella foresta, per esempio), che impongono ai giovani di prendere coscienza su cosa stanno per diventare. La scuola, a questo riguardo, è l’ambito che dovrebbe fornire ai giovani gli strumenti per affrontare - con senso critico - la società in cui dovranno vivere da adulti. Quello che interessa chiederci, però, è fino a che punto lo faccia davvero. Per rispondere a questa domanda, mi basta analizzare a ritroso la mia esperienza di studentessa. Sono purtroppo molte le critiche che potrei muovere agli insegnanti che ho incontrato e, tutte quante, mi autorizzerebbero a sostenere che no: la scuola non è di alcun aiuto nel formare i futuri uomini e le future donne della nostra società. Ho conosciuto maestre elementari che, addirittura, avevano ancora atteggiamenti diversi nei nostri confronti, in base alla classe sociale da cui provenivamo. Dal punto di vista della didattica, poi, c’è stato chi tendeva a seguire asetticamente i libri di testo: sempre gli stessi, che incuranti dell’avvicendarsi generazionale e delle conseguenti diverse necessità e aspettative, riproponevano ai nuovi studenti solo ciò che quei docenti avevano studiato a loro volta. Ecco spiegato il motivo per cui prevale ancora la convinzione che “insegni bene” solo chi ha padronanza della propria materia. Un requisito indispensabile, ovviamente e di per sé, ma non sufficiente, perché non tiene conto del complesso rapporto didattico ed educativo che, nel suo insieme, dovrebbe invece legare indissolubilmente il maestro all’allievo, consentendo il confronto in spazi più ampi che non quelli limitati al semplice impartire le nozioni dello specifico insegnamento. È un problema complesso, del quale i docenti, molto spesso, sono vittime a loro volta. Anzi, due volte: la prima come studenti “incompleti”, quando si formavano e poi, per il resto della loro carriera, come insegnanti didatticamente “incompleti”. Come biasimarli, del resto? I corsi universitari che insegnano a insegnare erano e sono ancora oggi rarissimi: quando i nostri neolaureati si confrontano con i colleghi di molti altri Paesi europei, infatti, scoprono di essere ferratissimi rispetto a loro nella teoria, ma pressoché ultimi nella pratica. In estrema e dolorosa sintesi, pertanto, non possiamo che ripetere il già detto: l’Università italiana non fornisce ai propri studenti la possibilità di imparare a lavorare, i laboratori scarseggiano, così come le discese dirette sul campo. Una visione troppo disfattista? Rimedio subito: un po’ perché ancora giovane di belle speranze, un po’ perché ottimista di natura, termino con l’augurio sincero che – anche mettendo in pratica le tante positive esperienze realizzate da Maria De Benedetti – Scuola e Università si attrezzino, fin da subito, affinché anche i nostri insegnanti possano finalmente dare ai giovani che hanno il compito di formare una risposta alla domanda: Omundu, niki? *Giorgia Mendola si è laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia nel marzo 2014, presso l'Università degli Studi di Torino, discutendo la tesi "Milena - Aix-les-Bains: viaggio di sola andata", sulla storia migratoria della comunità milenese in Savoia. Attualmente è alla ricerca di un impiego, ma si dedica attivamente al volontariato collaborando con il laboratorio sociale di lingua italiana "Noix de Kola" e con l'Osservatorio sul Pluralismo Religioso di Torino, diretto dal professor Luigi Berzano.