Nome file
000226SC_RC1.pdf
data
26/02/2000
Contesto
ENC
Relatore
R Colombo
Liv. revisione
Trascrizione
Lemmi
Ermeneutica
Filosofia
Gadamer, H. G.
Heidegger, Martin
Lingua
Pensiero
Popper, Karl
Soluzione
CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 1999-2000
RICCHEZZA E POVERTÀ
IL LEGAME SOCIALE E IL SUO DISSESTO
26 FEBBRAIO 2000
5° LEZIONE
LA VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA E ECONOMICA E LA
PSICOPATOLOGIA COME DISECONOMIA O PSICOLOGIA DELLA
MISERIA.
DISSESTO DELL’«ANIMA» E DISSESTO DEL MONDO
RAFFAELLA COLOMBO
In un libro recente, Breve storia della filosofia del Novecento. L’anomalia paradigmatica [1] di
Franca D’Agostini, uscito nella primavera scorsa, l’autrice che è stata allieva e collaboratrice di Gianni
Vattimo, definisce la filosofia del novecento un’anomalia paradigmatica, dove nella filosofia l’anomalia non
agisce come occasionale elemento di disturbo, ma l’anomalia è essa stessa costitutiva, determinante, nel
senso che la ragione occidentale si nutre di paradossi e contraddizioni.
La filosofia, secondo l’autrice, sembra che nel mondo della scienza e della tecnica conservi una
posizione ambigua, ma che tuttavia non si possa fare a meno della filosofia.
È qualcosa di irrisolto, un errore o un enigma, una scienza priva di stato civile, e tuttavia non
sembra possibile farne a meno, perché tuttora i fondamenti, ossia le premesse paradigmatiche che
danno forma alle più diverse pratiche culturali, le restano profondamente legati. «Anche l’inizio è una
divinità — scriveva Platone nelle Leggi — e finché è fra gli uomini salva ogni cosa». Fino a questo
punto, a quanto sembra, la filosofia, scienza dell’inizio, del fondamento, dovrebbe trovarsi ancora tra gli
uomini.
Questa natura, questo suo essere definita come anomalia nel corso del novecento sembra essere ben
rappresentata dalla ontologia ermeneutica di Hans Georg Gadamer, di cui recentemente si è festeggiato —
lui stesso prima di tutti — il suo centesimo compleanno: è nato l’ 11 febbraio 1900. Tornerò questa mattina
in particolare sulla sua filosofia ermeneutica, introducendola con inizi dell’ermeneutica e soprattutto in
Dilthey e in Heidegger.
Gadamer ha ottenuto una notevole notorietà con l’uscita di una sua opera, Verità e metodo,
pubblicata in tedesco nel 1960, in cui tra l’altro, polemicamente, in questo titolo critica la pretesa delle
scienze della natura di ottenere tramite un metodo la certezza della verità. E nella scia di W. Dilthey, di cui è
nota la distinzione che pone tra scienze della natura e scienze dello spirito, Gadamer prosegue in questa linea
per rifondare le scienze dello spirito nell’ermeneutica, portando avanti il lavoro introdotto da Dilthey e
mostrando come quello che per Dilthey era solo un metodo, l’ermeneutica, il metodo delle scienze dello
spirito, diversamente dalle scienze della natura dove il metodo sarebbe trovare leggi causali, Gadamer
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segnala che l’ermeneutica è la forma stessa del linguaggio, la forma stessa dell’essere, con tutte le
conseguenze che mostrerò.
L’anno dopo, nel 1961, nel giro della scuola di Francoforte, intorno a un convegno, vengono
pubblicati gli atti che suscitano una certa polemica. Si tratta di un dibattito tra Horkheimer, Adorno da un
lato e Popper dall’altro, il cui titolo è Positivismo straight, ossia Controversia intorno al positivismo, in cui
Popper riprende una sua idea pubblicata in un’opera del 1957 Miseria dello storicismo.
L’idea di Popper è questa: lo storicismo e tutte le discipline che si riconducono alle scienze dello
spirito costituiscono una miseria in questo: mentre i sostenitori dello storicismo o delle scienze dello spirito,
tra cui Adorno e Horkheimer segnalano che il metodo delle scienze sociali è quel che è perché si deve
configurare in base all’oggetto ed essendo l’oggetto in sé contraddittorio, le scienze sociali non possono non
contenere delle contraddizioni.
Popper si oppone criticando il profetismo delle scienze sociali e segnalando che nella scienza, se c’è
contraddizione, questa contraddizione ha da essere risolta nel pensiero, non nell’oggetto.
Oggi, soprattutto l’ermeneutica sta ritornando attuale, e ha la sua attualità e importanza perché viene
ripresa dalla filosofia della mente, dalla filosofia del linguaggio in particolare e dalle varie linguistiche.
Si tratta di filosofie tedesche e ciò che è proprio della filosofia tedesca del novecento, della prima
parte del novecento, che non è rimasta in ambito tedesco ma ha assunto una dimensione mondiale, è questa:
gli autori che hanno scritto, operato in quegli anni — Heidegger tra questi — durante il periodo del
nazionalsocialismo, del nazismo, o meglio dopo la caduta del nazismo, giustificano il loro essere riusciti ad
operare durante il tempo del nazismo, giustificano le trasformazioni e la loro presa di posizione per il
nazismo nominando una sorta di salvagente che hanno dovuto collocare per trasportare le loro teorie da
prima a dopo questo periodo.
Io ritengo che l’ermeneutica di Gadamer, ma anche la filosofia di Heidegger, siano una
legittimazione della rimozione del giudizio.
L’opera di Gadamer viene in primo piano nella filosofia dei nostri anni perché si propone come una
soluzione al problema dell’interpretazione, che nella filosofia è in primo piano.
Cito una parte dell’intervento di Giacomo B. Contri all’apertura di questo Corso:
Ho contrapposto il regime della ricchezza a quello della patologia – povertà – comando. Il nostro patto,
pensiero di natura, è quello di produrre pensiero di natura. In questa entità si può operare. Questo
lavoro di pensiero di natura si può chiamare «rifare la lingua». «Rifare la lingua» è un’altra definizione
di amore.
L’ermeneutica è una forma di rifacimento della lingua che si discosta da questo patto di lavoro,
pensiero di natura, in quanto parte da una problematicità, rimane nella problematicità e sfocia in una apertura
infinita. L’ermeneutica, che era inizialmente e tradizionalmente un metodo filologico, diventa essa stessa
ontologia, cioè l’individuo come io che comprende un «tu», dove questo «tu» non è reale e questo io che
diventa produttore di comprensione, intendendo la comprensione come un evento.
Rifare la lingua, per l’ermeneutica contemporanea, è ciò che nell’intento perseguito di ritornare
all’originalità della filosofia come pensare, come attività del pensare, realizza un altro filosofo, Martin
Heidegger (1889-1976). È a partire da Heidegger che Gadamer sviluppa quanto detto. Che cosa fa
Heidegger? Intanto, è noto dove sia sfociato il tentativo di ritornare all’originalità del pensare da parte di
Heidegger. È lo stesso Gadamer a riconoscerlo e a discostarsi anche peraltro dal maestro. Heidegger sfocia in
un impoverimento progressivo della lingua, «in una indigenza linguistica e di pensiero che conferisce ai suoi
scritti il carattere di composizioni poetiche; il suo stile della maturità è uno stile sibillino». Sarà Heidegger
stesso a concludere «Non si può dire nulla del pensare». E il pensare diventa afasico. In questo, questo
tentativo di rifacimento della lingua, di ritornare alle origini del linguaggio, come esso stesso manifestazione
dell’essere, quindi del filosofare, si immiserisce, si impoverisce, fino a ridursi a niente. Eppure, Heidegger è
riconosciuto come un genio dal suo stesso allievo Gadamer e non solo.
Dove starebbe la genialità di Gadamer?
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Heidegger ha operato questo: riconducendo in modo pensante i vocaboli della tradizione al
linguaggio greco, scoprendo nelle parole il loro senso naturale e la saggezza nascosta nel linguaggio, egli ha
dato in effetti nuova vita al pensiero greco e alla sua capacità di parlarci. Questo è stato il genio di
Heidegger. Heidegger cercò addirittura di riportare le parole al loro senso dimenticato, non più tenuto
presente, e di tratte da queste cosiddette etimologie conseguenze per il pensiero. È da sottolineare il fatto che
Heidegger maturo parla a questo proposito di parole originarie, parole in cui quella che per lui era
l’esperienza greca del mondo, e giunta al linguaggio in modo più palpabile che nelle dottrine e nelle
proposizioni dei primi testi greci.
In questo lavoro che lui fornirebbe al pensiero, a partire dalla decostruzione, dallo smontare parole,
tenta di andare al di là del linguaggio della metafisica, come se il linguaggio della metafisica fosse una
obiezione per concludere in una consapevolezza di indigenza, indigenza sua e indigenza della nostra lingua.
Quello che noi diciamo, invece, è che noi con la nostra lingua parliamo e che nella nostra lingua
pensiamo e che la cura della lingua, il rifarsi la lingua è un lavoro di pensiero.
Heidegger ha operato lo smontaggio del linguaggio, un lavorare sulle parole per costruire da lì i
pensieri. Già questo è un pervertire i pensieri.
In questa ricerca di senso, di ritorno alle possibilità di un pensare originale, al di là cioè di tutte le
incrostazioni, anche soprattutto la scolastica, la neoscolastica che quanto al lessico avevano portato, cioè la
possibilità di ritornare dalla storia della filosofia a un vero filosofare, cioè a un vero pensare, Heidegger pone
il concetto di comprensione come una determinazione categoriale fondamentale dell’esserci umano. L’essere
è il poter comprendere. L’esserci è definito dal poter comprendere. Definendo così l’essere-l’esserci,
trasforma l’ermeneutica, cioè il metodo di interpretazione, dal carattere metodico a un’interrogazione che
include la scienza, il pensare stesso — nel senso di filosofia — ma anche l’esperienza dell’arte e quella della
storia.
Heidegger parte dalla tradizionale nozione di circolo ermeneutico. Il circolo ermeneutico è un
concetto logico che segnala nella dimostrazione scientifica quando si cade in un circolo vizioso; quando,
invece di dedurre una cosa dall’altra, la deduzione fa ritornare al primo termine. Quindi, non è valida come
deduzione logica.
Questo, che sarebbe un errore della logica, Heidegger lo segnala come il vero ambito della
comprensione. Per capirsi, per capire, il capire stesso ha questa stessa struttura, per continuare a tornare su di
sé. Per capire un elemento bisogna partire da un contesto; per capire un contesto si parte da un elemento.
Questo tornare continuamente non è un errore logico perché la comprensione è circolare. Quindi, la
circolarità della dimostrazione nel comprendere non è un errore di procedimento, ma è proprio la descrizione
adeguata della struttura della comprensione.
In questo modo — anticipo una conseguenza — ciò che viene escluso è comunque una logica, è
comunque il principio di non contraddizione, cioè che viene escluso è il giudizio e nel fenomeno, nell’atto
del comprendere, il capire stesso è inteso come un continuamente rimanere ad approfondire gli stessi concetti
in una apertura infinita a un significato che sempre più si allontana. Ed è per questo che Heidegger dice che
questo fenomeno è l’essere stesso nel mondo. Cioè, è un esserci che tenta di raggiungere il suo essere senza
mai essere. L’essere sarà sempre al di là.
A partire da questo passaggio effettuato da Heidegger, l’aver preso il metodo dell’interpretazione
avendolo eletto a struttura ontologica dell’essere, dell’esserci al mondo, a partire da questo insegnamento
Gadamer si propone di rifondare lo statuto scientifico di quei saperi che le scienze della natura non
riconoscono come tali, come scienze. Il sapere proprio delle lettere, della filosofia, dell’arte, della storia, del
diritto, della teologia, tutti quei saperi che non sono scienze della natura, che la scienza della natura non
riconosce nel loro statuto scientifico. Che Dilthey aveva individuato come scienze dello spirito, con un loro
metodo, non ricerca di leggi causali, del nesso causa-effetto, ma dal metodo ermeneutico. Cioè, scienze in
cui non si tratta di spiegare, perché nello spiegare si tratta di trovare nessi causali, ma si tratta di capire.
Gadamer rifonda lo statuto scientifico di queste scienze come linguaggio.
Il nesso problematico tra pensare e parlare non può alla fine non costringere l’ermeneutica a diventare
filosofia.
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E quindi Gadamer ripone la filosofia come scienza prima di tutte queste scienze, la cui natura è essa
stessa ermeneutica: capire. Nel suo percorso insisterà particolarmente nel riabilitare la filosofia pratica, come
ermeneutica.
Gadamer dice, nel riandare alla filosofia pratica, di avere riabilitato una cattiva infinità — qui si
riferisce a Hegel — «in cammino verso il linguaggio che non si risolve mai nell’enunciazione del giudizio».
Gadamer esplicitamente, consapevolmente rinuncia al giudizio per rimanere nell’ambito del dialogo. La
filosofia per Gadamer è dialogica: è un infinito dialogo tra io e tu in una apertura costante all’altro, in
un’apertura comprensiva dell’altro, in un continuo processo di dialogo — senza fine; se fosse la fine, sarebbe
la fine nel giudizio — e tutto ciò come modalità che permette di accedere alla verità, non quella presunta
delle scienze della natura, per superare ogni fissazione.
«Ermeneutica» deriva dal greco. Il concetto appare innanzitutto in Aristotele. Ha tre significati:
formulare, interpretare, tradurre — il tradurre da lingue straniere è un caso di applicazione ermeneutica;
l’interpretazione musicale, o di un’opera teatrale, o di una poesia è ermeneutica — ma il formulare stesso di
un concetto in modo tale che l’altro lo capisca, questo è ermeneutica. In comune queste accezioni di
ermeneutica hanno questo: qualcosa va capito, una spiegazione va trasmessa.
Quando io intendo a formulare un concetto e giungo a esporlo desidero che venga capito. Ciò che ho
detto, però, deve essere a sua volta interpretato dall’altro.
Quindi per ermeneutica si intende propriamente l’arte dell’interpretazione, o tecnica
dell’interpretazione, e la teoria di questa.
Il primo a fondare un canone della disciplina, ermeneutica generale, nell’età moderna è Friedrich
Schleiermacher, tedesco, filosofo, teologo, traduttore in tedesco di Platone, che trova applicazioni soprattutto
nella teologia, in ambito protestante e cattolico. È l’ermeneuta, colui cui nella teologia ci si rifà per
l’interpretazione della Bibbia, nel paragone tra Antico e Nuovo Testamento. Ed è suo il concetto di circolo
ermeneutico, dove la possibilità di avere un’interpretazione corretta di un testo sta in questo: un particolare
viene compreso nel suo contesto, ma il contesto stesso permette di capire il particolare. Il particolare stesso
permette di approfondire il contesto. Per questa tecnica, l’interprete — secondo la dottrina ermeneutica di
Schleiermacher — deve avere una sorta di genialità che lo aiuta, una sorta di genialità nel capire l’altro, cioè
nel capire il modo di pensare dell’autore. E dice che nella misura in cui l’interprete ha una capacità sua, una
dote psicologica di immedesimazione, il suo lavoro è facilitato.
Secondo Schleiermacher un autore ritorna ad essere presente al di là del tempo, ed è questa l’arte
ermeneutica, la capacità geniale di saper riportare al presente anche un autore di duemila, tremila anni fa.
L’interprete deve ricostruire la situazione dell’autore immedesimandosi nell’autore, diventando tutt’uno con
lui. Fin qui la disciplina.
Dilthey individua in questa disciplina il metodo che permetterebbe a tutti quei saperi, a quelle
discipline — storia, diritto, teologia — di conquistare uno statuto scientifico. Per Dilthey l’interprete capisce
l’autore non trasformandosi, immedesimandosi in esso. La distanza temporale permane, ma è proprio questa
distanza temporale che permette all’interprete di capire l’autore ancora meglio di come l’autore stesso si era
capito. Il tempo intercorso permette di capire di più. Una delle sue formulazioni è che l’ermeneutica è
proprio la possibilità di portare all’oggettività l’opera dell’uomo, i prodotti dell’uomo, come veri prodotti
ermeneutici, al di là delle intenzioni dell’autore.
Per Gadamer, dove avviene questa trasformazione in ontologia la comprensione è lo stesso che il
pensare: pensare è comprendere. E l’interpretare è un trasformare continuamente l’opera di un autore a
seconda di come cambia la storia, a seconda degli interventi storici. Ciò che fa un interprete e un autore —
potremmo essere noi leggendo Freud, noi leggendo Heidegger, secondo Gadamer; e peraltro l’ermeneutica
ha anche adottato Freud come caso di ermeneutica — noi leggendo un autore, un individuo leggendo un
autore opera una trasformazione di sé e dell’opera dell’autore e questa trasformazione è una produzione
nuova. Il capire è lo stesso che pensare. Non c’è niente al di fuori di questo. Il leggere, il parlare, anche
l’interpretare riproduttivo — musica, teatro, poesia —, il diritto stesso sono dialogo. Per dialogo è da
intendere una apertura costante alla possibile ragione dell’altro, alla possibile verità dell’altro. Nell’atto della
comprensione si realizza una vera fusione di orizzonti, per cui l’orizzonte storiografico mentre si costituisce
viene superato.
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Il fatto di concludere sul dialogo viene da questo: noi non possediamo la storia, noi siamo dentro la
storia. La situazione interpretativa, ermeneutica, è ciò in cui già noi siamo, in cui ci troviamo già sempre a
essere, e la chiarificazione di essa non si conclude mai. Essere stoico significa non poter mai risolversi
totalmente in trasparenza.
La confusione del suo testo, Verità e metodo, è questa: nel comprendere siamo inclusi dentro un
accadere di verità e arriviamo in un certo senso troppo tardi se vogliamo sapere ciò che dobbiamo o che non
dobbiamo credere. Così non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio.
L’uomo si trova già sempre in sapere, nasce già in un sapere, cioè in pregiudizi, con i quali affronta ogni
novità. Per quanto la nostra volontà possa proporsi di sottrarsi nella conoscenza, non esiste certamente alcuna
comprensione che sia libera da ogni pregiudizio. Noi siamo dominati più dal pregiudizio che non dalla
possibilità di giudizio.
Le conseguenze.
Il dire che i pregiudizi dell’individuo sono costitutivi della sua realtà storica più di quanto non lo
siano i suoi giudizi è dire che ciò che è impossibile è il rapporto, perché il rapporto comporta giudizio. Cioè,
la sovradeterminazione dell’individuo è superiore e vanifica il giudizio.
Un’altra conseguenza riguarda il circolo ermeneutico, questo rimanere continuamente nella modalità
della comprensione. Dire che il circolo, composto di parti e tutto, non si risolve mai, non si risolve
dissolvendosi nella comprensione raggiunta, ma piuttosto proprio in tale comprensione si realizza nel modo
più pieno, e cioè che il circolo della comprensione non è un circolo metodico, ma è la struttura ontologica
stessa della comprensione, dire questo è asserire la rimozione, il continuare a rinviare la possibilità di uscire
e di concludere: è proprio l’inconcludenza. È la teoria della inconcludenza. Spero che questo sia chiaro.
Il tempo. Per Gadamer il tempo non è più l’abisso da colmare tra un autore — tra un soggetto che
può essere vissuto secoli fa, ma di cui è presente un’opera — così come era per l’ermeneutica tradizionale,
un abisso che deve essere scavalcato, ma è invece il fondamento portante dell’accadere, nel quale il presente
ha le sue radici. Il superare la distanza è un’ingenuità dello storicismo. È solo la scomparsa di tutti i legami
con l’attualità che può rendere visibile una produzione qualsiasi. Una figura autentica può emergere soltanto
al di là del tempo. È quello che dicono gli stoici: un evento storico si può capire soltanto dopo un certo
periodo. Si può fare storia non nell’immediato presente. È ciò che Gadamer chiama «storia degli effetti»: il
tempo produce degli effetti, delle determinazioni; il comprendere vi è inserito, è inserito in questa storia, ne
deve tener conto, e questa è una possibilità. È come dire che adesso non capiamo: capiremo poi. Questo è
proprio della rimozione ma è proprio della melanconia, dove adesso va tutto male ma un giorno capiremo.
L’ho detto in modo banalizzante. L’osservazione di Gadamer mi sembra una banalità, ma è una
banalità nel senso della psicopatologia.
«La coscienza della determinazione storica è anzitutto coscienza della situazione ermeneutica».
Situazione: non ciò che ci sta di fronte, ma in cui siamo, nella quale ci troviamo già sempre ad essere. La
chiarificazione di questo è un computo che non si conclude mai. Insomma, l’essere storico significa non
potersi mai risolvere totalmente in trasparenza. Ogni presente finito ha dei confini. Il concetto di situazione si
può definire proprio in base al fatto che la situazione rappresenta un punto di vista che limita le possibilità di
visione. Essendo io già da sempre in una situazione, questo essere preso dentro dei preconcetti, dei
pregiudizi, ma soprattutto il fatto di essere storico, preso dentro una storia, impedisce la possibilità di una
visione piena, la possibilità di comprensione piena. È qui che Gadamer introduce il concetto di orizzonte:
come di dice normalmente «orizzonte di pensiero», «i limiti dell’orizzonte», «orizzonte più ampio».
Orizzonte come quel cerchio che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto. E
applicato al concetto di pensiero, è ciò che siamo usi dire come «limitatezza d’orizzonte», «possibile
allargamento di orizzonte», «apertura a nuovi orizzonti».
Il pensiero non è limitato. La situazione storica, situazione in cui un individuo si trova, la facoltà di
giudizio di un individuo, quale che sia la sua condizione, non è limitata, e non c’è nessuna condizione
storica, empirica, che possa limitare il pensiero e la facoltà di giudizio.
Questo definire l’individuo come preso dentro una situazione limitante è una posizione invidiosa.
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Da ultimo, il primato della domanda. Il proprio dell’esperienza individuale come esperienza di
comprensione, esperienza ermeneutica, per Gadamer la vera esperienza è quella della finitezza; ma per
Gadamer il primato è il primato della domanda. Qui potremmo dire «Ci siamo, forse». Il dialogo potrebbe
sembrare rapporto, la comprensione arriverebbe a una soluzione.
Un cenno autobiografico: uno dei miei docenti universitari, era stato allievo di Gadamer e il primo
giorno di corso di tutti gli anni, da quando è docente a Zurigo, inizia con questa domanda: «Che cos’è
l’anima?» e pone la domanda agli studenti. Ricordo che mi aspettavo una conclusione, ma la sua
osservazione è stata questa: «Bene, io vi ho posto una domanda: “Che cos’è l’anima?” e non ho detto psiche
ma anima. Nessuno ha messo in discussione che io abbia detto anima anziché psiche. Ebbene nel porre una
domanda si è asserito l’essere…». Questo è Gadamer. L’essenziale è la domanda, il primato ermeneutico
della domanda. L’individuo è un io che domanda, in una struttura di apertura a un dialogo senza fine. Alla
domanda è essenziale il fatto di avere un senso. Senso però significa direzione. Potremmo dire che siamo
usciti dal senso, nel senso esistenziale del senso. Senso significa direzione. Il senso della domanda è quindi
la direzione nella quale soltanto una risposta si può trovare, se vuole essere una risposta sensata e
significante.
La domanda agisce sul suo oggetto dislocandolo in una determinata prospettiva. Il sorgere di una
domanda forza l’essere di ciò che ne è oggetto. Il logos che dispiega questo essere forzatamente aperto è già
sempre in tal senso risposta: esso ha senso solo nel senso della domanda.
Cioè il domandare «Che cos’è l’anima?», nella domanda c’è la risposta; cioè l’aver pronunciato la
parola anima è la risposta alla domanda, l’anima è, che è la risposta heideggeriana.
Qui riprendo la conclusione di Maria Delia Contri: non c’è pensiero, perché il pensiero è pensiero di
soluzione. Pensiero di soluzione alla possibilità della soddisfazione e al realizzare la soddisfazione come
conclusione. Una persona che conosco e che ha compiuto un passaggio notevole, mi ha detto: «Io pensavo
che il capire fosse sufficiente. Che io avrei risolto i miei problemi capendoli, capendo di che si trattava. Il
capire non è sufficiente e non si tratta affatto di capire. Si tratta di trovare soluzione».
NOTE
[1] Franca D'Agostini, Breve storia della filosofia nel Novecento. L'anomalia paradigmatica, Einaudi,
Piccola biblioteca, 1999
© Studium Cartello – 2007
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