Le punizioni collettive nell`età contemporanea

Le punizioni collettive nell’età contemporanea
La nozione di “punizioni collettive”
Le punizioni collettive inflitte a popolazioni civili quale ritorsione rispetto
a crimini commessi da soggetti non identificati si manifestano in azioni di
rappresaglia che comportano nei casi più gravi uccisioni di massa (eccidi,
fucilazioni, massacri), deportazione della popolazione, lavori forzati,
prigionia e tortura, stupri di massa.
La rappresaglia è un’azione o misura punitiva attuata con metodi violenti
e volutamente eclatanti, adottata da una potenza militare occupante nei
confronti della popolazione del territorio occupato, quando questa abbia
causato danni a propri cittadini, militari o civili, in quel territorio. Viene
considerata rappresaglia anche l’analoga azione effettuata da formazioni
di guerriglieri, ribelli, rivoluzionari armati o fuorilegge contro gli occupanti
ed invasori, oppure i rappresentanti del proprio Stato, in quanto non si
riconoscano o si combattano, o di altre organizzazioni e fazioni.
Nel mondo romano, alla rappresaglia si faceva ricorso nei rapporti
internazionali, sotto forma di azioni punitive rivolte contro le comunità
straniere che venivano meno ai loro impegni verso Roma. Durante il
Risorgimento, la rappresaglia venne giustificata per reprimere il
fenomeno del brigantaggio: in applicazione della legge Pica, che ne
legittimava il ricorso, vennero arrestati e fucilati migliaia di briganti o
presunti fiancheggiatori degli stessi con esecuzioni sommarie e spesso
senza processo, destando polemiche sia in Italia che in Europa.
L’epoca contemporanea
A forme diverse di punizioni collettive si fece ricorso nel Primo conflitto
mondiale, che ha rappresentato non solo il primo grande conflitto di
massa, ma il momento in cui vennero sperimentate su quasi tutti i fronti
nuove forme di repressione e di violenza contro le popolazioni civili,
anticipando in molti casi metodi che poi saranno adoperati su scala ben
più ampia durante le altre guerre del Novecento. Se il caso dello sterminio
degli armeni rappresenta in qualche modo un unicum, le dimensioni della
violenza contro i civili raggiungono livelli fino ad allora sconosciuti anche
sui fronti austro–serbo, franco–tedesco, russo–tedesco e italo–austriaco.
Lo testimoniano non solamente le fonti soggettive ma anche le relazioni
ufficiali pubblicate in molti paesi già durante il conflitto o nell’immediato
dopoguerra.
Deportazioni, internamenti, rappresaglie, stupri, requisizioni forzate
risultano quasi ovunque abbondantemente documentati sia da inchieste
governative, sia da inchieste neutrali. Questo tipo di fonti, a lungo
sottovalutate in ambito storiografico, ci consentono di mettere a fuoco le
strategie di violenza messe in atto dagli eserciti di occupazione,
verificando le analogie e le differenze da paese a paese, la dimensione
della repressione del nemico, i retaggi culturali che stanno dietro a queste
forme di violenza.
Durante la seconda guerra mondiale si è fatto un largo uso della
rappresaglia: innumerevoli sono state le esecuzioni, sommarie o a seguito
di processi, contro le popolazioni civili. Eccettuati alcuni casi, in cui le
azioni da parte dei civili furono condotte con eccessiva brutalità o ferocia,
esse sono state considerate crimini di guerra. Ricordiamo qui i due casi
più importanti avvenuti in Italia.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine
L'eccidio delle Fosse Ardeatine è il più grande massacro compiuto a Roma
dalle truppe di occupazione naziste, avvenuto il 24 marzo 1944, ai danni
di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito
all'attentato di via Rasella compiuto contro le truppe tedesche il giorno
precedente. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le
tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato
l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo
dell'occupazione. Le "Fosse Ardeatine", antiche cave di pozzolana situate
nei pressi della via Ardeatina, scelte quali luogo dell'esecuzione e per
occultare i cadaveri degli uccisi, sono diventate un monumento a ricordo
dei fatti e sono oggi visitabili.
Il 23 marzo 1944 ebbe luogo
un attentato contro l'11 compagnia del III battaglione delle SS in via
Rasella, per iniziativa di partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica delle
brigate Garibaldi, che ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che
era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale. Fu utilizzata una
bomba a miccia ad alto potenziale, collocata in un carrettino per la
spazzatura urbana. Rimasero uccisi quel giorno 32 militari tedeschi ed un
altro soldato morì il giorno successivo.
a
Nonostante il generale K. Mälzer, comandante della piazza di Roma,
accorso sul posto, intendesse attuare una rappresaglia ancora più grave,
vari ragionamenti condussero alla decisione del comando nazista di
fucilare 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso. La fucilazione fu ordinata
personalmente da Adolf Hitler.
Organizzatore massacro fu Herbert Kappler, all'epoca comandante della
Gestapo (la polizia politica del Terzo Reich) a Roma, già responsabile del
rastrellamento dell’ex Ghetto di Roma nell'ottobre del 1943 e delle
torture sui partigiani detenuti nel carcere di via Tasso. Sarà lui che più
tardi, nel corso del processo a suo carico, a raccontare la dinamica
dell’eccidio.
I tedeschi ignorarono la convenzione dell'Aia del 1907, che proibiva la
rappresaglia, e la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al
trattamento dei prigionieri di guerra, che faceva esplicito
divieto, nell'Articolo 2, di atti di rappresaglia nei loro confronti. Anche nei
codici di diritto bellico nazionali, che ammettevano la rappresaglia, si
faceva comunque riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto
all'entità dell'offesa subita, della selezione degli ostaggi (non
indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili. Alcuni di
questi criteri furono violati: nella selezione degli ostaggi, poiché si
procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati,
e poiché non risulta che sia stata eseguita da parte tedesca alcuna seria
indagine per appurare l'identità dei responsabili dell'attacco; non si
attesero le 24 ore di consuetudine affinché gli stessi si consegnassero
spontaneamente né fu reso pubblico il bando col quale invitare i
partigiani a consegnarsi ai nazisti, limitandone l'affissione ai soli uffici
tedeschi.
Furono uccise 335 persone, cinque in più rispetto a quanto stabilito, a
causa di un errore nella compilazione delle liste e perché, una volta
scopertolo, i tedeschi non vollero che rimanessero testimoni.
Nella scelta delle vittime, furono privilegiati criteri di connessione con la
resistenza e di appartenenza alla popolazione ebraica; se dapprima si tese
ad escludere persone rastrellate al momento e/o detenuti comuni,
successivamente, per raggiungere il numero di vittime voluto, molti
ostaggi furono dei reclusi condannati (o in attesa di processo) per delitti
di natura non politica. Costoro furono prelevati, insieme a militari,
membri attivi della resistenza e ad altri antifascisti, dal carcere romano di
Regina Coeli, dove erano tenuti prigionieri. La strage si concluse entro le
24 ore successive all'agguato partigiano.
I tedeschi, dopo aver compiuto il
massacro, fecero esplodere numerose mine per far crollare le cave ove si
svolse l’eccidio, anche per rendere più difficoltosa, la sua scoperta.
La prima notizia della strage, riportata dal quotidiano "Il Messaggero" a
mezzogiorno del 25 marzo, fu diffusa per ragioni propagandistiche
assieme a quella dell’attentato subito subìto dalle truppe occupanti, e si
concludeva con la terribile frase "Quest'ordine è già stato eseguito"
("Parole chiare per i romani" in "Il Messaggero" del 25 marzo 1943).
La strage di Marzabotto
Un altro esempio, durante la II guerra mondiale, di punizione collettiva a
danno della popolazione civile fu l’eccidio di Monte Sole (più noto come
strage di Marzabotto, dal maggiore dei comuni colpiti): si trattò di un
insieme di stragi compiute dalle truppe naziste in Italia tra il 29
settembre e il 5 ottobre 1944, nel territorio dei comuni di Marzabotto,
Grizzana Morandi e Monzuno che comprendono le pendici di Monte Sole
in provincia di Bologna, nel quadro di un'operazione di rastrellamento di
vaste proporzioni diretta contro la formazione partigiana Stella Rossa. La
strage di Marzabotto è uno dei più gravi crimini di guerra contro la
popolazione civile commessi dalle forze armate tedesche in Europa
occidentale durante la Seconda guerra mondiale. Dopo il massacro di
Sant’Anna di Stazzema commesso il 12 agosto 1944, gli eccidi nazifascisti
contro i civili sembravano essersi fermati. Ma il feldmaresciallo Albert
Kesserling, comandante delle forze armate tedesche in Italia, aveva
scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e
voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che
l'appoggiavano.
La mattina del 29 settembre,
prima di muovere all'attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe
naziste accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio
compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti
pesanti. Quindi le truppe si mossero all'assalto delle abitazioni, delle
cascine, delle scuole, e fecero terra bruciata di tutto e di tutti. Ogni
località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e
furono trucidate intere famiglie, compresi molti bambini; non fu
risparmiato nessuno. La violenza dell'eccidio fu inusitata. Il 5 ottobre
1944, dopo sei giorni di violenze, il bilancio delle vittime civili si
presentava spaventoso: circa 770 morti. Le voci che immediatamente
cominciarono a circolare relative all'eccidio furono negate dalle autorità
fasciste della zona e dalla stampa locale, indicandole come diffamatorie;
solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l'entità del
massacro.
Le punizioni collettive oggi
Oggi le punizioni collettive in territori occupati da una parte belligerante,
così come le rappresaglie nei confronti di civili, sono vietati dalla quarta
Convenzione di Ginevra sulla protezione delle popolazioni dei territori
occupati del 1949 e sono qualificati come crimini di guerra. Speciali
misure protettive sono previste per determinate categorie di persone,
come i feriti e i malati, le donne incinte e le madri con bambini in tenera
età, le persone anziane e i fanciulli : questi ultimi devono essere protetti e
ricevere cure e aiuto, soprattutto se orfani o separati dalle loro famiglie a
causa della guerra.
Nonostante tali articolate garanzie,
la storia contemporanea è ricca di episodi gravissimi di punizioni collettive
inferte a popolazioni civili inermi: dagli stupri etnici perpetrati durante la
guerra nella ex-Jugoslavia, alla demolizione delle case delle famiglie di
sospetti autori di attentati in Israele; ai massacri etnici di massa durante
la guerra in Ruanda.