Università degli studi di Perugia Dipartimento di Fisica e Geologia Tesi di Laurea Introduzione alla fisica dei raggi cosmici Autore: Daniele Di Bari Relatore: Dott. Emanuele Fiandrini Anno Accademico 2013-2014 Prefazione Lo scopo di questa tesi è quello di realizzare un documento che possa essere utile per uno studio introduttivo della fisica dei raggi cosmici. A tal fine si è ritenuto opportuno sviluppare il presente lavoro come segue: a) la scoperta dei raggi cosmici, introduzione storica; b) l’ambiente in cui si propagano, presentazione sommaria della struttura della galassia; c) i raggi cosmici, cosa viene osservato; d) la propagazione, introduzione al problema della propagazione dei raggi cosmici; e) l’accelerazione, breve accenno alle possibili sorgenti e ai meccanismi di accelerazione. Nel primo capitolo si espone, in maniera abbastanza dettagliata, la storia dei raggi cosmici, ricostruendo le varie tappe che hanno portato, dalla semplice studio del fenomeno di scarica di un elettroscopio carico isolato, alla scoperta della radiazione cosmica. I temi dei punti a) e b), sono trattati nel secondo capitolo, rispettivamente, nei paragrafi 2.1 e 2.2. Nel primo vengono descritte, sommariamente, la struttura della Galassia, la distribuzione della materia interstellare e la natura del campo magnetico galattico. Nel secondo si riportano i risultati principali ottenuti dalle rivelazioni del flusso dei raggi cosmici, discutendo in particolare quali sono l’energia, l’isotropia e la composizione di questo flusso di particelle. La propagazione viene affrontata, in maniera generale, in tutto il capitolo 3. Nello specifico, il paragrafo 3.1 si incentra sulla propagazione della componente nucleare dei raggi cosmici, mentre nel paragrafo 3.3 si sposta l’attenzione sulla componente leggera. Infine, nel quarto capitolo, è stato fatto un breve accenno alle supernovae come possibili sorgenti dei raggi cosmici. i ii Indice I Parte - I Raggi Cosmici 1 Introduzione 1.1 L’inizio della ricerca . . . . . . . . . . . 1.2 Le prime scoperte . . . . . . . . . . . . . 1.3 La ricerca di un’origine per la radiazione 1.4 La natura dei raggi cosmici . . . . . . . . 1.5 La fisica dei raggi cosmici ai giorni nostri 2 La galassia e i raggi cosmici 2.1 La Galassia . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1.1 La struttura della nostra Galassia 2.1.2 Il mezzo interstellare . . . . . . . 2.1.3 Il campo magnetico galattico . . 2.2 I raggi cosmici . . . . . . . . . . . . . . . 2.2.1 Densità di flusso e di energia . . . 2.2.2 Isotropia e confinamento . . . . . 2.2.3 Composizione chimica . . . . . . 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Propagazione dei raggi cosmici 3.1 Processo di spallazione nucleare . . . . . . . . . 3.2 Tempo di confinamento in funzione dell’energia 3.3 Componente leggera dei raggi cosmici . . . . . . 3.3.1 Eccesso di positroni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 4 4 5 8 11 . . . . . . . . 13 14 16 20 26 31 38 42 46 . . . . 51 57 68 72 78 4 Accelerazione 83 4.1 Considerazioni energetiche sulla loro origine . . . . . . . . . . 83 4.2 Meccanismo di Fermi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 4.3 Supernovae come sorgenti di raggi cosmici . . . . . . . . . . . 93 Conclusioni 97 iii II Parte - Appendici 99 A Accettanze dei telescopi particellari A.1 Formulazione generale . . . . . . . A.2 Formulazione esplicita . . . . . . . A.2.1 Telescopi a rivelatore singolo A.2.2 Telescopi a molti rivelatori . A.3 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 102 104 105 107 109 B Moto di una particella carica in un campo magnetico 111 B.1 Rigidità magnetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 C Sezione d’urto, grammaggio e probabilità di scattering 119 C.1 Caso delle interazioni nucleari . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 Bibliografia 125 iv Parte I Raggi Cosmici Introduzione ai concetti teorici Capitolo 1 Introduzione Quando si parla di raggi cosmici ci si riferisce a quelle particelle cariche, formate per la maggior parte da protoni e nuclei di elio (in cui sono presenti anche tracce di nuclei pesanti e di particelle leggere e rare come elettroni, positroni e antiprotoni), che provengono dall’esterno del nostro sistema solare e raggiungono la sommità dell’atmosfera terrestre.† Queste particelle sono molto importanti. Infatti, prima della loro scoperta, l’unico modo in cui gli astrofisici potevano osservare l’Universo era mediante le emissioni nello spettro visibile prodotte dai vari corpi astronomici. I raggi cosmici, infatti, trasportano un’informazione complementare rispetto a quella che si ottiene dallo studio dello spettro elettromagnetico. La prima metà del ’900, grazie alla scoperta dei raggi cosmici ed ai risultati conseguiti in quello che allora si presentava come un nuovo e promettente settore di ricerca, è stata determinante anche per la nascita della fisica particellare. Sfruttando le particelle presenti nei raggi cosmici, infatti, è stato possibile effettuare vari esperimenti che hanno portato alla scoperta di nuovi tipi di particelle, fino a quando, con l’avvento dei primi acceleratori, si è iniziato ad utilizzare dei fasci particellari realizzati appositamente per effettuare questo tipo di esperimenti. Ancora oggi, tuttavia, nemmeno LHC, che è il più grande ed avanzato acceleratore mai costruito, può competere con i raggi cosmici più energetici. † N.B. In realtà, il termine raggi cosmici è usato, solitamente, per indicare tutte le particelle cariche, e a volte anche quelle neutre (fotoni e neutrini), che arrivano fino al nostro pianeta, comprese quelle di origine solare. Tuttavia, poiché in questo lavoro di tesi si è interessati solo allo studio della componente di origine extrasolare delle particelle cariche, quando si parlerà di raggi cosmici senza specificarne il tipo o la provenienza, ci si riferirà implicitamente solo a alle particelle cariche, appunto, che provengono dall’esterno del nostro sistema solare. 3 In questo senso, perciò, è facilmente intuibile come lo studio di queste particelle di origine extrasolare possa essere utile, se non indispensabile, per risolvere alcuni dei problemi attuali dell’astrofisica e della fisica particellare, quali ad esempio la natura della materia oscura. 1.1 L’inizio della ricerca Era il 1785 quando Coulomb scoprı̀ che la causa dello scaricamento spontaneo di un elettroscopio carico era dovuta in qualche modo all’azione dell’aria circostante e non ad un problema dell’isolamento del dispositivo. A conferma di questa tesi, dopo gli studi di Faraday del 1835, Crookes nel 1879 mostrò come effettivamente la velocità di scaricamento dell’elettroscopio diminuiva riducendo la pressione dall’aria. Fu proprio la ricerca di una spiegazione per questo fenomeno che, nel 1912, portò alla scoperta dei raggi cosmici. 1.2 Le prime scoperte I primi passi in questo senso vennero fatti quando, grazie alla scoperta di Becquerel della radioattività naturale, avvenuta nel 1896. Si osservò che, in presenza di materiali radioattivi, un elettroscopio carico si scarica velocemente. Si capı̀ dunque che alcuni elementi sono in grado di emettere delle particelle cariche le quali, ionizzando il gas nelle vicinanze, provocano lo scaricamento dello strumento (nella prima metà del ’900, la misurazione della velocità di scarica venne usata infatti per misurare il livello di radioattività). Intorno al 1900, Wilson, Elster e Geitel, migliorarono l’isolamento dell’elettroscopio per mezzo di un contenitore chiuso, aumentandone cosı̀ la sensibilità. In questo modo, riuscirono ad effettuare una misurazione quantitativa della velocità di scarica. La loro conclusione fu che il processo di scaricamento doveva essere provocato da una radiazione ionizzante proveniente dall’esterno del contenitore dell’elettroscopio. Il problema era, a questo punto, capire la natura di questa radiazione e, soprattutto, la sua provenienza. La spiegazione più semplice era, quindi, quella di ipotizzare un’origine dovuta all’attività radioattiva di alcuni materiali che dovevano essere presenti negli strati superficiali della crosta terrestre. Ciò nondimeno, Wilson propose una possibile alternativa, ovvero che la causa di questa ionizzazione dell’aria fosse una radiazione extraterrestre estremamente penetrante. Per avvalorare la sua ipotesi, ripeté le sue misurazioni sotto dei tunnel rocciosi cercando una diminuzione del livello di ionizzazione. Questi esperimenti ebbero però 4 un esito negativo, non evidenziando alcuna riduzione. L’ipotesi di un’origine extraterrestre fu cosı̀ abbandonata per diversi anni. 1.3 La ricerca di un’origine per la radiazione Nel 1909, Kurz fece un quadro della situazione, analizzando tre possibili origini per questa radiazione: extraterrestre proveniente dal sole oppure dovuta alla radioattività di alcuni elementi instabili presenti o nella crosta o nell’atmosfera. Nel suo lavoro, basandosi su delle misurazioni del livello di ionizzazione, Kurz concluse che una radiazione extraterrestre era improbabile, mentre era altamente più ragionevole assumere valida l’ipotesi secondo la quale la maggior parte della radiazione proviene dal suolo. Fu proprio questo a spingere Theodor Wulf ad effettuare una serie di rilevazioni della differenza nel livello di radioattività fra la base e la cima della torre Eiffel (300 metri di altezza). Secondo l’ipotesi di Kurz, infatti, la velocità di ionizzazione sarebbe dovuta diminuire con l’altitudine. Con le sue misure, Wulf trovò effettivamente una riduzione del tasso di ionizzazione con l’aumento dell’altezza, anche se questa era troppo piccola per scartare la possibilità di una componente extraterrestre della radiazione. A quel tempo, comunque, l’idea generale era che la radioattività venisse per la maggior parte, se non del tutto, dalla superficie della Terra. Il primo a confutare questa ipotesi fu Domenico Pacini. Con una serie di esperimenti, nel 1910 egli osservò infatti che la variazione del livello di ionizzazione dell’aria, misurato al largo lontano dalla costa e di quello misurato a terra al livello del mare, non era abbastanza elevata per essere in accordo con la teoria dominante all’epoca. Questi risultati, anche se affetti da errori non trascurabili, condussero Pacini a supportare l’idea secondo la quale, una parte non trascurabile della radiazione penetrante presente nell’aria, fosse indipendente dall’azione diretta delle sostanze radioattive contenute negli strati superficiali della crosta terrestre. Successivamente, nel 1912, dopo aver sviluppato una tecnica per effettuare delle misure della radioattività sott’acqua, al fine di verificare la sua tesi, riuscı̀ a rilevare una significativa diminuzione della velocità di scaricamento dell’elettroscopio immerso. Da qui Pacini ne trasse che [39]: per il potere assorbente dell’acqua e per la quantità minima di sostanze radioattive contenute nel mare, realmente si verifichi, nell’atto della immersione, un assorbimento delle radiazioni e questo conferma l’esistenza nell’atmosfera di una sensibile causa ionizzante, con radiazioni penetranti, indipendente dall’azione diretta delle sostanze radioattive del terreno , come osservato nel 1910. 5 Dalle osservazioni di Wulf risultò comunque evidente la necessità di studiare gli effetti dell’altitudine sul grado di ionizzazione dell’aria. Fra il 1909 ed il 1911, Gockel attraverso l’uso di palloni aerostatici, non trovando una diminuzione della ionizzazione fino a distanze da terra considerevoli (circa 4000 metri), confermò la tesi di Pacini. Fu proprio Gockel che battezzò per primo questa radiazione con il termine tedesco “kosmische strahlung”, ovvero raggi cosmici. Tuttavia, sia questi esperimenti, che quelli di Pacini, non rappresentavano una prova diretta dell’esistenza di una radiazione extraterrestre, ma solamente che il contributo dei processi radioattivi degli elementi contenuti nella crosta era trascurabile, non escludendo la possibilità, descritta da Kurz, che questa radiazione si potesse formare prevalentemente nell’atmosfera, probabilmente sempre attraverso dei processi radioattivi. Per questo motivo, nonostante le evidenze sperimentali, i fisici continuarono ad essere riluttanti all’idea di dover adottare l’ipotesi di un’origine non terrestre. La situazione venne chiarita grazie ad una lunga serie di misurazioni ad alta quota effettuate da Victor Hess dimostrando definitivamente che, una parte della radiazione che causava la ionizzazione rilevata doveva essere di origine extraterrestre. Fu proprio per questo che, nel 1936, gli venne conferito il premio Nobel. Per iniziare Hess studiò i risultati ottenuti da Wulf ed il modello teorico, del fisico inglese Arthur Eve, che descriveva quale avrebbe dovuto essere l’assorbimento nell’atmosfera della radiazione proveniente dalla superficie terrestre. Secondo Eve, ad un’altitudine di 100 metri, la radiazione doveva ridursi del 36%, molto più di quanto avesse misurato Wulf. Questa discrepanza portò Hess, dopo aver fatto alcuni studi che verificarono i risultati ottenuti da Eve, ad effettuare, fra il 1911 e il 1912, la misurazione del livello di ionizzazione al variare della distanza dal suolo attraverso dei voli su mongolfiere. Dopo le prime rilevazioni che, come per Gockel evidenziavano una radiazione costante entro gli errori strumentali, nell’agosto del 1912 riuscı̀ a raggiungere una quota di 5200 metri e, sorprendentemente, i risultati delle sue misurazioni mostrarono che il livello di ionizzazione, dopo aver raggiunto un valore minimo, incrementa in maniera considerevole con l’altezza. La conclusione di Hess fu dunque che quell’aumento della ionizzazione riscontrato era dovuto ad una radiazione proveniente dall’alto (in tedesco: “Höhenstrahlung” come la chiamò nel suo articolo Osservazioni delle radiazioni penetranti in sette voli su pallone [15, trad.] [26, originale]) e quindi di origine extraterrestre, escludendo inoltre il Sole come causa diretta per via dell’assenza di cambiamenti nelle misurazioni effettuate sia di giorno che di notte. 6 Figura 1.1: Questa immagine, realizzata da A. De Angelis e tratta dall’atricolo [11], rappresenta il flusso di particelle misurato da Hess e Kolhörster in funzione dell’altitudine. Come si può osservare, la radiazione non varia sensibilmente fino a 4000 metri, soprattutto con la strumentazione utilizzata da Hess, mentre incrementa notevolmente da 5000 in su. Il risultato di Hess venne infine confermato da Kolhörster che raggiunse i 9200 metri dove riscontrò una ionizzazione dell’aria 10 volte superiore a quella misurata al livello del mare. Tuttavia, dopo la prima guerra mondiale negli Stati Uniti, nel 1925 Millikan insieme al collega Bowen, ripeté lo stesso tipo di esperimento fatto da Hess e Kolhörster, sorvolando il Texas ad un altitudine di 15000 metri. Con loro stupore, trovarono che l’intensità della radiazione da loro osservata arrivava al massimo ad un quarto di quella riportata dallo stesso Hess. Non considerando la possibilità di un effetto geomagnetico, attribuirono questa diminuzione all’aumento dell’altitudine e quindi al fatto che l’origine della radiazione osservata fosse da considerarsi nuovamente terrestre. Nel 1926, sempre Millikan studiando ancora questa radiazione, attraverso misure del suo assorbimento in acqua a diverse profondità, concluse che, in realtà, doveva trattarsi di raggi gamma ad alta energia provenienti dallo spazio e, per questo motivo, li rinominò anche lui cosmic ray, in italiano raggi cosmici. 7 1.4 La natura dei raggi cosmici In realtà il fatto che i raggi cosmici fossero dei raggi gamma era comunemente accettato già da prima di Millikan. La radiazione osservata aveva, infatti, un’elevata capacità di penetrazione e, non conoscendo a quel tempo gli effetti relativistici sul potere penetrante di una particella carica, questo fu sufficiente affinché i fisici identificassero i raggi cosmici con dei fotoni di energia estremamente alta, ovvero dei raggi gamma ultra-energetici, simili a quelli emessi da sorgenti radioattive. Una serie di esperimenti portò comunque alcuni ricercatori, tra i quali Compton, a considerare l’idea che potessero essere composti da particelle cariche. Al tempo, l’espulsione di elettroni dagli atomi attraverso l’effetto Compton era l’unico processo conosciuto di interazione dei raggi gamma con la materia. Per studiare la radiazione secondaria prodotta dalla radiazione ultra-gamma, Walther Bothe e Werner Kolhörster collocarono due contatori Geiger-Müller uno sopra l’altro, interponendo tra loro spessori crescenti di lastre di piombo e registrarono il numero di conteggi simultanei segnalati dai due strumenti. Nell’autunno del 1929 Bothe e Kolhörster pubblicarono un articolo in cui presentavano dei risultati sorprendenti. I contatori segnalavano coincidenze anche in presenza di una lastra d’oro spessa 4 cm. Tuttavia, nell’ipotesi di elettroni emessi per effetto Compton a causa di una radiazione gamma di altissima energia, data la loro bassa capacità di penetrazione, dovevano essere completamente catturati da un materiale assorbente, anche molto sottile, posto tra i due strumenti di rivelazione. Alla luce dei risultati ottenuti, Bothe e Kolhörster ne dedussero che le coincidenze registrate non potevano che essere prodotte unicamente da singole particelle elettricamente cariche ed estremamente penetranti, che causavano un segnale in entrambi i contatori dopo aver attraversato l’intera atmosfera. Questa scoperta suggeriva che i raggi cosmici dovessero avere una natura corpuscolare, mettendo in serio dubbio la teoria sostenuta in particolare da Millikan, che li considerava come raggi gamma di altissima energia, prodotti dalla fusione di elementi leggeri nelle profondità dello spazio interstellare. [8, 9] In più, già due anni prima, il fisico J. Clay aveva riscontrato l’evidenza sperimentale del fatto che l’intensità dei raggi cosmici varia con la latitudine geomagnetica, il cosiddetto effetto latitudine. Questo risultato, che venne contestato da Millikan, fu molto importante perché suggerı̀ il modo in cui sarebbe stato possibile stabilire quale fosse la vera natura dei raggi cosmici. L’effetto latitudine, infatti, sarebbe risultato inspiegabile nel caso in cui i raggi cosmici fossero stati semplicemente dei raggi gamma, mentre, considerando la possibilità che fossero composti da delle particelle cariche, lo si sareb8 be potuto interpretare come una conseguenza dovuta al campo geomagnetico terrestre. Nel 1932, Compton organizzò quindi un esperimento a livello planetario, per ripetere su vasta scala le misurazioni effettuate da Clay e risolvere cosı̀ la questione. Figura 1.2: Principali stazioni di osservazione, tratto dall’articolo originale di Compton: “A Geographic Study of Cosmic Ray”. [13] A questo esperimento parteciparono più di sessanta fisici che, attraverso misure indipendenti, riscontrarono in maniera inconfutabile l’esistenza dell’effetto latitudine. Il risultato fu dunque che, dovendo poter interagire con il campo magnetico terrestre, i raggi cosmici erano particelle cariche, scartando quindi l’ipotesi dei raggi gamma. É interessante notare come, malgrado l’opposizione iniziale di Millikan a questi risultati, è proprio questo fenomeno il responsabile delle misure anomale che egli ottenne nel 1925. Per l’effetto latitudine infatti, la quantità di radiazione cosmica misurata in Europa, deve essere significativamente diversa da quella osservata Texas. Ci si chiedeva a questo punto se le particelle fossero positive o negative. La soluzione fu trovata grazie a un’idea originale di Bruno Rossi che, nel 1930, teorizzò la possibilità di rilevare una differenza fra l’intensità dei raggi cosmici provenienti da est e quelli provenienti da ovest, chiamando questo fenomeno effetto est-ovest. Assumendo che la maggior parte delle particelle fosse a carica positiva, nei pressi dell’equatore magnetico terrestre, dove questo effetto doveva risultare più evidente, e andando ad alta quota, per diminuire 9 al massimo l’assorbimento dell’atmosfera, si sarebbe dovuto osservare una maggiore intensità da ovest rispetto a quella osservata verso est. Figura 1.3: Bruno Rossi, Robert Millikan e Arthur Compton; in una foto fatta durante la conferenza di fisica nucleare tenuta a Roma nell’ottobre del 1931. L’immagine è stata tratta, per cortesia dell’Università di Padova, dalla mostra fotografica del 2012 [48]. Nel 1933, tre esperimenti indipendenti, quello di Compton e Alvarez e quelli di Johnson e dello stesso Rossi, confermarono la sua teoria, verificando senza ombra di dubbio l’esistenza dell’effetto est-ovest, dimostrando cosı̀ che i raggi cosmici dovevano essere composti prevalentemente da particelle di carica positiva. Durante l’esperimento di Rossi, si osservarono anche delle coincidenze anomale (eventi simultanei nel conteggio delle particelle) fra rilevatori lontani, troppo frequenti per essere dovuti solo ad errori casuali causati dal limitato potere risolutivo degli strumenti. Al riguardo, lo stesso Rossi scrisse nella rivista italiana “La Ricerca Scientifica”: “La frequenza delle coincidenze registrate con i contatori lontani l’uno dall’altro e indicata nelle tabelle sotto il nome di coincidenze casuali, appare più elevata di quella che sarebbe stata prevedibile in base al potere risolutivo delle registrazioni, misurato a Padova prima della partenza (2 · 10−4 sec. per la registr. II). Ciò fece nascere il dubbio che tali coincidenze non fossero, in realtà, tutte casuali. 10 [...] Parrebbe dunque (poiché il dubbio di possibili disturbi venne escluso con opportune esperienze di controllo), che di tanto in tanto giungessero sugli apparecchi degli sciami molto estesi di corpuscoli, i quali determinassero coincidenze fra contatori anche piuttosto lontani l’uno dall’altro.” [43] Oggi sappiamo che questa congettura era corretta, infatti, molte delle particelle di alta energia che vengono osservate sulla superficie terrestre sono in realtà dei prodotti secondari dovuti all’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera. Inoltre, è interessante osservare che proprio gli sciami di particelle sono la spiegazione diretta del fenomeno di scarica spontanea degli elettroscopi, da cui tutta l’indagine era partita all’inizio del secolo! La prima osservazione dettagliata di questo fenomeno è dovuta a P. Auger e ai suoi collaboratori, che nel 1939 rilevarono questi sciami di particelle cariche (detti in inglese “air shower ”) riscontrando che, una volta giunti al suolo, questi si estendono per distanze superiori a 100 metri e contengono milioni di particelle ionizzate. Inoltre, uno dei risultati più sorprendenti che riuscirono a dimostrare fu che le particelle responsabili della creazione di questi sciami dovevano avere, al momento del loro ingresso nell’atmosfera, energie superiori a 1015 eV , quando al tempo, le massime energie raggiungibili con la radiazione naturale o l’accelerazione artificiale, erano di appena pochi M eV (ovvero 106 eV ). Questo, in più, pose il problema di ricercare quali potessero essere i fenomeni astrofisici in grado di accelerare le particelle fino a tali energie. Per questi motivi, a partire dagli anni ’30 sino all’avvento dei primi acceleratori agli inizi degli anni ’50, la storia della fisica delle particelle coincise con quella dei raggi cosmici. In quegli anni si capı̀ infatti che la radiazione cosmica, essendo una sorgente spontanea di particelle molto energetiche in grado di poter penetrare i nuclei atomici, poteva essere utilizzata per investigare la natura microscopica della materia e i suoi costituenti fondamentali. É proprio in questo modo infatti che vennero scoperti nuovi tipi di particelle, come ad esempio il positrone ed il muone. 1.5 La fisica dei raggi cosmici ai giorni nostri Al giorno d’oggi, i raggi cosmici sono al centro del nuovo campo della fisica astroparticellare, che rappresenta una materia interdisciplinare che si pone tra l’astrofisica, la cosmologia e la fisica delle particelle. La fisica delle astroparticelle è cresciuta notevolmente negli ultimi 20 anni e molti grandi 11 progetti sono ancora in corso d’opera, alla ricerca, ad esempio, della materia oscura. Progetti satellitari come Fermi e PAMELA hanno portato nuovi risultati d’avanguardia; PAMELA in particolare ha osservato una eccesso anomalo ed ancora inspiegato di positroni, che potrebbe portare a nuova fisica. Uno degli obiettivi principali di AMS-02, un altro esperimento spaziale, è quello di estendere ulteriormente questo tipo di ricerca. Inoltre, lo studio degli sciami di raggi cosmici ultraenergetici, 70 anni dopo la scoperta da parte di Rossi e Auger, sta fornendo, grazie al grande osservatorio terrestre Pierre Auger, delle conoscenze fondamentali per capire le possibili sorgenti di questi raggi cosmici estremamente energetici. Per finire si sottolinea come, a causa delle limitazioni di base degli esperimenti terrestri per lo studio della fisica particellare delle alte energie, lo studio dei raggi cosmici sia tornato ad essere un tema di centrale importanza anche per la fisica delle particelle. Si consideri infatti che al LHC del CERN, ovvero il più grande acceleratore mai costruito, vengono fatti collidere, con un urto frontale, due protoni con un energia di circa 7 T eV ciascuno. Questa collisione, che avviene nel centro di massa delle due particelle con un energia totale di ≈ 14 T eV , corrisponde all’urto di un protone di circa 4 · 105 T eV che incide su un protone praticamente fermo. Per arrivare ad energie più elevate, poiché con LHC si sono raggiunti i limiti umanamente perseguibili con la tecnologia attuale, l’unica possibilità è quella di sfruttare il fascio di particelle, di origine naturale, costituito dai raggi cosmici che, con energie che arrivano fino a circa 108 T eV , può essere utilizzato per eseguire esperimenti a bersaglio fisso. 12 Capitolo 2 La galassia e i raggi cosmici Come si è visto nel precedente capitolo introduttivo, con il termine raggi cosmici ci si riferisce al flusso di particelle cariche, provenienti dal difuori del nostro sistema solare, che con energie molto elevate (superiori ai M eV ) colpiscono costantemente il nostro pianeta. A questo punto è d’uopo notare che, in realtà, il flusso di queste particelle, che arrivano fino alla sommità dell’atmosfera terrestre, è costituito per la maggior parte da particelle di bassa energia (generalmente inferiori ai M eV ) che provengono dal Sole e che, grazie ad occasionali tempeste solari, riescono a raggiungere al massimo energie nell’ordine delle decine di GeV . Ciononostante, i raggi cosmici interessanti per questo lavoro di tesi, e a cui si fa riferimento, sono quelli di alta energia, provenienti dall’esterno del sistema solare, che, nello specifico, vengono studiati attraverso le misurazione delle seguenti osservabili fisiche: • la composizione, ovvero la specie chimica delle particelle presenti; • la distribuzione di energia, ossia il modo in cui varia il flusso di particelle in funzione dell’energia; • la direzione di arrivo, analizzando la presenza o meno di anisotropie. Dalle misurazioni di queste grandezze fisiche, quello che si vuole ottenere è un modello che ne descriva l’origine e la dinamica. Tuttavia, per poter interpretare correttamente i dati ottenuti, è necessario studiare anche la natura dell’ambiente in cui i raggi cosmici si propagano. Nello specifico, bisogna analizzare: 1. la struttura della galassia, dove, uno degli aspetti più interessanti sarà quello di capire come è fatto il campo magnetico galattico e come questo influenzi il moto delle particelle cariche di cui i raggi cosmici sono composti; 13 2. la natura del mezzo interstellare e di quello intergalattico, per poter stabilire quali potrebbero essere i processi a cui sono state sottoposte le particelle durante il loro viaggio verso la Terra. In questo capitolo, dopo aver richiamato vari concetti e conoscenze di base concernenti la struttura della galassia e la distribuzione delle potenziali sorgenti di raggi cosmici, verranno approfondite un po’ più in dettaglio le proprietà delle osservabili fisiche che vengono effettivamente misurate e i dati sperimentali realmente ottenuti dalla loro rivelazione. 2.1 La Galassia Osservando il cielo di notte, è possibile vedere una scia luminosa di colore biancastro che attraversa la sfera celeste. Questo fenomeno molto affascinante, che oggi a causa del diffuso inquinamento luminoso risulta meno evidente, venne osservato già da molti popoli antichi che gli diedero diversi nomi. I greci lo chiamarono, per motivi mitologici, “Galaxias Kyklos”, ovvero “ciclo latteo”, da cui ha origine la parola odierna Galassia. Il termine usato dai romani è invece “Via Lactea” (da cui deriva Via Lattea) che è la traduzione latina del termine usato dai greci. Altri dei suggestivi nomi che gli vennero dati sono: “Fiume d’argento” in Cina e Giappone; “Strada d’inverno” in Svezia e “La via degli uccelli ” in Turchia e nella regione balcanica. Figura 2.1: Foto della Via Lattea scattata dal cielo sopra il Very Large Telescope (VLT) in cima al monte Paranal in Cile. Con il centro della Galassia direttamente sopra la testa ed il cielo estremamente buio, questo posto rappresenta uno dei migliori luoghi sulla faccia della Terra in cui è possibile vedere la Via Lattea. Crediti: Grant Tremblay ESO [49]. 14 Figura 2.2: Foto della Via Lattea scattata all’osservatorio di Paranal nel deserto dell’Atacama in Cile. Crediti: John Colosimo ESO [50]. Questi nomi, a causa delle nuove scoperte, hanno assunto con il passare del tempo un nuovo significato. Oggi infatti, è noto che, quella scia visibile in cielo, è in realtà parte di un enorme sistema astronomico, la Via Lattea, costituito da: • un elevato numero di stelle, con i loro sistemi solari; • resti stellari, come nane bianche, super nove o buchi neri; • gas e pulviscolo interstellare; • materia oscura; che sono legati gravitazionalmente fra loro e di cui la Terra, insieme al nostro Sole, fa parte. Inoltre si è riscontrato che, molti dei corpi celesti che un tempo venivano identificati come nebulose poiché erano visti come oggetti astronomici di grandi dimensioni e di natura non stellare, in realtà sono sistemi stellari molto distanti, simili alla nostra Via Lattea. É in questo contesto infatti che, il termine “galassia” assume un significato più generale, andando ad indicare proprio questa tipologia di sistemi molto vasti di cui, la nostra Galassia, ovvero la Via Lattea, ne è un caso particolare. Per concludere, si è riscontrato che anche le galassie non sono distribuite uniformemente nello spazio, ma anzi si dispongono a loro volta in enormi sistemi legati dalla forza gravitazionale che, a seconda delle loro dimensioni, vengono detti, in ordine crescente: gruppi, ammassi (in inglese cluster ) o superammassi (supercluster ). La Via Lattea, per esempio, è una delle due galassie più grandi nel cosiddetto Gruppo Locale, costituito da circa due dozzine di galassie distribuite in un raggio di 3 M pc. Questo a sua volta fa parte del Superammasso Locale (detto anche Superammasso della Vergine) che, estendendosi in un diametro di circa 30 M pc, contiene approssimativamente 15 almeno un centinaio tra ammassi e gruppi. Malgrado le sue enormi dimensioni, anche il Superammasso Locale è tuttavia solo uno dei diversi milioni di supercluster presenti nell’Universo visibile. Si consideri infatti che, grazie alla misurazione del loro redshift, sono state trovate galassie distanti da noi più di 1 Gpc, rivelando cosı̀ l’incredibile estensione dell’Universo osservabile. 2.1.1 La struttura della nostra Galassia La Via Lattea contiene più di 100 miliardi di stelle le quali si presentano con una grande varietà nelle loro caratteristiche, andando, ad esempio, dalle enormi giganti rosse alle piccole nane bianche o alle stelle di neutroni. Da un punto di vista evolutivo, inoltre, la nostra Galassia non rimane sempre la stessa: durante la sua vita nuove stelle si formano nel mezzo interstellare, mentre stelle di generazioni più vecchie finiscono il loro ciclo vitale alcune come supernovae, con gigantesche esplosioni, altre, con esplosioni più contenute, come nebulose planetarie. In entrambi i casi, questo avviene rilasciando una grande quantità di gas e polveri calde nel mezzo interstellare, che si presentano con una nuova composizione chimica, frutto delle reazioni nucleari avvenute all’interno della stella. Con la nuova generazione stellare la Galassia diventa cosı̀ più ricca di nuclei pesanti e un po’ più di massa viene concentrata nei resti di queste esplosioni, ovvero in stelle di neutroni, buchi neri o nane bianche. Tuttavia, è importante notare che la determinazione della sua struttura, e quindi in primo luogo quella della sua forma e dimensione, risulta molto difficile a causa del fatto che il nostro punto di osservazione è interno alla galassia stessa (vedi 2.2). In questo senso infatti, è molto utile confrontare i dai ottenuti dall’osservazione diretta della nostra galassia con quelli ottenuti osservando le galassie lontane. In più, effettuando queste misurazioni anche a diverse lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, si è riusciti ad ottenere un buon quadro d’insieme, secondo il quale, la Via Lattea è una galassia a spirale leggermente barrata e si presenta fondamentalmente come un disco che ruota su se stesso più un rigonfiamento centrale (detto generalmente bulge) circondato da un enorme alone. Le distanze sono usualmente espresse dagli astronomi in parsec∗ (“parallasse di un secondo d’arco”, simbolo: pc), dove: 1 pc = 3, 26 anni luce = 3, 086 · 1016 m (2.1) A causa delle differenti composizioni chimiche nella galassia e delle diversità presenti nelle sue caratteristiche cinematiche e dinamiche, può essere utile ∗ parsec = distanza a cui 1 AU è vista sotto un angolo di 1 secondo d’arco. 16 distinguere due componenti nella sua struttura: una sferoidale, costituita dal bulge e dall’alone, e l’altra formata dal disco, come mostrato nell’immagine seguente. Figura 2.3: Rappresentazione schematica della sezione della Via Lattea. L’immagine è tratta, per cortesia, dal libro di Schlickeiser [44]. La componente sferoidale deve il suo nome al fatto che sia il bulge che l’alone hanno la forma di una sfera, di raggio rispettivamente 4 e 30 kpc circa, schiacciata vistosamente ai poli. Queste due regioni sono approssimativamente concentriche e, poiché il loro centro coincide grossomodo anche con quello del disco, questo viene detto centro galattico. Per quanto concerne le dimensioni del disco, questo è caratterizzato da uno spessore di circa 300 ÷ 400 pc ed un raggio di ≈ 15 kpc. Il piano che lo taglia orizzontalmente a metà è detto piano galattico e, il Sole, che giace approssimativamente proprio su questo piano, si trova ad una distanza di 8.34 ± 0.16 kpc [41] dal centro della galassia, risultando cosı̀, vicino alla metà del disco. Una stima del suo volume è perciò: VG = π R2 h ≈ 7 · 1060 m3 (2.2) mentre il volume dell’alone galattico è più grande di oltre un ordine di grandezza. Per di più, considerando la struttura della galassia, è possibile individuare un polo nord ed un polo sud galattici. Questi vengono fissati tenendo conto del fatto che la retta parallela all’asse di rotazione del disco galattico, passante per il centro della Terra, incontra la sfera celeste in due punti: un visibile 17 solo dall’emisfero australe, l’altro solo da quello boreale. In questo modo, si identifica quindi l’emisfero nord galattico come quello in cui è contenuto il punto d’intersezione che è visibile solo dall’emisfero nord terrestre. Questo modo di determinare nord e sud comporta però, che, a causa dell’inclinazione di circa 120◦ che sussiste fra l’asse di rotazione della Terra e quello della galassia, le stelle nel disco (Sole compreso) vengono viste ruotare in senso orario. Detto ciò, per indicare le distanze a livello galattico è possibile introdurre due tipi diversi di sistemi di riferimento. Il primo è un sistema di coordinate sferico, indicato con (D, l, b), con origine fissata nel Sole in cui, (D0 , 0◦ , 0◦ ) con D0 = 8.34 ± 0.16 kpc è la coordinata del centro galattico e b, che varia nell’intervallo [−90◦ ; +90◦ ], è maggiore di zero nella regione dell’emisfero nord galattico. Il secondo sistema di riferimento, (R, φ, z), è invece a simmetria cilindrica con origine fissata nel centro della galassia e la direzione dell’asse polare coincidente con quella del nord galattico. Esso è definito in modo tale per cui il Sole abbia le coordinate: (R0 , φ0 , 0) con R0 = D0 e φ0 = 180◦ . Per quanto detto, la relazione che intercorre tra i due sistemi di riferimento è la seguente: 1/2 R = R0 2 + D2 cos2 (b) − 2R0 D cos(b) cos(l) D cos(b) sen(l) φ = φ0 + arcsen R z = D sen(b) come può essere dedotto dalla seguente immagine. Figura 2.4: Coordinate Galattiche. 18 (2.3a) (2.3b) (2.3c) Per quanto riguarda la composizione della regione sferoidale, i componenti caratteristici sono stelle ed ammassi globulari, mentre gas e polveri sono relativamente scarsi. Da misurazioni spettroscopiche si evince che, poiché queste stelle sono povere di metalli (stelle di popolazione II), esse devono essere molto vecchie, costituite da materiali che non provengono da stelle di generazioni precedenti. Infine, con diametro di circa 6 pc, all’interno del bulge si trova il nucleo della galassia nel cui centro è presente un buco nero supermassiccio con una massa di 4, 1 ± 0, 6 · 106 M [25]. Il disco è invece caratterizzato dalla presenza di stelle più giovani, ricche di metalli (popolazione I), e da una grande quantità di gas e polveri che danno luogo a quell’assorbimento della radiazione interstellare che rende più difficile l’osservazione della nostra Galassia nel visibile. Le stelle, comunque, sono distribuite più o meno uniformemente, raggruppate in associazioni stellari lungo i bracci a spirale. Queste considerazioni suggeriscono perciò che il disco sia fatto quasi interamente da materiale che è già stato processato in stelle di generazioni precedenti e, questa situazione, è analoga a quella osserva nelle altre galassie a spirale. Con l’osservazione a basse frequenze (150MHz) l’emissione dalla Galassia mostra un massimo di intensità lungo il piano galattico, decrescendo in maniera costante con l’aumento della latitudine galattica. L’emissione radio diffusa è generalmente descritta in termini di due strutture distinte: (i) un disco molto sottile, coincidente con il disco ottico, con un’apertura angolare di circa ±5◦ della latitudine galattica b; (ii) un alone dalla forma ellissoidale che si estende fino a grandi latitudini galattiche e sopra i poli. Dagli studi dello spettro di emissione, si può dedurre inoltre che la radiazione diffusa è composta da una componente termica su cui sono sovrapposte delle sorgenti radio discontinue di due diverse tipologie: 1) oggetti di grande dimensione angolare concentrati lungo il piano galattico, sono resti di supernova circondati da regioni con un’alta concentrazione di idrogeno ionizzato; 2) sorgenti radio di piccolo diametro angolare, distribuiti isotropicamente e attribuiti a oggetti extragalattici. In entrambi i casi, lo spettro della radiazione è quello tipico di un’emissione di sincrotrone. 19 La luminosità della componente proveniente dal disco, integrata sull’intera banda radio, è uguale a: L ≈ 1031 GeV J ≈ 6 · 1040 s s (2.4) mentre quella emessa dall’alone, anche se risulta più incerta, corrisponde comunque (entro un fattore 2) a quella del disco. 2.1.2 Il mezzo interstellare Nelle regioni esterne della Galassia il rapporto tra la distanza che mediamente intercorre fra due stelle, circa un parsec, e il loro raggio, approssimativamente 109 m, è dell’ordine di ≈ 3 · 107 . Perciò, solo una piccola frazione dello spazio è occupata da materia aggregata in forma stellare, il resto non è vuoto, ma popolato da una grande quantità di gas (atomi, ioni e molecole) e polveri (piccole particelle solide principalmente con dimensioni minori di 1 µm) che, con un rapporto in massa mediamente di 100 ad 1, insieme costituiscono il cosiddetto mezzo interstellare, spesso abbreviato ISM dall’inglese InterStellar Medium. La natura dello spazio interstellare viene studiata dunque, sia all’interno della nostra Galassia, che all’interno di galassie lontane. Nella Via Lattea, per esempio, si è in grado di studiare individualmente le nebulose di gas e polveri. Grazie alla relativa vicinanza con questi corpi astronomici, infatti, i telescopi odierni sono in grado di ottenere delle misurazioni abbastanza dettagliate e con una buona risoluzione spaziale. Comunque, a causa della posizione del sistema solare all’interno del disco galattico, è difficile dedurre delle proprietà globali per il mezzo interstellare. Si è quindi in una situazione in cui, come dice il detto anglosassone, “you can’t see the forest for the trees” (traduzione: non si è in grado di vedere la foresta a causa degli alberi ). Al contrario, tuttavia, osservando a diversi angoli galassie lontane, simili alla Via Lattea, si riesce a studiare delle proprietà generali dell’ISM, anche se, a causa della scarsa risoluzione, in questo caso non è possibile analizzare, per cosı̀ dire, i singoli “alberi”. Da un punto di vista evolutivo, il mezzo interstellare gioca un ruolo molto importante infatti, agli albori dell’Universo, nelle galassie la massa barionica doveva essere presente principalmente sotto forma di gas dell’ISM. Con l’evoluzione delle galassie, comunque, il mezzo interstellare “condensa” gradualmente dando vita alla formazione di stelle e, allo stesso tempo, una parte dell’ISM viene espulsa dalla galassia o sotto forma di vento galattico o strappata via dal mezzo intergalattico. A tutto ciò si aggiunge anche il fatto che un frazione del gas proveniente dal mezzo intergalattico, catturato da una 20 galassia, si va lentamente a sommare alla massa dell’ISM. Nell’epoca attuale, la Via Lattea ha la maggior parte della sua massa barionica incorporata nelle stelle e nei resti stellari. Ancora oggi, comunque, la massa totale dell’ISM, nella nostra Galassia, è circa il 10% di quella stellare. Quanto descritto è illustrato schematicamente nella figura seguente. Figura 2.5: Immagine, tratta dal libro di Draine [16] e tradotta. Rappresenta il flusso di materia nel mezzo interstellare. La materia interstellare è responsabile, infatti, per il 10 ÷ 15% della massa totale del disco galattico. Essa tende a concentrarsi vicino al piano della galassia e lungo i bracci della spirale pur essendo, se osservata a scale più piccole, distribuita molto disomogeneamente. Circa la metà della massa interstellare è limitata in nubi separate che occupano approssimativamente solo lo 1 ÷ 2% dell’intero volume interstellare. Inoltre, per gli standard terrestri, la materia interstellare è estremamente tenue: in prossimità del Sole, la sua densità varia da ∼ 1, 5 · 10−26 g/cm3 nel mezzo caldo, a ∼ (2 · 10−20 ÷ 2 · 10−18 ) g/cm3 nelle regioni molecolari più dense, con una media di circa 2, 7 · 10−24 g/cm3 . Questa densità, che corrisponde approssimativamente ad un atomo di idrogeno per centimetro cubo, è oltre 20 ordini di grandezza minore di quella nella bassa atmosfera terrestre. La composizione chimica dell’ISM è simile alla “composizione cosmica” ricavata dalle misure delle abbondanze nel sole, in altre stelle del 21 disco e in meteoriti, vale a dire: il 90,8% in numero (70,4% in massa) di idrogeno, 9,1% (28,1%) di elio, e il 0,12% (1,5%) degli elementi più pesanti, detti abitualmente, dalla comunità astrofisica, “metalli” [20]. Il gas, comunque, viene rivelato dalla presenza delle linee di assorbimento e di emissione nelle bande radio e ottiche della radiazione elettromagnetica. Il pulviscolo, invece, può essere rilevato quando si trova in grandi nubi che, come avviene per le nuvole che nell’atmosfera terrestre coprono il Sole, si frappongono fra le stelle e il nostro punto di osservazione, assorbendo e diffondendo la luce stellare in background (la combinazione di questi due processi viene comunemente chiamata oscuramento o estinzione interstellare). Un altro indicatore della presenza di queste nubi di polveri è, in più, la radiazione infrarossa che si osserva nelle vicinanze di stelle molto calde. Tuttavia, rilevare l’ISM nel range ottico risulta difficoltoso. Per questo viene studiato soprattutto usando tecniche di astronomia radio. Come già osservato, gran parte del mezzo interstellare è fatto di idrogeno neutro (simbolo spettroscopico HI) e idrogeno molecolare (H2 ). L’idrogeno neutro, con una densità media di approssimativamente 0, 4 atomi per cm cubo, è infatti la componente principale dell’ISM. La presenza del HI è rivelata nella banda radio dalla famosa linea 21 cm. L’emissione è dovuta alla transizione tra i due livelli della struttura iperfine dell’idrogeno. Questo presenta infatti due possibili configurazioni diverse per l’accoppiamento fra lo spin nucleare, del protone, e quello orbitale, dell’elettrone. La prima configurazione possibile è infatti quella in cui gli spin sono paralleli e che, avendo un’energia più elevata, rappresenta lo stato meno legato. L’altra, invece, è quella con spin antiparalleli che, essendo meno energetica, costituisce uno stato più legato. La differenza di energia fra questi due stati è: ∆E = 5, 874 · 10−6 eV . A causa della transizione fra il livello più energetico e quello meno energetico viene emesso un fotone con un energia pari a ∆E, ovvero con una frequenza di 1420 M Hz, a cui corrisponde appunto la lunghezza d’onda: λHI = 21, 1 cm. Si noti, tuttavia, che questa transizione è altamente improbabile in quanto non rispetta le regole di selezione della meccanica quantistica. Come si usa dire infatti, essa si presenta come una transizione proibita, intendendo con ciò, non che non si possa verificare affatto, ma che la probabilità con cui accade è di gran lunga inferiore di quella con cui può avvenire una transizione permessa, ovvero che rispetti le regole di selezione. La frequenza con cui un atomo di idrogeno neutro, che si trova nella configurazione con spin paralleli, passa nello stato con spin antiparalleli è di 2, 9 · 10−15 Hz, che corrisponde 22 a un tempo di vita medio di circa 10 milioni di anni. Per questo motivo è molto difficile osservare questo fenomeno in laboratorio, ma nella Galassia dove l’idrogeno è presente in grandissime quantità, la linea 21 cm risulta chiaramente rilevabile. Di questo tipo di radiazione infatti, come si può vedere dalla fig. 2.6, ne è stata osservata l’emissione soprattutto lungo il piano galattico e, ad intensità più basse, anche a tutte le latitudini galattiche. La dimensione lineare lungo lo spessore del disco in cui l’idrogeno neutro è maggiormente concentrato, è dell’ordine di 100 ÷ 150 pc. In aggiunta all’emissione, questa linea può essere individuata anche in assorbimento quando una nube d’idrogeno si trova in mezzo fra la nostra linea d’osservazione e una sorgente radio che emette uno spettro continuo. Detto ciò, approssimativamente solo l’1% dell’idrogeno interstellare è ionizzato (simbolo spettroscopico HII) e si trova in nubi con una densità maggiore di 10 atomi/cm3 . La sua ionizzazione è dovuta alla presenza di stelle molto calde che emettendo fotoni di energie elevatissime, maggiori di El = 13, 6 eV corrispondente all’energia di legame dell’elettrone nell’atomo d’idrogeno, sono in grado di ionizzarlo. Si consideri che, un fotone di energia El , per la legge di Planck, ha una frequenza di ∼ 3, 29 · 1015 Hz. L’emissione di HII, che ne permette la rilevazione, è dovuta alle transizioni dette free-free (o bremstrahlung termica), che producono uno spettro continuo. I telescopi radio, inoltre, hanno rivelato la presenza nel mezzo interstellare di linee caratteristiche di molte molecole. Le molecole emettono, infatti, attraverso i loro modi librazionali e vibrazionali. Per fare un esempio, in una molecola biatomica, i moti di librazione sono costituiti dalle rotazioni, anche parziali, che questa può effettuare intorno o all’asse che congiunge i due nuclei, o ad uno ad esso ortogonale. Le vibrazioni sono invece costituite dalle oscillazioni della distanza relativa fra i nuclei atomici. Dunque, poiché anche librazione e vibrazione delle molecole sono quantizzati, queste ne permettono l’identificazione. Figura 2.6: Osservazione della Via Lattea a diverse lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, che mostra la distribuzione dell’idrogeno atomico HI e molecolare H2 . Tratto dal sito della NASA [34]. 23 Circa il 50% della massa dell’ISM si trova in forma molecolare e, in gran parte, è H2 . Sfortunatamente, l’H2 non ha livelli rotazionali nella banda radio e la stima della sua abbondanza nella Galassia rimane incerta. Ciononostante è noto che una larga frazione è raccolta in nubi, sia compatte che diffuse, con dimensioni che raggiungono 50 pc, alte densità (maggiori di 1010 molecole/cm3 ) e temperature che possono arrivare anche migliaia di gradi. Queste nubi corrispondono alle regioni di formazione stellare. In aggiunta alle molecole di H2 , nel mezzo interstellare sono stati trovati quasi un centinaio di molecole differenti e radicali liberi. I sistemi molecolari più complessi hanno fino a 13 atomi e molti di essi sono organici. Nessuna molecola inorganica (ad eccezione dell’ammoniaca, NH3 ) contiene più di 3 atomi. In questo senso, è intrigante osservare che, come sulla Terra, apparentemente anche nell’ISM il legame del carbonio è la chiave per la formazione di molecole complesse. Comunque sia, una delle molecole più interessanti rilevabili nella banda radio è il monossido di carbonio, CO, che è la più abbondante dopo l’H2 . Questa ha tre linee di emissione (con lunghezza d’onda compresa fra 1 e 3 mm). La CO deve la sua importanza al fatto di essere un tracciatore per l’idrogeno molecolare, poiché la fonte principale della sua eccitazione è dovuta proprio alle collisioni con le molecole di H2 . Per quanto riguarda il mezzo intergalattico, bisogna osservare che le nostre informazioni sullo spazio fra le galassie sono abbastanza scarse. Dalla misurazione della radiazione X di fondo si ha l’evidenza dell’esistenza di un plasma intergalattico diffuso, come quello trovato nella Via Lattea vicino a stelle molto calde. L’esistenza di questo plasma ha importanti conseguenze sull’evoluzione delle galassie e dell’Universo. Comunque, una stima quantitativa della densità del materiale intergalattico ottenuta da misure dell’intensità dei raggi X è molto dipendente dal tipo di modello adottato e per questo i risultati sono abbastanza controversi. L’unica conclusione chiara è che, anche in questo caso, lo spazio fra le galassie non è vuoto. Per concludere, a pagina seguente è riportata una tabella riassuntiva sulla composizione del mezzo interstellare. 24 25 2.1.3 Il campo magnetico galattico Da secoli è risaputo che la Terra ha un campo magnetico, mentre l’idea che anche la Via Lattea ne abbia uno, e che questo giochi un ruolo molto importante nella fisica della Galassia, è molto più recente. Lo studio del campo magnetico interstellare (o ISMF, dall’inglese: InterStellar Magnetic Field) ha avuto infatti inizio con il fisico svedese H. Alfvén nel 1937, il quale osservò che, introducendo l’ipotesi dell’esistenza di un campo magnetico nello spazio interstellare, si poteva spiegare in maniera del tutto naturale il confinamento dei raggi cosmici nella nostra Galassia. Sviluppando questo concetto, Fermi nel 1949 fece un grande passo avanti. Nel suo famoso articolo “Sull’origine della radiazione cosmica” [18, trad.] egli scrive infatti: “i raggi cosmici sono originati e accelerati soprattutto nello spazio interstellare della galassia da collisioni contro campi magnetici in movimento”. Inoltre, nello stesso periodo, vennero fatte due grandi scoperte in astronomia osservativa. La prima è dovuta ad Hall e Hiltner, i quali, nel 1949, rilevarono indipendentemente che la luce proveniente da stelle vicine, nella banda ottica, è linearmente polarizzata. Fenomeno che Davis e Greenstein nel 1951 attribuirono all’estinzione dicroica dovuta ai grani di polvere che, avendo generalmente forme allungate e irregolari, vengono allineati da un campo magnetico interstellare coerente. La seconda, del 1950, è invece dovuta a Kiepenheuer, che si rese conto che l’emissione radio continua, osservata generalmente nella nostra Galassia, è un’emissione di sincrotrone, processo che implica la presenza di elettroni relativistici che si muovono in un campo magnetico. Cosı̀, più di 60 anni fa, due idee teoriche all’avanguardia e due scoperte innovative indicarono l’esistenza del ISMF nella Via Lattea. Da allora, un gran numero di osservazioni ha fornito prove convincenti del fatto che esiste effettivamente un campo magnetico che pervade la nostra Galassia. Da un punto di vista teorico, è diventato infatti chiaro che questi campi magnetici svolgono un ruolo cruciale nel mezzo interstellare: non sono solo responsabili per l’accelerazione e il confinamento dei raggi cosmici, ma hanno anche un profondo impatto sia sulla distribuzione spaziale che sulla dinamica della materia interstellare, influenzando, per di più, il processo di formazione stellare. Detto ciò, rilevare la presenza su scale galattiche dell’ISMF risulta abbastanza difficile. Infatti, mentre nelle vicinanze della Terra e in buona parte del sistema solare è possibile effettuare delle misurazioni dirette attraverso l’uso di sonde spaziali, a distanze astronomiche questa tecnica non è certamente applicabile. Perciò, si utilizzano metodi di misura indiretta i quali si basano prevalentemente sugli effetti della polarizzazione di un’onda elettro26 magnetica che viene prodotta, o che si propaga, in una regione di spazio dove è presente un campo magnetico. Si noti comunque che, con queste misurazioni, l’informazione che si riesce ad ottenere sul campo magnetico interstellare B si distingue fondamentalmente in due componenti: −→ 1. la plane-of-the-sky component B⊥ , ovvero la componente vettoriale che è perpendicolare alla linea di osservazione, cioè alla retta che congiunge l’osservatore con la sorgente della radiazione rilevata; 2. la line-of-see component B// , ovvero la componente scalare parallela a tale linea. Di seguito sono quindi illustrati brevemente i fenomeni fisici utilizzati −→ per rilevare indirettamente l’ISMF. Nello specifico, per la componente B⊥ si sfruttano i seguenti: • L’intensità e polarizzazione della radiazione di sincrotrone: queste sono proporzionali alla densità di elettroni relativistici e all’intensità del campo magnetico nella loro regione di origine, sempre perpendicolarmente alla linea di osservazione. Le misurazioni di radiazione di sincrotrone sono spesso utilizzate per dedurre le proprietà sui i campi magnetici nelle galassie esterne. Figura 2.7: In questa immagine, tratta dall’articolo di Zweibel & Heiles [53], è riportata la distribuzione, osservata attraverso le misurazioni della radiazione di sincrotrone, ~ ⊥ del campo magnetico della galassia M51. Il grafico, inoltre, è stato della componente B sovrapposto all’immagine di M51 nella banda ottica. La lunghezza dei vettori è proporzionale all’intensità misurata. Il cerchio in fondo a sinistra indica l’ampiezza del fascio del telescopio, mentre le croci rappresentano le stelle in primo piano. 27 • La polarizzazione della luce stellare: la luce delle stelle può essere polarizzata linearmente attraversando regioni contenenti grani di polvere che sono allineati perpendicolarmente al campo magnetico. Questi, infatti, agiscono collettivamente come un filtro polarizzatore per la luce stellare, facendo si che la radiazione che riesce ad attraversar−→ li è prevalentemente quella polarizzata proprio nella direzione di B⊥ . Di conseguenza, misurando semplicemente la polarizzazione della luce −→ stellare, si rileva direttamente l’orientamento di B⊥ . Mediante questa tecnica, grazie all’osservazione di un gran numero di stelle, si è dedotto che il campo magnetico della nostra Galassia, entro pochi kpc dal sole, è parallelo al piano galattico e inclinato di un piccolo angolo rispetto alla direzione azimutale (ovvero con longitudine lISM F ≈ 80◦ ). Tuttavia, poiché questo metodo si basa sull’osservazione della componente ottica della luce stellare che, per l’appunto, è ampiamente soggetta all’assorbimento a causa delle polveri, esso può essere utilizzato solo per sondare campi magnetici nelle vicinanze, come quelli nel braccio locale. • La polarizzazione della radiazione infrarossa emessa dal pulviscolo interstellare: oltre alla polarizzare la luce delle stelle, i grani di polvere magneticamente allineati emettono anche radiazione termica infrarossa. A causa della loro forma, l’emissione è polarizzata. Anche da queste osservazioni è quindi possibile ottenere delle informazioni sul campo magnetico che ha causato l’orientamento dei grani. Per la componente B// , invece, si utilizzano: • L’effetto Zeeman: alcuni degli orbitali degeneri di un atomo, in presenza di un campo magnetico, acquisiscono energie leggermente diverse con una conseguente scissione delle righe spettrali. Queste differenze energetiche sono dovute alle diverse possibilità di accoppiamento magnetico fra l’atomo ed il campo, ovvero, alle proiezioni che può assumere il momento angolare totale atomico (dato dalla somma del momento orbitalico più quello di spin) rispetto alla direzione del campo magnetico. Essendo quindi le differenze energetiche dei nuovi livelli proporzionali al campo magnetico che li ha indotti, è evidente come questo effetto può essere sfruttato per misurare tale campo (è stato osservato, per esempio, nella gamma delle frequenze radio sia per l’idrogeno neutro alla riga 21 cm che per le linee della molecola OH). • La rotazione di Faraday di una radiazione polarizzata linearmente: la maggior parte di ciò che si conosce del campo magnetico 28 galattico fuori dal nostro braccio locale proviene proprio dalle osservazioni della rotazione di Faraday della radiazione polarizzata emessa da fonti compatte (quali pulsar e sorgenti extragalattiche). Questo fenomeno, infatti, si basa sul fatto che, il piano di polarizzazione di un’onda elettromagnetica polarizzata linearmente, ruota quando si propaga in presenza di un campo magnetico B in un mezzo con densità elettronica ne . La rotazione ψ [rad] dipende da: Z L 2 B// ne dr = λ2 · RM (2.5) ψ = λ · 0, 182 · 0 dove L [pc] è la distanza attraversata dalla radiazione, λ[cm] è la sua lunghezza d’onda e RM [rad/cm−2 ] è la quantità osservabile nota come rotation measure, ovvero “misura di rotazione”. Perciò, se si riesce a conoscere la distribuzione degli elettroni lungo la linea di osservazione, è possibile lavorare all’indietro per determinare quale deve essere la configurazione del campo magnetico per produrre la rotazione dell’onda rilevata. Figura 2.8: Le figure, tratte dall’articolo di Jansson & Farrar [30], mostrano la struttura del campo magnetico della nostra Galassia, ricavate secondo il modello elaborato dagli stessi autori. L’immagine a sinistra descrive la distribuzione delle direzioni e dell’intensità del campo magnetico come sarebbero viste da un osservatore esterno alla galassia. Mentre, l’immagine a destra è una raffigurazione schematica della struttura del campo magnetico galattico a diverse altezze dal piano galattico. Dalle diverse osservazioni si ricava quindi un modello per la struttura su grandi scale del campo magnetico galattico, secondo cui si considera una 29 distribuzione regolare delle line di campo di B che segue, grossomodo, la distribuzione di materia (vedi figura 2.8). L’estensione spaziale delle regioni in cui il campo magnetico viene considerato costante è dell’ordine delle decine di parsec. Si osserva inoltre, che l’intensità media della campo magnetico galattico dipende dalla distanza dal centro della galassia (vedi fig.2.9). Figura 2.9: Questo grafico mostra l’andamento dell’intensità totale del campo magnetico nella Via Lattea al variare della distanza dal centro della Galassia. L’immagine è tratta dall’articolo di Eduardo Battaner et al. [7]. Ciononostante, per effettuare stime approssimative, può essere utile assumere per il campo magnetico della Via Lattea un valore mediamente di B ≈ 5 ÷ 6 µG. Infine, sebbene lo spazio tra le stelle nelle galassie sia permeato da un campo magnetico su larga scala, non può esistere tuttavia un campo elettrico costante di natura galattica. Se esistesse infatti, l’alta conduttività elettrica del mezzo interstellare lo andrebbe immediatamente a cortocircuitare. Comunque sia, campi elettrici transitori possono essere generati durante processi di induzione non stazionari come, per esempio, quelli dovuti alle eruzioni stellari o esplosioni di supernovae. 30 2.2 I raggi cosmici Come è stato già osservato in questa tesi, dopo più di cento anni di ricerca, oggi è un fatto ampiamente risaputo che il sistema solare e la Terra, in particolare, vengono continuamente investiti da un flusso costante di particelle di alta energia. Cosı̀, studiando l’andamento del flusso di questi raggi cosmici in funzione dell’energia, si ottengono molte informazioni sia sui processi di accelerazione alle sorgenti, che sulla propagazione nel mezzo interstellare. Per questo motivo, nello studio dei raggi cosmici, si introduce il concetto di flusso differenziale J(E, ω) , definito come il numero di particelle al secondo che, provenienti, entro un angolo solido unitario, dalla direzione ω, hanno un’energia compresa fra E ed E + dE e attraversano una superficie unitaria dS. Formalmente, quindi: def. J (E, ω) = d4 N num. di particelle ≡ 2 dS · dt · dω · dE m · sec · sterad · eV (2.6) Inoltre, poiché in alcuni casi può essere utile considerare contemporaneamente tutte le particelle che hanno un’energia maggiore di un certo valore di soglia E0 , si definisce anche il flusso integrale J(> E0 , ω): Z ∞ num. di particelle def. (2.7) J (> E0 , ω) = J (E, ω) dE ≡ m2 · sec · sterad E0 Queste quantità, come si vedrà più avanti, possono essere utilizzate sia per descrivere il flusso di una singola specie particellare che per descrivere il flusso totale di tutte le particelle presenti nei raggi cosmici. Infatti, nel caso in cui il rivelatore utilizzato è in grado di misurare carica e massa della particella incidente (identificandone cosı̀ la natura), il flusso, a prescindere che sia differenziale o integrale, può essere calcolato contando solo le particelle di un certo tipo α, ottenendo in questo modo il flusso Jα caratteristico per quella specifica particella. Ciò detto comunque, se la direzione di arrivo delle particelle è isotropa, allora J(E, ω) ≡ J0 (E) ed i flussi, differenziale e integrale, sono dati semplicemente dalle rispettive equazioni: Z J (E, ω) dω = 4π · J0 (E) , (2.8) Ω Z J (> E0 , ω) dω = 4π · J0 (> E0 ) . Ω 31 (2.9) In più in molti casi, come ad esempio quando si vuole descrivere le particelle che attraversano la superficie di un rivelatore, si è interessati al flusso differenziale per unità di area, F (E), che viene osservato su una superficie piana o sferica nel caso in cui la radiazione esterna sia isotropa e proveniente da un unico lato di tale superficie. Per ricavare questa quantità analiticamente si dovrebbe studiare la relazione che intercorre fra il flusso di particelle, presente in una certa regione di spazio, e il rate di conteggi misurato da un rivelatore. Una trattazione dettagliata di questo argomento è riportata nell’appendice A nella quale sono state ricavate le seguenti relazioni: Z C = G · I0 ; C =π·A ; E (u) I= dE J0 (E) (2.10) E (d) dove: C = è il numero di particelle al secondo misurate dal rivelatore; I = è il numero di particelle al secondo per unità di superficie che incidono sul rivelatore; J0 = è il flusso differenziale isotropo; G = è il fattore geometrico definito, nel caso di flusso isotropo, proprio come il rapporto fra C ed I; A = è l’area della superficie del rivelatore. Partendo quindi dall’ultima delle equazioni (2.10), si deduce che J = dI/dE, e, sostituendo nella prima il valore per G dato dalla seconda equazione, si ottiene: dI dC (E) = π A · (E) = π A · J0 (E). dE dE Da qui, confrontando la definizione di C con quella di F , si ricava infine: F (E) ≡ 1 dC · (E) = π · J0 (E) A dE (2.11) che, per il flusso integrale, dà ovviamente: F (> E0 ) = π · Φ (> E0 ) ≡ num. particelle . m2 · sec (2.12) Ritornando al tema principale, attraverso le numerose misurazioni del flusso differenziale dei raggi cosmici, effettuate da molti esperimenti diversi (ciascuno dei quali capace di eseguire le misure solo in un intervallo limitato di energie, vedi fig. 2.12), è stato possibile ricavare lo spettro energetico 32 differenziale caratteristico dei raggi cosmici che, con un origine extrasolare, riescono a raggiungere la Terra. Questo è rappresentato in figura 2.10. Figura 2.10: Spettro energetico differenziale. Nel grafico sono evidenziati i punti di “ginocchio” e di “caviglia” in cui c’è un importante cambiamento nella pendenza. L’immagine, tratta dall’articolo [14], è stata realizzata da S. Swordy dell’Università di Chicago. Dall’osservazione del grafico emerge, per prima cosa, come sia enorme l’estensione dello spettro energetico dei raggi cosmici, coprendo 13 ordini di grandezza per le energie e ben 32 per il flusso. In più, si vede chiaramente che lo spettro diminuisce molto velocemente all’aumentare dell’energia, seguendo, per la precisione, una legge di potenza del tipo: −µ J(E) E =k· (2.13) [J] [E] in cui: k è una costante di normalizzazione adimensionale; µ è l’indice spettrale che determina l’inclinazione nel grafico e, [E] e [J], sono le unità di misura utilizzate per descrivere, rispettivamente, l’energia E ed il flusso differenziale J(E). I rapporti E/[E] e J(E)/[J] sono, perciò, entrambi dei 33 numeri puri che dipendono dall’energia delle particelle. Da qui ne consegue che, prendendo l’eq. (2.13), è possibile passare direttamente ai logaritmi, ottenendo cosı̀ l’equazione seguente: " −µ # E E J(E) = log k · = log k − µ log , (2.14) log [J] [E] [E] che rappresenta, appunto, una retta con una pendenza pari a (−µ). Questo risultato è molto importante, infatti, uno spettro del genere, che non segue l’andamento tipico di uno spettro termico (ovvero una planckiana), evidenzia chiaramente l’esistenza di meccanismi di accelerazione per le particelle dei raggi cosmici. In più, è interessante notare che nei raggi cosmici sono presenti particelle con energie elevatissime (nell’ordine di 1020 eV ), la cui origine potrebbe essere collegata con alcuni dei processi più energetici dell’Universo. Queste energie sono, infatti, confrontabili con quelle caratteristiche di oggetti macroscopici. Per dare un’idea, si pensi che un protone con un’energia di 1020 eV ha praticamente la stessa energia cinetica di una palla da golf, della massa di circa 46 g, lanciata ad una velocità di 95 km/h! Osservando ancora la figura 2.10, si può notare, inoltre, la presenza di due punti in cui si verifica un cambiamento significativo nella pendenza del grafico. Il primo, che si trova a circa 4, 5·1015 eV , è detto ginocchio (in inglese, knee). Il secondo invece, che si presenta approssimativamente a 4 · 1018 eV , è detto caviglia, ovvero ankle [28]. In questo modo si individuano perciò tre regioni in cui l’indice spettrale assume valori diversi. A seconda dell’energia, per µ si ricava: per 1010 eV < E < 4, 5 · 1015 µ ' 2, 74 µ ' 3 ÷ 3, 3 per 4, 5 · 1015 eV < E < 4 · 1018 eV (2.15) 18 20 µ ' 2, 7 per 4 · 10 eV < E4, 5 · 10 eV Detto ciò, prima di ricavare esplicitamente anche la costante di normalizzazione nelle stesse regioni, bisogna notare che, nell’equazione (2.13) che è stata presentata nella forma più generale possibile, k dipende dall’unità di misura con cui vengono misurate l’energia ed il flusso differenziale. Cosı̀, per determinare la costante di normalizzazione, è necessario fissare [E] ed [J]. Si pone quindi, come è consuetudine, quanto segue: [E] = GeV ; [J] = m2 · sec · sterad · GeV −1 . In questo modo, l’espressione (2.13) diventa: −µ 1 E · 2 . J(E) = k · 1 GeV m · sec · sterad · GeV 34 (2.16) (2.17) e, per k, si ottiene un valore di circa 1, 8 · 104 nella regione che va da pochi GeV fino a 105 GeV [37]. Per accentuare il cambiamento nell’inclinazione del grafico, spesso si usa moltiplicare il flusso per una potenza ξ-esima dell’energia, ottenendo: ξ E · J(E) = k · E 1 GeV ξ−µ · GeV ξ−1 . m2 · sec · sterad Denominando quindi con E l’energia per unità di GeV (ovvero E/1 GeV ) e con [JE ξ ] l’unità di misura del prodotto di J con E ξ , si ricava la seguente legge logaritmica: E ξ · J(E) = log k · Eξ−µ = log k + (ξ − µ) log E, log ξ [JE ] che, a k e µ fissati, rappresenta la stessa retta individuata dalla (2.14) in cui la pendenza, tuttavia, è stata scalata di un fattore ξ, essendo pari, per l’appunto, a (ξ − µ). Un esempio di quanto detto è mostrato in figura 2.11. Figura 2.11: Spettro energetico differenziale scalato di un fattore ξ = 2, 6. In questo grafico sono evidenti i due cambiamenti di pendenza. L’immagine è stata tratta dall’articolo sui raggi cosmici presente nella Review di fisica particellare del 2014 [37]. 35 Detto ciò, dall’integrazione dell’equazione (2.13), è possibile ricavare anche la legge empirica che descrive il flusso integrale: ∞ k E −µ+1 dE = [J] · = [J] · k · · J(> E0 ) = [E]−µ −µ + 1 E0 E0 −µ k k E0 E0−µ+1 = [J] · = [J] · · · · E0 . [E]−µ µ − 1 µ−1 [E] Z ∞ E [E] −µ Considerando, quindi, che l’unità di misura del flusso integrale, indicata con [J> ], è uguale al prodotto fra l’unità di misura dell’energia e quella del flusso differenziale (ovvero [E] · [J]), dalla precedente equazione si ricava: k J(> E0 ) = · [J> ] µ−1 E0 [E] −µ E0 k · = · [E] µ−1 E0 [E] −µ+1 , e, ponendo le condizioni (2.16), si ottiene: k J(> E0 ) = · µ−1 E0 1 GeV −µ+1 · m2 1 , · sec · sterad (2.18) che descrive l’andamento della flusso integrale in funzione dell’energia di soglia E0 , caratterizzando cosı̀ lo spettro energetico integrale dei raggi cosmici, mostrato in figura 2.12. Utilizzando le equazioni (2.12) e (2.18), si può osservare inoltre quale è, a seconda dell’energia di soglia considerata, il numero totale dei raggi cosmici che, approssimativamente, giungono fino noi. Prendendo quindi i valori per E0 dati dall’energia di particella che: (i) non è più soggetta a modulazione solare, ≈ 100GeV ; (ii) si trova sul punto di ginocchio, ≈ 106 GeV ; (iii) si trova sulla caviglia, ≈ 109 GeV ; (iv) si trova al limite dello spettro energetico, ≈ 1011 GeV ; si ottengono i seguenti risultati: F > 102 GeV ' 1 F > 106 GeV ' 1 F > 109 GeV ' 1 F > 1011 GeV ' 1 particelle per m2 al secondo particelle per m2 all’anno particelle per km2 all’anno particelle per km2 ogni secolo 36 (2.19) Figura 2.12: Spettro energetico integrale dei raggi cosmici extrasolari (energie maggiori delle decine di GeV ). L’immagine raffigura il grafico del flusso integrale dei raggi cosmici in funzione dell’energia di soglia. Sono riportati, inoltre, alcuni degli esperimenti con cui sono state fatte le misurazioni, per i quali sono evidenziati gli intervalli energetici di funzionamento dei rivelatori utilizzati e il tipo di misurazione effettuata (diretta linea blu, indiretta linea rossa). Quest’immagine è stata tratta, per cortesia di M. Spurio, dal libro [46]. Da questi dati, che già da soli sono molto interessanti, si può capire come mai, ad altissime energie (approssimativamente da 106 GeV in su), le misurazioni del flusso vengono fatte indirettamente mediante l’osservazione degli sciami di particelle che sono creati dai raggi cosmici più energetici che incidono sull’atmosfera. Solo per valori dell’energia, minori dell’energia di ginocchio (attraverso esperimenti su palloni aerostatici di alta quota, satelliti o moduli spaziali - come ad esempio AMS - installati sulla Stazione Spaziale Internazionale) si riescono ad effettuare misurazioni dirette del flusso dei raggi cosmici. A causa della notevole diminuzione nell’intensità del flusso, all’aumentare dell’energia, per effettuare le misurazioni ad energie molto elevate sono necessari, infatti, rivelatori di grandi dimensioni che possano lavorare con tempi di esposizione molto lunghi, come si può intuire analizzando i risultati 37 riportati in (2.19). Per concludere, nell’immagine 2.12, è possibile osservare gli intervalli energetici di funzionamento dei rivelatori utilizzati nei vari esperimenti e il tipo di misurazione effettuata (misurazione diretta: linea blu, misurazione indiretta: linea rossa). 2.2.1 Densità di flusso e di energia A partire dal flusso differenziale è possibile ricavare anche la densità dei raggi cosmici. Spesso, in astrofisica infatti, si usa passare da un flusso di particelle alla densità numerica, definita come il numero n di particelle con velocità v che sono presenti nel volume unitario dV . Per ricavare, quindi, la relazione che sussiste fra n(v) ed il flusso, è utile introdurre la densità di corrente s che rappresenta il numero di particelle al secondo che attraversano l’unità di superficie dS, ovvero: def. s = d2 N ≡ n(v) · v dS · dt (2.20) Cosı̀, riprendendo la definizione (2.6), si vede chiaramente che s è legata al flusso differenziale dalla seguente relazione: Z Z s = dω dE J(E, ω). che, nel caso di flusso isotropo, si riduce all’espressione: Z s = 4π · dE J0 (E) . Inoltre, nel caso in cui si vogliano considerare contemporaneamente tutte le particelle con energia maggiore di E0 , è possibile, come per il caso del flusso differenziale, effettuare un integrazione in dE, ottenendo in questo modo: s = 4π · J0 (> E0 ) . (2.21) A questo punto, per poter utilizzare l’ultima espressione della (2.20) al fine di ricavare la densità di particelle, è necessario determinare prima la velocità dei raggi cosmici e, per questo motivo, si considerano le seguenti relazione relativistiche: E + mc2 E ET = = +1 2 2 mc p mc mc2 γ2 − 1 v β= = c γ γ= 38 dove: ET , mc2 ed E sono, rispettivamente, l’energia totale, di riposo e cinetica di una particella libera; γ è il noto fattore lorentziano e c è la velocità della luce. Da queste due espressioni infatti, si ricava: √ β(E) = E 2 + 2 E mc2 E + mc2 che permette di calcolare, in funzione della sua energia cinetica, il rapporto fra la velocità di una particella e quella della luce. In questo modo si può verificare che i raggi cosmici con energie superiori a qualche GeV per nucleone, la cui energia di massa è di circa 1 GeV , hanno una velocità vrc ≈ c e sono, quindi, delle particelle ultrarelativistiche. Calcolando, ad esempio, il fattore β per energie cinetiche di 1, 3 e 10 GeV , si ottiene: √ 3 ' 86, 6% β(1 GeV ) ' 2 √ 15 β(3 GeV ) ' ' 96, 8% √4 120 ' 99, 6% . β(10 GeV ) ' 11 che, appunto, è circa uguale ad 1. Considerando a questo punto le espressioni (2.20) e (2.21), per i raggi cosmici si ricavano le seguenti equazioni: 4π · J0 (> E0 ) c dnrc 4π (E) = · J0 (E) dE c nrc (> E0 ) = (2.22) (2.23) che rappresentano, rispettivamente, la densità numerica dei raggi cosmici con energie superiori ad E0 e la densità numerica differenziale. Grazie alla forma esplicita del flusso integrale e di quello differenziale, date da (2.18) e (2.17), è possibile, quindi, esprimere direttamente nrc e dnrc /dE come funzioni dell’energia: −µ+1 4π · k E0 num. particelle nrc (> E0 ) = · ≡ c · (µ − 1) 1 GeV m3 −µ dnrc 4π E num. particelle (E) = ·k· ≡ dE c 1 GeV m3 · GeV 39 (2.24) (2.25) Cosı̀, utilizzando la (2.24) e prendendo per k e µ i valori ricavati nel paragrafo precedente† , è possibile effettuare una stima della densità numerica dei raggi cosmici che, con un’energia superiore a 1 GeV , sono, per la maggior parte, di origine extrasolare. In questo modo, si ottiene perciò: nrc (1 GeV ) ≈ 4 · 10−4 4 · 10−10 = . m3 cm3 (2.26) Detto ciò, un’altra importante grandezza caratteristica dei raggi cosmici, è la densità di energia %rc . Questa può essere ricavata tenendo presente che dnrc /dE rappresenta, in realtà, la distribuzione di energia dei raggi cosmici e, quindi, la densità %rc sarà data semplicemente dal seguente integrale: Z Z ∞ 4π ∞ dnrc (E) dE = E · J0 (E) dE %rc (> E0 ) = E· dE c E0 E0 che, grazie a (2.25), porta alla seguente equazione: 4π · k %rc (> E0 ) = · c · (µ − 2) E0 1 GeV −µ+2 (2.27) Da qui, prendendo per k, µ ed E0 gli stessi valori che si sono utilizzati per calcolare la (2.26), si ottiene, per la densità di energia dei raggi cosmici di origine extrasolare, la seguente stima: %rc (1 GeV ) ≈ 10−3 eV GeV ≡ 1 . 3 m cm3 (2.28) A questo punto, per capire se le stime ottenute per nrc ed %rc rappresentano quantità piccole o grandi, è necessario confrontarle con altre grandezze astrofisiche. Per quanto riguarda nrc , questa può essere paragonata con la densità di materia del mezzo interstellare. Nel paragrafo 2.1.2, si era trovata, infatti, una densità di massa dell’ISM pari a 2, 7 · 10−24 g/cm3 , corrispondente ad una densità numerica di circa un protone per cm cubo, ovvero: nISM ≈ † 1 . cm3 (2.29) Si noti che per µ sono stati ricavati, in realtà, tre valori diversi che dipendono dall’energia dei raggi cosmici considerati (vedi 2.15). Tuttavia, dato che sono abbastanza simili, non importa quale di essi venga utilizzato per stimare nrc . In ogni caso, infatti, il valore ottenuto non cambia significativamente. Un ragionamento simile può essere fatto per la costante k che, a voler essere rigorosi, è stata ricavata solo per raggi cosmici con energie con energie che vanno da pochi GeV a 100 T eV (vedi testo a seguire della 2.17). 40 Dal rapporto fra nrc e nISM emerge quindi che, approssimativamente, solo un protone su 10 miliardi nel mezzo interstellare è un particella ultrarelativistica, ovvero un raggio cosmico. Per quanto riguarda la densità di energia, invece, è possibile considerare le seguenti quantità: ◦ la densità di energia del campo magnetico galattico; ◦ la densità di energia della radiazione cosmica di fondo; ◦ la densità di energia dovuta alla luce stellare. La prima si ricava dalle leggi dell’elettromagnetismo, per le quali, è noto che, in ogni regione di spazio in cui è presente un campo magnetico, c’è una corrispondente densità di energia data, nel sistema di unità Gauss, da: B2 . %B = 8π Considerando, quindi, un valore medio per il campo magnetico galattico di 5 µG (vedi par.2.1.3), si ottiene: %B ≈ eV 25 · 10−12 erg · ' 0, 6 . 8π cm−3 cm−3 che è confrontabile con la densità di energia dei raggi cosmici. Per la seconda, invece, bisogna considerare il fatto che la radiazione cosmica di fondo (spesso abbreviata con CMBR, dall’inglese cosmic microwave background radiation), che permea in maniera uniforme l’intero Universo, presenta uno spettro termico tipico di un corpo nero, con una temperatura di 2, 725◦ K a cui corrisponde un energia ECMBR = kB T ≈ 7 · 10−4 eV . Dalle misurazioni della densità numerica di fotoni della CMBR, che forniscono un valore di ≈ 400 fotoni per centimetro cubo, si ricava cosı̀ che, la densità di energia dovuta alla radiazione cosmica di fondo, è pari a: %CMBR ≈ 0, 3 eV cm−3 anch’essa, confrontabile con %rc . Infine, per la terza, utilizzando misure fotometriche della luce che arriva dalle stelle, si ricava: eV %star ≈ 4 · 10−2 . cm−3 che, a differenza delle altre due, è sensibilmente minore della densità energetica dei raggi cosmici. 41 Concludendo, come si è potuto vedere dal confronto di %rc con le grandezze appena ricavate, emerge con chiarezza come la densità di energia dei raggi cosmici, non essendo trascurabile rispetto alle altre, sia importante su scala galattica. 2.2.2 Isotropia e confinamento In questa sezione si discuterà della dipendenza o meno, dello spettro energetico, dalla direzione di arrivo dei raggi cosmici. É doveroso notare infatti, che, nonostante la definizione di flusso data all’inizio del paragrafo (vedi 2.6), quando è stato presentato il grafico dello spettro misurato (figura 2.10) non è stata fatta nessuna considerazione sulla sua dipendenza angolare. Questo perché in realtà, quello che emerge dalle misurazioni è che la maggior parte delle particelle di origine extrasolare, per la precisione quelle con un’energia che va dalle decine di GeV fino agli EeV † , ha una distribuzione di arrivo completamente isotropa, mentre solo quelle con energie superiori presentano una certo grado di anisotropia che cresce all’aumentare dell’energia. Per determinare il grado di anisotropia si definisce generalmente il parametro δ: Imax − Imin (2.30) δ= Imax + Imin dove Imax e Imin rappresentano, rispettivamente, il massimo e il minimo dell’intensità della radiazione misurata in funzione della direzione di osservazione. Nella tabella a seguire sono riportati i valori di δ ricavati per diverse energie cinetiche. Quindi, per capire a cosa possa essere dovuta questa crescita del grado di anisotropia all’aumentare dell’energia dei raggi cosmici, bisogna considerare † 1 EeV , che si pronuncia exaelettronvolt o esaelettronvolt, equivale a 1018 eV 42 che, come si è visto, questi sono costituiti da particelle cariche e, attraversando il mezzo interstellare, è possibile che risentano del campo magnetico galattico. É noto, infatti, che una particella carica, se si muove in una regione di spazio in cui è presente un campo magnetico, subisce un’alterazione della direzione della traiettoria a causa della forza che il campo esercita su di essa e, questa alterazione dipende dall’energia della particella e dall’intensità del campo magnetico. Una trattazione dettagliata di questo argomento è riportata nell’appendice B, nella quale si dimostra che, nel caso di un campo magnetico stazionario uniforme, la particella compie un moto elicoidale intorno alla direzione del campo con un raggio di curvatura rL , detto raggio di Larmor, pari al rapporto fra la rigidità magnetica della particella R (data dall’eq. B.7) e il campo magnetico B: rL = pc R = B Ze B dove p e Ze sono, rispettivamente, l’impulso e la carica della particella. Inoltre, come si è visto nella sezione 2.2.1, i raggi cosmici sono formati da particelle ultrarelativistiche e perciò, per rL vale l’approssimazione (B.12): rL ≈ E Ze B (2.31) Considerando quindi il valore medio del campo galattico, B ≈ 5 µG, per un protone‡ , ponendo Z = 1, si ottiene: −4 2, 2 · 10 pc 0, 22 pc rL = 220 pc 22 kpc per per per per E E E E = 1012 eV = 1015 eV = 1018 eV = 1020 eV (2.32) Come si può vedere, per energie minori degli EeV , il raggio di curvatura non arriva neanche alle centinaia di parsec. Considerando, perciò, che il campo magnetico nella Galassia è concentrato prevalentemente all’interno del disco galattico il quale ha un raggio di circa 16 kpc e uno spessore compreso fra 300 e 400 pc, se si confrontano queste dimensioni con i valori rL ottenuti per i raggi cosmici con un’energia minore di 1018 eV , emerge chiaramente che ‡ N.B. Il motivo per cui si considera un protone è che questo rappresenta la specie particellare più abbondante nei raggi cosmici e, inoltre, perché la rigidità magnetica dei nuclei più pesanti generalmente è circa uguale, entro un fattore 2, a quella del protone (vedi l’equazione B.17 nell’appendice B). 43 questi devono essere completamente confinati all’interno del piano galattico e, di conseguenza, che anche la loro origine deve essere galattica. Le irregolarità del campo magnetico galattico, distribuite casualmente su scale delle decine di parsec (vedi 2.8), agiscono dome centri di diffusione, deviando le direzioni delle traiettorie dei raggi cosmici galattici. Cosı̀ il percorso di queste particelle è assimilabile ad un cammino casuale ed il flusso che viene misurato è di conseguenza isotropo. La loro direzione di arrivo non punta perciò alla sorgente che li ha generati e non può essere utilizzata per localizzare la regione d’origine di queste particelle. Per i raggi cosmici con un energia di qualche EeV , invece, il raggio di curvatura, anche se è ancora molto minore del raggio della nostra Galassia, ha lo stesso ordine di grandezza dello spessore del disco e, di conseguenza, il confinamento dovuto al campo magnetico inizia ad essere inefficiente. In più, anche la loro traiettoria comincia ad essere meno influenzata dal campo magnetico e, perciò, iniziano a presentarsi delle anisotropie nel flusso misurato. Entro distanze minori del raggio del disco galattico, in cui la deflessione è piccola, la loro direzione di arrivo può quindi essere utilizzata per individuare delle possibili sorgenti locali in cui queste particelle vengono accelerate. Tuttavia, poiché non sono state ancora identificate sorgenti locali, è probabile che la maggior parte dei raggi cosmici, che vengono rivelati con queste energie, abbia un’origine extragalattica. Infine, le particelle con un’energia di 1020 eV o superiore, presentano un raggio rL che è molto maggiore di quello del disco galattico perciò, in questo caso, il campo magnetico non riesce più ad intrappolare i raggi cosmici all’interno della Galassia. La traiettoria di queste particelle, infatti, non viene praticamente alterata dall’interazione con il campo che diventa trascurabile e, per questo, si ha una forte anisotropia nella distribuzione angolare delle direzioni di arrivo che permette di individuare la regione in cui queste particelle sono state accelerate, anche se, a causa dello scarso numero di eventi misurati, dovuto ad un flusso molto ridotto, le fonti non sono ancora identificate. Per concludere, nella pagina a seguire sono riportate due immagini: (i) la prima, realizzata del Pierre Auger Observatory in cui è possibile vedere la presenza di un’anisotropia dei raggi cosmici ultra-energetici, nonostante lo scarso numero degli eventi misurati (solo 27); (ii) la seconda, realizzata dal “Computational Astrophysics Laboratory” dell’istituto giapponese Riken, che rappresenta una simulazione schematica della traiettoria seguita dai raggi cosmici di diversa energia all’interno del disco galattico. 44 Figura 2.13: La figura è stata tratta, per cortesia del “Pierre Auger Observatory”, dall’articolo [40]. L’immagine rappresenta una mappatura del cielo in coordinate galattiche in cui sono riportati, con cerchi di raggio 3, 1◦ centrati nelle direzioni di arrivo, 27 raggi cosmici di altissima energia (E > 57EeV ) rivelati dal suddetto osservatorio. Inoltre, con un asterisco rosso, sono indicate le posizioni di 472 nuclei galattici attivi con distanze minori di 75 M pc (tratte dal catalogo [51]). La zona blu indica la regione di spazio visibile dall’osservatorio. Come si può osservare, risulta abbastanza evidente la presenza di un’anisotropia nella distribuzione angolare della direzione di arrivo di questi raggi cosmici. Figura 2.14: La figura è stata tratta, per cortesia del “Computational Astrophysics Laboratory” dell’istituto giapponese Riken, dal sito internet [17]. Nell’immagine è riportata la traiettoria seguita dai raggi cosmici di diverse energie all’interno della Galassia. Le particelle di bassa energia sono randomizzate dal campo magnetico, mentre quelle con energie sopra ai 1020 eV percorrono traiettorie quasi rettilinee, conservando cosı̀ le informazioni direzionali utili per determinare la regione in cui sono state accelerate. 45 2.2.3 Composizione chimica Il grafico dello spettro energetico dei raggi cosmici, che è stato ricavato all’inizio del paragrafo 2.2 (riportato in figura 2.10) e che rappresenta il flusso differenziale in funzione dell’energia, è dato in realtà dalla sovrapposizione degli spettri di tutte le singole specie particellari di cui i raggi cosmici sono composti. Cosı̀, attraverso misurazioni effettuate ad alta quota e nello spazio, dove queste particelle, non avendo ancora interagito con l’atmosfera, presentano praticamente la stessa composizione che avevano al momento del loro arrivo nel nostro sistema solare, è stato possibile effettuare una rivelazione diretta dei flussi caratteristici delle diverse componenti dei raggi cosmici di origine galattica, determinando, in questo modo, la cosiddetta composizione chimica. Di seguito sono riportati, quindi, due grafici ricavati uno per la componente nucleare (figura 2.15), l’altro per quella leggera, ovvero elettroni e positroni, in cui sono state aggiunte anche le rivelazioni del flusso di antiprotoni (figura 2.16). Figura 2.15: Spettri energetici differenziali delle diverse componenti nucleari dei raggi cosmici. L’immagine, tratta dall’articolo sui raggi cosmici presente nella review di fisica particellare del 2014 [37], riporta anche gli esperimenti con cui sono state fatte le rivelazioni. 46 Figura 2.16: Spettri energetici della componente leggera, elettroni e positroni e di quella “rara”, ovvero antiprotoni. L’immagine è stata realizzata per mezzo del database http://tools.asdc.asi.it/cosmicRays.jsp, utilizzando le misure di AMS-02 riportate nell’articolo [4] e quelle di PAMELA tratte da [1–3]. Da questi grafici è possibile osservare che, per tutte le specie particellari, il flusso rivelato segue una legge di potenza dello stesso tipo della (2.13).† Inoltre, si può vedere che in generale vale approssimativamente quanto riportato nella seguente tabella: Da qui, perciò, emerge chiaramente che i nuclei più pesanti dell’elio contribuiscono solo con una piccola percentuale al flusso totale che viene osservato sulla Terra. Ciononostante, è proprio grazie allo studio della distribuzione delle abbondanze relative dei vari nuclei presenti nei raggi cosmici e dal confronto di quest’ultima con la composizione nucleare del sistema solare, che si riescono ad ottenere delle informazioni essenziali per la comprensione del† I parametri k e µ dell’eq. (2.13), ottenuti da un fit dei dati sperimentali, sono riportati negli articoli di Wiebel-Sooth et al. e di Hörandel [28, 52]. 47 l’origine (i processi di accelerazione) e della storia evolutiva (le modalità di propagazione) di queste particelle ultrarelativistiche. Nell’immagine a seguire sono riportate schematicamente le misurazioni sia della composizione chimica dei raggi cosmici galattici, che quella del nostro sistema solare. Figura 2.17: L’immagine riporta le abbondanze relative, all’energia di circa 1 GeV /nucleone, dei nuclei presenti nei raggi cosmici, normalizzate al silicio, posto pari a 100. In più sono riportate anche le abbondanze nucleari del sistema solare. L’immagine è stata tratta dall’articolo di Hörandel [29]. Dalla figura 2.17, si può osservare che c’è una notevole somiglianza tra le abbondanze relative delle diverse specie nucleari dei raggi cosmici e quelle presenti nel sistema solare. Le differenze, infatti, non superano quasi mai il 20%. In più, è interessante notare che, in entrambi i casi, sono presenti tutti gli elementi della tavola periodica e che quelli più leggeri, fino al ferro compreso, sono molto più abbondanti degli altri. Queste distribuzioni osservate, in realtà, sono entrambe dovute all’evoluzione della composizione “primordiale” dell’Universo degli elementi originati con il Big Bang, che da studi cosmologici risulta che 24% della massa è elio e che il restante 76% è idrogeno. Cosı̀, grazie a vari processi nucleari, in particolare alla nucleosintesi stellare (vedi fig. 2.18), è possibile che, in certe regioni dello spazio, questi elementi primordiali vengano trasformati in nuove specie atomiche, determinando in queste zone una nuova composizione chimica della materia. In questo modo, si può capire anche che le abbondanze relative rivelate nel nostro sistema solare, in realtà, sono rappresentative di tutta quella parte della Galassia che presenta una storia evolutiva simile (ovvero il disco galattico) e per questo motivo il termine “abbondanze del sistema solare” è talvolta usato come sinonimo di “abbondanze cosmiche”. 48 Da tutto ciò, si deduce che le differenze che si riscontrano fra la composizione dei raggi cosmici e quella del sistema solare sono dovute soprattutto ai processi di accelerazione e di propagazione di queste particelle. É proprio per questo motivo, infatti, che i dati ottenuti dalla rivelazione delle composizione chimica dei raggi cosmici sono fondamentali per lo studio delle loro sorgenti. Come si può vedere, le differenze più importanti corrispondono alla sovrabbondanza degli elementi leggeri litio, berillio e boro. Quello che si ricava, infatti, è che il rapporto fra le abbondanze di questi nuclei e quelle del carbonio, dell’azoto e dell’ossigeno, che sono di poco più pesanti, risulta molto diverso se calcolato per i raggi cosmici (RC) o per il sistema solare (SS). Per la precisione si ha: [Li] + [Be] + [B] [Li] + [Be] + [B] 5 ≈ 10 · (2.33) [C] + [N] + [O] [C] + [N] + [O] RC SS Un eccesso simile, anche se di entità ridotta, si verifica analogamente per gli elementi che si trovano prima del picco del ferro (vanadio, cromo e manganese) e per quelli prima del piombo (oro, mercurio e tallio). Queste differenze, come si vedrà nel prossimo capitolo, sono dovute agli effetti della propagazione dei raggi cosmici nella Galassia e sono molto importanti per fornire una misura della quantità del mezzo interstellare che hanno attraversato da quando sono stati accelerati. Per concludere, è opportuno riportare che, oltre agli isotopi stabili, i raggi cosmici contengono dei nuclei radioattivi. Di questi, quelli che vengono rivelati sono quelli con una vita media molto lunga e sono importanti perché le loro abbondanze possono essere utilizzate per stimare l’ordine di grandezza dell’intervallo temporale che sussiste fra l’accelerazione e l’osservazione dei raggi cosmici. Figura 2.18: Tavola periodica che mostra il modo in cui vengono prodotti i vari elementi. Per una immagine più dettagliata si veda il sito di Samarasingha ed Ivans http://www.cosmic-origins.org/index.html. 49 50 Capitolo 3 Propagazione dei raggi cosmici Come si è visto nel capitolo precedente, lo spettro delle varie componenti dei raggi cosmici che giungono fino a noi dipende da due processi fondamentali: l’accelerazione alle sorgenti e la propagazione nel mezzo interstellare. Tuttavia, per comprendere al meglio la fisica dei meccanismi di accelerazione, è necessario conoscere la composizione chimica delle sorgenti e, per questo motivo, per prima cosa è bene studiare la propagazione dei raggi cosmici, cosı̀ da riuscire a determinare, partendo dalle abbondanze osservate sperimentalmente, quale è effettivamente la composizione chimica della materia presente nelle regioni in cui avviene la loro accelerazione. Quello che si fa, quindi, è cercare di costruire un modello per la propagazione che sia il più possibile consistente con quanto viene misurato. In questo capitolo si affronterà in maniera abbastanza semplice questo problema, presentando i principi fondamentali alla base dei modelli di propagazione che possono essere utilizzati per descrivere le abbondanze dei raggi cosmici all’interno della Galassia. Per iniziare si considerano i risultati riportati nel paragrafo 2.2.2, dai quali emerge che la direzione di arrivo dei raggi cosmici, con energia minore degli EeV , è praticamente isotropa, fatto che, come si è visto, è ricollegabile all’interazione di queste particelle con il campo magnetico galattico. Entro queste energie, infatti, il raggio di Larmor dei raggi cosmici è molto minore delle dimensioni caratteristiche della Galassia e, di conseguenza, durante il loro moto, la traiettoria seguita da queste particelle subisce delle drastiche alterazioni. Le irregolarità del campo magnetico galattico, dovute alle fluttuazioni proprie del campo o alle crescenti instabilità causate dal moto dei raggi cosmici, fungono quindi da centri di scattering non collisionale che diffondono queste particelle ultrarelativistiche all’interno del volume galattico. 51 In questo modo, ciò comporta che il cammino seguito dai raggi cosmici di energia inferiore agli EeV è assimilabile, in buona approssimazione, ad un percorso totalmente casuale, ovvero un random walk, come si può vedere dalla prima immagine nella fig. 2.14 che, per comodità, è stata nuovamente riportata qui di seguito. Figura 2.14 Cosı̀, per descrivere come questo processo di diffusione, dalle sorgenti all’osservatore, modifica lo spettro di energia delle varie componenti dei raggi cosmici, è utile introdurre un’equazione differenziale alle derivate parziali, nota come equazione di trasporto dei raggi cosmici, che descrive l’evoluzione temporale della densità numerica differenziale Nα di una determinata specie particellare α, in funzione delle coordinate, delle perdite di energia e delle possibili iniezioni di nuove particelle dovute alle sorgenti. Per introdurre quest’equazione, si segue lo stesso procedimento presentato da M. S. Longair nel suo libro (“High Energy Astrophysics” [32, pag. 191]) e, per semplificare la notazione, di seguito verrà momentaneamente trascurato il pedice α. Per prima cosa, quindi, si definisce uno spazio delle fasi dato dal prodotto cartesiano fra l’usuale spazio delle coordinate e l’insieme delle energie permesse per una particella, rappresentato in figura 3.1. Sull’asse delle ascisse sono state riportate tutte le coordinate spaziali, indicate con x, mentre sulle ordinate è riportata l’energia. In questo modo, l’area individuata dal rettangolo di lati dx e dE, disegnato sempre in figura 3.1, permette di identificare con facilità la quantità N (E, x, t) dE dx, che rappresenta il numero di particelle, con energia compresa fra E ed E + dE, presenti all’interno della regione di spazio definita dall’intervallo [x ; x + dx]. Considerando, quindi, un volume infinitesimo dV dello “spazio ampliato”, dato dal prodotto fra dx e dE, si può definire un flusso generalizzato φ, attraverso una superficie dξ. In questo modo, a seconda del tipo di superficie che dξ ~ x e φE . Per la rappresenta, è possibile distinguere per φ due componenti, φ prima, infatti, dξ sarà uguale al prodotto tra una superficie dS, dello spazio convenzionale, e dE. Per la seconda, invece, sarà data direttamente da dx. 52 Figura 3.1: L’immagine rappresenta una schematizzazione dello spazio ampliato definito dal prodotto cartesiano fra il convenzionale spazio delle coordinate e l’insieme delle energie permesse. Il rettangolo individua il volume dV = dx · dE in cui sono contenute N (E, x, t) dx dE particelle. Nella figura è riportato anche il significato fisico dello spostamento di una particella lungo la direzione verticale, o lungo quella orizzontale. ~ x (E, x, t) e In questo modo, si ha che, da un punto di vista fisico, φ φE (E, x, t) rappresentano rispettivamente: 1) il numero delle particelle, con energia compresa tra E ed E + dE, che attraversa, nell’unità di tempo dt, la superficie dS, centrata in x ed ortogonale alla sua direzione. Nel grafico, queste particelle, sono ~ x ), nel caso di quelle che si spostano orizzontalmente: verso destra (+φ ~ x ), nel caso di diffusione nella stessa direzione di x; verso sinistra (−φ diffusione nella direzione opposta. 2) l’aumento o la perdita di energia subita, in un tempo infinitesimo dt, dalle particelle di energia E che sono contenute all’interno del volume infinitesimo individuato da [x ; x+dx]. A questa quantità corrispondono, nel grafico 3.1, gli spostamenti verticali dove, per la precisione, per spostamenti verso l’alto (+φE ) si ha un guadagno di energia, mentre per quelli verso il basso (−φE ) si ha una perdita. Pertanto, considerando la somma dei flussi entranti all’interno del rettangolo, si ottiene che la velocità di variazione della densità di particelle, in 53 questa regione evidenziata, è data dalla seguente equazione: ∂N (E, x, t) ~ x (E, x, t) − φ ~ x (E, x + dx, t)] dE + dE dx = [φ ∂t + [φE (E, x, t) − φE (E + dE, x, t)] dx + + Q(E, x, t) dE dx dove Q (E, x, t) dE dx rappresenta il contributo delle sorgenti. Esso è infatti il rate di iniezione, delle particelle con energia E, nel volume infinitesimo nello spazio delle coordinate individuato dall’intervallo [x ; x + dx]. Semplificando la notazione: ∂N ~ x − ∂φE + Q ~ ·φ = −∇ ∂t ∂E (3.1) ~ x , grazie alla prima legge A questo punto, osservando la definizione di φ di Fick che, in condizioni di flusso stazionario, descrive la diffusione spaziale per una qualsiasi grandezza scalare, che nel nostro caso sarà proprio N , si ottiene: ~ x = −D · ∇N ~ φ (3.2) dove D è, in generale, il tensore di diffusione noto come diffusività che dimensionalmente è pari a: [Lunghezza]2 · [T empo]−1 . Nel caso dei raggi cosmici, comunque, è bene osservare che grazie al loro moto totalmente casuale, D potrà essere assunto come un coefficiente scalare che non dipende dalla posizione. Inoltre, è possibile semplificare ulteriormente la (3.1) considerando il legame che esiste fra φE e N . Come si è visto infatti, il primo rappresenta il numero di particelle al secondo nel volume infinitesimo dx, mentre l’altro corrisponde al numero di particelle, con energia compresa in un intervallo infinitesimo dE, che sono presenti nello stesso volume dx. Indicando con n il numero di particelle, formalmente si avrà quindi: φE ≡ ∂ 2n ∂x · ∂t N≡ ∂ 2n ∂x · ∂E Da queste due espressioni si ricava, banalmente, la seguente: φE = N · ∂E = −b · N ∂t 54 (3.3) dove è stato definito il coefficiente b = −∂E/∂t che caratterizza le perdite continue di energia delle singole particelle e che, come si vedrà più avanti, dipende dal tipo di particella ed è una funzione dell’energia. In questo modo, grazie a (3.2) e (3.3), la (3.1) diventa: ∂(bα · Nα ) ∂Nα = D · ∇2 Nα + + Qα ∂t ∂E (3.4) in cui è stato esplicitato nuovamente il pedice α per indicare la particolare specie particellare a cui si fa riferimento. Questa espressione rappresenta cosı̀ una prima formulazione per l’equazione di diffusione alla quale, grazie a altre considerazioni di carattere fisico tratte dalle osservazioni sperimentali, potranno essere aggiunti dei termini supplementari, oppure modificati alcuni di quelli già presenti (come ad esempio il termine diffusivo D · ∇2 N ), permettendo di migliorare, in tal modo, il modello teorico della propagazione dei raggi cosmici. Per concludere, si riporta un semplice ragionamento che, basandosi sul caso dell’autodiffusione di un gas ideale, permette di determinare una possibile forma per il coefficiente di diffusione. Per prima cosa, si osserva che il flusso netto, attraverso una superficie dS di dimensione arbitraria che, senza restrizione di generalità, verrà assunta (a) ortogonale all’asse z, sarà dato dalla somma di un flusso ascendente (φz ) (d) e uno discendente (φz ) che rappresentano, rispettivamente, il numero di particelle al secondo che attraversano dS dal basso verso l’alto, in un caso, e dall’alto verso il basso nell’altro. Indicando quindi, semplicemente con φz il flusso netto, si ha che: (d) φz (z) = φ(a) z (z) + φz (z) (3.5) Inoltre, se si considera anche il libero cammino medio l, che rappresenta la distanza che in media percorrono due particelle prima di urtarsi (ovvero, prima di essere deviate dalla loro traiettoria), si ha che: (a) φ(a) z (z) = φz (z − l) e (d) φ(d) z (z) = φz (z + l) A questo punto, si osserva che, in generale, un flusso di particelle per unità di superficie, calcolato in un punto x, è uguale alla densità numerica in x moltiplicata per la loro velocità. Nel caso dei raggi cosmici, tuttavia, a causa del moto totalmente casuale, si avrà che le particelle che per unità di volume si spostano lungo l’asse z sono, mediamente, solo un terzo della densità totale N (z) e, di queste, una metà andrà verso l’alto e l’altra verso il 55 basso. In questo modo, considerando la velocità media hvi di queste particelle si avrà che: hvi ∂N (z) 1 (a) · N (z) − l · φz (z − l) = · N (z − l) · hvi ' 6 6 ∂z 1 −hvi ∂N (z) (d) φz (z + l) = − · N (z + l) · hvi ' · N (z) + l · 6 6 ∂z Perciò, utilizzando la (3.5), si ottiene: φz (z) ' − hvi · l ∂N (z) · 3 ∂z che, per la prima legge di Fick (3.2), porta alla seguente:† D' hvi · l 3 (3.6) Cosı̀ per i raggi cosmici, per cui hvi ≈ c, si ha: D≈ c·l 3 (3.7) Considerando, infine, per il cammino libero medio l il fatto che queste particelle si muovono in un campo magnetico, la distanza alla quale cambiano considerevolmente la loro direzione è data dal raggio di Larmor rL e, quindi, si può assumere l ≈ rL . In questo modo, per la (2.31), si ottiene: D≈ cE c · rL ≈ 3 3 Ze B (3.8) che evidenzia, per D, una dipendenza lineare dall’energia. Comunque, per avere un idea dell’ordine di grandezza del coefficiente di diffusione è possibile, attraverso semplici osservazioni (come mostrato M. Spurio nel suo libro “Particles and Astrophysics” [46, pag. 147]), ricavare per D la seguente approssimazione: D ≈ (1027 ÷ 1028 ) † cm2 s (3.9) Si noti che, in realtà, dalla prima legge di Fick per la componente lungo z del flusso, che da: φz = −Dz · ∂N/∂z, non si ricava direttamente la (3.6). Bisogna considerare infatti che, come si è osservato in precedenza, grazie al moto totalmente casuale dei raggi cosmici, D può essere assunto come un coefficiente scalare che non dipende dalla posizione e anche il cammino libero medio l può essere considerato uguale in tutte le direzioni. 56 3.1 Processo di spallazione nucleare Come si è visto all’inizio di questo capitolo, con semplici considerazioni sull’isotropia nella direzione di arrivo dei raggi cosmici galattici, si è stati in grado di derivare una prima formulazione per un’equazione di diffusione che ne descrive la propagazione (vedi 3.4). Questo risultato, tuttavia, può essere migliorato utilizzando anche i dati ottenuti dalle osservazioni della composizione chimica dei raggi cosmici. Nel paragrafo 2.2.3 si era visto infatti che, anche se le abbondanze relative della componente nucleare dei raggi cosmici presentano generalmente un andamento molto simile a quello che viene rivelato per il sistema solare, si osservano alcune discrepanze molto significative fra le due composizioni, delle quali, la più evidente è sicuramente quella che si verifica per i nuclei leggeri (litio, berillio e boro), cfr. figura 2.17. Cosı̀, per capire a cosa possa essere dovuto questo fenomeno singolare, è sufficiente ricostruire, sommariamente, le modalità con cui avviene l’evoluzione temporale della abbondanze nella composizione chimica dell’Universo. Per prima cosa si considera che, come è stato accennato sempre nel par. 2.2.3, da studi cosmologici emerge che la materia presente nelle fasi iniziali dell’Universo era formata, approssimativamente, per 3/4 da idrogeno (protoni) e per 1/4 da nuclei di elio. Tutti gli altri elementi più pesanti, che sono presenti nella tavola periodica, sono stati invece prodotti successivamente, grazie ai processi di fusione nucleare all’interno dei nuclei stellari, innescati dalla contrazione gravitazionale. L’insieme di questi meccanismi, noto come nucleosintesi stellare, riesce cosı̀, con l’esplosione delle stelle, ad arricchire la galassia di nuovi nuclei, modificando, di conseguenza, le abbondanze relative della materia presente nell’Universo. A questo punto, è molto importante osservare che, in questo tipo di processi, il litio, il boro ed il berillio fungono semplicemente da catalizzatori e, per questo motivo, essi non vengono praticamente prodotti dalla nucleosintesi stellare che, perciò, non è in grado di spiegarne, da sola, le abbondanze rivelate. Considerando invece che la composizione chimica dei raggi cosmici è ricca di questo tipo di particelle, si deduce che la produzione di Li, Be e B deve essere collegata, in qualche modo, con la propagazione dei raggi cosmici. Da qui, infatti, tenendo presente che lo spazio interstellare, in cui i raggi cosmici di origine galattica si propagano, non è vuoto (come si è visto nel paragrafo 2.1.2, esso è popolato dal mezzo interstellare, ovvero l’ISM, costituito principalmente da idrogeno primordiale), è possibile ricollegare la creazione di questi tre elementi leggeri ad un processo di frammentazione dei nuclei più 57 pesanti causato dall’urto di quest’ultimi con i protoni dell’ISM che, rispetto ai raggi cosmici, possono essere considerati praticamente fermi. In realtà, come si vedrà più avanti, il litio, il berillio ed il boro non sono gli unici elementi che vengono prodotti con questo meccanismo. Per questo motivo, infatti, è bene distinguere, nei raggi cosmici che giungono fino a noi, due componenti fondamentali: quella primaria e quella secondaria. La prima è costituita da quelle particelle che sono state effettivamente accelerate dalle sorgenti, la seconda, invece, è quella composta dai prodotti della frammentazione dei raggi cosmici primari che sono riusciti ad arrivare fino al nostro sistema solare. Per quanto detto perciò, risulta evidente l’importanza di studiare il fenomeno fisico della frammentazione nucleare (noto anche come spallazione) e, pertanto, è necessario introdurre il parametro che, in questo tipo di processo, caratterizza le interazioni fra le particelle. Questo parametro è la sezione d’urto totale (indicata con σ), che, nello specifico, serve a determinare la probabilità di interazione fra le particelle.† Cosı̀, considerando che la frammentazione dei raggi cosmici è dovuta all’urto con i protoni dell’ISM, quello che bisogna fare è determinare la sezione d’urto dei vari processi di tipo: NP + NB −→ NF + . . . (3.10) dove NP rappresenta il nucleo proiettile, altrimenti detto anche nucleo “padre”, che, urtando con un bersaglio NB , si frammenta in un nucleo più piccolo NF , detto nucleo “figlio”, e in molte altre componenti. Nel nostro caso, ovviamente, il bersaglio NB sarà dato dai nuclei di idrogeno del mezzo interstellare, mentre per NP si possono considerare, praticamente, tutti i nuclei presenti nei raggi cosmici. In questo modo, tramite lo studio sperimentale di queste reazioni nucleari, effettuato grazie a: esperimenti in laboratorio‡ , formule semiempiriche e simulazioni numeriche, è stato possibile ricavare i valori di σPF indicati nella tabella riportata a pagina seguente.§ Da questi dati è possibile determinare, quindi, la probabilità PPF con cui un nucleo padre P , a seguito dell’urto con un protone dell’ISM, frammentandosi rilascia un determinato nucleo figlio F . Questa quantità è data, infatti, † Per una trattazione più dettagliata di questa grandezza si rimanda all’appendice C. In realtà, a differenza dei raggi cosmici, negli esperimenti in laboratorio, per ovvi motivi tecnici, il proiettile è costituito dal protone, mentre i vari nuclei NP fungono da bersaglio. Ciononostante, come si può vedere osservando la formula (C.18), la sezione d’urto totale nei due casi è equivalente. § Con σPF si indica il la sezione d’urto totale del processo di frammentazione del nucleo padre NP che ha prodotto il nucleo figlio NF . ‡ 58 59 dal rapporto fra la sezioni d’urto parziale e quella totale, riportate in tabella. Dal confronto delle varie probabilità PPF , emerge cosı̀ che gli elementi maggiormente responsabili della produzione di litio, berillio e boro, sono il carbonio, l’azoto e l’ossigeno.† A questo punto, considerando che le abbondanze riscontrate nei raggi cosmici per gli elementi del gruppo M sono praticamente uguali a quelle osservate nel sistema solare, è possibile assumere che, in buona approssimazione, questi nuclei devono essere costituiti solo da raggi cosmici primari. Detto ciò, è bene notare che, come per il resto dei raggi cosmici, anche la componente M , dopo essere stata accelerata dalle sorgenti, è costretta, a causa del campo magnetico galattico, a seguire un moto fortemente caotico, limitato all’interno del volume della Galassia (vedi par. 2.2.2). Questo confinamento indotto dal campo magnetico, tuttavia, non è un confinamento perfetto. Le particelle, infatti, comportandosi come dei “random walkers”, dopo un tempo medio τc (detto tempo di fuga o di confinamento) riescono a raggiungere le regioni più esterne del disco galattico in cui il campo magnetico, essendo meno intenso, non riesce più a trattenerle. Pertanto, considerando anche il fatto che la Terra non possiede una posizione privilegiata all’interno della Galassia, la quantità descritta da τc rappresenta il tempo che mediamente intercorre fra l’accelerazione dei raggi cosmici alle sorgenti e la loro rivelazione. Cosı̀, introducendo il grammaggio ξ, che è definito come il prodotto fra la densità di materia attraversata per la lunghezza di attraversamento, a causa del confinamento si ottiene: ξc = %ISM · c · τc = %ISM · λc (3.11) dove, perciò, ξc rappresenta la quantità di mezzo interstellare che, per unità di superficie, viene effettivamente attraversata dai raggi cosmici confinati all’interno del volume galattico, mentre λc = c τc è semplicemente la distanza totale che questi hanno percorso. Come si può vedere dalla (3.11), determinando il valore di ξc che (attraverso lo studio dei processi di produzione dei nuclei L causati dalla frammentazione di quelli del gruppo M ) può essere ricavato indirettamente dal rapporto fra le abbondanze di NL ed NM , si può ottenere una stima per il tempo di confinamento τc . Tornando quindi al caso della frammentazione di C, N e O , si può costruire un modello semplificato per descrivere come, attraverso la loro propagazione vengono prodotti Li, Be e B. Per iniziare si assume che, alle sorgenti, non Per semplificare la notazione, da qui in avanti si utilizzeranno le lettera L e M per indicare, rispettivamente, i nuclei leggeri (Li, Be e B) e quelli “medi” (C, N ed O). † 60 siano presenti i nuclei leggeri (NL ), mentre i nuclei medi (NM ) presentano 0 una concentrazione pari a NM che, durante la propagazione, dovrà diminuire a causa della spallazione. Formalmente si può scrivere quindi: NL (0) = 0 NM (0) = NM0 (3.12) Inoltre, di seguito si riportano per comodità i valori delle sezioni d’urto per la frammentazione di NM in NL , estratti dalla tabella a pagina precedente. Nuclei Figli L Nuclei Padri M Z A 12 6C 14 7N 16 8O L 3 6 7 12,6 11,4 12,6 11,4 12,6 11,4 Be 4 7 9 10 9,7 4,3 2,9 9,7 4,3 1,9 9,7 4,3 1,9 17,3 31,5 252,4 16,0 15,0 280,9 8,3 13,9 308,8 10 11 Sezione d’urto totale B 5 Tabella 3.1: Sezioni d’urto parziali e totali (riportate in unità di mbarn) per collisioni inelastiche, a energia di circa 2, 3 GeV per nucleone, fra protoni e nuclei del gruppo M per la produzione dei nuclei L . Dai dati sopra riportati si può ricavare, attraverso una media pesata, la probabilità di produzione dei nuclei leggeri a seguito della spallazione di quelli medi, indicata con PM L , per cui si ottiene un valore di circa 0, 28. Cosı̀, utilizzando anche l’espressione (3.10), questo processo può essere descritto schematicamente come segue: NM + p −→ NL + . . . con una probabilità del 28% Ciò detto, considerando che la probabilità di interazione per un attraversamento infinitesimo dell’ISM è pari a:‡ PI = σ nISM dx = ‡ Si vedano le equazioni (C.11) e (C.14). 61 dx dξ ≡ λI ξI dove nISM è la densità numerica del mezzo interstellare (1 protone per centimetro cubo – vedi 2.29), si ricava la seguente equazione che descrive la riduzione della densità numerica di NM in funzione del grammaggio attraversato: NM (ξ) ∂NM (ξ) = − (3.13) ∂ξ ξM Con ξM si è indicato il grammaggio di interazione per i nuclei del gruppo M durante l’attraversamento dell’ISM. In questo modo, è chiaro che NM (ξ)/ξM rappresenta la quantità totale delle particelle create dalla frammentazione dei nuclei di C, N e O che si sono propagati, all’interno del volume galattico, per un tempo pari a ξ/(c · %ISM ). Il numero di nuclei leggeri prodotti in un volume unitario, per unità di grammaggio attraversato, sarà dato perciò dal prodotto di NM (ξ)/ξM per la probabilità di produzione, ovvero PM L . Si può definire, in maniera analoga a quanto è stato fatto per ricavare la (3.13), l’equazione che descrive la variazione della densità numerica dei nuclei di tipo L in funzione di ξ, per la quale si ha: NM (ξ) NL (ξ) ∂NL (ξ) = PM L · − ∂ξ ξM ξL (3.14) dove, in questo caso, oltre al termine di attenuazione per NL dovuto alla spallazione, si ha anche un termine che tiene conto dell’aumento dei nuclei leggeri determinato dalla frammentazione dei nuclei più pesanti. A questo punto, considerando le condizioni iniziali date da (3.12), integrando la (3.13) si ricava: NM (ξ) = NM0 · e−ξ/ξM (3.15) Per risolvere invece la (3.13), sostituendo l’espressione di NM (ξ) appena trovata e moltiplicando entrambi i membri dell’equazione per la quantità eξ/ξL , si ottiene: N0 ∂NL (ξ) = PM L · M · e · ∂ξ ξM −ξξ N0 ∂ NL (ξ) · eξ/ξL = PM L · M · exp ∂ξ ξM e ξ/ξL ξ ξL M − eξ/ξL · NL (ξ) ξL che porta alla seguente: ξ ξ − ξL ξM (3.16) Come si può vedere, la (3.16) equivale ad un equazione differenziale del tipo: x x ∂ f (x) · ex/a = C · exp − (3.17) ∂x a b 62 con: f (x) = NL (ξ) ; C = PM L · a = ξL ; b = ξM NM0 ξM (3.18) che, per la condizione iniziale: f (0) = NL (0) = 0 ammette la soluzione: f (x) = D · e−x/a − e−x/b (3.19) dove D è una costante che può essere facilmente ricavata sostituendo (3.19) in (3.17). In questo moto infatti, si ottiene quanto segue: x x ∂ − D · e−x/a − e−x/b · ex/a = C · exp ∂x a b h x x io x x ∂ n D · 1 − exp − = C · exp − ∂x a b a b 1 1 − D· = C b a D = C· ab a−b Da qui, grazie a (3.18) e (3.19), si ricava finalmente la forma esplicita di NL : ξL NL (ξ) = PM L · NM0 · · e−ξ/ξL − e−ξ/ξM (3.20) ξL − ξM che, insieme a (3.15), permette di ricavare il rapporto (RL M ) fra le abbondanze di Li, Be e B e quelle di C, N e O in funzione del grammaggio attraversato: ξL ξ ξ NL (ξ) = PM L · · exp − −1 (3.21) RL M (ξ) = NM (ξ) ξL − ξM ξM ξL Come si è visto nel paragrafo 2.2.3, dalle misurazioni del flusso delle varie componenti chimiche dei raggi cosmici, si ricava: RL M ≈ 0, 25 63 (3.22) che, grazie all’equazione precedente, permette di determinare il grammaggio ξt che queste particelle hanno attraversato. Dalla (3.21) si perviene infatti alla seguente formula: RL M ξL − ξM ξL ξL · ln · +1 (3.23) ξ = ξL − ξM PM L ξL Considerando la media delle sezioni d’urto totali, per i processi di spallazione dei nuclei N, C e O (riportati nella tabella 3.1), che dà: σM ≈ 280 mbarn per la (C.7)† si ottiene, per NM , un grammaggio d’interazione pari a: ξM ≈ 6 g cm2 In maniera analoga, per i nuclei leggeri, si ricavano: σL ≈ 200 mbarn e ξL ≈ 8, 4 g cm2 Inserendo cosı̀ questi risultati nella (3.23) si ottiene: ξt ≈ 4, 8 g cm2 che rappresenta, appunto, lo spessore di “materiale equivalente” che i raggi cosmici devono attraversare affinché presentino il rapporto RL M osservato sulla Terra (cfr. figura 3.2). Per verificare l’attendibilità di questo risultato è possibile applicare lo stesso tipo di ragionamento al caso della frammentazione del 4 He che è la causa principale della produzione del 3 He presente nei raggi cosmici. In questo modo, dalla misurazione del rapporto fra l’abbondanza del 3 He e quella dell’elio 4 He si ottiene per ξt un valore di circa 5 g/cm2 che è paragonabile con quello ricavato in precedenza.‡ Cosı̀, osservando che ξt coincide con il grammaggio che i raggi cosmici hanno attraversato a causa del confinamento (ovvero, ξc ), grazie alla (3.11) è possibile stimare anche la distanza che questi hanno percorso ed il loro tempo di confinamento, ottenendo rispettivamente: λc = ξc %ISM ≈ τc = 5 g cm−2 ' 3 · 1024 cm ' 1M pc 1, 67 · 10−24 g cm−3 λc 3 · 1024 cm ≈ ' 1014 s ' 3 · 106 y c 3 · 1010 cm s−1 64 (3.24) (3.25) Figura 3.2: Nell’immagine sono riportati i grafici delle frazioni relative, in funzione del 0 grammaggio attraversato, sia per i nuclei leggeri (RL = NL /NM ) che per quelli pesanti 0 (RM = NL /NM ), date rispettivamente dalle equazioni (3.20) e (3.15). Come si può vedere, per RL ≈ 0, 12 ed RM ≈ 0, 46, che riproducono il rapporto RL M ≡ RL /RM di circa 0,25 che osservato sperimentalmente, si ottiene un grammaggio ξt di poco inferiore a 5g/cm2 . Il risultato ottenuto graficamente è consistente con quello ricavato per via analitica. L’immagine è stata tratta dal libro di Spurio, [46, pag. 138]. Come si può vedere dalla (3.24), la distanza percorsa dai raggi cosmici è molto maggiore delle grandezze caratteristiche della Galassia (vedi fig. 2.3). Questo risultato, confermando che la traiettoria seguita da queste particelle non può essere rettilinea, è fortemente consistente con l’ipotesi di un cammino casuale fatta inizialmente, anche se non c’è alcuna dipendenza dall’energia, come invece ci si aspetterebbe (vedi ad esempio l’eq. 3.8).§ Da queste osservazioni sembrerebbe cosı̀ che il modello utilizzato riesca a descrivere abbastanza bene la propagazione dei nuclei dei raggi cosmici. Tuttavia, studiando il caso specifico del ferro, si può vedere che, senza ulteriori correzioni, questo modello non funziona altrettanto bene per riprodurre le abbondanze che vengono rivelate per manganese, cromo e vanadio. Utilizzando l’espressione (3.15), è possibile descrivere, in funzione del grammaggio attraversato, sia la frazione dei nuclei di Fe primari ([F e]P ) che † In questo caso il termine indicato con A rappresenta il numero atomico medio del mezzo interstellare, approssimativamente uguale ad 1. ‡ Per una trattazione più dettagliata di questo argomento si rimanda all’articolo di M. M. Shapiro del 1991 [45]. § Come si vedrà più avanti (paragrafo 3.2), con un modello più raffinato è possibile ottenete il tempo confinamento dei raggi cosmici in funzione della loro energia. 65 quella relativa ai prodotti secondari dovuti alla loro frammentazione ([F e]S ), per cui si ha rispettivamente: [F e]P (ξ) = e−ξ/ξF ; [F e]S (ξ) ≡ 1 − [F e]P = 1 − e−ξ/ξF In questo modo, considerando la una sezione d’urto del ferro, σF e ≈ 764 mbarn, da cui si ricava un grammaggio di interazione ξF e ≈ 2, 2 g/cm2 , se si utilizza il valore di ξc trovato in precedenza, si ottiene, per il rapporto fra le abbondanze dei prodotti della spallazione e l’abbondanza dei nuclei di Fe sopravvissuti, il seguente risultato: [F e]S (ξc ) 1 − e−ξc /ξF = ≈ 8, 7 [F e]P (ξc ) e−ξc /ξF (3.26) molto maggiore di quanto osservato sperimentalmente. Si può vedere infatti che, per i dati riportati nella tabella a pagina 59, circa 1/3 dei prodotti della frammentazione del ferro sono costituiti da nuclei di manganese, cromo e vanadio. Cosı̀, considerando il risultato ottenuto nell’equazione precedente, si dovrebbe avere che Mn, Cr e V, presi insieme, dovrebbero essere circa 2 volte più abbondanti del ferro. Ciononostante, come si può vedere dalla figura 2.17 (in cui il conto delle abbondanze è riportato in scala logaritmica), dalle rivelazioni emerge chiaramente il contrario, ovvero che l’elemento più abbondante è proprio il ferro. Per risolvere questo problema è necessario osservare che, in maniera implicita, si è assunto che tutte le particelle attraversano la stessa quantità di materia nel loro cammino verso la Terra. Questa imposizione molto restrittiva permette di determinare, come è stato fatto in questo paragrafo, un modello semplificato per la propagazione dei raggi cosmici nella Galassia, il cosiddetto modello a “slab” (ovvero modello a lastra o modello a strato unico). Riprendendo infatti l’equazione di trasporto 3.4 e aggiungendo i termini che descrivono il processo di spallazione nucleare, per il nucleo Ni si ottiene l’espressione generale: ∂(bi · Ni ) Ni X Nj ∂Ni = D · ∇2 Ni + + Qi − + Pji · (3.27) ∂t ∂E τi τ j j>i dove: τi è il tempo medio di frammentazione, collegato a ξi dalla seconda equazione della (C.9); Nj è il j-esimo nucleo padre e Pji è la probabilità che Nj , frammentandosi, produca proprio Ni . Cosı̀, trascurando la presenza di una diffusione, delle perdite di energia e dell’iniezione dalle sorgenti, si riottiene l’equazione di propagazione del modello a slab: ∂Ni Ni X Nj = − + Pji · (3.28) ∂t τi τj j>i 66 che evidenzia, appunto, una relazione uno ad uno fra la distanza attraversata (o “path length”) e la specie nucleare Ni prodotta. Come si è visto, tuttavia, questo modello sovrasemplificato è inadeguato per descrivere il rapporto fra le abbondanze del ferro e quelle di Mn, Cr e V. Questo è dovuto al fatto che, pur assumendo che le particelle di specie nucleari differenti abbiano percorso in media la stessa distanza, non significa che ciò debba essere vero anche per tutte le particelle di una singola specie. Quello che si avrà, infatti, è una distribuzione delle path length per ogni Ni . Un semplice metodo per individuare quale possa essere questo tipo di distribuzione, è quello di riprendere l’equazione 3.27 trascurando, questa volta, sia i termini che descrivono i processi di spallazione che quelli per le perdite di energia e l’iniezione dalle sorgenti. In questo modo si ricava la seguente espressione: Ni ∂Ni = D · ∇2 Ni − (3.29) ∂t τc dove è stato aggiunto l’ultimo termine in cui compare esplicitamente il tempo di confinamento τc . Da qui si può vedere che, se la propagazione delle particelle a partire dalle loro sorgenti è diffusiva (caso rappresentato dalla (3.1) con τc posto uguale ad infinito), ci si dovrebbe aspettare una distribuzione gaussiana delle path length fra le sorgenti e l’osservatore. Mentre, se le particelle rimangono semplicemente confinate all’interno del volume galattico per un tempo caratteristico τc , (3.1) con D = 0, si dovrebbe avere una distribuzione esponenziale, come si può osservare dalla seguente espressione: ∂Ni Ni + = 0 ∂t τc ⇒ Ni ∝ e−t/τc ovvero Ni ∝ e−ξ/ξc Questi due modelli, che descrivono in maniera abbastanza diversa le modalità con cui i raggi cosmici si propagano all’interno della Galassia e quelle con cui riescono a sfuggire dal confinamento in questa regione di spazio, vengono detti rispettivamente: modello diffusivo e modello a leaky box (trad. modello della scatola che perde). Ricapitolando: Modello diffusivo Modello a leaky box ∂Ni ∂(bi · Ni ) = D · ∇2 Ni + + ∂t ∂E Ni X Nj + Qi − + Pji · τi τj j>i ∂Ni Ni ∂(bi · Ni ) = − + + Qi + ∂t τc ∂E Ni X Nj − + Pji · τi τj j>i 67 Per concludere si riporta un semplice esempio che permette di capire come possa essere possibile risolvere il problema delle abbondanze del ferro considerando semplicemente una distribuzione delle path length non banale, come quella del modello a slab. Supponendo che, mentre 1/3 delle particelle attraversano un grammaggio di circa 10 g/cm2 , i restanti 2/3 ne attraversano una quantità trascurabile. In questo modo, le prime saranno fortemente soggette al fenomeno della spallazione, mentre le seconde non ne risentiranno affatto. Considerando le particelle per le quali ξ = 10 g/cm2 , dalla (3.21) e dalla (3.26) si ottengono, rispettivamente, il rapporto fra i nuclei leggeri e quelli medi e quello fra il ferro ed i prodotti della sua frammentazione, ovvero: [L ] = 0, 6 [M ] 1 3 [F e]S = 1 [F e]P ; 1 3 che implicano le seguenti: [L ] = 0, 6 · 1 [M ] 3 ; [F e]S = 1 [F e]P 3 Da qui, ricavando la quantità di [M ] e [F e]P che vengono effettivamente rivelate (di cui un terzo sono quelle sopravvissute all’attraversamento di un grammaggio pari a 10 g/cm2 , e le altre sono quelle che hanno attraversato un grammaggio trascurabile), si ottengono i seguenti rapporti fra le abbondanze: 0, 6 · 13 [M ] = 0, 25 0, 4 · 31 [M ] + 32 [M ] 1 3 1 3 [F e]P = 0, 5 [F e]P + 23 [F e]P che sono in pieno accordo con quanto viene rivelato sperimentalmente. 3.2 Variazione del tempo di confinamento in funzione in funzione dell’energia Nel paragrafo precedente si è discusso a lungo di come, attraverso una misura del rapporto tra le abbondanze di determinati elementi, sia possibile trarre delle informazioni utili per costruire un modello per la propagazione dei raggi cosmici. Tuttavia, bisogna osservare che, anche se non è stata fatta praticamente nessuna considerazione sulla possibilità di una dipendenza dall’energia per il tempo di fuga τc , in realtà quello che ci si aspetterebbe è che, 68 a causa del confinamento determinato dal campo magnetico galattico (vedi paragrafo 2.2.2), all’aumentare dell’energia, i raggi cosmici dovrebbero avere una probabilità crescente di riuscire a sfuggire dal volume di confinamento e, di conseguenza, il valore di τc dovrebbe diminuire. Da un osservazione più accurata dei risultati sperimentali, emerge che l’indice spettrale, che caratterizza l’andamento del flusso dei raggi cosmici in funzione della loro energia (cfr. con 2.13), non è uguale per tutte le specie chimiche di cui i raggi cosmici sono composti e, di conseguenza, anche il rapporto fra le abbondanze relative delle varie componenti deve variare con l’energia.† L’interpretazione più semplice, ma comunque ragionevole, che permette di spiegare questo fenomeno, è quella che, per mezzo del modello a leaky box, collega la variazione del rapporto al fatto che il tempo di confinamento (o, equivalentemente, il grammaggio ξc corrispondente a τc ) dipende dall’energia. Cosı̀, prendendo l’equazione per i nuclei leggeri (3.14) e aggiungendo il termine −NL /ξc che rappresenta le particelle che abbandonano il volume di confinamento, è possibile cercare una soluzione per lo stato stazionario (∂NL /∂t = 0), ovvero lo stato in cui si verifica una situazione di equilibrio fra i guadagni e le perdite per spallazione. In breve, quello che si ottiene è l’equazione: NM NL NL + PM L · − = 0 (3.30) − ξc (E) ξM ξL dove è stata esplicitata la dipendenza di ξc dall’energia. Con ovvi passaggi, quindi, partendo dalla (3.30) è possibile ricavare, per il rapporto RL M , la seguente espressione: RL M = NL PM L ξL ξc (E) = · NM ξM ξL + ξc (E) (3.31) Assumendo una dipendenza dall’energia, per il tempo di fuga τc , del tipo: τc = τ0 E E0 −κ con κ > 0 † (3.32) Il valore di RL M presentato nella (3.22), che è stato utilizzato per determinare le stime calcolate nel paragrafo precedente, è stato ricavato mediando sulle energie. Questo fatto è ragionevole, in quanto, come si può vedere dalla figura 3.3 per il caso del boro su carbonio, la diminuzione del rapporto fra le abbondanze è molto ridotta rispetto all’incremento di energia. Fra 1 e 102 GeV , infatti, mentre per l’energia cambiano due ordini di grandezza, il rapporto, passando da un valore di circa 0, 35 ad uno di approssimativamente 0, 1, non ne diminuisce neanche di uno. Entro l’energia di ginocchio, quindi, RL M non subirà grandi variazioni. 69 Figura 3.3: Il grafico riporta le rivelazioni del rapporto fra le abbondanze del boro e quelle del carbonio, calcolato in funzione dell’energia cinetica per nucleone, effettuate da diversi esperimenti. Come si può vedere risulta evidente una dipendenza del rapporto dall’energia. L’immagine è stata tratta, per cortesia di A. Oliva, dalla sua presentazione per gli AMS Days at CERN del 2015 [36]. si ricava: ξc = ξ0 E E0 −κ (3.33) che, nel limite delle alte energie, mostra come il grammaggio attraversato dai raggi cosmici a causa del loro confinamento sia molto minore del grammaggio di interazione dei nuclei leggeri, ξc ξL , e di conseguenza la (3.31) diventa: RL M ≈ PM L · ξc (E) ξM (3.34) Quindi, dato che PM L e ξM sono indipendenti da E, la dipendenza dall’energia di RL M è direttamente correlata con quella di ξc . Cosı̀, esplicitando la forma di quest’ultimo grazie alla (3.33), per l’espressione (3.34) si ha: −κ ξ0 E RL M (E) ≈ PM L · · ξM E0 L’analisi dei dati sperimentali, ottenuti dallo studio delle abbondanze relative, conferma, in buona approssimazione, l’andamento trovato e, in questo modo, giustifica anche l’assunzione (3.32) fatta per τc . Inoltre, dall’interpolazione delle misure, ad energie superiori ad 1 GeV per nucleone, si 70 ricava† : κ ≈ 0, 6 che determina, per il tempo di confinamento, la seguente espressione: −0,6 E (3.35) τc = τ0 E0 Il risultato appena ottenuto è estremamente importante, perché permette di avere informazioni sullo spettro energetico dei raggi cosmici alle sorgenti. Infatti, poiché il flusso che viene misurato sulla Terra è stazionario‡ , ci deve essere equilibrio tra: ◦ lo spettro energetico misurato, J(E) ∝ E −2,7 ; ◦ lo spettro energetico alle sorgenti, Q(E) ∝ E −? ; ◦ la probabilità di fuga, τc (E) ∝ E −0,6 . Quindi, considerando che con N si è indicata la densità numerica differenziale dei raggi cosmici (che nel capitolo precedente era stata indicata con dnrc /dE), si riporta di seguito l’equazione (2.23), per la quale si ha: N (E) = 4π · J(E) c In questo modo, dal modello a leaky box, trascurando le perdite di energia e i processi di spallazione, si ricava: N (E) 4π J(E) ∂N = − + Q(E) = · + Q(E) ∂t τc (E) c τc (E) che nel caso stazionario porta alla seguente: Q(E) ∝ J(E) E −2,7 ∝ −0,6 = E −2,1 τc (E) E (3.36) Il modello che descrive le sorgenti di raggi cosmici nella Galassia, deve prevedere una dipendenza dall’energia del tipo ≈ E −2 . Il modello di Fermi prevede proprio un andamento funzionale di questo tipo. † Questo risultato, tratto dall’articolo di Obermeier et al. del 2012 [35], è stato calcolato per il rapporto delle abbondanze del boro su quelle del carbonio, che è quello che viene misurato meglio. ‡ Il fatto che il flusso rivelato sia costante, pur essendo ragionevole, è solo un’ipotesi, infatti le scale temporali su cui vengono osservati i raggi cosmici sono molto ridotte se paragonate, ad esempio, con il tempo di fuga. Si pensi infatti che, mentre dalla loro scoperta sono passati solo ≈ 102 y (ovvero circa un secolo), come si è visto, il tempo di confinamento è nell’ordine di 106 y (ossia, milioni di anni). 71 3.3 Componente leggera dei raggi cosmici Come è stato riportato nel paragrafo 2.2.3 (vedi figura 2.16), nei raggi cosmici è presente anche una cerca abbondanza di elettroni e positroni che, avendo una massa molto più piccola di quella dei nuclei, vengono comunemente indicati come la componente leggera dei raggi cosmici.† Il motivo per cui è importante fare questa distinzione fra la componente nucleare e quella leggera è che le modalità con cui avviene la propagazione, nei due casi, sono abbastanza diverse. Per capire come questo sia vero, di seguito si riporta l’equazione di trasporto del modello a leaky box (ricavata nel paragrafo 3.1) per una generica particella i. Ni ∂(bi · Ni ) Ni X Nj ∂Ni = − + + Qi − + Pji · ∂t τc ∂E τi τj j>i (3.37) Per prima cosa si può osservare quindi che, nel caso di e− ed e+ , non si avrà ovviamente nessuna perdita per frammentazione e quindi il termine −Ni /τi può essere rimosso. Inoltre, per quanta riguarda la produzione di elettroni e positroni per mezzo della spallazione, il processo dominante è quello dato dall’urto di un protone ultrarelativistico dei raggi cosmici con un protone del mezzo interstellare. Con queste semplici considerazioni, si ottiene per la (3.37) la seguente forma: Ni ∂(bi · Ni ) ∂Ni = − + + Qi + c n ISM σpe± Np ∂t τc ∂E (3.38) dove: n ISM è la densità numerica del mezzo interstellare; σpe± rappresenta la sezione d’urto del processo di spallazione fra i due protoni e Np è la densità numerica differenziale dei protoni dei raggi cosmici (cfr. C.8). In particolare, la differenza sostanziale, fra la propagazione della componente leggera e di quella nucleare, emerge dalla natura dell’assorbimento energetico a cui queste particelle sono soggette. Infatti, le perdite continue di energia descritte dal termine bi (E), sono dovute sostanzialmente ai processi fisici sottoelencati che, tranne per la ionizzazione, sono inversamente proporzionali a mi 2 , dove mi è la massa della particella considerata. ◦ Ionizzazione: le particele cariche che attraversano un mezzo vanno incontro a perdite di energia continue e ad una deflessione della loro direzione originaria. Questi effetti sono principalmente dovuti alle collisioni inelastiche con gli elettroni atomici del materiale attraversato e † Per fare un esempio, si consideri che il rapporto fra la massa dell’elettrone e quella del nucleo più leggero, ovvero quello di idrogeno (formato solo da un protone), è pari a: 5 · 10−4 . 72 a quelle elastiche con i nuclei dello stesso materiale. Le perdite per ionizzazione comprendono, quindi, sia la ionizzazione di atomi o ioni che l’eccitazione di stati atomici o ionici. É interessante osservare che, questo tipo di perdite di energia, gioca un ruolo importante nel riscaldamento e nella ionizzazione di nubi molecolari fredde (temperature di circa 10 ÷ 50 K) presenti nel mezzo interstellare. A tali temperature queste nubi dovrebbero essere completamente neutre, in assenza di sorgenti ultraviolette. Tuttavia i raggi cosmici che permeano la nube, attraverso questo processo di perdita, la ionizzano e la riscaldano. Si ritiene, infatti, che questo sia il processo responsabile della produzione di livelli di ionizzazione di bassa intensità osservati all’interno delle nubi giganti. ◦ Bremsstrahlung o radiazione di frenamento: è la radiazione associata con la variazione di quantità di moto di una particella carica in un campo elettrico. Ovunque ci sia un gas di elettroni e/o nuclei si ha emissione di questo tipo di radiazione, che viene detta anche emissione free–free (per sottolineare il fatto che si tratta di una transizione fra due stati energetici non legati). ◦ Sincrotrone: a causa dell’interazione fra una particella carica in moto e il campo magnetico che tende a curvarne la traiettoria, viene emessa una radiazione, detta appunto di sincrotrone. ◦ Compton inverso: spesso indicato con l’acronimo inglese IC (che deriva da inverse compton), è quel processo di perdita dovuto all’urto inelastico di una particella leggera (ad esempio un elettrone) molto energetica con un fotone di bassa energia. Per questo, si ha compton inverso ogni volta che un e− si propaga in un gas di fotoni, ovvero in una regione dove è presente una radiazione elettromagnetica, come ad esempio la CMB (radiazione cosmica di fondo), la luce stellare, le radiazione radio, ecc..‡ Questi processi, che nel caso dei nuclei sono trascurabili, per gli elettroni ed i positroni risultano invece determinanti. ‡ Mentre il processo di sincrotrone è “limitato” alla Galassia, grazie al fatto che la CMB permea l’intero Universo, l’IC è presente praticamente ovunque, anche nello spazio intergalattico dove invece, essendo praticamente assente il campo magnetico (B ≈ 0), il sincrotrone non è presente. 73 Alla luce di quanto detto, è utile scomporre il termine bi (E) nelle seguenti componenti: dE dE dE dE + + + (3.39) b(E) = dt ion dt brs dt sin dt ic dove per comodità si è omesso il pedice i. Quindi, mentre per la componente nucleare questa espressione si riduce banalmente a:† dE b(E) ≈ dt ion per quella leggera non è possibile fare a priori alcuna semplificazione. Per questo motivo si introducono i cosiddetti tempi scala τh , caratteristici di un particolare processo di perdita h, che sono definiti come: def. Z Ef τh = − Ei dE (dE/dt)h con Ef = Ei 2 (3.40) dove Ei ed Ef sono, rispettivamente, l’energia iniziale e quella finale della particella che subisce il processo, mentre (dE/dt)h rappresenta una delle componenti di b(E), riportate nella (3.39). Con i tempi scala è possibile fare la seguente sostituzione, in maniera del tutto analoga a quanto è stato fatto nel par. 3.1 per passare da un modello diffusivo della propagazione a quello a leaky box. Per cui:‡ 1 1 1 1 ∂(b · N ) −→ − N · + + + (3.41) ∂E τion τbrs τsin. τic dove si sono esplicitati i vari τh per i diversi processi di perdita sopra riportati. In questo modo, utilizzando la (3.41) nell’equazione di trasporto (3.38), si ottiene: 1 1 1 1 1 ∂N = −N · + + + + + Q + c n ISM σpe± Np (3.42) ∂t τc τion τbrs τsin τic † Per i nuclei, comunque, queste anche le perdite per ionizzazione non sono molto intense, infatti, già ad energie di poco superiori a 10 GeV , anche questo tipo di perdite risultano trascurabili. Questo giustifica il fatto che, nei paragrafi precedenti, si è sempre fatta l’assunzione b(E) ≈ 0. ‡ L’analogia nasce dal fatto che, considerando lo spazio delle fasi rappresentato in figura ∂ 3.1, il termine ∂E · [b(E) N (E)] può essere visto come una “diffusione” in energia, infatti, essendo uguale al flusso φE , soddisfa un’equazione dello stesso tipo di quella verificata da φx nel caso della diffusione spaziale (cfr. 3.2). 74 Come si può vedere dalla (3.42), è il tempo scala più breve quello che incide maggiormente sulla propagazione. A questo punto, senza addentrarsi troppo nello studio dei fenomeni fisici alla base dei suddetti processi di perdita (per il quale si rimanda al libro di Longair [32]), di seguito si riporta semplicemente il tipo di andamento che presentano le varie componenti di b(E), in funzione dell’energia. dE ∝ ln E dt ion dE ∝ E2 dt sin dE ∝ E dt brs dE ∝ E2 dt ic (3.43a) (3.43b) Inoltre, considerando anche il fatto che ad alte energie per il caso della ionizzazione si può assumere (dE/dt)ion ≈ costante, grazie all’eq. (3.40) si ricavano le seguenti: Z Ei /2 Ei dE = τion ∝ − 2 Ei Z Ei /2 dE τbrs ∝ − = ln 2 E Ei Z Ei /2 dE = Ei−1 τsin e τic (Ei ) ∝ − 2 E Ei da cui si ottengono le leggi di proporzionalità per i tempi scala dei vari processi di perdita in funzione dell’energia iniziale della particella, ovvero: τion (Ei ) ∝ Ei τbrs (Ei ) = cost. τsin (Ei ) e τic (Ei ) ∝ Ei−1 (3.44a) (3.44b) (3.44c) Studiando i casi asintotici, si può vedere facilmente che alle basse energie domina la ionizzazione, mentre alle alte energie, dove i tempi scala più piccoli saranno τsin e τic , i processi di assorbimento determinati sono quelli di sincrotrone e di compton inverso. Da un’analisi più accurata, si ricava infatti il grafico riportato in figura 3.4 che conferma quanto osservato e, in particolare, mostra come, per energie superiori a 10 GeV , gli unici processi rilevanti sono appunto sincrotrone ed IC. Detto ciò, è possibile determinare anche il tipo di dipendenze dall’energia che caratterizza la distanza che mediamente viene percorsa dagli elettroni, o equivalentemente dai positroni, nel caso di energie maggiori di 1 GeV 75 Figura 3.4: Nell’immagine sono riportati i grafici dei tempi scala in funzione dell’energia sia per la componente leggera che per quella nucleare. (dove sincrotrone e compton inverso iniziano ad essere i principali responsabili dell’assorbimento di energia). Per questo si considera che, nel caso di una diffusione di queste particelle, per lo spostamento λ vale la legge di proporzionalità: p λ ∝ D · τ(sin+ic) dove D è ovviamente il coefficiente di diffusione, che si assumerà indipendente dall’energia, mentre τ(sin+ic) è il tempo scala dato dalla somma di τsin e τic . In questo modo, si ricava quindi la seguente relazione: λ(Ei ) ∝ D Ei 1/2 che, nel caso Ei > 10 GeV , grazie alla stima del coefficiente D data dalla (3.9), porta a: λ(> 10 GeV ) . 10kpc che è minore del raggio della Galassia e, mostra quindi, come la componente leggera dei raggi cosmici che viene osservata debba essere di origine galattica e, in particolare, maggiore è l’energia meno “strada” avranno percorso le particelle. A questo punto, riprendendo l’equazione di trasporto (3.38) e studiando il caso stazionario, è possibile vedere come agiscono i processi di perdita sullo spettro emesso dalle sorgenti. Per prima cosa, quindi, si considera una distribuzione infinita ed uniforme delle sorgenti che iniettano gli e− con uno spettro del tipo: Q(E) = k E −p (3.45) 76 Trascurando quindi, nella (3.38) la diffusione ed il termine di spallazione, si ottiene: ∂[b(E) · N (E)] = −Q(E) ∂E da cui si ricava la seguente: Z Z d[b(E) · N (E)] = − Q(E)dE Cosı̀, considerando che per E che tende ad infinito si ha N (E) → 0, l’equazione precedente può essere integrata fra E ad ∞, ottenendo:† N (E) = k E −(p−1) (p − 1) b(E) Da qui, per la (3.39) e le (3.43), si ricava che: ◦ se domina la ionizzazione: N (E) ∝ E −(p−1) =⇒ spettro più piatto; ◦ se domina la bremsstrahlung: N (E) ∝ E −p =⇒ spettro inalterato; ◦ se dominano sincrotrone e IC: N (E) ∝ E −(p+1) =⇒ spettro più ripido. Nella fig. 3.5, è rappresentato lo spettro energetico che viene rivelato per gli elettroni di alta energia presenti nel mezzo interstellare.‡ Dal grafico, considerando il caso stazionario, si può osservare che: a) per energie comprese fra 10 e 100 M eV , l’indice spettrale di N (E) è pari a circa 1,6 e, poiché in questo caso domina la ionizzazione (cfr. figura 3.4), N (E) è proporzionale a E −(p−1) , e quindi si ricava che p−1 ≈ 1, 6. Cosı̀, utilizzando la (3.45), si ottiene: Qa (E) ≈ k E −2,6 † Per la precisione, tenendo conto anche della (3.45), l’integrale che è stato effettivamente R∞ R0 R∞ svolto è il seguente: [b(E)N (E)] d[b(E) · N (E)]0 = − E Q(E 0 )dE 0 ≡ −k E E 0−p . ‡ Si noti che, ad E < 10 GeV , lo spettro locale di e− è distorto dal vento solare (la densità viene soppressa e si aggiunge una decelerazione adiabatica). Il flusso misurato sulla Terra, per le basse energie, non è rappresentativo del flusso nell’ISM. Tuttavia quest’ultimo è deducibile da misure indirette, come ad esempio quelle dello spettro radio nell’alone della Galassia dovuto ad una emissione di sincrotrone generata dagli elettroni in moto nel campo magnetico galattico. 77 Figura 3.5: L’immagine, tratta dal libro di Longair [33, pag. 284], è una rappresentazione schematica dello spettro energetico degli elettroni nel mezzo interstellare. Come si può vedere sono evidenziati i punti in cui avviene un cambiamento dell’indice spettrale, a seconda di quali sono i processi di perdita determinanti. I valori degli indici spettrali, riportati in figura sono stati ricavati sperimentalmente. b) per energie comprese fra 10 e 100 GeV , l’indice spettrale di N (E) è pari approssimativamente a 3,3. Tuttavia, essendo ora dominanti le perdite per compton inverso e sincrotrone, si ha che N (E) ∝ E −(p+1) e quindi, p + 1 ≈ 3, 3 , per cui si ricava la seguente espressione: Qb (E) ≈ k E −2,3 Come si può vedere, Qa ≈ Qb . Questo risultato è molto importante perché suggerisce che lo spettro alla sorgente degli e− segue una legge di potenza con indice spettrale p ≈ 2, 5 fra 100 M eV e 100 GeV , ovvero: Q(E) ≈ k E −2,5 3.3.1 per 10 M eV < E < 100 GeV Eccesso di positroni Per quanto visto nel paragrafo 3.3, l’origine degli elettroni è dovuta presumibilmente agli stessi processi che determinano l’accelerazione della componente nucleare dei raggi cosmici (ciò significa che le sorgenti sono probabilmente le stesse). Gli e− , infatti, possono essere emessi da sorgenti primarie (quali ad esempio supernovae, pulsars, nuclei galattici attivi, ecc.) oppure delle interazioni dei protoni con il mezzo interstellare tramite il processo seguente: prc + p ISM −→ π ± −→ µ± −→ e± (3.46) 78 . Tuttavia, anche se questo meccanismo tende a produrre lo stesso numero di positroni e di elettroni, quello che si osserva sperimentalmente, fino a qualche decina di GeV , è che il rapporto fra le abbondanze relative del numero di e+ ed quello di e− ha un valore, pressapoco del 10%. Questo risultato può essere spiegato supponendo che i positroni siano, quasi esclusivamente, di origine secondaria (ovvero prodotti praticamente solo dai processi di frammentazione nell’ISM). Se fossero state presenti anche delle sorgenti primarie, infatti, la frazione osservata avrebbe dovuto essere del 50%. Ciononostante, misure recenti condotte da esperimenti spaziali (tra i quali, le più importanti sono quelle riportate da PAMELA ed AMS), hanno mostrato un aumento della frazione di positroni al disopra di 10 GeV , invece che una diminuzione, come previsto dal modello standard della propagazione dei raggi cosmici. Questo fenomeno sembrerebbe quindi indicare la presenza di una produzione primaria anche per gli e+ . A questo punto, per capire bene di che tipo di eccesso si tratta, è utile ricavare esplicitamente l’equazione di trasporto sia per gli e− e che per gli e+ , che possono essere dedotte a partire dalla (3.42). In questo modo, infatti, reintroducendo i pedici per distinguere di nuovo le particelle, si ottengono le seguenti espressioni: Ne− ∂Ne− = − − Qe− + (c n ISM σpe− ) · Np ∂t τe± (3.47) ∂Ne+ Ne+ = − − Qe+ + (c n ISM σpe+ ) · Np ∂t τe± (3.48) dove con τe± si è indicato il minore fra i tempi riportati nella (3.42) poiché, come si è visto, è quello che determina maggiormente la diminuzione del numero di particelle.† A questo punto, si assume che: 1) non ci sono sorgenti primarie di positroni, ovvero Qe+ = 0; 2) le sorgenti primarie degli elettroni sono parametrizzate in modo tale per cui: Qe− = kpe− · Qp dove Qp è il rate di iniezione alle sorgenti dei protoni e kpe− è un coefficiente adimensionale pari a ≈ 10−3 ; † Si noti che, dato che positroni ed elettroni hanno la stessa massa, essi presentano anche gli stessi tempi di scala, a prescindere dal processo di perdita considerato. 79 3) per i protoni possono essere trascurate le perdite di energia e i processi si spallazione, cosicché, nel caso stazionario si ha: − Np + Qp = 0 τc =⇒ Np = Qp · τc dove τc è il tempo di confinamento. In questo modo, considerando tutte queste ipotesi, le equazioni (3.47) e (3.48) nel caso stazionario si riducono alle seguenti: Ne− = kpe− · Qp + (c n ISM σpe− ) · Qp τc τe± (3.49) Ne+ = (c n ISM σpe+ ) · Qp τc (3.50) τe± Facendo, quindi, il rapporto fra l’espressione (3.50) e la (3.49) si ottiene: kpe− · Qp + (c n ISM σpe− ) · Qp τc Ne+ = = Ne− (c n ISM σpe+ ) · Qp τc τpe+ σpe− = kpe− · + τc σpe+ (3.51) dove, facendo uso della definizione (C.8), si è posto τpe+ = (c n ISM σpe+ )−1 . In questo modo, grazie alla (3.51), si può ricavare finalmente la frazione di positroni F , che è data dalla seguente espressione: −1 σpe− τpe+ 1 Ne+ + F = ≡ = 1 + kpe− · (3.52) N Ne+ + Ne− τc σpe+ 1 + Ne−+ e Cosı̀, esplicitando la dipendenza dell’energia per il tempo di confinamento (cfr. 3.35) e tenendo presente che il rapporto σpe− /σpe+ è pari a circa 0, 3÷0, 5, per la (3.52) si ottiene: −1 −3 τpe+ 0,6 F (E) ≈ 1, 4 + 10 · E (3.53) τ0 Come si può vedere dalla (3.53), senza una produzione primaria di e+ alle sorgenti, la frazione di positroni dovrebbe decrescere con l’energia. Tuttavia, come è riportato nel grafico in figura 3.6, dalle misurazioni emerge che, all’aumentare dell’energia, dagli 8 GeV in su si riscontra un aumento significativo della frazione di positroni (è questo il fenomeno a cui ci si riferisce quando si parla di eccesso di positroni ). 80 Figura 3.6: Frazione di positroni misurata da AMS-02 (cerchi rossi) confrontata con l’andamento previsto dal modello standard della propagazione dei raggi cosmici. L’immagine è stata tratta dal sito ufficiale di AMS-02, http://www.ams02.org/2014/09/, articolo: “New results from the Alpha Magnetic Spectrometer on the International Space Station”. Un modo abbastanza semplice, dal punto di vista matematico, per risolvere questo problema è quello di supporre che esista, anche per i positroni, una sorgente primaria. In questo senso, si costruisce infatti un modello “minimale” in cui i flussi di e+ e di e− sono dati rispettivamente da: Je+ = Ce+ · E −γ+ + Cs · E −γs · eE/Es (3.54a) Je− = Ce− · E −γ− + Cs · E −γs · eE/Es (3.54b) dove: ◦ Ce+ e Ce− sono i coefficienti della componente di origine secondaria, rispettivamente, per il flusso di positroni e per quello di elettroni; ◦ Cs è il coefficiente che caratterizza lo spettro della sorgente; ◦ γ+ , γ− e γs sono gli indici spettrali corrispondenti alle varie componenti del flusso; ◦ Es è l’energia di cut-off caratteristica per lo spettro della sorgente. Come si può vedere, questo modello dipende solo da 5 parametri, che dovranno essere determinati dalle misure sperimentali. In questo modo, infatti, 81 Figura 3.7: L’immagine mostra il fit dei dati sperimentali ottenuti da AMS-02. effettuando il fit dei dati rivelati da AMS-02, in un range di energia che va da 1 a 350 GeV , si ottengono i seguenti risultati: 1◦ ) γ− − γ+ = 0, 63 ± 0, 03 : lo spettro dei positroni è meno energetico di quello degli elettroni (diminuisce più rapidamente); 2◦ ) γ− − γs = 0, 66 ± 0, 05 : lo spettro delle sorgenti è più energetico di quello degli elettroni (diminuisce meno rapidamente); 3◦ ) Ce+ /Ce− = 0, 091 ± 0, 001 : il flusso secondario dei positroni è circa il 10% di quello degli elettroni; 4◦ ) Cs /Ce− = 0, 0078 ± 0, 00012 : il flusso di elettroni alla sorgente è circa l’1% di quello degli elettroni secondari; 5◦ ) 1/Es = 0, 0013 ± 0, 0007GeV −1 : che corrisponde ad un’energia di cut-off pari a 760+1000 −280 GeV . che, come si può vedere dalla figura 3.7, permettono di riprodurre fedelmente lo spettro rivelato. 82 Capitolo 4 Accelerazione 4.1 Considerazioni energetiche sulle sorgenti di raggi cosmici Come si è visto , a causa del campo magnetico, i raggi cosmici con energie minori degli EeV sono confinati nel disco galattico e questo fa supporre che la loro origine sia dovuta a delle sorgenti che si trovano all’interno di questa regione di spazio. Attraverso semplici considerazioni qualitative sull’energetica dei raggi cosmici e sul loro confinamento, è interessante, quindi, osservare come sia possibile verificare l’ipotesi di un’origine galattica, identificando come sorgenti le esplosioni di supernova (abbreviato SN) che hanno luogo nella nostra Galassia.† Per prima cosa, dunque, è utile considerare il fatto che la traiettoria percorsa dai raggi cosmici, durante il loro cammino all’interno del disco galattico, è totalmente casuale (come si può vedere dalla figura 2.14) e, per questo motivo, la distribuzione di queste particelle all’interno del volume del disco deve essere essenzialmente uniforme. In questo modo è possibile ottenere una stima dell’energia cinetica totale, Erc , dovuta ai raggi cosmici che sono soggetti al confinamento. Questa quantità è data dal prodotto fra la densità energetica %rc , pari a circa 1, 6 · 10−12 erg/cm3 (vedi 2.28)‡ , ed il volume del disco galattico VG che è approssimativamente uguale a 7 · 1066 cm3 (vedi 2.2). Ricapitolando si ottiene cosı̀: Erc = %rc · VG ≈ 1055 erg † (4.1) Questo collegamento fra l’origine dei raggi cosmici e l’esplosione di supernova fu fatto per la prima volta nel 1934 da Baade e Zwicky [6] ‡ Si è fatto uso della seguente relazione fra le unità di misura: 1 eV ' 1, 6 · 10−12 erg. 83 Tuttavia, come si è potuto vedere nel capitolo precedente, bisogna considerare che il confinamento indotto dal campo magnetico galattico non è un confinamento perfetto. I raggi cosmici, infatti, a causa del loro moto caotico, dopo un tempo medio τc (detto tempo di fuga o di confinamento) riescono ad arrivare fino alle regioni più esterne del disco, in cui il campo magnetico è meno intenso e non riesce più a trattenerli. La fuoriuscita di questi raggi cosmici dal volume galattico tende, ovviamente, a far diminuire l’energia Erc e, considerando per il tempo di fuga un valore pari a 3 · 106 y ' 1014 s (cfr. 3.25), si può valutare la quantità di energia cinetica totale che mediamente viene persa in un secondo, a causa del confinamento inefficiente dei raggi cosmici. Indicando, quindi, con Prc questa grandezza, si ha che: Prc = %rc · VG 1055 erg erg Erc = ≈ = 1041 14 τc τesc 10 s s (4.2) Come si può vedere, anche se il risultato ottenuto per Prc rappresenta solo una stima qualitativa, questo mostra in maniera molto chiara che, se non ci fossero delle sorgenti ad alimentare il flusso dei raggi cosmici, si avrebbe una diminuzione costante dell’energia totale Erc . Quello che viene effettivamente misurato, però, è uno spettro stazionario e quindi, questo implica che deve esistere una sorgente di raggi cosmici in grado di fornire una potenza tale da riuscire a contrastare questa perdita di energia. Per approfondire questo discorso, si considera quindi che un’esplosione di supernova, di una stella con una massa pari a 10 volte quella del Sole, rilascia circa Esn = 1053 erg, di cui il 99% sotto forma di neutrini, l’1% in energia cinetica (esplosione – onda d’urto in espansione) e solo lo 0,01% in fotoni. In più, il tempo τsn , che intercorre mediamente tra il verificarsi di due diverse esplosioni di questo tipo in un Galassia come la nostra, è pari a circa 30 anni, ovvero ≈ 109 s. Per prima cosa, quindi, si osserva: τsn τc ≈ 3 · 106 y. che mostra come le SN siano fenomeni che avvengono in maniera praticamente continua se osservati su scale temporali dell’ordine di grandezza di τc . A questo punto, indicandola con Psn , si può considerare l’energia media che viene liberata al secondo (nella nostra Galassia) da un’esplosione di supernova, per la quale vale la seguente relazione: Psn = erg 1% · Esn ≈ 1042 τsn s 84 (4.3) Dal confronto delle stime ottenute per Prc e Psn , date rispettivamente dalla (4.2) e dalla (4.3), emerge quindi che, affinché si abbia una compensazione fra l’energia persa a causa del confinamento inefficiente e quella guadagnata per mezzo di nuove SN, occorre trovare un processo che trasformi approssimativamente solo il 10% dell’energia esplosiva delle SN in energia cinetica delle particelle dei raggi cosmici. Un meccanismo di natura idrodinamica, in grado di spiegare questo fenomeno, fu scoperto da Fermi, che descrive come avviene l’accelerazione stocastica dei raggi cosmici a causa degli urti ripetuti delle particelle con le irregolarità del campo magnetico intorno ad un’onda d’urto, come ad esempio quelle provocate da una SN [18] (una trattazione introduttiva di questo argomento è stata riportata nel prossimo paragrafo). Per concludere, quindi, si ha che, tramite il meccanismo di Fermi, il modello di accelerazione dei raggi cosmici dovuti alle supernovae è consistente con le osservazioni. Infatti, come si vedrà più avanti, questo meccanismo permette non solo il trasferimento di una frazione appropriata di energia dall’esplosione alle particelle, ma determina anche una distribuzione di energia delle particelle accelerate che è in accordo con le osservazioni a Terra, una volta che gli effetti della propagazione sono stati tenuti in conto. 4.2 Meccanismo di Fermi Dalla natura dei raggi cosmici primari, che come si è visto sono composti unicamente da particelle cariche, si può intuire che i processi che ne determinano l’accelerazione alle sorgenti devono essere prevalentemente di natura elettromagnetica. Cosı̀, considerando che in ambiente astrofisico non possono essere presenti dei campi elettrici stazionari a causa della presenza di gas completamente ionizzati (alta conducibilità dei plasmi), l’accelerazione deve essere causata dalla presenza, all’interno della Galassia, di campi magnetici irregolari che, essendo variabili nel tempo, determinano la formazione di campi elettrici indotti.† Lo studio dell’accelerazione dei raggi cosmici si presenta quindi come un problema complesso che, volendo essere rigorosi, richiederebbe un approccio magnetoidrodinamico per spiegare l’interazione delle particelle con il plasma interstellare. Tuttavia, è interessante osservare che, da semplici considerazioni di carattere cinematico, è possibile trarre comunque molte informazioni. Di seguito, infatti, si riporta un semplice ragionamento che evidenzia come † Come si è visto nell’appendice B, e in particolare con l’equazione (B.1), i campi magnetici stazionari non sono in grado, da soli, di aumentare l’energia cinetica di una particella carica. 85 sia possibile descrivere l’accelerazione stocastica dei raggi cosmici attraverso l’analisi dello scattering non collisionale dovuto a quelle irregolarità del campo magnetico che sono presenti nelle onde d’urto generate dalle esplosioni di supernovae (dette anche onde di shock † ) o nelle nubi di plasma magnetizzato che si muovono ad alta velocità nel volume galattico.‡ Si consideri, quindi, il caso di una particella ultrarelativistica che incide, con energia E1 ≈ p1 c (dove p1 è il modulo dell’impulso della particella e c la velocità della luce), o su una nube in moto o su un’onda d’urto, che in entrambi i casi si spostano con velocità V~ . Applicando una trasformazione di Lorentz nel verso di V~ , è possibile determinare l’energia cinetica E10 che ha la particella nel sistema di riferimento della nube o, equivalentemente, della regione di downstream dello shock, che verrà indicato in generale con K 0 . In questo modo si ottiene: E10 = γ c E1 ~ − βV · p~1 c = γ E1 (1 − βV · cos ϑ1 ) c (4.4) dove la velocità V~ è stata riscritta come c · β~V e ϑ1 è l’angolo fra V~ e p~1 . Inoltre, nell’ultimo passaggio è stato fatto uso della relazione p1 ≈ E1 /c. L’equazione (4.4) è utile perché, assumendo che la particella riesca ad entrare, rispettivamente, o nella nube o nella zona di downstream dell’onda d’urto, questa interagirà con le irregolarità del campo magnetico presenti nella regione, che si propagano mediamente nella direzione V~ . Cosı̀, a prescindere dal tipo di cammino seguito dalla particella all’interno di queste zone, si può osservare che, se la particella riesce ad uscirne fuori, in base alla direzione di fuoriuscita, questa dovrà aver acquisito una certa energia ∆E (questo processo è schematizzato in figura 4.1). Per vedere come questo sia possibile è sufficiente osservare che, dato che lo scattering fra la particella e la nube o l’onda di shock è non collisionale, nel sistema K 0 si avrà: E10 = E20 † (4.5) L’onda d’urto di un fluido è la regione di spazio in cui si verifica una forte variazione della pressione, della temperatura, della densità e della velocità. La parte del fluido che non è stata ancora raggiunta dallo shock è detta di upstream, mentre quella downstream è la parte del fluido che è stata investita dall’onda d’urto e che perciò presenta, rispetto al upstream, una velocità leggermente più bassa, una densità di poco maggiore, ed una temperatura e una pressione decisamente molto più elevate. ‡ Alta velocità rispetto al valore della velocità del suo del mezzo interstellare, pari a circa 10 ÷ 100 km/s. 86 (a) (b) Figura 4.1: Le due immagini, tratte dal libro di Gaisser [22, pp. 152 e 153], rappresentano schematicamente il meccanismo descritto, in particolare, la (a) per il caso della nube di plasma e la (b) per quello dell’onda di shock. Considerando quindi la trasformazione di Lorentz inversa, che permette di tornare al sistema di riferimento iniziale, per E20 si ricava: 0 E2 E2 ~ ~0 E0 = γ + βV · p 2 = γ · 2 (1 − βV · cos ϑ02 ) = c c c (4.6) 0 E1 0 (1 − βV · cos ϑ2 ) = γ· c dove con ϑ02 , ovviamente, si è indicato l’angolo fra la direzione di β~V e quella dell’impulso della particella uscente (p~0 2 ) calcolato in K 0 . L’ultimo passaggio, invece, è dovuto alla (4.5). Alla luce di quanto sopra, utilizzando l’eq. (4.4), si ottiene: E1 E2 = γ2 (1 − βV · cos ϑ1 ) (1 − βV · cos ϑ02 ) = c c 2 E1 = γ 1 + βV · cos ϑ02 − βV · cos ϑ1 − βV2 · cos ϑ1 · cos ϑ02 c da cui, infine, si ricava la seguente: ∆E = γ 2 1 + βV · cos ϑ02 − βV · cos ϑ1 − βV2 · cos ϑ1 · cos ϑ02 − 1 E (4.7) dove con ∆E/E si è indicato il rapporto (E2 − E1 )/E1 che rappresenta la frazione percentuale di energia, guadagnata dalla particella, dopo il processo di scattering. La differenza fra l’urto con una nube di plasma magnetizzato e quello con un’onda d’urto diventa evidente quando, per ottenere il valore medio ∆E/E, si effettua una media sugli angoli ϑ02 e ϑ1 . Considerando quindi, per primo, la direzione di fuga (ϑ02 ) si distinguono i due casi seguenti: 87 (a) nube di plasma: nel sistema di riferimento di riposo della nube (indicato con K 0 N ), le particelle sono mediamente ferme e, a causa del loro moto casuale, la loro distribuzione sarà praticamente isotropa. Quindi, dato che in generale la nube non presenta una struttura tale per cui esistano delle direzioni privilegiate (in cui la probabilità di fuoriuscita sia maggiore), si ha che il numero di particelle che lasciano la nube è mediamente uguale in ogni direzione, ovvero: dn = cost. d(cos ϑ02 ) con − 1 < cos ϑ02 < 1 In questo modo si ottiene: hcos ϑ02 i Z 1 cos ϑ02 d(cos ϑ02 ) = 0 = −1 cosı̀, per ∆E/E, dalla (4.7), si perviene alla seguente espressione: ∆E E = γ 2 (1 − βV · cos ϑ1 ) − 1 ϑ02 dove con il pedice ϑ02 si è indicato l’angolo su cui è stata fatta la media. (b) onda di shock: anche in questo caso, nel sistema di riferimento solidale alla regione di downstream dell’onda d’urto (indicato con K 0 S ), si ha una distribuzione isotropa delle particelle. Tuttavia, dato che le onde di shock si presentano come delle superfici piane, bisogna considerare che le particelle che si muovono nel verso della normale alla superficie sono quelle che hanno la probabilità maggiore di fuoriuscire, mentre, al contrario, quelle che si propagano in una direzione individuata da ϑ02 < 0 non sono in grado di riattraversare lo shock, lasciando cosı̀ la regione di downstream. Infatti, il numero di particelle che arrivano al secondo dalla direzione ϑ02 , in un angolo solido dΩ, e attraversano l’onda d’urto, è proporzionale a: dn ∝ v cos ϑ02 dt dΩ ≡ v cos ϑ02 dt dϕ d(cos ϑ02 ) Da qui, ne consegue che la probabilità di attraversamento, in funzione dell’angolo ϑ02 , dovrà rispettare la seguente legge di proporzionalità: dP (ϑ02 ) ∝ cos ϑ02 d(cos ϑ02 ) 88 Perciò, normalizzando ad 1 la probabilità per tutte le particelle che si spostano verso lo shock (ovvero quelle con 0 < ϑ02 < 1), si ottiene: dP (ϑ02 ) = 2 cos ϑ02 d(cos ϑ02 ) In questo modo, si ricava che il numero di particelle che attraversa l’onda d’urto, in una determinata direzione, è dato da: dn = 2 cos ϑ02 d(cos ϑ02 ) con 0 < cos ϑ02 < 1 (4.8) da cui si ricava: hcos ϑ02 i 1 Z cos2 ϑ02 d(cos ϑ02 ) = = 2 0 2 3 che in questo caso, per ∆E/E, porta alla seguente espressione: 2 2 ∆E 2 2 = γ 1 + βV − βV · cos ϑ1 − βV · cos ϑ1 − 1 E ϑ0 3 3 (4.9) 2 A questo punto, passando ad effettuare la media sulla direzione di incidenza delle particelle, ovvero su ϑ1 , per i due casi si ha rispettivamente quanto segue: (a) nube di plasma: la probabilità è proporzionale alla velocità relativa fra la particella e la nube, per cui: c − V cos ϑ1 dn = d(cos ϑ1 ) 2c con − 1 < cos ϑ1 < 1 da cui si ricava: hcos ϑ1 i = − βV 3 che, per ∆E/E, porta alla seguente: ∆E βV2 2 = γ 1+ −1 E 3 Cosı̀, esplicitando il valore di γ, che è il fattore lorentziano per boost con velocità V , si ricava: ∆E 1 + βV2 /3 4 βV2 4 = − 1 = · ≡ · γ 2 βV2 (4.10) 2 2 E 1 − βV 3 1 − βV 3 89 Considerando il fatto che la velocità delle nubi, cosı̀ come quella delle onde d’urto, è molto minore della velocità della luce, γ ≈ 1, l’equazione (4.10) porta infine alla seguente espressione: β2 ∆E ≈ V (4.11) E 3 (b) onda di shock: in questo caso la situazione è simile a quella incontrata per ϑ02 , con l’unica differenza che ora cos ϑ1 sarà compreso fra [−1; 0]. Analogamente alla (4.8), si ha infatti: dn = 2 cos ϑ1 d(cos ϑ1 ) con − 1 < cos ϑ1 < 0 e in questo modo si ottiene: hcos ϑ1 i = − 2 3 che, utilizzando la (4.9), permette di ricavare la seguente: ∆E E 4 2 4 = γ 1 + βV + βV − 1 3 9 2 (4.12) Con un procedimento simile a quello usato per la (4.10), dalla (4.12) si ha cosı̀: 13 2 4 ∆E 2 = γ βV + β E 3 9 V che nel limite non relativistico (γ ≈ 1), porta infine alla: ∆E 4 13 2 ≈ βV + β E 3 9 V (4.13) Quindi ricapitolando, per h∆E/Ei si ha: Nube di plasma ≈ Onda d’urto βV2 3 ≈ 4 βV 3 Come si può vedere, il guadagno di energia dovuto al singolo processo di scattering, nel caso della nube di plasma, è proporzionale al quadrato di βV (ovvero, come si usa dire, è al secondo ordine in beta), mentre nel caso 90 dell’urto con un’onda di shock, sono presenti sia un termine al primo ordine che uno al secondo. Quindi, poiché la velocità V con cui si propagano la nube e l’onda di shock è molto minore della velocità della luce, βV (uguale a V /c) sarà molto più piccolo di 1 e, di conseguenza: 0 < βV2 βV 1 In questo modo emerge chiaramente che il processo di accelerazione (collegato al guadagno di energia cinetica dato da h∆E/Ei) è molto più efficiente nel caso dell’urto con un’onda di shock e, pertanto, questo è praticamente l’unico modo in cui può avvenire l’accelerazione dei raggi cosmici primari.† Dopo aver lasciato la regione di downstream, infatti, a causa delle irregolarità del campo magnetico che sono presenti anche nella zona di upstream, la particella può tornare indietro, cosı̀ da scontrarsi nuovamente con l’onda d’urto e guadagnare un’ulteriore frazione di energia. In questo modo, è possibile introdurre una probabilità P che la particella rimanga della regione di accelerazione dopo una “collisione”.‡ Considerando, quindi, una zona di upstream in cui sono presenti inizialmente un numero N0 di particelle con un’energia cinetica pari a E0 , se si pone con E = η E0 l’energia media di una particella dopo un singolo urto con l’onda di shock, si ricava che, dopo k collisioni, in questa regione di spazio saranno rimaste solo N = P k N0 particelle che avranno raggiunto un’energia pari ad E = η k E0 . Per eliminare la dipendenza dall’indice k, dalle espressioni: E N = Pk ; = ηk N0 E0 si può osservare che, se si passa ai logaritmi, si ottiene: N E ln = k ln P e ln = k ln η N0 E0 cosı̀, con un semplice rapporto si ricava: ln(N/N0 ) ln P = ln(E/E0 ) ln η (4.14) in cui, appunto, non compare più k. † É interessante osservare che i processi al secondo ordine, come quello dello scattering con una nube di plasma magnetizzato, sono collegati invece con il fenomeno della riaccelerazione dei raggi cosmici di bassa energia, che avviene durante la loro propagazione. ‡ Di seguito il termine “collisione” verrà utilizzato come sinonimo di “urto in senso generico” per descrivere lo scattering della particella con l’onda di shock, anche se in realtà (come è stato già osservato), questo è un processo non collisionale. 91 In questo modo la (4.14) permette di ricavare la seguente espressione: lnln Pη N E = N0 E0 che, derivata rispetto all’energia, porta a: ln P ∂N ∝ E −1+ ln η (4.15) ∂E Quest’ultima equazione è molto importante perché rappresenta lo spettro energetico differenziale di questo particolare meccanismo di accelerazione che, come si può vedere, evidenzia una legge di potenza caratterizzata dall’indice spettrale: ln P (4.16) ε = 1− ln η Quindi, affinché il meccanismo descritto possa essere effettivamente quello che determina l’accelerazione alle sorgenti dei raggi cosmici primari, si dovrà avere per l’indice ε un valore all’incirca uguale a 2. Ciò è dovuto al fatto che, in questo caso, ∂N/∂E deve essere proporzionale al rate di iniezione delle sorgenti Q (introdotto nel precedente capitolo per descrivere la propagazione) e quindi, per la (3.36), si ha l’espressione seguente: ∂N ∝ Q(E) ∝ E −2,1 (4.17) ∂E che , confrontata con la (4.2), comporta, appunto, la condizione ε ≈ 2. A questo punto, per determinare il valore dell’indice spettrale per questo tipo di processo, per prima cosa si osserva che, per come è stato definito, il coefficiente η rappresenta la frazione di energia che viene mediamente assorbito dalla particella a seguito di una singola collisione e quindi, dal confronto di questa quantità con la (4.7), si ottiene: ∆E η ≡ 1+ E che, per l’eq. (4.13) (considerando solo il termine al primo ordine in βV ), porta alla seguente: 4 η ≈ 1 + βV 3 Per quanto riguarda la probabilità che una particella, dopo l’urto con lo shock, rimanga ancora nella regione di upstream vicino all’onda d’urto, si può ricavare invece che:† 4 P ≈ 1 − βV 3 † Vedi Longair [32, pag. 572] o Spurio [46, pag. 184]. 92 Concludendo, quindi, per la (4.2) si ricava: ln 1 − 34 βV ε ≈ 1− ln 1 + 34 βV dove, grazie al fatto che (βV 1), è possibile sviluppare i logaritmi al prim’ordine, ottenendo cosı̀: − 34 βV ε ≈ 1− + 43 βV ovvero: ε ≈ 2 che è in pienamente in accordo con la (4.17). 4.3 Supernovae come sorgenti di raggi cosmici Per concludere il discorso sull’accelerazione, in questo paragrafo si applicherà il meccanismo di Fermi al caso di un’onda d’urto prodotta da un’esplosione di supernova (cfr. paragrafo 4.1). Per questo motivo, di seguito, si riportano i parametri caratteristici di questo tipo di esplosioni: ◦ Frequenza media con cui si verificano queste esplosioni all’interno del volume galattico: 1 SN 1 SN ' νSN ≈ 30 y 9 · 108 s ◦ Quantità di energia emessa sotto forma di energia cinetica: ESN ≈ 1051 erg ◦ Massa caratteristica: MSN ≈ 10 M ≈ 2 · 1024 g ◦ Energia media liberata al secondo, all’interno della Galassia, da un’esplosione di supernova: PSN ≈ 1042 93 erg s ◦ Velocità di propagazione dell’onda di shock: VSN ≈ 3 · 108 cm s (βV )SN ≡ =⇒ VSN ≈ 10−2 c (4.18) Per prima cosa, quindi, si può stimare il raggio di azione dell’esplosione. Infatti, in buona approssimazione, è ragionevole assumere che l’onda d’urto generata dalla supernova perda tutta la sua “spinta propulsiva” dopo che, espandendosi sino ad un raggio RA , la sua densità %SN ha uguagliato quella del mezzo interstellare %ISM . Cosı̀, considerando per %SN ed %ISM le seguenti espressioni: %SN = 4 3 MSN π RA 3 ; %ISM ≈ 1, 67 · 10−24 g cm3 e ponendo %SN = %ISM , per RA si ricava il seguente valore:† 1/3 3 MSN ≈ 14 · 1018 cm ' 5pc RA = 4 π %ISM Questo parametro mostra le dimensioni lineari in cui l’onda di shock generata da una SN riesce generalmente ad accelerare particelle. Considerando anche la velocità con cui si propaga l’onda d’urto, si può ottenere anche una stima per la durata caratteristica TA di questo meccanismo di accelerazione. Dal rapporto RA /VISM si ottiene infatti: TA ≈ 14 · 1018 cm ≈ 5 · 1010 s ' 1500y 3 · 108 cm s−1 (4.19) A questo punto, utilizzando (4.19) è possibile valutare qual’è, approssimativamente, l’energia massima Emax a cui le particelle possono essere immesse nella Galassia. Riprendendo l’equazione (4.13) del paragrafo precedente, si ha che l’incremento di energia dopo un singolo urto (nell’approssimazione al prim’ordine) è dato dalla seguente espressione: h∆Ei ≈ 4 (βV )SN hEi 3 con (βV )SN ≈ 10−2 dove hEi è l’energia prima della collisione. Introducendo inoltre la grandezza Tciclo , definita come il tempo che mediamente intercorre tra due urti successivi, si ha che il numero massimo di interazioni possibili fra la particella e l’onda di shock è dato da: Ncicli = † TA Tciclo Il valore ricavato in realtà è una sottostima. 94 Figura 4.2: L’immagine, tratta dall’articolo di D. F. Cioffi riportato nel libro “Physical Processes in Hot Cosmic Plasmas” del 1990 [12, pag. 4], rappresenta schematicamente l’evoluzione di un’esplosione di supernova. Quindi, la massima energia raggiungibile con questo processo, è: Emax = Ncicli · h∆Ei = TA 4 · (βV )SN hEi Tciclo 3 (4.20) Come si può vedere dalla (4.20), per ricavare una stima numerica di Emax , occorre determinare prima il parametro Tciclo . Per questo, si può considerare che, quando le particelle riescono a fuoriuscire dalla regione di downstream, indipendentemente dalla loro direzione di fuga, si ha che la distribuzione angolare delle loro velocità diventa rapidamente isotropa (se osservata nel sistema di riferimento solidale alla zona di upstream, indicato con Kup ). Questo fenomeno è dovuto all’interazione delle particelle con le irregolarità del campo magnetico presenti in questa regione di spazio. In questo modo, le particelle risultano confinate entro una distanza λciclo dal fronte dell’onda d’urto, che coincide, approssimativamente, con il raggio di Larmor, rL . Formalmente 95 Figura 4.3: L’immagine, tratta dal libro di Spurio, “Particles and Astrophysics” del 2015 [46, pag. 182], mostra schematicamente che, grazie alla dipendenza di Emax dal numero atomico Z, è possibile trovare una correlazione fra l’esistenza del ginocchio e la massima energia permessa per l’accelerazione da supernovae descritta in questo capitolo. quindi, per la (2.31), si ha: λciclo ≈ rL ≈ hEi Ze B dove B è il campo magnetico nella regione di upstream. A questo punto, considerando che in Kup queste particelle vedono arrivarsi contro l’onda di shock con una velocità media pari VSN , si può assumere che il tempo Tciclo è dato dalla seguente: Tciclo ≈ λciclo hEi ≈ VSN Ze B VSN Sostituendo quest’ultima nella (4.20) si ricava: Emax = TA · Ze B VSN 4 VSN 4 TA Ze B VSN 2 · · · hEi = · hEi 3 c 3 c (4.21) dove è stato esplicitato il termine (βV )SN = VSN /c. In questo modo, considerando come sempre per il campo magnetico un valore di B ≈ 5µG e utilizzando le stime di TA e VSN date, rispettivamente, da (4.19) e (4.18), si ottiene: Emax ≈ 300 Z · T eV (4.22) il cui andamento è riportato schematicamente in figura 4.3, dove si fa vedere come, con questo semplice modello, sia possibile spiegare la presenza del punto di ginocchio nello spettro energetico dei raggi cosmici. 96 Conclusioni Con questo lavoro di tesi è stata presentata un’introduzione generale della fisica dei raggi cosmici di origine galattica. Cosı̀, partendo da un’analisi storica, che ha permesso di capire come sono state scoperte queste particelle, e osservando brevemente il contesto astrofisico che ne influenza la dinamica (struttura della Galassia), sono stati esposti i concetti fondamentali necessari per lo studio di questa materia. Inoltre, l’esposizione di questo argomento è stata fatta in modo tale da mostrare come, partendo dall’analisi delle grandezze fisiche che vengono effettivamente rivelate, sia possibile trarre delle informazioni sia sulla propagazione di queste particelle, che sulla loro origine (meccanismi di accelerazione e possibili sorgenti). Per concludere, esprimo un particolare ringraziamento al dott. Fiandrini per la sua elevata professionalità e disponibilità dimostrata nei miei confronti. Ringrazio inoltre i miei genitori e mio fratello per avermi incoraggiato e supportato durante tutto il corso di studi. 98 Parte II Appendici Appendice A Sull’Accettanza dei Telescopi Particellari† Il numero delle coincidenze al secondo che vengono misurate dipende, per qualsiasi apparato per rivelare particelle, dalle effettive dimensioni e dalle posizioni relative (ovvero dalla geometria) dei sensori dell’apparato, nonché dall’intensità della radiazione nello spazio circostante e dall’efficienza dei sensori utilizzati. Per questo, se si vuole calcolare l’intensità delle particelle incidenti, noto il numero di conteggi delle coincidenze misurate al secondo ed i parametri del telescopio (ad esempio le dimensioni dei sensori), bisogna conoscere il modo in cui la strumentazione influenza le misure. Si noti bene che questo processo è importante non solo in astrofisica, dove si lavora con strumenti posti in un ambiente in cui la radiazione è sconosciuta, ma anche in fisica nucleare e particellare, dove si usano fasci di particelle noti. Per un telescopio ideale, la cui efficienza per rivelare particelle di un determinato tipo è 1 in un dato intervallo di energia e 0 altrimenti, ed i cui sensori sono superfici matematiche senza spessore, il fattore di proporzionalità fra il numero di conteggi al secondo C e l’intensità I della radiazione incidente è definito come il gathering power Γ (potere di raccoglimento o accettanza) del telescopio. Quando l’intensità è isotropa, ovvero I = I0 , il fattore di proporzionalità è chiamato fattore geometrico G: C = G · I0 . La determinazione dell’accettanza del telescopio viene fatta di solito attraverso approssimazioni. Comunque, ci sono alcune formule esplicite per il fattore geometrico che sono note. † Questa appendice è tratta quasi integralmente dall’articolo di J. D. Sullivan [47]. 101 Dopo una formulazione generale del problema, di seguito verranno ricavate le formulazioni esatte per il fattore geometrico e la risposta direzionale (definita nel prossimo paragrafo) dei telescopi a simmetria cilindrica con sezioni trasversali circolari. A.1 Formulazione generale Il numero delle coincidenze al secondo, per un telescopio particellare, può essere espresso come: 1 C(x, t0 ) = T Z t0 +T t0 × Z dt X Z dσ · r̂ S Z Ω ∞ dE × dω 0 (A.1) εα (E, σ, ω, t) Jα (E, ω, x, t), α dove: C α Jα εα t t0 T dσ S dω Ω x r r̂ dσ = numero delle coincidenze al secondo, unità di misura [sec−1 ]; = indice che caratterizza il tipo di particella; = intensità spettrale delle particelle di tipo α che provengono, entro un angolo solido unitario, dalla direzione ω, unità di misura [m−2 · sec−1 · sterad−1 · eV −1 ] ; = efficienza della rivelazione della particella di tipo α; = istante temporale; = inizio dell’osservazione; = tempo totale di osservazione; = elemento di superficie dell’ultimo sensore del telescopio ad essere penetrato; = area totale dell’ultimo sensore del telescopio; = dϕ · d(cos ϑ), ovvero l’elemento di angolo solido dove ϕ è la colatitudine e ϑ l’angolo polare; = dominio di ω, limitato dal numero di sensori e del tipo di geometria del telescopio; = coordinata spaziale del telescopio; = vettore unitario nella direzione di ω; = elemento dell’area dσ che viene effettivamente visto dalla direzione ω. Questa equazione mostra solo i requisiti necessari per la rivelazione di una particella. Sebbene (A.1) sia del tutto generale, nella sua formulazione sono presenti ancora diverse ipotesi implicite: 102 1. che dσ, ω, e x sono indipendenti dal tempo, il che non sarebbe vero per un telescopio in rotazione; 2. che non si verifica nessuna trasformazione del tipo di particella, oltre a quella inclusa nel termine εα ; 3. che la traiettoria della particella è una linea retta; 4. che Jα è indipendente dalla σ ed dalla εα del punto x. Nel caso in cui non valgano queste ipotesi, l’equazione (A.1) si complicherebbe ulteriormente, rendendo ancora più difficile trovare soluzione analitica. Per semplificare ulteriormente il problema, invece, si considereranno solo telescopi ideali in cui i rivelatori sono in grado di rivelare solo una singola specie i di particella, con un’efficienza ε che è indipendente da ω, σ e t ed è data da: εα = 0 per α 6= i, ( (u) (d) 1 per Ei 6 E 6 Ei , εi = (u) (d) 0 per E < Ei o E > Ei , dove E (u) e E (d) sono, rispettivamente, l’energia massima (up) e minima (down) entro cui lavorano i rivelatori. Di conseguenza, non essendoci più la possibilità di rivelare diversi tipi di particelle, da qui in avanti non verrà più utilizzato il pedice α. Dunque, assumendo anche che J sia indipendente da x e t, e scomponibile in: J(E, ω) = J0 (E) F (ω) , l’equazione (A.1) diventa: Z C= dσ · r̂ F (ω) · I, Z dω Ω (A.2) S dove: Z E (u) I= dE J0 (E). E (d) Si noti che l’equazione (A.2) potrebbe dedursi anche per quei telescopi non ideali in cui l’efficienza dipende solo dall’energia. In questo caso, infatti, I sarebbe dato da: Z ∞ I= dE J0 (E) ε(E). 0 103 Nel caso in cui l’intensità ha una dipendenza angolare data da F (ω), l’espressione fra parentesi quadre nell’equazione (A.2) rappresenta perciò il gathering power del telescopio. Formalmente: Z Z Z Z dω dσ · r̂ F (ω) = dω F (ω) dσ · r̂. (A.3) ΓF = Ω S Ω S Possiamo definire, inoltre, la funzione di risposta direzionale di un telescopio, A(ω), come: Z dσ · r̂. (A.4) A(ω) = S R Perciò, l’equazione (A.3) può essere riscritta come ΓF = Ω dω F (ω) A(ω) e la funzione di risposta direzionale può essere usata per semplificare il calcolo del gathering power. Ciò è particolarmente utile per i calcoli numerici. Infine, considerando ancora l’equazione (A.3) possiamo vedere che, se l’intensità è isotropa, allora F (ω) è uguale ad 1 e il fattore geometrico (accettanza per un flusso isotropo) dipende solo dalla geometria del telescopio. In altre parole: Z Z Z G= dω dσ · r̂ = dω A(ω). (A.5) Ω A.2 S Ω Formulazione esplicita Di seguito ricaviamo la forma esplicita per il fattore geometrico e la funzione di risposta direzionale per i telescopi ideali con le geometrie schematizzate nella seguente figura. (a) (b) Figura A.1: (c) (a) Telescopio con un singolo rilevatore piano per l’osservazione di un emisfero. (b) e (c) Telescopi a simmetria cilindrica formati, rispettivamente, da 2 e 3 rivelatori circolari piani. 104 A.2.1 Telescopi a rivelatore singolo Per un telescopio ideale costituito da un singolo rivelatore planare (vedi figura A.1a) il fattore geometrico è facilmente ricavabile utilizzando l’equazione (A.5), da cui si ottiene: Z G= Z Z dσ · r̂ = dω Ω Z Z S cos ϑd(cos ϑ) = π A, cos ϑ dσ dω = 2π A Ω 1 0 S dove Ω, che rappresenta il dominio di ω, è un emisfero completo (le particelle R incidono solo da un lato del rivelatore) e A = S dσ è l’area della superficie del rivelatore. Dunque, il fattore geometrico di un singolo rivelatore planare di area A (con particelle incidenti da un unico lato) è dato da: G = π A. (A.6) É chiaro che, se le particelle sono incidenti da entrambi i lati, allora l’area del rivelatore raddoppia, essendo la somma di quella superiore più quella inferiore. Dall’equazione (A.6), ne consegue che il fattore geometrico di ogni singolo rivelatore è π volte l’area totale, purché esista un piano tangente ad ogni punto del rivelatore (salvo eventualmente un insieme di punti di misura nulla) e che il rivelatore si trovi interamente su un lato di ciascun piano tangente. Questo include cilindri, sfere, eccetera. La funzione di risposta direzionale e il potere di raccolta sono quindi facilmente ricavabili, rispettivamente, dalle equazioni (A.3) e (A.4). Telescopi con due rivelatori Si consideri un telescopio ideale a simmetria cilindrica con due rivelatori planari, come mostrato in figura A.1b. Come sempre, il fattore geometrico è dato dalla (A.5), in questo caso però, Ω è limitato dal rivelatore superiore. Si ha infatti che: Z Z G= (dσ2 · r̂) dω. Ω S2 In questo caso, comunque, dω può essere espresso come: dω = dσ1 · r̂ , r2 dove r è la distanza fra dσ1 e dσ2 . Di conseguenza: Z Z Z Z (dσ1 · r̂) (dσ2 · r̂) dσ1 dσ2 A1 A2 G= 6 = , 2 2 r l l2 S1 S2 S1 S2 105 dove A1 e A2 sono le aree dei due rivelatori ed l la loro distanza relativa. A1 A2 > G. l2 (A.7) É importante osservare che questa disuguaglianza, in realtà, è valida per qualsiasi telescopio ideale a due elementi. Ritornando al caso rappresentato in figura A.1b, per un telescopio con due rivelatori circolari di raggio R1 ed R2 rispettivamente, il fattore geometrico può essere calcolato integrando direttamente (A.5). Da qui, si ottiene: π2 G= 2 R12 + R22 2 +l − q (R12 + R22 + 2 l2 ) − 4 R12 R22 . (A.8) Nel caso in cui si voglia fare una rapida stima del fattore geometrico, questo risultato può essere espanso al prim’ordine, ottenendo cosı̀ l’espressione: s " # 2 2 π2 4 R R 1 2 G= R12 + R22 + l2 1 − 1 − 2 ' 2 2 (R1 + R22 + l2 ) π2 π R12 · π R22 2 R12 R22 2 2 2 ' = . R1 + R2 + l 1−1+ 2 2 2 R12 + R22 + l2 (R1 + R22 + l2 ) e poiché l’espansione in serie di che: G6 √ 1 − x è 1 − R12 P∞ (2k−1)!! k=0 (2k+2)!! xk+1 , è chiaro A1 A2 . + R22 + l2 (A.9) Va notato inoltre che, mentre (A.7) vale per tutti i telescopi, l’equazione (A.9) è applicabile solo ai telescopi con due rivelatori circolari. In più, usando (A.4), si può determinare la funzione di risposta direzionale. A tal fine, si osserva che A(ω) può essere vista come l’area di sovrapposizione tra i rilevatori quando uno è proiettato parallelamente sull’altro nella direzione ω. In questo modo, si ricava che A(ω) = A(ϑ, ϕ) è pari a: π RS2 cos ϑ, ϑc 6 ϑ 6 0 cos ϑ 2 2 [R1 (2 Ψ1 − sen 2 Ψ1 ) + R2 (2 Ψ2 − sen 2 Ψ2 )] , ϑm > ϑ > ϑc 2 106 (A.10) dove: RS = il minore fra R1 ed R2 ; |R1 − R2 | ϑc = arctan ; l R1 + R2 ϑm = arctan ; 2l 2 R1 + l tan2 ϑ − R22 ; Ψ1 = arccos 2 l R2 tan ϑ 2 R2 + l2 tan2 ϑ − R12 Ψ2 = arccos . 2 l R2 tan ϑ Si noti che, non essendoci una dipendenza della funzione di risposta direzionale, A(ω) = A(ϑ). Quando l’intensità non è isotropa, con una dipendenza angolare data da: F (ω) = F (ϑ, ϕ) = cosn ϑ, l’accettanza può essere ricavata direttamente integrando (A.3) con A(ω) dato dalla (A.10). Se n è pari, il risultato contiene solo funzioni elementari [come per l’eq. (A.8), con n = 0]; mentre, se n è dispari, il risultato contiene integrali ellittici. A.2.2 Telescopi a molti rivelatori Per un telescopio con più di due sensori, la determinazione del fattore geometrico diventa alquanto elaborata; l’equazione (A.5) è ancora corretta, ma in questo caso, le limitazioni sul dominio di ω sono dovute, generalmente, da ciascuno dei rivelatori intermedi. Per fare un esempio, si consideri un telescopio ideale come quello mostrato in figura A.1c, formato da tre rivelatori circolari di raggio R1 , R2 ed R3 , separati l’uno dall’altro dalle distanze l12 , l23 e l13 = l12 + l23 . I rivelatori del telescopio sono contrassegnati in modo tale che R1 > R3 e che il rivelatore 2 sia quello che si trova in mezzo. Anche in questo caso, per determinare G verrà integrata l’equazione (A.5), ma invece di ottenere A(ω) da (A.4), essa verrà ricavato mediante un’analisi della struttura del telescopio. Si definisce quindi A123 (ω) come la funzione di risposta direzionale del telescopio con tre rivelatori, e Aij (ω) quella del telescopio composto dalla coppia di rivelatori (ij), data dall’equazione (A.10). Si definisco anche i 107 seguenti angoli: |Ri − Rj | ; lij Ri + Rj ϑij ; m = arctan lij p l23 R12 + l12 R32 − l13 R22 ϑa = arctan . l12 l23 l13 ϑij c = arctan L’angolo ϑa corrisponde all’angolo che individua la direzione in cui, effettuando una proiezione parallela, i tre cerchi che delimitano il rivelatori si intersecano esattamente in 2 punti. Prima di ricavare formalmente A123 (ω), va notato che non è necessariamente vero che la definizione del telescopio dipende da tutti e tre i rivelatori, per esempio se R2 > R1 ed R3 , il rivelatore 2 non limita la risposta del telescopio a due elementi formato dai rivelatori 1 e 3. In questo caso A123 è uguale alla funzione di risposta direzionale del telescopio (13). Più in generale, questi casi sono: 13 ϑ12 A13 , c 6 ϑc 13 A12 , ϑm 6 ϑ12 A123 = m 13 A23 , ϑ12 6 ϑ c m La funzione di risposta direzionale per i diversi telescopi a tre elementi è: 0, A13 (ω) , A123 (ω) = A12 (ω) + A23 (ω) − π R22 cos ϑ , A23 (ω) , ϑ 6 ϑ13 m ϑ13 m 6 ϑ 6 ϑa ϑa 6 ϑ 6 ϑ12 c 6 ϑ 6 0 ϑ12 c (A.11) Dall’integrazione della (A.5), si ottiene perciò: G123 = G13 − π 2 R22 sen2 ϑa + Z23 (ϑa ) + Z12 (ϑa ) − Z13 (ϑa ), dove: Z Zij (α) = (A.12) α 2 π sen ϑ Aij dϑ. (A.13) 0 L’equazione (A.13) è quasi identica alla (A.3), salvo che l’intervallo di integrazione non è più fissato come ϑij m ; pertanto Zij (α) può essere considerata come la funzione del fattore geometrico incompleto. Senza addentrarsi nel calcolo esplicito di Zij (α), si può osservare che il gathering power può essere calcolato, una volta ricavato Zij (α), integrando 108 la (A.3). Questo sarà espresso in potenze dispari di cos ϑ in termini di integrali ellittici incompleti. Per un rivelatore telescopio circolare con n sensori, il fattore geometrico può essere valutato in modo analogo in termini della funzione del fattore geometrico incompleto. Pertanto, dato un telescopio con sufficiente simmetria, la funzione di risposta direzionale può essere ricavata mediante lo studio della geometria del telescopio. Dopodiché, il fattore geometrico e il potere di raccoglimento possono essere ricavati mediante l’integrazione esplicita, rispettivamente, di (A.5) e (A.3). A.3 Conclusioni In questa appendice, è stata presentata una trattazione analitica del gathering power di un telescopio ed è stata ricavata la forma esplicita del fattore geometrico in alcuni casi generali. Tuttavia, nell’applicazione di queste formule si deve ricordare che l’analisi fatta è valida per telescopi ideali. Per telescopi reali, esistono molti altri fattori che influenza il problema (vedi sezione A.1). Due di questi, non menzionati in precedenza, sono: lo spessore del rivelatore che non è, né infinitesimo né costante e la regione di sensibilità del rivelatore che non è definita bene. Questi introducono incertezze nella geometria del telescopio. Quando tali fattori aggiuntivi non sono trascurabili o se è presente un campo magnetico, che curva le traiettorie delle particelle, il calcolo analitico diventa sostanzialmente impossibile. In tal caso l’unico approccio quantitativo possibile è quello numerico, con tecniche di Monte Carlo. 109 110 Appendice B Sul moto di una particella carica in un campo magnetico stazionario uniforme In questa appendice viene studiato in dettaglio il moto di una particella carica in un campo magnetico stazionario uniforme. Per iniziare, si riportano le seguenti relazioni: d~p F~ = dt p~ = mγ~v dE = F~ · ~v dt dove: F~ p~ m γ ~v E = forza che agisce sulla particella; = impulso relativistico; = la massa della particella; = √c2c−v2 è il fattore lorentziano; = la velocità della particella; = mc2 (γ − 1) è l’energia cinetica della particella. Considerando dunque la forza di Lorentz per una particella di carica Ze, ~ si ha: posta in un campo magnetico B, Ze ~ = d(mγ~v ) F~L = · ~v × B c dt Da qui si può notare subito che l’energia cinetica è costante, infatti: dE Ze ~ · ~v = 0 = F~L · ~v = · ~v × B dt c 111 (B.1) e, poiché E = mc2 (γ − 1), ne consegue che anche il fattore lorentziano, e di conseguenza anche il modulo della velocità, è costante. Dalla (B.1) si ha cosı̀, che: Ze ~ = mγ · d~v = mγ~a · ~v × B c dt =⇒ ~a = Ze ~ · ~v × B mγc dove ~a è, ovviamente, l’accelerazione classica della particella. ~ ≡ (0, 0, B) e Considerando un sistema di riferimento (î, ĵ, k̂) tale che B definendo la pulsazione di ciclotrone ωB come: ωB = ZeB mγc (B.2) si ha che per ~a vale la seguente espressione: ~a = ZeB · ~v × k̂ = ωB · ~v × k̂ mγc (B.3) Detto ciò, da qui in avanti, per alleggerire la notazione, si utilizzerà la convenzione secondo cui, la derivazione fatta rispetto al tempo, viene indicata ponendo un punto sopra alle lettere che descrivono le grandezze fisiche. In questo modo, chiamando con x, y e z le tre componenti della posizione della particella rispetto alla base (î, ĵ, k̂), si ha che ~v ≡ (ẋ, ẏ, ż) e ~a ≡ (ẍ, ÿ, z̈). Dalla (B.3), si ottiene cosı̀ il seguente sistema: ẍ = ωB ẏ (B.4) ÿ = − ωB ẋ z̈ = 0 Come si può vedere, a differenza delle prime due espressioni, che sono delle equazioni differenziali accoppiate, l’ultima può essere subito integrata, ottenendo ż = ż0 , dove con ż0 si è indicata la componente della velocità parallela al campo magnetico che, durante il moto, rimane costante. A questo punto, per risolvere le prime due equazioni della (B.4), si introduce il numero complesso g = x + iy, grazie al quale è possibile riscriverle entrambe nella forma più compatta: g̈ = ẍ + i ÿ = ωB (ẏ − i ẋ) = −iωB (ẋ + i ẏ) = −iωB ġ In questo modo si ricava che ġ = ġ0 e−i ωB t , dove ġ0 = ẋ0 + i ẏ0 è una costante e, da questa equazione si ottiene: ẋ + i ẏ = (ẋ0 + i ẏ0 ) · (cos ωB t − i sen ωB t) = = (ẋ0 cos ωB t + ẏ0 sen ωB t) + i (ẏ0 cos ωB t − ẋ0 sen ωB t) 112 Separando quindi parte reale e parte immaginaria, si ha: ẋ = ẋ0 cos ωB t + ẏ0 sen ωB t ẏ = ẏ0 cos ωB t − ẋ0 sen ωB t ż = ż 0 da cui, integrando le tre equazioni, si ricava il seguente sistema: x = cx + ω1B · (ẋ0 sen ωB t − ẏ0 cos ωB t) y = cy + ω1B · (ẏ0 sen ωB t + ẋ0 cos ωB t) z = ż0 t + z0 Non rimane altro, dunque, che determinare le due costanti d’integrazione cx e cy . Considerando, perciò l’istante t = 0, si ha che: ẏ0 ẏ0 + cx −→ cx = x0 + x0 = − ωB ωB ẋ0 ẋ0 + cy −→ cy = y0 − y0 = ωB ωB In questo modo, si ricava che la legge oraria del moto della particella, descritta dal seguente sistema, è quella caratteristica di un moto elicoidale: x(t) = cx + ω1B · (ẋ0 sen ωB t − ẏ0 cos ωB t) y(t) = cy + ω1B · (ẏ0 sen ωB t + ẋ0 cos ωB t) (B.5) z(t) = ż0 t + z0 cx = x0 + ωẏB0 c = y − ẋ0 y 0 ωB Figura B.1: Rappresentazione del moto elicoidale di un particella carica in un campo magnetico uniforme. 113 Per determinare il raggio di curvatura basta osservare che, dalle prime due espressioni della (B.5), è possibile ricavare la seguente equazione: (x − cx )2 + (y − cy )2 = ẋ20 + ẏ02 ωB2 che rappresenta una circonferenza di raggio rL , detto raggio di curvatura, pari a: p ẋ20 + ẏ02 rL = ωB p Quindi, osservando che ẋ20 + ẏ02 rappresenta il modulo della componente perpendicolare al campo magnetico della velocità della particella e sostituendo il valore di ωB dato dalla (B.2), si ottiene: rL = mγc · |~v⊥ | Ze B ovvero: mγvc · sen ϑ (B.6) Ze B dove ϑ è l’angolo fra la direzione del campo magnetico e la velocità, generalmente detto pitch angle (ovvero angolo d’inclinazione). Infine è bene osservare che la direzione media di traslazione della particella coincide con il suo asse di istantanea rotazione, che nel caso di campo uniforme è parallelo a B (vedi fig. B.1). Questo, che viene chiamato centro di guida (dall’inglese guiding centre), è molto importante nel caso di un campo magnetico variabile perché determina, in generale, la deriva della particella all’interno del campo. [32, pag. 179] rL = B.1 Rigidità magnetica Osservando l’equazione (B.6), si può vedere come rL sia inversamente proporzionale a B. Questo significa che, all’aumentare del campo magnetico, il raggio rL diventa più piccolo, comportando un aumento nella curvatura della traiettoria percorsa dalla particella. Perciò, a partire dalla (B.6), è possibile determinare la tendenza che ha una particella di carica Ze e velocità v di curvare per azione di un campo magnetico unitario. Si definisce, cosı̀, la rigidità magnetica R come il prodotto fra il raggio di curvatura e il campo magnetico che la determina. Formalmente, si ha dunque: R= pc mγvc = Ze Ze 114 (B.7) A questo punto, per rendere esplicita la dipendenza della rigidità dall’energia totale ET della particella, basta considerare le espressioni relativistiche: p = mγv ET = mγc2 dalle quali si ricava: v · ET c Cosı̀, utilizzando quest’ultima equazione, dalla (B.7) si ottiene: pc = (mγv) c = R= v ET · c Ze che, per una particella ultrarelativistica (per la quale v ≈ c), si ha: R≈ ET Ze (B.8) Può essere interessante, inoltre, ricavare la dipendenza esplicita di R dall’energia cinetica E, per cui considerando la relazione relativistica che descrive l’energia totale di una particella, si ha: ET = γ E0 = E0 + E =⇒ γ= E0 + E ET = E0 E0 (B.9) dove con E0 si è indicata l’energia della particella nel suo centro di massa, ovvero mc2 . In questo modo, utilizzando la nota relazione di mass shell, si ottiene: q p pc = E 2 − E02 =⇒ pc = E0 γ 2 − 1 e riportando questo risultato nella (B.7) si ha: s 2 E0 p 2 R Ze +1 R= · γ − 1 =⇒ γ = Ze E0 (B.10) Considerando quindi la (B.10) e l’ultima equazione della (B.9), si ricava il seguente sistema: ( γ = E0E+E 0 p E0 R = Ze · γ 2 − 1 da cui si ottiene l’espressione: s p E0 (E0 + E)2 − E02 E 2 + 2 E0 E R= · = Ze E02 Ze 115 (B.11) che rappresenta, appunto, la rigidità magnetica di una particella in funzione della sua energia cinetica. Nel caso ultrarelativistico, come si può vedere sempre dall’ultima equazione della (B.9) per γ che tende ad infinito, E E0 e, in questo moto, si ha che, per R, vale la seguente approssimazione: r E E0 E R= · 1+2 ≈ (B.12) Ze E Ze che poteva essere dedotta anche a partire dalla (B.8)† . Dall’equazione (B.11), in più, si può ricavare con facilità anche la relazione inversa, ottenendo: q E= (Ze R)2 + E02 − E0 (B.13) Inoltre, nel caso in cui si volesse considerare la rigidità magnetica di un nucleo di massa m = A · mn (dove A è il numero di nucleoni e mn è la loro massa), è utile esprimere, sia l’energia di massa che quella cinetica, come segue: (n) E0 = A · mn c2 = A · E0 (n) E = E0 (γ − 1) = A · E0 (γ − 1) = A · E (n) In questo modo, dalla e dalla (B.11), si ottengono rispettivamente: r 2 2 (n) (n) E = A · E (n) = − A · E0 Ze R + A · E0 (B.14) q A 2 (n) R= · (E (n) ) + 2 E0 E (n) (B.15) Ze A questo punto, è bene fare la seguente precisazione: come è stato dianzi (n) detto, E (n) ed E0 rappresentano rispettivamente l’energia cinetica e l’energia nel centro di massa di un generico nucleone. Ciò potrebbe portare a pensare che, nel caso in cui questo generico nucleone sia un neutrone, non abbia senso parlare di rigidità magnetica. In realtà, questo non è vero, infatti anche nel caso di un neutrone, questo, essendo legato ai protoni del suo nucleo, risente anche lui della stessa curvatura, dovuta al campo magnetico, a cui è soggetto l’intero nucleo atomico. Non bisogna fare confusione, infatti, † É utile osservare come da queste equazioni risulti evidente che, se l’energia viene misurata in elettronvolt, l’unità di misura della rigidità magnetica è semplicemente il volt. Ne consegue che, se per misurare l’energia si usa un multiplo dell’elettronvolt, ad esempio il gigaelettronvolt, l’unità di misura della rigidità magnetica viene moltiplicata per lo stesso fattore, ottenendo in questo caso il gigavolt. 116 (n) sul fatto che, mentre le grandezze E (n) ed E0 sono caratteriste del singolo nucleone, A e Z sono determinate dal nucleo. Detto ciò, a partire dalla (B.15), è utile considerare la rigidità di un nucleo di idrogeno, ovvero di un protone (per cui si ha A = Z = 1), che è pari a: q 2 (n) (E (n) ) + 2 E0 E (n) (B.16) Rp = e e, come si può vedere, dipende solo dalla sua energia cinetica. Confrontando quindi quest’ultima equazione con la (B.15), si ricava: R= A · Rp Z (B.17) da cui emerge un importante risultato: poiché per molti nuclei il rapporto fra A e Z è circa 2, la rigidità magnetica sarà generalmente uguale al doppio di quella di un protone, coincidente con quella di una particella α, per la quale si ha proprio che A = 2 e Z = 1. Per concludere, a pagina seguente, è riportato il grafico dell’energia cinetica per nucleone espressa in funzione della rigidità magnetica dell’intero nucleo, che per l’equazione (B.13), è pari a: s 2 2 Z E (n) (n) (n) = · e R + E0 − E0 (B.18) E = A A Calcolando quindi, con quest’ultima espressione, l’andamento di E (n) in funzione di R per un protone, una particella α e, con un leggero abuso di notazione, anche per un elettrone‡ , si ottiene il grafico in figura C.1. ‡ In questo caso, infatti, non ha alcun senso parlare né di energia del nucleone, né di rigidità magnetica del nucleo. Tuttavia, si può continuare ad utilizzare ancora la (B.18), considerando implicitamente che, nel caso dell’elettrone, per E (n) si intende in realtà la (n) sua energia cinetica e, per E0 , la sua energia di massa. Anche per R si sottintenderà, quindi, la rigidità magnetica misurata, non per l’intero nucleo, ma bensı̀ per il singolo elettrone. Infine si porrà in più: A = Z = 1. 117 Figura B.2: Questo grafico mostra la relazione tra l’energia cinetica per nucleone e la rigidità calcolata per un protone, una particella alfa ed un elettrone. L’immagine è tratta dall’articolo di D.F. Smart & M.A. Shea riportato nel sesto capitolo del libro di A. S. Jursa [31]. 118 Appendice C Sezione d’urto, grammaggio e probabilità di scattering† Si consideri un fascio f , di intensità I0 , di particelle monoenergetiche che incide contro un bersaglio b che presenta una composizione omogenea, il cui numero di atomi per unità di volume è pari ha: Nb = NA · % b Mb (C.1) dove %b è la densità del bersaglio (misurata in g/cm3 ), M b è la massa molare di un atomo (g/mole) ed NA è il numero di Avogadro, ovvero il numero di atomi contenuti in una mole (num. atomi/mole). In uno spessore infinitesimo dx del bersaglio b, ci saranno quindi Nb dx atomi per centimetro quadrato e, quando il fascio f incide su b, a causa delle interazioni che hanno luogo fra le particelle del fascio e gli Nb dx atomi del bersaglio, è possibile che si riscontri una diminuzione dell’intensità I0 di f . Questa diminuzione verrà indicata con dI. Per questo motivo, si introduce la sezione d’urto totale σ definita in modo tale che, per un particolare processo di scattering, la quantità σ Nb dx rappresenti la probabilità che si verifichi un’interazione fra le particelle del bersaglio e quelle del fascio, dopo che queste hanno attraversato uno spesso re infinitesimo dx. In questo modo, infatti, è possibile scrivere per dI la seguente espressione:‡ dI = − σ I0 Nb dx (C.2) † Questa appendice è stata tratta, in parte, dal libro “Introduction to experimental particle physics” di R. C. Fernow [47, pag. 391]. ‡ N.B. Nell’espressione (C.2) il segno meno sta ad indicare che dI rappresenta un diminuzione dell’intensità. 119 Si osservi, inoltre che la sezione d’urto ha le dimensioni si una superficie e, l’unità di misura che spesso viene utilizzata in fisica nucleare, è il barn, che corrisponde a: 1 barn ≡ 10−24 cm2 1 mbarn ≡ 10−27 cm2 → Assumendo quindi che lo spessore del bersaglio sia molto sottile, la velocità delle particelle del fascio non è ridotta significativamente durante l’attraversamento. In questo modo, si avrà che σ non è una funzione di x e, integrando su tutto lo spessore del bersaglio, si ottiene: I(x) = I0 · e−σ Nb x Da qui si definisce la quantità λI come: def. λI = 1 σ Nb (C.3) che viene chiamata lunghezza di interazione. L’equazione precedente può, cosı̀, essere riscritta infatti come: − λx I(x) = I0 · e I (C.4) da cui si evince che, nel caso di x = λI , l’intensità del fascio diminuisce di un fattore 1/e. λI rappresenta perciò il libero cammino medio che intercorre fra due interazioni successive. Inoltre, è utile considerare il grammaggio caratteristico del bersaglio che ha le dimensioni di [M assa] · [Lunghezza]−2 ed è definito come: def. ξ(x) = x · %b (C.5) dove x è la spessore considerato.† In questo modo, quindi, a partire dalla (C.3) si può introdurre anche un grammaggio di interazione, ξI , dato dalla seguente relazione: %b (C.6) ξI = λI · %b = σ Nb che rappresenta l’ammontare di materia del bersaglio b che, per unità di superficie, viene effettivamente attraversato dal fascio. In più, dato che per l’equazione (C.1) si ha che il rapporto fra la densità di massa e quella numerica del bersaglio è pari a: % Mb = ≡ Mb ≈ A · mn Nb NA † Questa quantità viene utilizzata spesso perché, nel caso delle perdite di energia, elimina la dipendenza dalla concentrazione, che sia di massa (%b ) o numerica (Nb ), del bersaglio. 120 dove: Mb è la massa di un singolo atomo del bersaglio ed mn è la massa di un nucleone (circa 1, 67 · 10−24 g); per ξI si ottiene la seguente approssimazione: A · mn (C.7) σ Un’altra grandezza fisica molto importante che viene utilizzata spesso, e che è collegata sia a λI che a ξI , è il cosiddetto tempo medio di interazione τI . Considerando infatti un velocità media hvi per le particelle del fascio incidente, si avrà in media una interazione ogni λI /hvi. Dalla definizione della lunghezza d’interazione (vedi C.3), si ottiene cosı̀: ξI ≈ 1 σ hvi Nb def. τI = (C.8) Di seguito si riportano le espressioni esplicite che legano τI a λI e ξI : τI ≡ λI hvi e τI ≡ ξI hvi · %b (C.9) Detto ciò, per fare un quadro della situazione, si può osservare intuitivamente che, grazie alla definizione della sezione d’urto totale, è come se ogni atomo contenuto in b rappresentasse, per il fascio f , un bersaglio circolare di area σ. Assumendo, quindi, che le particelle di f sono distribuite casualmente su una superficie unitaria e che le interazioni hanno luogo ogni volta che una di queste particelle colpisce l’area circolare del singolo bersaglio atomico, la quantità σ Nb dx rappresenta la frazione dell’area totale del fascio in cui hanno luogo le interazioni. Cosı̀, se si indica con PI la probabilità che una particella interagisca all’interno del bersaglio, si avrà che la probabilità PN I che la particella non abbia interagito dopo aver attraversato lo spessore L è pari a: P N I = 1 − PI = I(L) = e−σ Nb L I0 (C.10) e, nel caso in cui lo spessore del bersaglio è molto minore di λI dalla (C.10), espandendo l’esponenziale al primo ordine, si ricava: PI = σ Nb L = L λI (C.11) É interessante notare che l’equazione (C.11) rappresenta proprio l’espressione che era stata utilizzata, all’inizio di questa appendice, per definire la sezione d’urto. La quantità σ Nb dx coincide infatti con la (C.11) nel caso di L infinitesimo. 121 Per completezza si riporta esplicitamente anche la forma generale di PI che, per la (C.10), è banalmente data dalla seguente: PI (x) = 1 − e−σ Nb x (C.12) che può essere espressa, per (C.5) e (C.6), in funzione del grammaggio, ottenendo cosı̀: PI (ξ) = 1 − e−ξ/ξI (C.13) In questo caso, per ξ infinitesimo, si ha quindi: dξ PI = (C.14) ξI Per concludere si considera il caso in cui si vuole rivelare il flusso di particelle che vengono diffuse, a causa dell’urto con ha un bersaglio di spessore L λI , all’interno di un certo angolo ∆Ω nella direzione individuata dagli angoli (ϑ, ϕ) ≡ Ω. L’intensità misurata dallo strumento è data dalla seguente relazione: dσ I(ϑ, ϕ) = I0 · Nb · L · · ∆Ω dΩ Figura C.1: L’immagine, tratta da wikipedia [http://en.wikipedia.org/wiki/ File:Differential_cross_section.svg], rappresenta una semplice schematizzazione del processo di scattering fra due particelle. mentre la probabilità di un interazione, in questo caso è dσ PI (ϑ, ϕ) = Nb · L · · ∆Ω dΩ dove dσ/dΩ è la nota sezione d’urto differenziale. É molto importante sottolineare che la forma delle funzioni σ e dσ/dΩ dipende fortemente dalla dinamica del processo di scattering, ovvero dal tipo di forza che si esercita fra le particelle del fascio e quelle del bersaglio. 122 C.1 Caso delle interazioni nucleari Nel caso in cui il processo di scattering fra una particella proiettile e una bersaglio sia dovuto ad una forza nucleare forte si ha che, a causa del limitato range d’azione di questo tipo di interazione, coincidente, praticamente, con le dimensioni delle particelle (p, n, nuclei) ≈ 10−13 cm, la sezione d’urto del processo di diffusione è data, essenzialmente, dall’area geometrica dalle due particelle, ovvero† σ ' π R2 R ' RT + RP + r0 con (C.15) dove RT ed RP sono rispettivamente i raggi del bersaglio (target) e del proiettile, mentre r0 , pari a circa 1, 2 · 10−13 cm, rappresenta, approssimativamente, il raggio del protone, molto utile per ricavare il raggio di un generico con numero di massa A che è dato dalla seguente formula empirica: √ 3 RA ' r0 · A (C.16) Dalla (C.18), nel caso di uno scattering protone–protone si ottiene, grazie anche (C.16), si ottiene per la sezione d’urto totale σpp il seguente risultato: σpp ' π r02 ≈ 45 · 10−27 cm2 ≡ 45 mbarn (C.17) che è, abbastanza, in accordo con i risultati sperimentali. Nello stesso modo, si può vedere che in processo di diffusione in cui il proiettile o il bersaglio è un protone, come avviene per la frammentazione dei raggi cosmici che urtano il mezzo interstellare che costituito prevalentemente da idrogeno primordiale, l’espressione (C.18) utilizzata per ricavare la sezione d’urto totale può essere semplifica come segue: i2 h √ 3 σ ' π r0 · A = σpp · A2/3 (C.18) dove A è, ovviamente, il numero di massa del nucleo che interagisce con il protone. † N.B. Si assunto anche che la sezione d’urto sia indipendente dall’energia. 123 124 Bibliografia [1] O. Adriani et al., PAMELA Results on the Cosmic-Ray Antiproton Flux from 60 MeV to 180 GeV in Kinetic Energy, Phys. Rev. Lett., 105 (2010), 121101. [2] O. Adriani et al., Cosmic-Ray Electron Flux Measured by the PAMELA Experiment between 1 and 625 GeV, Phys. Rev. Lett., 106 (2011), 201101. [3] O. Adriani et al., Cosmic-Ray Positron Energy Spectrum Measured by PAMELA, Phys. Rev. Lett., 111 (2013), 081102. 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