SE LE PERSONE NON SONO LA LORO CULTURA «A scuola abbiamo due marocchini, cerchiamo sempre di farli parlare della loro cultura, ma loro non vogliono. Che fare?». Qualsiasi scuola italiana, più o meno attiva in quel variegato e informe universo chiamato intercultura, si chiede oggi come trattare la differenza culturale. Il rischio è che, pur animati da buone intenzioni, enfatizziamo troppo le diversità, pensiamo a linee nette che segnano confini precisi. «Le frontiere? - ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal. Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini…». «Attenzione a non attribuire alle differenze culturali un carattere assoluto e monolitico, soprattutto a non fissare gli uomini a una cultura», avverte Marco Aime in quest'intervista. Può sembrare paradossale che sia proprio un antropologo a denunciare l'eccesso di attenzione che oggi si muove attorno alle culture, alle diversità, alle identità. Ma il rischio è che il troppo relativismo - anche quello animato da buone intenzioni, anche quello che a scuola si propone di «valorizzare (ad esempio) la cultura dei bambini marocchini» - si trasformi in una «nuova maschera della discriminazione». «Facciamo attenzione perché rischiamo di scavare ancora una volta quel fosso che ci separa da loro, che saranno così "condannati" a essere marocchini». Porre troppo l'accento sulla diversità rischia di farci dimenticare tutto ciò che può avvicinarci. E poi un individuo non è mai solo la «sua cultura», né è mai solo «una cultura». Fissare le persone alla loro cultura di appartenenza è spesso «un'operazione politica» che sotto la patina della cultura cela ben altre spinte, ben altri interessi. Con esiti distruttivi sui legami sociali e sulla possibilità di costruire una «buona convivenza» sociale dentro contesti ormai multiculturali. In questa conversazione Aime, docente di antropologia culturale dell'Università di Genova e scrittore di saggi e opere narrative, oltre a riformulare il rapporto tra gli individui e la loro cultura, invita anche a ripensare il concetto stesso di cultura. Se pensate come un dato assoluto, dice, le culture divengono un recinto invalicabile. «Non possiamo cristallizzare le culture, la cultura è un cantiere sempre aperto», un sovrapporsi e un intrecciarsi di storie, idee, gusti, identità, sogni, saperi. È paradossale che a cristallizzare le culture abbia contribuito la stessa antropologia, che in passato ha studiato le culture «altre», esotiche, mentre oggi orienta i propri studi sulle connessioni e sul meticciarsi delle culture nella nostra società. Trovando in questo un'inedita utilità pratica, come testimonia sempre più anche il suo inserimento nei corsi di studi di laurea breve per infermieri e assistenti sociali. Domanda. La prima domanda che volevamo farti nasce da una curiosità: oggi un antropologo che cosa fa? Un tempo andava nei paesi esotici, a studiare culture lontane, ma oggi? Risposta. In effetti il mestiere dell'antropologo - ammesso che fare l'antropologo sia un mestiere - è molto cambiato: i tempi dorati dell'antropologia classica sono finiti. Dico scherzando i «tempi dorati», quando c'erano i selvaggi e i primitivi che oggi non ci sono più. Oggi il mondo, pur conservando le sue differenze, le mantiene ma non più nettamente separate, senza compartimenti stagni; per cui capita di trovarsi in pieno Sahel e di incontrare qualcuno che con una radiolina, captando emittenti internazionali come BBC International o Radio France International che trasmettono telegiornali in lingua etnica, ti dice i risultati della Champions League del giorno prima. Con questo bisogna fare i conti, e a molti non piace. Conosco colleghi che hanno smesso di studiare nel momento in cui i viaggi in piroga sono diventati con piroga a motore. 1 Il mito delle culture pure A me personalmente interessano di più queste trasformazioni. Tutti noi quando si parla di antropologia pensiamo: «Antropologia è lo studio degli altri popoli». Ma questo è vero solo in parte. In realtà la metafora più bella è quella coniata da un antropologo americano di inizio secolo scorso, il quale aveva parlato del «giro lungo»: l'antropologo deve fare il giro lungo, deve andare lontano, ma in fondo l'andare lontano è funzionale a studiare meglio il vicino, noi. Non a caso il titolo del libro forse più bello e più celebre di Kluckhohn - l'antropologo a cui mi riferivo - era proprio Lo specchio dell'uomo. Andare lontano, e vedere il diverso, per capire meglio noi stessi. Oggi il diverso è sempre più tra noi e l'antropologo si trova a fare i conti con la propria società, a studiare quasi sotto casa e non solo per l'immigrazione - che l'Italia vive solo da qualche decennio ma anche per altri fenomeni, come il turismo. Ci troviamo a riflettere sempre più su di noi. Il periodo classico dell'andare a studiare per primi le popolazioni lontane è stato fatto. Oggi bisogna inventarsi un modo nuovo di guardare il mondo. Le culture pure, che dubito siano esistite in passato, oggi di sicuro non ci sono; allora proviamo a studiare questi meccanismi di connessione, di meticciato, di trasformazione ed evoluzione. Domanda. Oggi nelle scuole di ogni ordine e grado convivono bambini e ragazzi provenienti da diverse parti del mondo. Nel tuo libro Eccessi di culture (Einaudi, 2004) avverti: «Bisogna fare attenzione a non attribuire alle differenze culturali un carattere assoluto e monolitico, soprattutto a non fissare gli uomini a una cultura. Gli individui cambiano cultura nel corso della loro storia; non congeliamo il maghrebino o il marocchino alla nostra idea di ciò che deve essere un marocchino». È sbagliato dare troppo peso alle culture degli altri? Risposta. La prima idea è che nell'enfatizzare troppo, anche a fini buoni, le culture degli altri, si rischia di scavare sempre di più il fossato tra noi e gli altri. Devo dire che, mentre scrivevo quel libro, mi accorgevo anche del paradosso, nel senso che gli antropologi sul concetto di relativismo culturale hanno fatto fortuna! E da antropologo trovarsi a dire: «Attenzione a questo eccesso di attenzioni alle culture diverse» sembra quasi di sputare nel piatto in cui mangi… Però questa riflessione nasce da una serie di esperienze concrete, da corsi di intercultura nelle scuole, da situazioni quindi extra-accademiche. Oggi ci si trova in una situazione un po' paradossale, in cui tutti usano il relativismo da una parte e dall'altra. Da un lato abbiamo gli xenofobi: qual è oggi il discorso di molte élite e gruppi xenofobi? «Noi siamo per la valorizzazione delle culture e dei popoli». Questi discorsi li fa anche la Lega con l'«Europa dei popoli». Ma siccome tutte le culture devono rimanere pure e incontaminate, allora ognuno a casa propria! Quindi anche i leghisti sono molto relativisti. Si utilizza il relativismo anche per creare l'apartheid. L'apartheid sudafricano, merita ricordarlo, si fondava sulla stessa filosofia: «Neri e bianchi hanno culture diverse, sono incompatibili, e quindi ognuno deve avere il suo sviluppo»; questo è un atteggiamento che in pratica costituisce il vecchio razzismo biologico del secolo scorso. Oggi abbiamo il razzismo senza razza, ma al concetto di razza è stato sostituito quello di cultura. Si intende la cultura come un'entità, così come la razza era intesa come un dato biologico, a cui corrispondevano anche caratteristiche culturali. La genetica oggi ha smontato il concetto di razza; così lo si è sostituito con quello di cultura, ma dando per scontato che se si nasce in un posto, per forza si ha quella cultura e per tutta la vita. Racconto un aneddoto, citato 2 in un libro di uno dei padri dell'antropologia, Raymond Firth, neozelandese di scuola britannica, antropologo degli anni 30-40. Aveva fatto un lavoro interessante a Tikopia, isoletta della Polinesia. Un giorno mentre parlava con un suo informatore polinesiano, di nome Tiforau, questi gli fa: «Tu vieni sempre qui a trovarci. Mi piacerebbe che una volta mi portassi in Inghilterra, a vedere il suo paese». Firth, forse con un po' di paternalismo colonialistico da uomo del suo tempo, gli dice: «Io ti porto però guarda che da noi il modo di vita è tutto diverso, non so se ti troveresti bene…». E questo Tiforau, nato e vissuto in questa isoletta, ribatte: «Che cos'è un uomo? Un sasso?». Come a dire: «Non credi che io possa cambiare il mio modo di vita?». È stato un grosso atto di umiltà di Firth citare questo episodio. Poteva evitarlo. Il fatto che l'abbia inserito è un grosso punto a suo favore! Da parte di chi invece vuole valorizzare il multiculturalismo o la pluricultura, oggi si svolge un'operazione che a volte è rischiosa tanto quanto quella xenofoba. Ricordo l'affermazione di un'insegnante: «Noi a scuola abbiamo due bambini marocchini; io cerco sempre di farli parlare della loro cultura e delle loro tradizioni, ma loro non vogliono». A me era venuto spontaneo dirle: «Ma perché devono fare i marocchini?». Un bambino nato in Marocco, che oggi è qui, forse vuole il più possibile integrarsi, assomigliare ai suoi coetanei, condividere giochi, passatempi e studio con loro e con noi. E noi, in nome della nostra bontà di valorizzare le culture degli altri, rischiamo di continuare a farlo essere diverso. Allora facciamo attenzione, perché volendo a fin di bene e con ottimi intenti valorizzare l'altro, rischiamo di scavare ancora una volta quel fosso che ci separa da lui, che sarà in questo modo «condannato» a essere marocchino! Poi potremo anche dire tutto il bene della cultura marocchina, ma lui comunque resterà «un marocchino». Il diritto di giocarsi le carte dell'identità Domanda. Non condannare gli altri a essere ciò che noi vogliamo che siano, è l'invito che da antropologo fai a insegnanti ed educatori? Risposta. Sì. Non è infrequente nelle scuole imbattersi in un rifiuto degli studenti stranieri a parlare dei loro vissuti, della loro cultura di provenienza. Questo atteggiamento è sintetizzato molto bene da quella che è stata chiamata la «formula di Hans Jonas», filosofo e sociologo americano, che a proposito degli emigranti o degli immigranti afferma: «Il nipote vorrà ricordare ciò che suo nonno voleva dimenticare». Cosa voleva dire con questa frase? Che la prima generazione migrata, spesso non ha né la voglia né il lusso di difendere la propria cultura, anzi spesso si mimetizza, cercando di integrarsi. Quando poi la seconda generazione nella società ospitante, ecco che il nipote forse potrà anche permettersi il lusso di ricordare le proprie origini. Per dire, un Robert De Niro che si vanta di avere radici italiane, lui sì può farlo, però ci sono volute una o due generazioni! Dunque, non condanniamo gli altri a essere ciò che vorremmo che fossero. La difficoltà che hanno gli insegnanti nelle scuole primarie e secondarie oggi è talmente grande, che non mi sento assolutamente di dare consigli generali o ricette. L'unica cosa che mi sento di dire è che va salvaguardato il diritto alla scelta di essere quello che si vuole. Si tratta di uno dei diritti fondamentali: se uno decide di non parlare della sua cultura, deve essere lasciato libero di farlo. Io non credo che nessuno dimentichi o abbandoni la propria cultura di origine, ma in certi periodi della nostra vita e in certe situazioni può essere necessario farlo. Posso citare l'esperienza di un personaggio storico, Leone l'Africano, arabo musulmano andaluso del 1500, originario di Granada. Cacciato dalla Spagna, musulmano, finisce in Marocco ospitato dagli ebrei e poi dopo lungo peregrinare arriva alla corte del Re del Mali, che allora era uno dei regni più potenti d'Africa. Rapito da inviati del Vaticano e portato a Roma, scrive una delle prime 3 storie dell'Africa che univano storia e geografia. Bene, all'inizio della sua relazione, lui afferma: «Nel mio vagare, rivendico il diritto di elogiare il mio paese natale quando mi conviene, e di parlarne altrettanto male - sempre se mi conviene - per salvare la vita». La sua vita era la testimonianza di quante volte si è costretti a giocarsi le carte delle identità, magari non scegliendolo, ma per necessità. Le cose che ci uniscono Domanda. Nell'invito a lasciare che sia l'altro a definirsi, a non ridurlo a rappresentante delle sua cultura, c'è anche la consapevolezza che l'incontro con lui avviene più facilmente sulla base delle cose che ci uniscono, più che di quelle che ci vedono diversi? Risposta. Sì. In California, dove la popolazione ispanofona ha aggiunto il 50%, se non di più, le associazioni che hanno sempre difeso i diritti degli ispanofoni hanno indetto un sondaggio, per chiedere se si voleva che nelle scuole lo spagnolo fosse insegnato come prima lingua. Quasi l'80% ha risposto «no». Queste le motivazioni: «Io voglio che i miei figli - siccome viviamo negli Stati Uniti - abbiano un futuro, e se continuano a parlare spagnolo saranno sempre americani di serie B; lo spagnolo glielo posso insegnare a casa io; che imparino bene l'inglese, così potranno avere la possibilità di far carriera e di essere dei cittadini considerati alla pari». Quest'altro esempio mostra come a volte pecchiamo di eccesso di buonismo, e non ci accorgiamo che poniamo troppo l'accento sulla diversità, che magari riguarda un 10-15% di ciò che ci distingue dall'altro, e dimentichiamo tutto ciò che ci avvicina. Anni fa quando c'erano i primi ambulanti marocchini coi tappeti sulle spalle, io abitavo a Borgaretto, un paese vicino a Torino, e ricordo un anziano, vicino di casa, che aveva comperato un portacenere da un marocchino. Incontrandolo, gli dico «che bel portacenere!» e lui mi risponde in piemontese: «L'ho comprato da un marocchino, però era una brava persona». Questo signore anziano, che aveva come ogni piemontese medio un tasso di razzismo, aveva fatto un'operazione molto semplice: aveva cominciato a chiacchierare con questo marocchino e gli aveva anche offerto il caffè, dopo aver comprato il posacenere. Questo anziano in gioventù era dovuto migrare in Germania e mettendosi a parlare col marocchino si erano trovati a dire: «Che brutto dover star da soli lontano dalla famiglia…»; avevano cioè scoperto di avere un pezzo di vita in comune. Quindi che cosa aveva fatto il piemontese? Aveva semplicemente estratto il marocchino dalla categoria dei marocchini, che per lui non erano brave persone, ma quello sì, perché ne aveva fatto una persona in carne e ossa, cioè aveva tirato fuori la sua storia. Allora, a volte, noi nel parlare di «cultura» - e su questo ci vorrebbe il mea culpa degli antropologi le consideriamo come categorie astratte, come assoluti, e così quando parliamo di «stranieri». La realtà dietro ogni individuo, al di là della cultura di appartenenza, esistono strategie, aspettative, progetti di vita molto diversi. Domanda. Da antropologo metti in luce come un individuo non è mai solo la «sua cultura», né è mai solo «una cultura». Eppure i mass media parlano insistentemente e quotidianamente di «guerra tra cultura», come se queste fossero dei monoliti. Le culture sembrano oggi appiccicarsi in maniera indelebile alla pelle delle persone. Tu nel libro ti chiedi: ma in tutta sincerità chi ha mai visto due culture incontrarsi o scontrarsi? Resta il fatto che lo scontro tra cultura è l'incubo di questi nostri tempi… 4 Risposta. Sicuramente l'11 settembre ha dato un buon appoggio a chi voleva pensare alla guerra tra culture. Non è causale che subito dopo l'11 settembre siano rispuntate nelle librerie pile del libro di Samuel Huntington Lo scontro delle civiltà. Questo libro è diventato un best-seller, scritto nei primi anni 90 dall'autore, che è uno storico contemporaneo, membro dello staff di consulenza dell'amministrazione Bush. Huntington nel libro disegnava le future guerre tra civiltà, delineando uno scenario in cui il mondo era diviso in blocchi. Il suo quadro lascia molto a desiderare, per esempio per quanto riguarda la contrapposizione da lui disegnata tra mondo arabo-musulmano e Occidente. Se oggi andiamo a vedere, il 90% abbondante dei paesi di quel blocco è a fianco dell'Occidente: l'Arabia Saudita, il Pakistan e molti altri. La Cina, disegnata come mondo comunista, oggi dal punto di vista economico fa concorrenza ai paesi più liberisti, senza contare che, la Cina, ha grosse sacche musulmane al suo interno, e quindi mostra una situazione molto più complessa. Ma il problema è ancora una volta utilizzare queste cose. Le culture né si incontrano né si scontrano; quando arrivano i barconi o le carrette del mare sulle nostre coste, non ci sono culture, ci sono donne, uomini, bambini, e sono gente che scappa da situazioni di fame, guerre, carestie o anche gente che non scappa da niente, ma vuole tentare un futuro migliore. Posso fare degli esempi vissuti; per esempio in Africa centrale la televisione di Stato è colonizzata per il 70-80% dalle Tv delle ex potenze coloniali; ho fatto ricerca più che altro nell'Africa francofona ma so che non è diverso in altre aree. In questi Paesi (il Mali, Benin, il Senegal) dove il reddito medio di una famiglia è attorno ai 250 euro l'anno, trasmettono un equivalente del quiz di Gerry Scotti, dove rispondendo a quattro domande, anche banali, si vincono 50 mila euro. Che immagine si fa un ragazzo che vede questo alla televisione? Io mi sono sentito dire tante volte: «Se vengo da voi avrò la macchina, la televisione, il forno, il microonde, il computer…»; e vagli a spiegare che «no, a te non te lo diamo». Persone, non culture in senso astratto Domanda. Questo era successo anche con gli albanesi, che captavano le nostre trasmissioni televisive e vedevano un paese ricco e sfavillante. Poi una volta sbarcati sulle coste italiane hanno impattato una realtà ben diversa… Risposta. E qualcuno avrebbe voluto ripartire subito col gommone. L'immagine dell'Occidente, dell'Europa oggi, paradossalmente, attraverso i media è molto più conosciuta di un tempo e molta gente non parte solo perché disperata. Su questo c'è anche un po' una falsa informazione, nel senso che spesso sento dire: «Sono i più poveri quelli che migrano». Posso assicurare che in Africa i più poveri non hanno neanche i soldi per comprare un biglietto della corriera dalla città alla capitale; chi arriva fin qui quindi è perché comunque ha già un minimo di disponibilità economica. Magari perché tutta la famiglia ha investito su di lui: «Ti mandiamo e poi se fai fortuna ci restituisci i soldi». Non tutti quelli che migrano scappano per situazioni disperate. Ma anche migrare per star meglio è un diritto. Tutti noi cerchiamo di costruirci un futuro migliore, no? Ho avuto incontri con donne del quartiere di Porta Palazzo a Torino, in un seminario fatto per cercare di creare delle cooperative di lavoro; ricordo molte donne nigeriane delusissime e dicevo loro: «Ma voi tornereste nel vostro paese?». E loro: «Io sì, ma poi i nostri figli cosa fanno là? 5 Restiamo perché forse qui avranno un futuro migliore». Quindi ognuno sceglie delle strategie di vita, o meglio a volte non le sceglie perché gli sono imposte dalle condizioni; non sempre purtroppo nella vita possiamo scegliere che cosa essere. Molto tempo fa in una lunga intervista Elio Toaff, allora rabbino e capo della comunità ebraica italiana, ripercorreva un po' tutta la sua vita. Il giornalista ad un certo punto gli chiese: «Cosa ha significato per lei essere ebreo?». Mi ricordo che ci pensò un po' e poi rispose: «In realtà mi sono sentito per la prima volta davvero ebreo nel '38, quando sono state emanate le leggi razziali; prima mi ero sempre pensato cittadino italiano di cultura e fede ebraica». A volte non c'è scelta appunto: lui è stato costretto, nel momento in cui la legge lo privava di diritti, a essere solo l'ebreo, non più il cittadino italiano, perché quei diritti di cittadino non li aveva più. Sartre diceva che è l'antisemitismo che ha creato il semita, cioè a volte le condizioni ci costringono a scegliere, anche giocandoci queste carte culturali Insistere sull'integrazione culturale? Domanda. Può esistere secondo te una politica di integrazione interculturale? O forse è più utile puntare su politiche di integrazione sociale ed economica? Risposta. Ancora una volta, con un mea culpa dell'antropologia, penso che le politiche di integrazione, se partono dal punto di vista culturale, rischiano di proporre un po' degli schemi e degli stereotipi, prima di tutto perché - ripeto - quando parliamo di intercultura, cosa vogliamo dire? Noi siamo già tutti multiculturali. Le culture sono tutte bastarde e lo dico nel senso bello della parola, cioè siamo tutti dei gran meticci culturali. Ricordo di aver letto sul libretto scritto dal fondatore del museo di storia naturale e antropologia qui a Torino, nel ventennio, quando c'era l'elogio della razza italiana, una frase quasi commovente: «La razza italiana si è mantenuta pura e fiera nonostante qualche invasione». Voglio dire: facciamo prima a contare chi non ci ha invaso! Questa è un po' la prospettiva oggi. Siamo già tutti prodotto di incroci, di interazioni. C'era un professore di antropologia americano, Ralph Linton, che negli anni '20-'30 iniziava il suo corso di antropologia in questo modo: partendo dall'ipotesi che più o meno tutti gli americani pensano che «tutto ciò che è al mondo è americano» chiedeva ai suoi allievi che gesti avessero fatto al mattino prima di arrivare a lezione. «Cosa hai fatto come primo gesto? Hai scostato il lenzuolo fatto in cotone, fibra prodotta in India nel VI secolo a.C., hai fatto colazione in una scodella di ceramica prodotto inventato in Cina, hai preso il thè che ti arriva dall'India oppure il caffè che ti arriva dall'Abissinia o magari il cacao che proviene dal Messico…». Poi continuava con tutta una serie di riferimenti simili, concludendo: «Esci e vai a comprare il giornale, paghi con una moneta di invenzione della Namibia, compri un quotidiano stampato su carta, procedimento inventato in Cina, stampato con caratteri mobili escogitati in Europa nel 1450, e a seconda delle notizie ringrazi o bestemmi una divinità medio-orientale di averti fatto americano». Questa era l'introduzione che Linton era solito fare, ed era un ottimo modo per smontare questa credenza della cultura pura. Quindi io penso che l'intercultura si sviluppi nella realtà: se i bambini che oggi crescono nelle classi cominciano ad avere i compagni di scuola cinesi, senegalesi, maghrebini pian piano iniziano a relazionarsi e a stare insieme tra culture diverse. Posso fare un esempio anche sulla mia pelle: io sono del '56; per mio padre chiunque fosse nato un po' più a Sud era «un napoli», come si diceva qui a Torino? Ecco, io sono andato a scuola con la generazione dei figli dei primi immigrati e nessuno di noi si è mai posto il problema se il suo compagno fosse un meridionale. Penso che in 6 parte l'integrazione andrebbe molto più portata avanti dal punto di vista economico e sociale, perché spesso dietro a questi scontri, che chiamiamo di cultura o razzisti, si nascondono competizioni per le risorse. Ricordate nei primi anni '90, quando era stata fatta la proposta di fare un centro per accoglienza immigrati a Mirafiori Sud, quartiere con grandi problemi qui a Torino? La gente del quartiere si era ribellata, e la sinistra aveva tacciato di razzismo l'episodio. Ma chiediamoci: si trattava davvero di razzismo, oppure di paura che l'immigrato potesse fare concorrenza all'abitante di Mirafiori Sud disoccupato? Allora è razzismo o è concorrenza per le risorse? Perché non hanno proposto di farlo alla Crocetta (quartiere residenziale di Torino, ndr) il centro per gli immigrati per esempio? Ecco mi sembra che oggi dietro al discorso alle retoriche etnico-culturali si nascondano problematiche che invece hanno radici di tipo socio-economico. Dietro i cosiddetti «conflitti culturali» Domanda. In questi anni di grandi migrazioni la politica ha strumentalizzato le questioni etniche per coprire le proprie incapacità ad affrontare i problemi dal punto di vista sociale ed economico. Intendi dire questo? Risposta. Io penso che la differenza culturale possa anche portare a uno stato di antipatia, di sofferenza, di tensione, e anche di razzismo verso l'altro. Esiste il razzista «doc», che dice «a me i negri fan schifo», ma non per questo li va a picchiare. Quand'è che invece questa differenza culturale, questo attrito si trasforma in competizione, in lotta o in violenza? Quando viene strumentalizzato da élite di potere o di contropotere. Posso citare molti casi: ad esempio, nel Sud della Francia, dove Jean-Marie Le Pen del Front National ha intercettato un malumore nelle fabbriche, dovuto a una crisi economica che ha prodotto una forte disoccupazione, e ha incanalato tutta questa tensione e questa rabbia nei confronti degli immigrati («Son loro che ci rubano il lavoro»). E allora un territorio che era una roccaforte nel PCF diventa del Front National Raciste, ma semplicemente perché si strumentalizza una sofferenza. La Lega - altro esempio - ha captato un malumore esistente, che altre forze politiche forse non hanno saputo cogliere, e lo ha convogliato in discorsi più o meno deliranti. Altro caso ancora: uno dei casi più lampanti, che è persino difficile sintetizzare. Tutti conosciamo i massacri del Ruanda tra Hutu e Tutsi. L'immagine che spesso è data di questo conflitto è che si tratti di uno scontro tra due etnie, Hutu e Tutsi appunto. Dovremmo invece chiederci: come mai per qualche migliaio d'anni queste due etnie hanno sempre convissuto e non si sono mai massacrate? Forse la risposta è da cercarsi nella politica coloniale belga, che ha creato strumentalmente un'élite Tutsi a sfavore degli Hutu, inventando una differenza sociale e culturale che prima non esisteva. Altro caso ancora: ho avuto modo di conoscere proprio a Roma Safija, la donna nigeriana condannata alla lapidazione, quando le è stata conferita la cittadinanza onoraria, e anche di parlare con l'avvocato che l'aveva difesa. La Nigeria è islamica dall'anno Mille, soprattutto le regioni del nord, e la Sharia non è mai stata applicata. Come la mettiamo? Il fatto è che la Nigeria sta tentando di democratizzarsi un po' e le lobby economiche, sentendosi venire meno il terreno da sotto i piedi, hanno giocato la carta del fondamentalismo islamico di massa. Di disperati che per un euro vanno a manifestare per qualunque cosa, in Nigeria ne trovate quanto ne volete! L'avvocato che ha difeso Safija spiegava che uno degli argomenti grazie al quale aveva vinto la causa era stato dimostrare che tre quarti dei giudici della corte islamica, che avrebbe dovuto giudicare questa donna, non conosceva l'arabo. Questo per dire che questa Corte islamica era stata inventata, per dare vita a una 7 messa in scena. Allora anche in questo caso si tratta davvero di un discorso di fondamentalismo islamico o dietro ci sono ben altre ragioni? Domanda. Abbiamo ragionato sull'ambiguità delle parole, sul concetto di identità e di cultura. Secondo te cos'è una cultura oggi? Come la possiamo definire? Risposta. A volte, neanche dopo 60 ore di corso credo di essere riuscito a definire una cultura. Come definizione base terrei buona quella classica di Charles Taylor, che si trova sui manuali da antropologia, secondo cui la cultura è «quell'insieme di regole sociali e di valori religiosi che vengono trasmessi di generazione in generazione». A questa definizione aggiungerei che tutti noi ereditiamo una cultura, che cresciamo da qualche parte, condividendo una lingua, una fede religiosa, un sistema di parentela, un modo di leggere il mondo. In fondo la cultura cos'è? Una strategia per vivere in questo modo e non si può negare che esistono differenze sostanziali - per fortuna - tra culture. Quello su cui però oggi dobbiamo riflettere è che il fatto di avere una cultura e una identità non ci obbliga a essere così monolitici. La nostra identità è un continuo frutto di negoziato, ed è costitutivamente un'entità relazionale. Come singoli individui, senza gli altri, non potremmo avere un'identità. Le tre richieste dei Kanak Posso utilizzare un aneddoto che spiega meglio di ogni concetto cosa sia l'idea di cultura. Lo ha raccontato Renzo Piano, il famoso architetto genovese. Questi fu incaricato anni fa da Mitterrand di un progetto di costruzione in Nuova Caledonia, un'isola dell'Oceania, possedimento francese con una popolazione a maggioranza Kanak, i quali hanno una forte spinta autonomista, Mitterrand ha deciso di costruire un Centre Culturel, che è stato dedicato a Jean-Marie Tjibaou, leader dell'autonomismo Kanak, commissionandolo a Renzo Piano. Sembrano dei grandi gusci reticolari, l'avrete visto su tutti i cataloghi di Renzo Piano, in genere è l'opera più fotografata. Renzo Piano nel suo diario racconta l'incontro avuto con gli intellettuali Kanak prima dell'inizio della progettazione, in cui domanda loro se hanno qualche richiesta da fargli. Gli chiedono tre cose: la prima, che ricordi l'architettura tradizionale; la seconda, che esprima l'oralità, perché la loro cultura è orale (e questo Piano l'ha risolto brillantemente con delle assicelle di legno che a seconda dell'inclinazione del vento producono un rumore che sembra un brusio, un chiacchiericcio di fondo…); la terza, infine - e la più bella - che sembri una costruzione non finita, perché la cultura è un cantiere sempre aperto (se voi guardate questa costruzione ci sono infatti delle putrelle e dei bulloni ancora in evidenza…). È una delle definizioni più belle che si potessero dare di cultura. All'ingresso di questo centro c'è una frase tratta proprio da un discorso di Jean-Marie Tjibaou, leader Kanak, che propone un'idea dinamica di tradizione: il ritorno alla tradizione è un mito; la nostra identità è fatta di memoria e di oblio; più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire. Ecco, credo che poche frasi potessero sintetizzare meglio questa idea dell'identità e della cultura come continuo lavoro di costruzione sempre aperto. Oggi noi non siamo ciò che erano gli italiani cinquanta o cento anni fa, e non siamo quello che sarà l'italiano medio fra cinquant'anni. Non possiamo cristallizzare le culture; sono sempre stati processi in movimento, continuamente rimodellate, perché gli individui si sono sempre mossi nel mondo nel corso della storia e le idee hanno circolato. A me oggi viene da dire che fa quasi ridere chi paventa o chi auspica o parla di città multietniche, multuculturali; pensiamo cosa doveva essere la Roma imperiale, o Gerusalemme e Costantinopoli, o 8 Venezia… È ridicolo pensare che siamo noi i primi multietnici. Pensate cosa dovevano essere quelle città. Oggi parlare di multiculturalità come pericolo significa veramente strumentalizzare. Voglio dire che non è mai esistita la separazione tra gli individui e le culture; ci siamo sempre incrociati, incontrati, mossi nel mondo; e alcune idee passano, altre meno, altre ancora ci penetrano dentro e neanche ce ne accorgiamo. È un processo normale; ed è sempre stato così nella storia; non è una novità di oggi. Forse oggi tutto avviene più in fretta, questa è probabilmente la differenza. Intervista a MARCO AIME a cura di CHIARA CASTIGLIONI e CLAUDIA GALETTO Questa conversazione nasce all'interno dell'iniziativa culturale «Convivere… Voci in dialogo», promossa dalla Regione Piemonte, nell'ambito della Rete regionale di servizi per l'educazione ambientale, e dalla Città di Torino, e organizzata dal Consorzio Pracatinat, in collaborazione con l'IRRE Piemonte. MARCO AIME - docente di antropologia culturale dell'Università di Genova - viaggiatore e scrittore di saggi e opere narrative - e-mail: [email protected] Fonte: ANIMAZIONE SOCIALE, anno XXXVII, n. 210, Febbraio 2007 DIREZIONE - Associazione Gruppo Abele - Corso Trapani 95 - 10141 Torino REDAZIONE: Tel. (011) 3841048 - Fax (011) 3841047 E-mail: [email protected] Sito Internet: www.gruppoabele.org 9