L`eredità di Brecht nel teatro postdrammatico: l`uso dei media, l

L’eredità di Brecht nel teatro postdrammatico: l’uso dei media, l’irruzione del reale e
l’”artivismo”
Aleksandra Jovicevic
L’uso dei media, l’irruzione del reale e l’”artivismo” sembrano essere determinanti
quando si parla dell’eredità di Brecht nel teatro postdrammatico dell’ultimo decennio.
Comunque, quello che ci interessa in questa sede, non è semplicemente l’ uso dei
media, bensì il momento in cui i media fanno da fonte di ispirazione, non solo per la
forma dello spettacolo, ma anche per la sua estetica, anche se poi la tecnologia di per
sé non ha molta importanza nei spettacoli, come avviene, ad esempio, nel lavoro di
drammaturgo e regista tedesco, René Pollesch. Oppure, ci interessa il momento in cui
i media diventano l’elemento costitutivo dello spettacolo, come nei lavori di Wooster
Group e Rimini Protokoll. Infine, il teatro e media si possono unire in un campo
ibrido che potrebbe essere una nuova forma di spettacolo teatrale (piuttosto come nel
lavoro di Heiner Goebbels e specialmente il suo spettacolo Stifters Dinge, del 2008).
Riguardo l’irruzione del reale, nel teatro postdrammatico avviene la stessa
rottura che avveniva nel teatro epico di Brecht: questo teatro non è mai chiuso, la sua
“cornice” si potrebbe sempre cancellare, non solo a causa di cose impreviste, ma
proprio per quelle previste. Il teatro ha sempre bandito, a livello sia estetico sia
concettuale, il reale, ma è sempre stato inevitabilmente accompagnato da esso.
Comunque, soltanto nel teatro postdrammatico è sempre presente un livello del reale
che interagisce costantemente in modo effettivo e non concettuale nella creazione
teatrale stessa. Come nel teatro epico, anche nel teatro postdrammatico questa
situazione non è mai nascosta. Questa forma di teatro è una prassi che – come ha
sottolineato Hans-Thies Lehmann – costringe più d’altre a pensare che non c’è nessun
confine evidente tra il campo estetico ed extra-estetico. Come sostiene ancora
Lehmann, qui si rivela una peculiare qualità dell’estetica, un’inaspettata constatazione
che il teatro, se guardato da più vicino, si manifesta come un costrutto edificato con
materiale non estetico.1 Il teatro, come prassi, ha luogo come completamente reale e
allo stesso tempo, completamente in forma dei segni.
Dunque, il punto di partenza per questo lavoro non saranno le ossessioni di Brecht
riguardo i media e l´irruzione del reale di per sé, ma la loro mediazione tra l’arte e
l’attivismo, dunque quello che potremo definire artivismo. Brecht vedeva la lotta da
condurre con il teatro non solo come sviluppo delle forme di resistenza contro lo
sfruttamento sociale ed economico, ma anche come lo sviluppo di nuove forme di
solidarietà artistica, insieme con nuovi strumenti, nuove forme, nuovi concetti che
dovevano portare l’arte in antitesi con la società. Nello stesso tempo quando Brecht
sviluppava l’idea di teatro epico, si formava l’idea di teatralità della politica, cioè si
comprendeva il significato del ruolo della rappresentazione per manipolare
l’attenzione, come pure delle forme rappresentative della politica. Walter Benjamin e
Bertolt Brecht furono i primi che hanno notato questo fenomeno, ma Brecht era più
radicale nella sua richiesta di resistere alla estetizzazione dell’arte operata dal
fascismo con la politizzazione rivoluzionaria dell’arte. Infatti, Brecht ha concretizzato
il pensiero teorico di Benjamin con gli esperimenti reali e le invenzioni artistiche che
hanno rivelato le relazioni forti tra teatralità e politica.
La tesi di Brecht sulla relazione tra teatralità e politica non ha solamente persistito
fino a oggi, ma è anche evoluta in diverse direzioni. Per esempio, Jacques Rancière
parla di una distinzione netta tra una democrazia diretta (ancora impossibile da
compiere, cioè non-esistente) e quella rappresentativa (esistente, derivata). Cosi,
Rancière definisce la democrazia un’utopia difficile da ottenere, e l’emancipazione
democratica come un processo che potrebbe influenzare un intero sistema di
relazioni, incluse quelle sociali e culturali.2 Secondo un altro filosofo francese, Alain
Badiou, per un marxista quale era Brecht, la sua missione era organicamente legata
con la funzione di trasformare la società tramite il pubblico del teatro.3 Brecht
insisteva sempre sul fatto che il teatro dovrebbe ri-esaminare il mondo che lo
circonda, che arte e scienza condividono lo stesso scopo, e anche che non esiste
l’essenza dell´arte senza tempo, ma che ogni società deve creare le sue opere d’arte
specifiche, che in miglior modo riflettono le condizioni della sua presente esistenza.
Secondo Brecht, il compito dell’artista è di cambiare la società in quale vive.
1
Hans-Thies Lehmann, Segni teatrali del teatro post-drammatico, in Il teatro di fine millennio, numero
monografico di «Biblioteca teatrale», aprile-dicembre 2005, pp 23-49, qui pp. 45-46.
2
Vedi Jacques Rancière, Hatred of Democracy, trans. Steve Corcoran, Verso, New York 2006.
3
Alain Badiou,“Novi svet, da, ali kada?” Teatron, no. 139, autuno 2007, pp. 62. Commento [AJ1]: Teatron e’ la
rivista teatrale serba, il numero
completo era dedicato a Brecht, “Che
cosa possiamo ancora imparare da
Brecht,” e il articolo di Badiou e’ stato
tradotto da Alain Badiou, Le siecle, ed.
Du Seuil, gennaio 2005, ma non trovo
il no. di pagine. Cosi ho lasciato solo
la citazione in serbo.
In tal senso, gli artisti che operano nel campo di un teatro non-rappresentativo e
inoltre politicamente e socialmente impegnato possono essere considerati gli eredi
della critica della rappresentazione che fu una delle principali caratteristiche del teatro
dialettico di Brecht come pure del teatro della crudeltà di Artaud, che – come ha
notato Derrida – non soltanto annunciava i limiti della rappresentazione, ma
proponeva un nuovo sistema di critica che smuoveva l’intera storia del teatro
occidentale4. Ad esempio, René Pollesch, che si è auto-dichiarato erede di Brecht,5
cerca incessantemente strategie individuali per un teatro non rappresentativo:
Il teatro non è solo uno strumento che ci permette di criticare la società, è in sé stesso un
luogo che necessità uno sguardo critico. Coloro che vogliono esprimere le loro visioni critiche
in scena non dovrebbero fare alcuna eccezione per loro stessi. Abbiamo bisogno di un teatro
dove poter mettere in discussione il nostro stesso modo di intendere la vita e le condizioni di
lavoro piuttosto che un qualche luogo neutrale dove ci è permesso criticare tutto e tutti ad
eccezione di noi stessi. Inoltre, credo che il teatro possa diventare un luogo dove non
dobbiamo riprodurre alcun consenso sociale su modo in cui i ruoli tradizionali vengono
assegnati ai sessi: in teatro non abbiamo bisogno di nessun modello di ruolo degli generi
specifici né di alcuna opposizione binaria che troviamo nella vita di tutti i giorni. Il teatro può
diventare un luogo dove il dominio eterosessuale della società è messo in discussione. Penso
anche che sia un’area che non dovrebbe essere analizzata da una prospettiva economica, che
non dovrebbe cioè essere solo orientata al profitto.6
L’analisi di Pollesch sull’ontologia politica del teatro prende la forma di una critica
sistematica della partecipazione del teatro al più ampio progetto di rappresentazione
dell’Occidente. Il teatro non rappresentativo ci permette inoltre di riconciliare
l’estetica e l’etica delle pratiche performative contemporanee e contribuisce a fondare
il concetto di inestetica, cosi come la definisce Alain Badiou:
Per “inestetica” intendo un rapporto della filosofia con l’arte che, conscio del fatto che l’arte è in sé
produttrice di verità non pretende affatto di farne un oggetto della filosofia. Al contrario della
4
Jacques Derrida,“The Theatre of Cruelty and the Closure of Representation“, Theatre, Summer 1978,
vol. 9, no. 3, pp 6-19.
5
René Pollesch, „Penis und Vagina, Penis und Vagina, Penis und Vagina. René Pollesch über
Geschlechterzuschreibungen, das Normale als Konstruktion und die Theoriefähigkeit des Alltags”,
Frank M. Raddatz, Brecht frisst Brecht, Neues Epische Theater im 21 Jahrhundert, Henschel, Berlin
2007; pp 195-214.
6
P. Gruszczunski, Ambivalence. Intervista con René Pollesch, «TR Warszawa», 2008,
www.trwarszawa.pl/en [4 aprile 2012].
speculazione estetica l’inestetica descrive gli effetti strettamente intrafilosofici prodotti dalle singole
opere dell’arte.7
Secondo Badiou la grandezza di Brecht consiste essenzialmente nell’aver
«caparbiamente perseguito le regole immanenti a un’arte platonica (didattica)»,
invece di accontentarsi, come lo stesso Platone, di classificare le arti esistenti in buone
e cattive («meriti e demeriti»).8 Il teatro «non aristotelico» (ma neppure classico e
platonico) è un’invenzione artistica di Brecht di «primo calibro» (Badiou) all’interno
dell’elemento riflessivo della subordinazione delle arti alla società: «Brecht non ha
fatto altro che rendere teatralmente attive le ingunzioni anti-teatrali di Platone. E l’ha
fatto centrando l’arte sulle forme possibili di soggettivazione di una verità esteriore».9
Come sostiene Badiou, il teatro è sempre il completamento di un’idea eterna
presentata con mezzi esterni. Di conseguenza, nessuno può ignorare il fatto che, a
seconda del pubblico di fronte cui si manifesta, può avvenire che l’atto teatrale rechi
con sé o meno l’idea-teatro, che la completi o meno. Inoltre, il teatro è un
esperimento, allo stesso tempo testuale e materiale, di semplificazione, cosa su cui
insisteva Brecht. Ma sarebbe del tutto errato ritenere che il pervenire alla semplicità
sia a sua volta qualcosa di semplice. Al contrario, separare e semplificare il groviglio
della vita comporta l’utilizzo dei più disparati mezzi artistici. Senza dubbio l’arte del
teatro è l’unica arte cui incomba di completare la perdita dell’eternità con i mezzi
dell’istantaneità.
Il teatro va dall’eternità al tempo, non nel senso opposto. È dunque necessario capire che la
rappresentazione teatrale che governa le componenti del teatro (fino al punto in cui può, poiché esse
sono estremamente eterogenee) non è un’interpretazione, come viene comunemente ritenuto. L’atto
teatrale è un singolo completamento dell’idea.10
Di conseguenza, ogni performance o rappresentazione è un completamento possible,
ma temporaneo di questa idea-teatro.
7
Cit. da Livio Boni, Introduzione, in Alain Badiou, Inestetica, a cura di Livio Boni, Mimesis, Milano
2007, pp. 7-22, qui p. 9.
8
Ivi, p. 28.
9
Ibid.
10
Ivi, p. 96. Sotto l’inestricabilità della vita, Badiou scorge essenzialmente a due cose: il desiderio che
circola tra i sessi, e le figure, esaltanti o mortifere, del potere politico e sociale. Sono queste le basi su
cui sono sempre esistite, ed esistono tuttora, la tragedia e la commedia.
René Pollesch, nel suo lavoro, esplora spesso le diverse facce del capitalismo neoliberale. Per lo spettacolo Pablo in der Plusfiliale (2005) – che sembrava prodotto
secondo l’estetica dei videoclip, delle telenovelas, ispirato anche da vari testi tra il
teorico e il trash, dal web e dalla pubblicità, basato sul look lurido degli anni Settanta
e con l’epocale sound melodico a sostenere grossi blocchi di testo – Pollesch ha
utilizzato testi teorici di diversi esperti economisti, come Learning from * (2003) di
Jochen Becker, relativi al depauperamento e al brutale sfruttamento dei paesi Terzi e
delle loro economie grigie. Questo tuttavia è stato solo il punto d’inizio, perché le
prove sono diventate un’estensione di queste teorie e il loro linguaggio è stato usato in
numerosi dialoghi come improvvisazione degli attori nella forma del brainstorming.
Il linguaggio teorico dell’economia in questo lavoro appare de-familiarizzato in modo
paradossale in forma di soliloqui dei personaggi. Nel processo, come in tutte le
produzioni di Pollesch, non c’è storia né soggetto e neppure la possibilità di una
identificazione. I personaggi di Pollesch diventano oggetti di una capitalizzazione a
tutto campo, interfacce multiple e visualizzazioni sociali. Diffondendo il gergo della
tecnologia e del neo-liberismo, essi parlano delle loro esistenze come se fosse la cosa
più ovvia del mondo. Durante le prove, ma anche quando il lavoro apre al pubblico,
non ci sono personaggi fissi, generi e identità.11 I performer nei lavori di Pollesch non
sono meri interpreti delle sue idee, ma dibattono e interpretano le loro stesse idee.12
Così, nel teatro di Pollesch, gli attori accettano un certo rischio, perché non sanno mai
come il pubblico interpreterà la loro performance, e come finirà la serata.13 Nel teatro
di Pollesch, spesso gli attori si confrontano con il pubblico, cercando di attirarli dentro
questi testi, che sono piuttosto lavori teoretici. Pollesch ha ammesso che ai teorici
piace vedere i loro testi interpretati dai suoi attori, perché questi presentano i problemi
in un modo diretto e corporale.14 Tutte le opere di Pollesch si presentano come opere
aperte, perché sembrano essere senza fine e qualche volta paiono essere come
11
Nello suo spettacolo, Hallo Hotel (2004) Pollesch ha usato testi di Giorgio Agamben senza nessun
cambiamento nella forma del discorso amoroso tra due donne.
12
«Anche gli autori che cito nelle mie opere sono persuasi che le loro opere diventano più importanti
cosi presentate sul palcoscenico, perché il teatro è più soggettivo. Nel teatro dobbiamo provare a
implementare queste teorie. Il nostro teatro non le migliora, ma mostra che hanno qualcosa a che fare
con le nostre vite» (René Pollesch, Catalogo del Festival BITEF, Belgrado, 2005, senza paginazione).
13
Si veda anche il lavoro di Tim Etchells e di Rachide Ouramdame per l’importanza
dell’improvvisazione.
14
Pollesch ha citato i lavori di economisti, come il libro curato da Jochen Becker et al., Learning
From*, Vice Versa, Berlin 2003; l’articolo di Elmar Altvate e Birgit Mahnkopf, Die Informalisierung
des urbanen Raums, in Jochen Becker et al. (eds.) Learning from* - Städte von Welt, Phantasmen der
Zivilgesellschaft, informelle Organisation, Neue Gesellschaft für Bildende Kunst, Berlin 2003, pp. 1730.
spettacoli falliti dove manca un vero controllo artistico.
Questo rapporto tra il teatro e la nuova logica del mercato ci aiuta a vedere meglio la
scena artistica contemporanea da un’altra prospettiva. Il suo tratto basico non è
solamente la cosi tanto criticata comodificazione della cultura, ma proprio quello che
è meno visibile, ma ugualmente importante, la crescente culturalizzazione della
economia mercantile, che fa parte della economia terziaria (turismo culturale, editoria,
industria cinematografica, i festival…), e trasforma la cultura non solo in un ambito
del mercato, ma la fa diventare anche una componente essenziale di questo. Tale
corto circuito tra la cultura e il mercato crea la sparizione della vecchia logica
modernista di provocare e shockare. fondamentalmente, questa è l’ipotesi proposta da
Theodor W. Adorno nella sua Teoria d’estetica: anche quando si nasconde dietro la
sua maschera modernista, l’arte è sempre indivisibile dal suo Warencharakter che
trasforma ogni sforzo artistico in una forma superficiale e accettabile. Per riprodurre
se stesso sotto le condizioni di concorrenza di mercato, oggi l’apparato economicoculturale è obbligato costantemente non solo di tollerare ma anche di incoraggiare
direttamente effetti e prodotti shockanti. Nel post-modernismo, anche l’eccesso
estremo perde il suo valore shockante e diventa completamente integrato nel mercato
dell’arte, come nel caso di un altro regista, attivista e performer tedesco, Christoph
Schlingensief, che si potrebbe considerare un altro erede di Brecht, anche se non è
incluso nel libro di Frank M. Raddatz, come tale.
Spesso criticato, ma anche ignorato e condannato dall’establishment, e poi celebrato
come grande artista solo prima della sua morte prematura nel 2010, Schlingensief non
è arrivato a ricevere il Leone d’oro che è stato conferito al padiglione tedesco alla
Biennale di Venezia nel 2011. Parafrasando un articolo di Diez e Reinhard: l’unico
Schlingensief buono è Schlingensief morto!15 Poiché è morto in mezzo alle
preparazioni della mostra per la Biennale di Venezia, la sua morte non ha lasciato
nessuno indifferente, creando un grande dibattito sulla questione se la Germania si
doveva presentare con la mostra di un artista appena morto. Comunque, Susanne
Gaensheimer, il commissario di padiglione tedesco, è riuscita in qualche modo a
“risorgerlo” e concludere la sua carriera particolare e turbolenta, radicale ed estrema,
15
Si leggeva in un artivolo: «Only Schlingensief without Schlingensief reveals the true Schlingensief»;
vedi Georg Diez and Nora Reinhardt. Death in Venice: Resurrecting Schlingensief at the Biennale,
Spiegel Online, http://www.spiegel.de/international/zeitgeist (30 August 2011).
che si moveva tra il teatro, cinema, radio, tv, arti visive, performance e artivismo.16
Nel padiglione tedesco sono state presentate le due più grandi ossessioni riflesse nel
lavoro di Schlingensief: l’ impegno politico e sociale, prima del 2004; e, dopo che gli
è stato diagnosticato il tumore ai polmoni, la malattia.
Il fatto che Schlingensief vedesse il mondo non solo dalla prospettiva
dell’opposizione politica, ma anche di quella di un malato/paziente, lo ha trasformato
in una cicatrice, o in una incrinatura in una società che continuamente lotta per creare
un immagine ideale di se stessa. Schlingensief era consapevole dei micro- e
macrofascismi nella vita quotidiana e le cicatrici nella storia contemporanea che le
spingevano a una azione più estrema e visibile. L’anno decisivo per la sua carriera fu
il 1994, quando mise in scena di Berlin Volksbühne, gli spettacoli Kühnen ’94 –
Bring mir den Kopf von Adolf Hitler! (Kühnen ’94 – Mi porti la testa di Adolf
Hitler’s!) e Rocky Dutschke ’68, nei quali continuava a esaminare e ri-esaminare non
solo la recente storia, ma anche la storia lontana della Germania. Caotici, ermetici e
selvaggi, questi spettacoli richiedevano la sua presenza sul palcoscenico in capacità di
maestro delle cerimonie, ma anche quello di narratore, per spiegare lo svolgimento
dello spettacolo agli spettatori che, essendo completamente smarriti e spaventati, non
potevano seguire con chiarezza che cosa accadeva nello spettacolo.
Schlingensief definiva il suo lavoro in teatro come una specie di lavoro sociale, basato
sull’esperienza collettiva degli attori, sull’improvvisazione, sul rapporto tra loro stessi
e con il pubblico, che spesso stava nel centro della azione. Uno dei suoi spettacoli più
noti è Bitte liebt Österreich (Per favore, amate l’Austria, 2000), creato per le Wiener
Festwochen, dove un gruppo di extra-comunitari doveva “lottare” per il permesso di
soggiorno in Austria, mentre il pubblico votava per quello che doveva vincere.
Ovviamente, lo spettacolo ha scoperto le radici profonde di xenofobia e razzismo in
Austria. La manipolazione dei media capitalisti in questo spettacolo, dove
Schlingensief si è appropriato delle tecniche produttive fondanti della società
contemporanea, era diretta verso utilizzi sovversivi. Le immagini familiari (in questo
caso di reality show alla Big Brother) sono state smontate, alterate nei dettagli, anche
nel loro nocciolo funzionale, quindi diventando riproposte in un progetto molto simile
a quello che Brian Holmes definisce come reverse engineering.17
16
Sulla carriera di Schlingensief si può vedere il sito: http://www.schlingensief.com.
Brian Holmes, Ricatturare la sovversione. Rovesciare le regole del gioco culturale, in Marco
Baravalle (cur.), L’arte della sovversione, Manifestolibri, Roma 2009, 25–44, qui p. 28.
17
Comunque, la lotta di Schlingensief, essendo sempre al confine di scandalo, anche in
una democrazia come quella tedesca, non poteva essere tollerata, così il regista è stato
anche arrestato, come per esempio in 1999, quando nel contesto di Documenta a
Kassel ha fatto un appello per l’assassinio di Helmut Kohl, oppure quando ha fondato
Chance 2000, un partito di disoccupati, senzatetto, prostitute e prigionieri per le
elezioni federali di 1998 in Germania, ecc.
Nonostante l’ambizioso padiglione tedesco, purtroppo, tanti aspetti della carriera di
Schlingensief sono ancora poco noti, perché non è rimasta quasi nessuna traccia del
suo artivismo, che creava tanti disagi, incrinature, malintesi, disaccordi e tanta rabbia.
La sua carriera fino al 2004 è stata negata da tanti contrasti, e tanti lo consideravano
un semplice provocatore, ciarlatano, maestro di circo, finché non è stato abbracciato
dalla stessa cultura d’élite contro la quale aveva lottato tutta la sua vita. La sua
carriera è una delle carriere più singolari in ultimi venti anni, per esempio, dopo la sua
morte nel 2010, Schlingensief ha vinto il premio Bambi, che è il premio più
prestigioso nel mondo mediatico tedesco. Questo paradosso dell’amore ritardato del
pubblico tedesco per Schlingensief non significa che qualcosa è cambiato nella
società tedesca, oppure che la critica del nazionalismo tedesco ha finalmente ottenuto
i risultati; al contrario, Schlingensief è stato assimilato solo quando ha compiuto la
sua personale auto-depoliticizzazione. Anche se Schlingensief sopravvivverà grazie ai
vari documenti, ai filmati, alle installazioni, il suo artivismo presto sarà dimenticato.
Specialmente, perché il linguaggio specifico e peculiare del suo teatro non è stato mai
ben definito.
Al contrario, nell’ipotesi migliore, il suo teatro può essere definito solo come un
assemblaggio di componenti disparate, sia materiali che ideali, perché la sua esistenza
consisteva esclusivamente nella performance, nell’atto della rappresentazione
teatrale, un evento che sfuggiva a un’interpretazione. Non importa quante volte essa
venga ripetuta: ogni performance è un evento unico e diviene un «evento del
pensiero». Ciò significa, secondo Badiou, che l’assemblaggio di componenti produce
direttamente idee, che egli definisce idee-teatro. Ciò significa anche che esse non
possono essere prodotte con nessun altro mezzo, né in nessun altro luogo. E che
nessuna delle componenti usate separatamente può suscitare idee-teatro, neppure il
testo della performance. «L’idea esiste solo all’interno e in virtù della
rappresentazione, irriducibilmente teatrale, non preesiste affatto alla propria venuta
“in scena”».18 Secondo Badiou, all’idea-teatro si arriva solo nel (breve) tempo della
sua performance, la quale è rappresentazione: «L’idea-teatro, come pubblica
chiarificazione della storia e della vita, non è che il risultato ultimo di tutto un
processo artistico».19
In molte occasioni Brecht ha sottolineato che «il pubblico è un insieme di individui,
capaci di pensare e ragionare, di produrre giudizi anche a teatro. Il teatro li considera
soggetti maturi intellettualmente ed emotivamente, e crede che essi desiderino essere
così considerati».20 Ma, allo stesso tempo lo spettatore deve essere sottratto alla sua
condizione di “maestro ignorante” e al potere magico dell’azione teatrale dove
scambierà il privilegio della spettatorialità razionale con il possesso delle autentiche
energie vitali. Questo è il paradosso del nuovo spettatore, poiché egli deve diventare
più distaccato, ma allo stesso tempo deve perdere ogni distanza.21
Nel suo saggio sullo «spettatore emancipato» Jacques Rancière auspica per lo
spettatore un ruolo attivo, che incarni sia la visione artaudiana che quella brechtiana,
immagina lo spettatore come qualcuno che si distacchi dalla passività del vedere, che
sia affascinato dall’apparenza che si erge di fronte a lui e che si identifichi con i
personaggi in scena. Questa posizione appare unica ed estremamente importante per
le nuove configurazioni teatrali, poiché oggi lo spettatore si confronta con lo
spettacolo come con un enigma: egli si trova a dover investigare le ragioni di quel
mistero passando da una visione passiva alla condizione dello scienziato, che osserva
i fenomeni e guarda alle loro cause.22 In questo senso il teatro contemporaneo
ricapitola di fatto i termini della polemica brechtiana, attraverso una sorta di riarrangiamento che desume una differente idea di teatro. Pollesch e Schlingensief,
come Brecht, oppongono alla comunità poetica e democratica del teatro una “vera”
comunità: «una comunità coreografica dove nessuno rimane spettatore immobile,
dove ognuno è in movimento secondo il ritmo comunitario determinato da
proporzioni matematiche».23
Il teatro rimane l’unico luogo in cui un pubblico si confronta con se stesso in quanto
18
A. Badiou, op. cit., p. 95.
Ibid.
20
Bertolt Brecht, German Drama: Pre Hitler, in Brecht on Theatre, trans. John Willett, Hill and
Wang, New York, 1978, pp 77-81, qui p. 79.
21
Si veda al proposito il capitolo Attore, Performer, Corpo, Spettatore di Valentina Valentini, Mondi,
corpi, materie, il teatro del secondo ‘900, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 89-165.
22
Jacques Rancière, The Emancipated Spectator, trans. Gregory Elliott, Verso, London 2009, p. 20.
23
Ivi, pp. 8-9.
19
collettivo, poiché il pubblico teatrale è diverso da ogni altro pubblico, incluso quello
del cinema. Ciò significa che “teatro” rimane il nome per un’idea di comunità come
corpo vivente e veicola un’idea di comunità come presenza-a-sé, opposta alla distanza
della rappresentazione che si trova al cinema. «A teatro si tratta di fare un’esperienza
d’incontro con l’idea che è esplicita, pressoché fisica, mentre al cinema, si tratta di
riscontrarne il passaggio quasi fantasmatico.»24
L’importanza del pubblico è probabilmente uno di maggiori cambiamenti introdotti
da Brecht che solo oggi emerge in tutta la sua portata. Il rapporto con la realtà messa
in atto dal teatro di Brecht, il modo in cui la realtà al di fuori del teatro è portata sulla
scena attraverso un transfert ritornano nel lavoro di collettivo teatrale tedesco, Rimini
Protokoll, e anche del regista ungherese Árpád Schilling, che usano i metodi
d’interruzione, separazione e rivelazione nei loro spettacoli. Nella maggior parte dei
lavori messi in scena da Rimini Protokoll, i performer non vengono mai presentati
come parti in causa, ma piuttosto introdotti come soggetti delle loro proprie biografie,
o piuttosto della loro soggettiva versione delle proprie biografie (si vedano
Sabenation, Das Kapital, 100% Berlin). «La messa in discussione del contenuto
fattuale è una conseguenza del distanziamento, e questo rende possibile un processo
di finzionalizzazione».25 Lo stile performativo del distanziamento e della
dimostrazione è chiaramente prossimo al concetto di recitazione proposto da Brecht in
La Scena di strada (1940), con la differenza che i performer di Rimini Protokoll
rendono conto di un evento in cui sono stati presenti e che ha significativamente
cambiato le loro vite. «Che i performer abbiano continuamente la possibilità di
distanziarsi entro la struttura formale dello spettacolo è una caratteristica distintiva
della performance di Rimini Protokoll».26
Il teatro diventa l’assetto intellettuale principale dello spettatore emancipato,
specialmente se l’emancipazione parte dal principio d’eguaglianza, come nelle
produzioni di Árpád Schilling, dove gli spettatori diventano attivi poiché sono nella
situazione di osservare, selezionare, comparare, e interpretare:
Se ho delle persone sedute al buio in teatro per due o tre ore, che guardano cosa io
24
A. Badiou, op. cit., p. 100.
Miriam Dreysse, The performance is starting now, On the relationship between reality and fiction, in
Rimini Protokoll, hrsg. v. Miriam Dreysse - Florian Malzacher, Alexandar Verlag, Berlin 2008, pp- 76100: 84.
26
Jens Roselt, Making an Appearance, in Rimini Protokoll, hrsg. v. M. Dreysse – F. Malzacher cit., pp.
46-63, qui p. 61.
25
penso del mondo, il mio scopo non sarà di formare una comunità, ma di indirizzarmi a
una comunità già esistente. Le persone amano aprirsi solo quando si sentono tra pari.
Così quando diciamo che siamo portatori di una responsabilità di fronte al pubblico
stiamo cercando l’opportunità di utilizzare la mutualità offerta dal teatro. Io ho
trasceso forme già utilizzate perché sono incapaci di condurre lo spettatore oltre la
possibilità di esprimere le sue opinioni.27
Nel suo community specific theatre, Árpád Schilling sta creando un’intera serie di
nuove relazioni, che poggiano su alcune equivalenze chiave e su alcune opposizioni
chiave: l’equivalenza tra il teatro e la comunità, tra il guardare e la passività, tra
l’esternazione e la separazione, la mediazione e il simulacro; opposizioni tra collettivo
e individuale, immagine e realtà vivente, attività e passività, possesso di sé e
alienazione. Il suo lavoro sullo spettatore emancipato include il paradigma brechtiano
dello spettatore consapevole della situazione politica sulla quale riposa il progetto e
che lo spinge ad agire di conseguenza. Al tempo stesso Schilling introduce il
paradigma artaudiano che fa abbandonare agli spettatori la loro posizione sicura:
anziché stare di fronte allo spettacolo come osservatori, essi sono accerchiati dalla
performance, condotti nel cerchio dell’azione che dovrebbe portarli a riappropriarsi
della loro energia collettiva.
Questo ci riporta alla questione centrale di Brecht, che cosa accada specificamente ed
esclusivamente agli spettatori del teatro? C’è qualcosa di più interattivo, di più
comune tra di loro che tra gli individui che guardano nello stesso momento lo stesso
programma televisivo o partecipano a una trasmissione in diretta su Internet? Secondo
Ranciére questo «qualcosa» è solo «il presupposto del fatto che il teatro è comunitario
in sé», oppure si potrebbe dire che la situazione in quale «i corpi viventi sul
palcoscenico si rivolgono ai corpi viventi radunati nello stesso luogo», bastano come
il vettore del senso della comunità, che è radicalmente diverso da quella situazione
nella quale gli individui sono seduti in fronte ai schermi di proiezione.28
Ciò richiama anche l’idea brechtiana di evento, di rappresentazione, perché una
rappresentazione teatrale non abolirà mai l’azzardo e tra gli azzardi bisogna includere
il pubblico come ciò che completa l’idea. Comunque, occorre opporsi a ogni
27
Árpád Schilling citato da Ana Vujanovic, “Il teatro community-specific di Árpád Schilling e del
gruppo Krétakor” in Biblioteca teatrale, nuova serie I modi della regia nel nuovo millennio (curato da
Aleksandra Jovicevic e Annalisa Sacchi), BT 91-92, luglio-dicembre 2009, pp 315-327, questo su p.
322.
28
J. Rancière, The Emancipated Spectator, cit., p. 24.
concezione del pubblico come comunità, entità pubblica o insieme consistente. Il
pubblico rappresenta l’umanità nella sua consistenza fondamentale, nella sua varietà
infinita.
Più dunque il pubblico è unificato (dal punto di vista sociale, nazionale, civile…) meno è utile
alla complementazione dell’idea, meno è all’altezza – nel tempo – della propria eternità e
universalità. Il solo vero pubblico è dunque un pubblico generico, un pubblico preso a caso.29
È il potere individuale del pubblico a traslare, a modo suo, ciò che sta guardando e a
cui sta partecipando; a rappresentare il potere dell’uguaglianza dell’intelligenza.
Questo potere lega gli individui al punto di tenerli separati gli uni dagli altri, capaci di
tessere lo stesso potere ciascuno a suo modo. Questo può essere il principio di uno
«spettatore emancipato».30
In tutti i lavori citati in questa sede, si tratta non solo di risvegliare gli spettatori, ma
anche di provocarli e cambiarli, perché come sostiene René Pollesch:
Il problema è che il teatro è dominato da un costrutto sociale: ha adottato una
posizione narrativa e ora la percepisce come neutrale. Questa posizione è bianca,
maschile ed eterosessuale, e i miei sforzi mirano a dimostrare che ciò è lungi
dall’essere neutrale. Siamo sempre inclini a credere che questo non esiste, ma in effetti
non c’è niente oltre a questo! La posizione del narratore esiste! Io credo che il teatro
deve dichiarare, ad esempio, che quelli a nome dei quali esso parla hanno il loro
proprio linguaggio! Che è quello per cui esso può parlare per gli «umiliati e offesi»:
questa affermazione che essi hanno il loro proprio linguaggio dovrebbe essere preso
sul serio. L’unico linguaggio che oggi il teatro prende sul serio è il suo – bianco,
maschio, eterosessuale – e dice a proposito di tutti gli altri: «Sono gli altri a perdere il
loro linguaggio e dunque devi parlare per loro». Ai poveri e ai diseredati viene ascritta
una specifica immagine e essi vengono poi presentati in base a questa. Credo che
questa immagine sia falsa. A teatro, quando parliamo per gli altri dobbiamo
sottolineare sempre che sono altri. E non mi dispiacerebbe mettere in discussione
questa immagine.31
Secondo Badiou, l’idea-teatro non avviene che nel breve tempo della
29
A. Badiou, op. cit., p. 97.
J. Rancière, The Emancipated Spectator, cit., pp. 18-19.
31
R. Pollesch, op. cit..
30
rappresentazione. Perciò è importante allora capire che la messa in scena, che governa
le componenti eterogenee del teatro, non è una interpretazione genericamente come si
pensa solitamente, ma l’atto del teatro è una interpretazione specifica dell’idea teatro:
i corpi, le voci, le luci, ecc., portano l’idea a compimento oppure la possono
radicalizzare. L’effetto di questa interpretazione non può venire anticipato. Il carattere
effimero del teatro non rileva del semplice fatto che ogni rappresentazione cominci, si
concluda e lasci alla fine una serie di tracce enigmatiche: ma del fatto di mettere
un’idea eternamente incompleta alla prova del suo compimento nell’instante. È una
lingua che si rivolge a quegli spettatori che sono attivi in quanto interpreti, che
cercano di inventare la loro traduzione al fine di appropriarsi della storia e di produrre
da ciò la propria storia. «Una comunità emancipata è in realtà una comunità di
narratori e traduttori».32
32
J. Rancière, The Emancipated Spectator, cit., p. 33.