leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it i nodi Florian Illies 1913 L’estate del secolo traduzione e cura di Marina Pugliano e Valentina Tortelli Marsilio Indice 7Gennaio 33 Febbraio 67 Marzo 93 Aprile 115 Maggio 143 Giugno 161 Luglio 177 Agosto 201 Settembre 219 Ottobre Titolo originale: 1913. Der Sommer des Jahrhunderts © 2012 by S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main. All rights reserved © 2013 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: novembre 2013 ISBN 978-88-317-1678 www.marsilioeditori.it Realizzazione editoriale: Valeria Bové 241 Novembre 265 Dicembre 287 Bibliografia scelta 295 Ringraziamenti GENNAIO È in questo mese che Hitler e Stalin si incontrano a passeggio nel parco del castello di Schönbrunn, Thomas Mann arriva quasi a dichiararsi omosessuale e Franz Kafka a impazzire d’amore. Una gatta si installa furtiva sul divano di Sigmund Freud. Fa molto freddo, la neve scricchiola sotto i piedi. Else LaskerSchüler è povera in canna e innamorata di Gottfried Benn, riceve da Franz Marc una cartolina raffigurante un cavallo, ma definisce Gabriele Münter una nullità. Ernst Ludwig Kirchner disegna le cocotte di Potsdamer Platz. Si compie in volo il primo giro della morte. Ma non c’è niente da fare. Oswald Spengler sta già lavorando al Tramonto dell’Occidente. È il primo istante del 1913. Un colpo echeggia nella notte scura. Si sente un clic, le dita si tendono sul grilletto ed ecco l’eco sorda di un secondo sparo. La polizia allertata arriva in fretta e arresta subito il cecchino. Si chiama Louis Armstrong. Il dodicenne di New Orleans voleva dare il benvenuto al nuovo anno con una pistola rubata. La polizia lo mette in cella e il 1° gennaio lo spedisce di prima mattina in riformatorio, nel Colored Waifs’ Home for Boys. È così turbolento che il direttore dell’istituto, Peter Davis, non sa che pesci prendere e istintivamente gli mette in mano una tromba (ma avrebbe tanto voluto dargli un paio di ceffoni). Ed ecco che Louis Armstrong d’un tratto ammutolisce, prende lo strumento quasi con delicatezza e sente di nuovo il freddo metallo sotto le dita che la notte precedente giocavano ancora nervose con il grilletto della pistola, ma, invece di uno sparo, nella stanza del direttore strappa già alla tromba i primi suoni caldi e selvaggi. • «In questo momento: lo sparo di mezzanotte, le grida nella via e sul ponte dove però non vedo nessuno, il suono delle campane e i rintocchi degli orologi». Chi scrive da Praga è il dottor Franz Kafka, impiegato dell’istituto di assicurazioni contro gli 9 1913 gennaio infortuni sul lavoro per il regno di Boemia. Il suo pubblico si trova in un appartamento della lontana Berlino, in Immanuelkirchstraße 29, ed è costituito da un’unica persona che per lui rappresenta il mondo intero: è Felice Bauer, una venticinquenne biondina un po’ ossuta e un po’ goffa, dattilografa presso la Carl Lindström A.G. Si erano incontrati di sfuggita in agosto, pioveva a dirotto, lei si era bagnata i piedi, lui si era fatto prendere dalla tremarella. Ma da allora ogni notte, mentre le famiglie dormono, si scrivono una lettera ardente, incantevole, strana, sconcertante. Di solito seguita nel pomeriggio da una seconda. Franz aveva cominciato a scrivere La metamorfosi la volta in cui, affranto, si era svegliato da un sonno popolato di sogni convulsi dopo che Felice non si era fatta viva per qualche giorno. E poi le aveva raccontato quella storia, terminata di scrivere poco prima di Natale (ora era chiusa nel suo secrétaire, tenuta al caldo in mezzo alle due foto che Felice gli aveva inviato). Ma con la lettera di capodanno la ragazza avrebbe scoperto con quanta rapidità il suo amato Franz, quello stesso Franz così lontano, potesse trasformarsi in un enigma spaventoso. Ecco che lui, di punto in bianco, le chiede se non esiterebbe ad alzare su di lui l’ombrello nel caso in cui restasse a letto nonostante avesse appuntamento con lei a Francoforte sul Meno per andare a una mostra e poi a teatro, ecco quanto Kafka le chiede nei primi passi della lettera, e impiega ben due congiuntivi e un condizionale. Per poi evocare con innocenza apparente il loro amore, sognare che la sua mano e quella di Felice siano indissolubilmente legate insieme. E proseguire scrivendo che «è pur sempre possibile (senza che io l’abbia mai letto o sentito dire) che una coppia in questo modo sia stata condotta al patibolo». Che pensiero suggestivo per una lettera alla fidanzata. Non si sono ancora baciati e l’uomo già vagheggia di salire insieme a lei sul patibolo. Sul momento persino Kafka pare spaventato dalle parole che gli sono sfuggite: «Ma che cosa mi passa mai per la testa?» scrive. La spiegazione è semplice: «Dev’essere colpa del 13 nella nuova data». Ecco come inizia il 1913 nella letteratura mondiale: con una fantasia violenta. • 10 Denuncia di scomparsa. Manca all’appello La Gioconda di Leonardo. È stata rubata dal Louvre nel 1911 e da allora se ne sono perse le tracce. La polizia parigina interroga Pablo Picasso, ma ha un alibi e può tornare a casa. Al Louvre i francesi in lutto posano mazzi di fiori davanti alla parete vuota. • Nei primi giorni di gennaio, non sappiamo esattamente quando, un trentaquattrenne russo un po’ malmesso arriva in treno da Cracovia alla stazione Nord di Vienna. Fuori imperversa una tormenta di neve. Zoppica. Quell’anno i suoi capelli non sono stati ancora lavati, i baffi cespugliosi che gli crescono sotto il naso come una florida sterpaglia non riescono a nascondere le cicatrici del vaiolo. Porta scarpe da contadino russo e una valigia piena all’inverosimile, appena arrivato sale sul tram che lo conduce fuori città, a Hietzing. Sul suo passaporto è scritto «Stavros Papadopoulos», che dovrebbe far pensare a un miscuglio greco-georgiano e, per come è malmesso e per il freddo che fa, ogni poliziotto di frontiera lo ha preso per buono. La sera prima a Cracovia, durante l’altro esilio, ha battuto Lenin a scacchi per l’ultima volta, la settima di fila. È assai più portato per gli scacchi che per la bicicletta. Lenin ha cercato disperatamente di insegnargli anche quello. Gli aveva spiegato che i rivoluzionari devono essere veloci. Ma quell’uomo, che in realtà si chiama Iosif Vissarionovič Džugašvili ma che si faceva chiamare Stavros Papadopoulos, non ha imparato ad andare in bicicletta. Poco prima di Natale era caduto sulle strade lastricate e ghiacciate di Cracovia facendosi male. La gamba è ancora piena di ferite, il ginocchio slogato, e solo da pochi giorni è tornato a poggiare il piede a terra. Quando zoppicante è andato incontro a Lenin a ritirare il passaporto falso per il viaggio a Vienna, questi con un sorriso lo ha chiamato il suo «formidabile georgiano». E ora buon viaggio, compagno. Ha attraversato indisturbato i confini, durante il tragitto in 11 1913 gennaio treno si è immerso nella lettura febbrile dei suoi libri e manoscritti che in fretta ha infilato in valigia al momento di scendere. E adesso, arrivato a Vienna, ha abbandonato il nome di copertura georgiano. Dal gennaio 1913 dice che il suo nome è Stalin, Iosif Stalin. Sceso dal tram, vede sulla destra il castello di Schönbrunn illuminato nello spento grigiore invernale, con il parco alle spalle. Si dirige al numero 30 della Schönbrunner Schloßstraße, come è scritto sul foglietto che Lenin gli ha dato. E poi: «Suonare da Trojanovskij». Allora si scuote via la neve dalle scarpe, si soffia il naso con il fazzoletto e preme con qualche insicurezza il campanello. Quando compare la cameriera, pronuncia la parola d’ordine convenuta. Freud, appassionato di antichità classica, collezionava per consolarsi del presente. E adesso, mentre Lou varcava la soglia, anche una gatta si intrufolava guardinga in quel devoto cenacolo. Dapprima Freud si è mostrato indispettito, ma quando ha visto la curiosità con cui la gatta passava in rassegna i vasi greci e le piccole sculture romane, commosso le ha fatto portare un po’ di latte. E tuttavia Lou Andreas-Salomé racconta: «Nonostante l’amore e la crescente ammirazione di Freud, ha continuato a ignorarlo, ha posato su di lui quegli occhi verdi dalle pupille enigmatiche con tale indifferenza, come fosse un oggetto qualunque, e ogni volta che lui, anche solo per un attimo, desiderava qualcosa in più di quelle fusa egoiste e narcisistiche, doveva abbassare il piede dalla comoda sdraio e cercare di attirare la sua attenzione prodigandosi nei movimenti più ingegnosi e ammalianti con la punta dello stivale». Da allora, ogni settimana la gatta ha avuto accesso al cenacolo e, quando si è ammalata, ha potuto coricarsi sul divano di Freud avvolta nelle compresse. Si è dimostrata idonea a intraprendere una terapia. • Una gatta si intrufola nello studio viennese di Sigmund Freud, in Berggasse 19, nel quale la Società psicologica del mercoledì si è appena riunita in seminario. È la seconda visita a sorpresa nell’arco di poco tempo: a fine autunno si era unita al circolo maschile Lou Andreas-Salomé, guardata dapprima con sospetto, ora languidamente venerata. Lou Andreas-Salomé portava legati alla giarrettiera gli scalpi di una lunga serie di grandi geni abbattuti: con Nietzsche era stata in un confessionale della basilica di San Pietro, con Rilke a letto e in Russia da Tolstoj, Frank Wedekind pare avesse chiamato la sua eroina Lulu in suo onore e Richard Strauss la sua Salomè. E ora toccava a Freud farsi soggiogare, almeno intellettualmente: quell’inverno Lou Andreas-Salomé ebbe il permesso di abitare al piano in cui Freud aveva lo studio, discusse con lui su Totem e tabù, il nuovo libro a cui stava lavorando, e lo ascoltò intonare il suo lamento contro Carl Gustav Jung e gli psicologi zurighesi apostati. Ma soprattutto, la cinquantaduenne autrice di numerosi libri sullo spirito e l’erotismo si fece insegnare il metodo psicoanalitico dal maestro in persona – a marzo avrebbe inaugurato uno studio a Gottinga. Ed eccola presente al rituale seminario del mercoledì, seduta accanto ai dotti colleghi, a destra il divano, all’epoca già leggendario, e disseminate ovunque le piccole sculture che 12 • A proposito di malaticci. Ma Rilke dov’è finito? • La paura che il 1913 possa rivelarsi un anno nefasto tiene in scacco tutti. Gabriele d’Annunzio regala a un amico il suo Martirio di san Sebastiano e per scaramanzia preferisce datare la dedica «1912 + 1». E Arnold Schönberg trattiene il re­­spiro ogni volta che si trova davanti a quel numero infausto. Non a caso escogitò la «composizione con dodici note» – pilastro della musica moderna, nato anche dal terrore del suo artefice per quello che sarebbe venuto in seguito. La nascita della razionalità dallo spirito della superstizione. Nelle opere di Schönberg il numero 13 non compare né come misura, né come numero di pagina. Quando il compositore si accorse con raccapriccio che il titolo del suo Moses und Aaron avrebbe avuto tredici lettere, cancellò 13 1913 gennaio la seconda a di Aaron, e da allora l’opera si chiama Moses und Aron. E adesso aveva di fronte un anno intero all’insegna di quel numero nefasto. Schönberg era nato il 13 settembre – ed era in preda al terrore di morire un venerdì 13. Non ci fu niente da fare. Arnold Schönberg morirà un venerdì 13 (ma nel 1913 + 38, quindi nel 1951). Eppure il 1913 gli riserverà una bella sorpresa. Perché sarà schiaffeggiato in pubblico. Ma una cosa per volta. Prima deve entrare in scena Thomas Mann. Il 3 gennaio, Mann sale di mattina presto su un treno in partenza da Monaco. Legge un po’ di lettere e qualche giornale, guarda dal finestrino le colline innevate della Selva di Turingia, poi tra un colpo di sonno e l’altro, nello scompartimento surriscaldato, pensa con apprensione alla sua Katia, partita per l’ennesimo soggiorno di cura in montagna. D’estate era andato a trovarla a Davos e nella sala d’attesa del dottore, all’improvviso, gli era venuta un’idea per un grande racconto, sennonché ora gli sembra assurda, quella storia da sanatorio è troppo avulsa dalla realtà. E poi mancano poche settimane all’uscita di Morte a Venezia. Thomas Mann è seduto in treno e si preoccupa del suo guardaroba, arrabbiato perché i lunghi viaggi lasciano sempre pieghe sui vestiti, in albergo dovrà far stirare il cappotto un’altra volta. Si alza, fa scorrere la porta dello scompartimento e decide di camminare un po’ avanti e indietro. Con passo talmente legnoso da far pensare agli altri viaggiatori che stia arrivando il controllore. Fuori i castelli di Dornburg scorrono veloci, Bad Kösen, i vigneti del Saale sepolti sotto la neve, i filari di viti che si arrampicano sui pendii come strisce di zebra. Bello, sì, ma più si avvicina a Berlino, più sente la paura salire. Sceso dal treno, si fa subito portare all’albergo Unter den Linden e alla reception si guarda intorno per capire se gli altri ospiti che dietro di lui spingono per raggiungere gli ascensori lo riconoscono. Poi entra in camera, la stessa di sempre, per rivestirsi meticolosamente e dare una pettinata ai baffi. Nel Grunewald, l’estremo lembo occidentale della città, alla stessa ora Alfred Kerr è nello spogliatoio della sua villa in Höhmannstraße 6, si annoda il papillon e si arriccia i baffi all’insù pronto a dare battaglia. Il duello comincerà alle otto di sera. Alle sette e un quarto i duellanti salgono sulle rispettive autopubbliche. Si dirigono verso il teatro da camera del Deutsches Theater, arrivano contemporaneamente. E si ignorano. Fa freddo, si affrettano a entrare. Una volta, a Bansin sul mar Baltico – ma questo rimanga fra noi – lui, Alfred Kerr, il critico più famoso e il bellimbusto più vanesio di tutta la Germania, aveva chiesto la mano di Katia Pringsheim, la ricca ebrea dagli occhi felini. Lei però aveva respinto quel tipo di Breslavia superbo e dalla mente impetuosa, e si era gettata fra le braccia di Thomas Mann, l’anseatico inteccherito come un pezzo di legno. Inconcepibile davvero. E stasera, forse, gliel’avrebbe fatta pagare. Thomas Mann si siede in prima fila e cerca di mostrare una calma olimpica. Stasera, a Berlino, va in scena la prima della sua Fiorenza, il libro che aveva scritto quando era iniziato il suo amore per Katia. Sente che oggi potrebbe essere un fiasco, quell’opera è da sempre la creatura che gli dà più pensiero. Non avrebbero dovuto ricavarne una tragedia, anche per impedire che poi tragedia fosse, di nome e di fatto. «Ho cercato di salvare qualcosa, ma non credo che mi diano ascolto», aveva scritto a Maximilian Harden prima di lasciare la casa di Mauerkircherstraße 13 a Monaco. Detestava andare coscientemente incontro a un insuccesso. Non era degno di Thomas Mann. Eppure, quello che aveva visto a dicembre durante le prove non prometteva niente di buono. Con strazio segue l’opera che dovrebbe far rivivere il Rinascimento fiorentino, ma non ingrana, è più uffa che Uffizi. A un certo punto, Mann si permette di guardare furtivamente oltre la spalla sinistra. Là, in terza fila, scopre Alfred Kerr che infuria con la matita sul blocco degli appunti. In platea è buio pesto, eppure sulla faccia di Kerr crede di intravedere un sorriso. È il sorriso del sadico che gode perché lo spettacolo gli sta offrendo su un piatto d’argento i migliori strumenti di tortura. E quando Kerr intercetta lo sguardo inquieto 14 15 •