La grammatica e la danza nelle relazioni familiari

«Quello che l’ossigeno è
per i polmoni, la speranza
è per il senso stesso della
vita» (Brunner, 1984).
Alimentare la speranza
di fronte a eventi
sconvolgenti ci permette
di continuare a dare il
massimo. La speranza
combina una decisione
interna - uno slancio di
fede - con un evento
esterno che vogliamo
intensamente si verifichi.
Dobbiamo aiutare le
famiglie a ritrovare la
speranza e a tornare
a investire nella
ricostruzione della
loro vita recuperando
frammenti vitali delle
speranze e dei sogni
perduti. La speranza è
una credenza rivolta
al futuro; non importa
quanto il presente sia
cupo, se siamo in grado
di concepire un futuro
migliore.
La sofferenza di ogni
famiglia è unica ma le
parole di Martin Luther
King infondono questa
speranza: «Dobbiamo
accettare la delusione
momentanea, ma
mai perdere l’infinita
speranza».
Froma Walsh
APPROFONDIMENTO
La grammatica
e la danza nelle
relazioni familiari
C
on una brillante metafora, Mary
Bateson ci dice che “siamo chiamati a unirci ad una danza i cui passi
dobbiamo imparare mentre balliamo.
Anche nell’incertezza, siamo responsabili dei nostri passi”»1. Se questa
danza richiede maestria a livello personale, ancor più ne richiede a livello
familiare, considerando la famiglia
gruppo di persone che, scegliendosi,
iniziano un cammino - non sempre
facile e scontato - dove la realtà, la
centralità e la fondamentale ineluttabilità della relazione impongono
a volte passi più che mai veloci ed
equilibrati. Esiste una grammatica
del “doveroso” che tutti dobbiamo
seguire ma c’è anche una danza del
gratuito, personalissima, che nulla e
nessuno può imporre.
A che cosa si pensa nominando la
categoria “famiglia” oggi? Superato
culturalmente, salvo rare eccezioni, il
modello di famiglia estesa, sapendo
guardare oltre i confini del singolo
nucleo familiare, studi recenti ci confermano che, nonostante le differenze culturali e strutturali, la grande
maggioranza delle famiglie preserva
oggi valori tradizionali quali la responsabilità, l’impegno e il sostegno
reciproco2. Imbevuti di una forma di
grammatica che si precisa nel tempo.
Viene da pensare alla famiglia in cui
crebbe il piccolo Luigi Monza: quella
famiglia contadina povera e dignitosa - come tante dell’inizio secolo
scorso - dove la sua stessa fragilità
di bambino timido e un po’ introverso, incapace a volte di offrire il
meglio di sé anche nello stesso percorso scolastico (ebbe a ripetere la
seconda classe elementare); timoroso
nel manifestare i desideri profondi «
come quel “no” espresso con rossore
di fronte all’invito del parroco che lo
avrebbe incamminato in un percorso
formativo sacerdotale - veniva continuamente arginata da una maestria
di adulti non avvallata da titoli scolastici, ma da idee chiare e sentimenti
profondi di coesione.
Furono maestri i suoi genitori nell’insegnargli come si affrontano coraggiosamente le prove della vita - un
fratellino morto piccolo e un altro,
adulto, dopo la prima guerra mondiale - e come si cresce condividendo
ciò che si possiede, nella certezza che
il necessario non manca quando con
gratitudine si spartisce il poco ricevuto da mani provvidenti.
Ma ancor più furono maestri nella
capacità di rispettarlo dimostrandogli il loro bene anche quando il papà
rimase paralizzato dopo la caduta da
un albero e la mamma ebbe il coraggio e la forza, pur nelle ristrettezze
economiche e nella privazione di un
sostegno affettivo, di permettere che
lui continuasse negli studi di seminarista. «Questa donna semplice e forte
incoraggiò il figlio senza preoccuparsi (…). Don Luigi ricordava spesso con
molto umorismo la partenza in treno
con un altro ragazzo la cui mamma
ripeteva con insistenza “Mangia,
mangia!”; mentre la sua gli diceva
“Tu vai per il Signore!”» 3.
Fu questo tipo di insegnamento familiare - una grammatica di fatti che
mai gli fecero pesare e tanto meno
gli rinfacciarono come ostacolo,
tessuta con la leggerezza di passi di
danza - che plasmò in lui, a dispetto
del carattere e dell’apparenza, quella forza nascosta capace di renderlo
perseverante nel suo cammino di se-
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NUTRIRE LA FAMIGLIA ENERGIA PER LA VITA
NUTRIRE LA FAMIGLIA
ENERGIA PER LA VITA
APPROFONDIMENTO
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rio impegno nonostante le difficoltà
che si frapposero. Interruzioni nel
percorso scolastico dovute all’incidente del padre e, successivamente,
allo scoppio della guerra; preparazione affrettata per recuperare il tempo
perduto; condizioni di studio limitato
dal compito di “prefetto” (educatore)
per potersi mantenere economicamente senza gravare sulla famiglia.
È solo attingendo a queste radici
che capiamo bene, ad un certo punto della sua esistenza, il nascere di
un’Opera - La Nostra Famiglia - tanto particolare nelle sue caratteristiche specifiche quanto nello stesso
nome con cui volle chiamarla.
Fu l’attenzione ai segni e ai bisogni
del suo tempo che fece maturare in
lui l’incontro con il mondo dei poveri
e della disabilità e il costituirsi di una
Famiglia come segno concreto dell’amore di Dio nel mondo. Un amore
respirato innanzitutto fra le mura
domestiche dove gli interessi personali passavano in secondo piano rispetto al bene, alla felicità e alla realizzazione di altri, con la capacità di
scommettere sul loro futuro non alla
maniera di un imprenditore che calcola quanto gli può rendere un buon
investimento, ma come il personaggio evangelico che, trovata una perla
preziosa, vende tutto ciò che ha per
acquistarla. Fa riflettere il fatto che
don Luigi sognò questa Istituzione
non come qualcosa che fosse semplicemente “accanto ed oltre” i suoi
impegni o doveri di parroco, quasi che questi non gli bastassero, ma
come qualcosa che nasceva proprio
all’interno del suo spendersi per tutte
quelle persone, quelle famiglie, quei
giovani, quei poveri, quei “lontani”
che erano il primo interesse delle sue
giornate. In una grammatica di relazioni che nessun testo può insegnare.
Prese una “famiglia” come icona perché La Nostra Famiglia gli nacque
dentro da un’idea precisa di paternità e maternità che aveva assorbito
in casa sua dove ritrovò il coraggio,
la forza di un’apertura e di un disinteresse che non aveva limiti. Ma, accanto a questo, un’intuizione parallela che si agganciava direttamente
allo “stile di famiglia” proprio delle
comunità cristiane dei primi secoli dove a decidere su che cosa fosse
più opportuno realizzare non erano i
progetti, i programmi stilati a tavolino, le discussioni sulle migliori occasioni del momento, ma era l’interrogativo che ponevano le persone di
quell’epoca, di quella società, soprattutto in merito ai bisogni più urgenti
a cui far fronte.
Assorbendo il concetto di “casa”
come ambito in cui una persona c’è
e cresce - un individuo vive dove è
accolto, esiste solo dove è amato fu significativa la scelta del nome
“La Nostra Famiglia”, così motivata:
«Come figli dello stesso Padre tutti
gli uomini formano un’unica famiglia (…) i suoi membri devono amarsi
come fratelli e sorelle, padri e madri»; dunque nell’unica tensione ideale di far star bene chi vive accanto
perché si sente rispettato, sostenuto,
custodito, tenuto dentro, come a
casa propria.
C’è un cardine di fortezza intrinseco
all’Istituzione e che rimanda decisamente allo stile familiare; un elemento legato al fatto che - come si
legge nella mission de La Nostra Famiglia - «L’Associazione intende farsi
carico non solo della disabilità ma
della sofferenza personale e familiare che l’accompagna».
Attraverso la grande famiglia di operatori oggi presenti e attivi nell’Opera, si rende visibile questa vicinanza
alle persone che non è solo di tipo
tecnico, ma va ben oltre e si mani-
festa in gesti familiari concreti: di
attenzione, di sollievo, di tenerezza,
di risposta alle necessità profonde
dell’altro.
Forse non ci si immagina quanto risanatrice sia questa attitudine, ben
superiore a tutte le tecniche più sofisticate e pur doverose che si mettono
in atto per risolvere i problemi della
malattia. Assorbe tutta la forza di una
grande presenza di speranza dentro
le cure elargite, ed è autentica forza
motrice che aiuta a superare lo scoraggiamento, riuscendo a trasformare
la sofferenza in conquista di maggior
solidarietà. Un aspetto di concretezza,
di umanità tradotto per l’Opera, nella
capacità di “prendersi cura”: vera sintesi di grammatica e danza.
Un curare che è antropologia ed
educazione. È il gesto che lenisce un
affanno; la parola buona che solleva una pena; l’ascolto partecipe che
rende meno crudo un dolore; è la
preoccupazione di chi ha a cuore il
lamento o la supplica dell’altro. Una
cura che è anche educazione: nell’accompagnare chi cresce; nel custodire
un progetto che evolve nel tempo;
nella permanenza di un ricordo affettivo. Perché nessun male è incurabile, anche se inguaribile. Tutte le
volte che ciò avviene, si resta fedeli
alla consegna del nome “La Nostra
Famiglia” attraverso lo spessore dei
gesti quotidiani, familiari.
Come si fa a declinare la grammatica
a cui tutti oggi siamo sottoposti con
passi di danza originali e innovativi?
Lo si può fare e lo fa sia impegnando
energie, forze nello sconfiggere il dolore, il male e investendo in operatori
preparati; ma soprattutto stando vicino alle persone nel dare una risposta al significato stesso della malattia
e incoraggiando nella ricerca del senso di quanto è capitato.
Tenere insieme questi due elementi
è un punto di forza per La Nostra
Famiglia, una grossa scommessa con
cui si presenta nella società ma anche
una dimostrazione della sua capacità
di essere struttura umanizzante, che
accoglie le persone situandole in un
APPROFONDIMENTO
1
FROMA WALSH, La resilienza familiare,
Milano 2008.
2
Ibidem.
3
BOFFI, MEZZADRI, ONNIS, Don Luigi
Monza, un profeta della carità, Cinisello
Balsamo (Milano), 1996.
Avviata una ricerca del Medea su disabilità
e qualità della vita
Costruire risorse
e significati
nella famiglia
L
’Associazione La Nostra Famiglia
ha mantenuto alto - negli ultimi
70 anni in Italia e negli ultimi 30
anni in altri continenti - il valore
della vita, soprattutto se questa si
presenta nei suoi aspetti più fragili
e vulnerabili. La mission dell’Associazione suona come una sfida importante: essa intende “farsi carico
della disabilità e della sofferenza
personale e familiare che l’accompagna”.
Per tale motivo la sezione scientifica dell’Associazione, l’IRCCS Medea,
ha avviato una ricerca sulla qualità
della vita delle famiglie con un figlio disabile. Numerosi studi hanno
dimostrato che la qualità della vita
non dipende semplicemente dalle
condizioni di salute fisica: la maggior parte delle persone con patologie croniche individua conseguenze
positive della malattia, quali il miglioramento delle relazioni sociali e
di alcuni aspetti della personalità,
cambiamenti favorevoli delle priorità, il reperimento di nuovi obiettivi e nuovi significati (Sodergren &
Hyland, 2000).
È necessario studiare la qualità della vita percepita da famiglie che
quotidianamente si confrontano
con la gestione di malattie croniche
o disabilità: argomento sostanzialmente trascurato dalla letteratura
scientifica tradizionalmente focalizzata sulle ripercussioni negative
che questa situazione esercita sulle
famiglie, ed in particolare sui caregiver. Tenendo conto della resilienza familiare (Walsh 2011), diventa
fondamentale identificare le risorse
che favoriscono sviluppo, benessere e progettualità di famiglie che si
trovano a gestire un elevato carico
di assistenza a figli con disabilità.
Questo progetto ha come oggetto
precipuo l’analisi della qualità di
vita della famiglia nel quotidiano,
in una prospettiva di crescita e sviluppo psicosociale.
Gli strumenti utilizzati indagano,
oltre al carico percepito dai caregiver, la loro percezione di benessere
nei diversi ambiti della vita quotidiana, nonché i fattori di resilienza
familiare.
Tra gli obiettivi della ricerca: 1)
raccogliere dati con strumenti
scientificamente solidi esplorando l’esperienza dei caregiver come
persone con la propria percezione
di qualità della vita; 2) individuare
bisogni/potenzialità del caregiver/
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NUTRIRE LA FAMIGLIA ENERGIA PER LA VITA
ambito in cui ognuno si sente curato.
C’è un messaggio che passa direttamente al cuore della gente, soprattutto quando si trova in situazioni disperate: è l’interesse, l’attenzione - anche
nel dettaglio - che si presta loro in
mille modi. Dalla modalità di avvicinarle a quella di porgere il saluto o di
chiedere il motivo per cui sono ricorse
a noi; alla creazione di un ambiente
fisico decoroso, colorato, ordinato,
pulito che le accoglie.
Sono aspetti umani che richiamano
l’ambito di famiglia dove si diventa
capaci di compassione attiva per le
persone incontrate; una compassione vista non come impegno legato al
dovere ma come stile in cui l’altro è
accolto non solo nella propria testa
ma anche nel proprio cuore; restituito così al suo valore pieno.
È in questa dimensione che si colloca
la presenza di una speranza che educa
e aiuta a guarire, indipendentemente
dai risultati che si ottengono dopo
anni di riabilitazione. Perché la guarigione non è solo un evento esterno
che tocca il corpo, ma passa attraverso una forma di relazione d’amore
profondamente umana; una relazione
familiare dove la persona percepisce
che la propria reintegrazione e riabilitazione è desiderata da chi gli sta intorno e gli dà gioia, perché la sua vita
è preziosa ed importante.
Questa forma di bene desiderato e offerto, non riproduce solo un ambito
familiare e tranquillo auspicato anche
dagli insegnamenti e dalle semplici
espressioni di don Luigi, ma fa molto
di più: è condividere il sentire di Dio
verso l’umanità; la sua benevolenza
senza limiti, la sua immensa tenerezza. Intrecciando così la grammatica
delle relazioni con passi di danza.
Gianna Piazza