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Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 4
GIOVANNI G.A. DATO
Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 4
1) T.A.R., Campania, Salerno, sez. II, 8 gennaio 2009, n. 15
Pres. Esposito, Est. Severini
(Sul principio di alternatività - electa una via non datur recursus ad alteram - nei rapporti
fra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario)
E’ noto che il principio ispiratore dei rapporti fra ricorso giurisdizionale e ricorso
amministrativo è quello dell’alternatività, principio espresso nell’art. 8, comma 2, del
d.P.R. n. 1199 del 1971 ("Quando l’atto sia stato impugnato con ricorso giurisdizionale, non
è ammesso il ricorso straordinario da parte dello stesso interessato") e nell’art. 20, comma 4,
della legge n. 1034 del 1971 ("Quando sia stato promosso ricorso al tribunale
amministrativo regionale è escluso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica") e
manifestato nel brocardo latino electa una via non datur recursus ad alteram.
La regola dell’alternatività risulta opportunamente rivolta ad impedire la possibilità
dell'emissione di pronunce contraddittorie da parte delle Sezioni consultive e delle
Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, con conseguente sovrapposizione della
decisione giurisdizionale alla decisione del ricorso straordinario (Cons. Stato, sez. I,
24 settembre 2003, n. 3460).
La giurisprudenza afferma costantemente che il principio di alternatività fra ricorso
giurisdizionale e ricorso straordinario, dato il suo carattere limitativo dell’esercizio
del diritto di azione, non è suscettibile di applicazione analogica, ma opera nel solo
caso contemplato dagli artt. 8, comma 2, del d.P.R. n. 1199 del 1971, e 20, comma 3,
della legge n. 1034 del 1971.
Si è escluso, in particolare, che sussista un rapporto di alternatività tra l'azione avanti
l’Autorità giudiziaria ordinaria ed il ricorso straordinario (Cons. Stato, sez. VI, 9
aprile 2001, n. 2157; Cons. Stato, sez. II, 7 aprile 1993, n. 1035; Cons. Stato, sez. III, 31
ottobre 2000, n. 1344/99; Cons. Stato, sez. 7 maggio 2002, n. 1164/02).
E’ stato osservato, altresì, che il principio dell’alternatività deve logicamente trovare
applicazione anche nel caso di due impugnative rivolte dal medesimo soggetto
avverso lo stesso atto, ancorché nei confronti di punti diversi di tale atto (Cons. Stato,
sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5016; Cons. Stato, sez. IV, 1 aprile 1999, n. 502).
Il principio in parola, è stato precisato, non è suscettibile di applicazione analogica e
presuppone l’identità della domanda proposta con i due rimedi, per cui non trova
applicazione quando il provvedimento impugnato in sede giurisdizionale sia distinto
da quello oggetto del precedente ricorso straordinario o, comunque, risulti adottato
da organi diversi, sulla base di criteri non identici rispetto a quelli seguiti
nell'adozione dell'altro atto, ovvero all'esito di un procedimento al quale abbiano
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partecipato altri soggetti (Cons. Stato, sez. IV, 31 dicembre 2003, n. 9292; Cons. Stato,
sez. VI, 13 febbraio 1991, n. 92; Cons. Stato, sez. VI, 9 ottobre 1997, n. 1460; Cons.
Stato, sez. VI, 24 maggio 2002, n. 2826; Cons. Stato, sez. I, 19 gennaio 2000, n. 820/99;
Cons. Stato, sez. I, 24 settembre 2003, n. 3460/03; Cons. Stato, sez. II, 10 maggio 1995,
n. 1126; Cons. Stato, sez. III, 28 marzo 2000, n. 378).
Si è detto che l'inammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso un atto già
impugnato in sede di ricorso straordinario è configurabile anche se con il nuovo
ricorso vengano sollevate questioni solo in parte coincidenti con quelle che ebbero a
formare l'oggetto del ricorso straordinario in quanto dedotte o non rilevate, ciò in
applicazione del principio processualistico, operante anche in tal caso, in forza del
quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile (cfr. Cons Stato, sez. IV, 31
dicembre 2003, n. 9292; T.A.R. Lazio, Roma, 12 dicembre 2007, n. 12978; T.A.R. Emilia
Romagna, Bologna, sez. I, 19 dicembre 2003, n. 2708; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I,
26 febbraio 2003, n. 1858).
La regola dell'alternatività tra il ricorso straordinario al Capo dello Stato e il ricorso
giurisdizionale non opera quando il medesimo atto sia impugnato da due soggetti
diversi, cointeressati tra loro (cfr. Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 1996, n. 2131).
La giurisprudenza, tuttavia, risulta divisa quanto ai profili oggettivi di
perimetrazione del principio atteso che:
a) in alcune decisioni è stato sostenuto che il principio in esame opera esclusivamente
in caso di impugnative aventi ad oggetto il medesimo atto – cd. impugnative dirette
concernenti il medesimo petitum (cfr. ad es. Cons. Stato, Ad. Plen., 15 marzo 1989, n.
5). Si è detto, invero, che il principio di alternatività non opera anche quando il
provvedimento impugnato in sede giurisdizionale è distinto da quello oggetto del
precedente ricorso straordinario", in quanto tale dotato di una sua specifica capacità
lesiva (T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 5 giugno 2008, n. 1654);
b) in altre si è invece precisato che il principio opera anche in caso di impugnazione
nelle due diverse sedi di un atto presupposto e di un atto applicativo ad esso
consequenziale – cd. impugnative indirette (Cons. Stato, sez. III, 16 maggio 2002, n.
726; Id., sez. II, 14 dicembre 1994, n. 1409; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 26
febbraio 2003, n. 1858; T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 15 novembre 2005, n. 1466). Sia
stato, dunque, l'atto presupposto già impugnato in sede giurisdizionale (v. Cons.
Stato, sez. II, 23 maggio 2007, n. 945/2005), sia stato lo stesso già impugnato in sede
straordinaria (v. Cons. Stato, sez. IV, n. 1852/2005), se le censure prospettate avverso
l'atto consequenziale risultino tutte sostanzialmente riferite all'atto presupposto, la
regola dell'alternatività obbliga l'interessato a far uso della medesima tipologia di
tutela giustiziale, pena la declaratoria di inammissibilità del diverso rimedio
impiegato (T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 14 marzo 2008, n. 929). E’ stato
evidenziato, altresì, che la sussistenza di un nesso di stretta consequenzialità
giustifica l’operare della regola dell’alternatività (quale, ad es., il caso
dell’impugnativa in sede amministrativa del bando di concorso, quale atto
presupposto, per dimostrare l’illegittimità dell’atto applicativo, costituito dal
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provvedimento di esclusione dal concorso medesimo: cfr. Cons. Stato, sez. III, 28
ottobre 2003, n. 1681/03), onde evitare il possibile contrasto di giudizi di diversi
organi giudicanti dello stesso plesso, in ordine al medesimo oggetto (cfr. Cons. Stato,
sez. I, 3 febbraio 1999, n. 981/98; Cons. Stato, sez. III, 4 dicembre 2001, n. 1968/01).
Ove, invece, si dovesse ritenere che il principio dell’alternatività trovi incondizionata
applicazione anche in casi in cui non vi sia un nesso di stretta consequenzialità tra i
due provvedimenti impugnati nelle diverse sedi e si tratti, comunque, di
provvedimenti diversi e distinti, ne deriverebbe un sicuro vulnus all’altro principio,
di rango costituzionale, di effettività della tutela giurisdizionale (cfr. artt. 24, 103 e
113 Cost.).
Secondo la decisione in commento l’operatività del principio di alternatività,
testualmente riferito al caso di ricorsi proposti, nelle diverse sedi giurisdizionale e
straordinaria, avverso gli stessi atti, è stata progressivamente estesa, in via
d’interpretazione giurisprudenziale, all’ipotesi dell’impugnativa di atti distinti,
purché legati tra loro da un nesso di presupposizione.
In particolare, s’è affermato che la regola dell’alternatività tra il ricorso straordinario
al Capo dello Stato e quello giurisdizionale, sancita dall’art. 8 d.P.R. 24 novembre
1971, n. 1199, pur non essendo suscettibile di interpretazione analogica, allorché le
due impugnative riguardino atti distinti, deve comunque ritenersi operante nel caso
in cui dopo l’impugnativa in sede giurisdizionale dell’atto presupposto venga
successivamente impugnato in sede straordinaria l’atto conseguente, al fine di
dimostrarne l’illegittimità derivata dalla dedotta invalidità dell’atto presupposto; ciò
per l’identità sostanziale delle due impugnative in relazione alla ratio della norma
summenzionata, la quale appare volta ad impedire un possibile contrasto di giudizi
in ordine al medesimo oggetto. Tale principio è da ritenersi ugualmente valido nella
situazione inversa in cui l’atto presupposto sia stato precedentemente impugnato in
sede straordinaria (Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2005, n. 1852).
Nella motivazione della sentenza, testé citata, si osserva, inoltre, che la correttezza di
un simile orientamento appare altresì suffragata dalle sopravvenute disposizioni
della legge 21 luglio 2000, n. 205, che all’art. 1, nel modificare l’art. 21 della citata
legge n. 1034 del 1971, pongono in rapporto di stretta correlazione tutti i
provvedimenti successivi che risultino connessi a quello originariamente impugnato,
stabilendo che i predetti atti ulteriori sono impugnati mediante proposizione di
motivi aggiunti, al fine evidente di favorire la trattazione congiunta di tutte le
questioni afferenti ad un medesimo oggetto.
Inoltre, secondo l’indirizzo, espresso nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 16
ottobre 2006, n. 6170, l’istituto dei motivi aggiunti, in corso di causa, avverso atti
diversi da quelli, impugnati con il ricorso principale, purché a quelli direttamente
collegati, introdotto dalla l. 21 luglio 2000 n. 205, risponde ad esigenze di economia
processuale ed è comunque alternativo alla riunione dei due distinti ricorsi,
eventualmente proposti separatamente, ferma restando l’autonomia delle
impugnative: orbene, è evidente come un ricorso al Tribunale Amministrativo
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Regionale, proposto avverso un provvedimento, consequenziale ad un atto,
precedentemente impugnato in sede straordinaria, oltre a violare la regola, sopra
riferita, della necessaria presentazione di motivi aggiunti, contro i provvedimenti
connessi a quello originariamente impugnato, impedisce, in pratica, anche il ricorso
all’istituto, alternativo, della riunione dei due (o più) ricorsi, proposti separatamente
(nella stessa sede, giurisdizionale o straordinaria), con conseguente frustrazione
dell’esigenza, posta in rilievo dai Giudici d’Appello, di tutela della speditezza e della
concertazione giudiziale.
Il principio enunciato non potrebbe del resto esser derogato, in virtù della dedotta
diversità degli atti impugnati con il ricorso straordinario e con quello proposto in
sede giurisdizionale, rispettivamente inerenti, nella fattispecie in esame e secondo la
prospettazione del ricorrente, alla pianificazione urbanistica (il primo) ed al
successivo e distinto procedimento ablatorio (il secondo), "indipendentemente dal fatto
che i primi costituiscano il presupposto per l’emanazione dei secondi". Si deve, viceversa,
porre in risalto la sostanziale unità del procedimento espropriativo, che trova
testuale conferma, del resto, nell’art. 8 del d.P.R. n. 327/2001, la quale disposizione
individua, quali presupposti per l’emissione del decreto di esproprio, la previsione,
nello strumento urbanistico ovvero in un atto per natura a questo equivalente,
dell’opera da realizzare e l’apposizione sui beni da espropriare del vincolo
preordinato all’esproprio.
Non è, tuttavia, soltanto la considerazione della natura giuridica di atto presupposto,
propria degli atti impugnati – nella specie – in sede straordinaria, rispetto a quella, di
atto conseguente, propria del decreto d’esproprio, gravato in sede giurisdizionale,
ma anche, sul piano pratico, la valutazione delle conseguenze, che deriverebbero da
una mancata applicazione del principio dell’alternatività tra tali rimedi, a convincere
il Decidente dell’imprescindibile necessità di tale soluzione.
2) Consiglio di Stato, sez. VI, 12 gennaio 2009, n. 38
Pres. C. Varrone, Est. F. Bellomo
(Sul dies a quo ai fini della decorrenza del termine di impugnazione)
L’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dall’art. 1 della legge
21 luglio 2000, n. 205, prevede che “il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha
emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o
almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di sessanta giorni da quello in cui l'interessato ne
abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui
non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento”.
Alla luce della predetta disposizione (si veda al riguardo anche l’art. 2 del R.D. 17
agosto 1907, n. 642 e l’art. 36 del T.U. n. 1054/1924) sono sostanzialmente tre le forme
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di conoscenza che la legge prende in considerazione ai fini della decorrenza del
termine di impugnazione degli atti amministrativi in sede giurisdizionale:
- la notifica del provvedimento, nel caso di impugnazione di atti per i quali è
richiesta la notifica individuale; nell’ipotesi in cui l’atto abbia destinatari diretti,
accanto alla notificazione vera e propria, è ammessa la comunicazione individuale
che contenga gli elementi essenziali del provvedimento;
- la pubblicazione del provvedimento, per i soggetti nei confronti dei quali non
sussiste l’onere di notificazione individuale (c.d. terzi interessati), sempreché la
pubblicazione sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento (cfr. infra);
- la piena conoscenza del provvedimento in qualsiasi modo acquisita dall’interessato,
indipendentemente dalla notificazione, comunicazione o dalla pubblicazione del
provvedimento (c.d. norma di chiusura o criterio residuale: la provata piena
conoscenza di un atto amministrativo è comunque idonea a fare decorrere il termine
per la sua impugnazione: cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 6 ottobre 2003, n. 5900,
Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giur., 2 ottobre 2003, n. 321; l’onere di provare la
piena conoscenza incombe su chi eccepisce la tardività del ricorso, mediante mezzi
probatori univoci e chiari, diretti ad accertare che il gravame è stato proposto dopo la
scadenza del termine decadenziale: cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 13 dicembre
2005, n. 7058; Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 550; Cons. Stato, sez. V, 28
maggio 2004, n. 3465).
E’ noto che la giurisprudenza più recente ha interpretato le disposizioni citate nel
senso di ampliare le ipotesi in cui è necessaria la notifica individuale dell’atto
pregiudizievole, giungendo a ritenere sussistente l’obbligo in questione non solo in
favore dei soggetti nominativamente indicati dall’atto impugnato (così il citato art. 2
del R.D. n. 642/1907), bensì anche in favore di soggetti comunque facilmente
individuabili a cagione del suo contenuto (si veda al riguardo Cons. Stato, sez. V, 6
dicembre 1994, n. 1460, secondo cui “a norma dell'art. 2 r.d. 17 agosto 1907 n. 642 deve
essere notificato o comunicato l'atto anche a chi, pur non menzionato, sia in qualche modo da
ritenere destinatario del medesimo; pertanto, nei confronti di tali soggetti la pubblicazione
dell'atto nelle forme di rito non fa decorrere il termine decadenziale per l'impugnazione,
occorrendo a tal fine la notifica o comunicazione individuale ovvero la prova dell'effettiva
conoscenza”; cfr. anche T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 26 gennaio 2006, n. 508).
La giurisprudenza amministrativa ha, dunque, pacificamente concluso che sono da
ritenere soggetti interessati ai quali deve essere comunicato o notificato il
provvedimento anche coloro che possono essere individuati come soggetti sulle cui
posizioni l'atto specificamente incide, sulla base del contenuto a esso stesso
pertinente; cioè soggetti che, pur non specificamente menzionati nel provvedimento,
da questo ricevono posizioni di svantaggio o vantaggio in via immediata (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 4 maggio 2004, n. 2715); ancor più di recente, è stato affermato che le
persone direttamente contemplate nell'atto amministrativo a cui deve essere
notificato o comunicato l'atto stesso non sono soltanto i soggetti menzionati nell'atto,
ma anche quelli che, pur non essendo menzionati, siano in qualche modo da ritenersi
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destinatari del medesimo perché titolari di un interesse qualificato, inciso dall’atto.
Pertanto, nei confronti di tali soggetti, la pubblicazione dell'atto non fa decorrere il
termine per l'impugnazione, occorrendo, a tal fine, la notificazione o comunicazione
individuale, ovvero la prova dell'effettiva conoscenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13
dicembre 2005, n. 7058; Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2001 n. 3131; T.A.R. Sicilia,
Catania, sez. I, 20 aprile 2006, n. 604; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 3 febbraio 2005, n.
121).
La previsione racchiusa nell’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come
modificato dall’art. 1 della legge 21 luglio 2000, n. 205 - nella parte in cui stabilisce
che ogni qual volta vi sia un obbligo normativamente previsto di pubblicazione, dal
giorno della sua scadenza decorre il termine per l’impugnazione - costituisce
un’importante innovazione operata dal legislatore del 2000 in materia di decorrenza
dei termini di impugnazione; ed invero, l’inciso <<*<+ termine della pubblicazione, se
questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento *<+>> è frutto della modifica
legislativa intervenuta (come già anticipato) con la l. n. 205/2000 la quale, recependo
il prevalente orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, ha espressamente
precisato che il termine per l’impugnazione dell’atto decorre dalla scadenza del
termine della sua pubblicazione qualora questa forma di comunicazione (in ogni caso
vaga ed oggettivamente dispersiva) sia prevista puntualmente dalla legge o da una
disposizione regolamentare.
Ed invero, un orientamento giurisprudenziale formatosi antecedentemente alla
novella del 2000, riteneva che la pubblicazione del provvedimento amministrativo in
appositi albi fosse sufficiente a costituire la situazione di conoscenza legale da parte
degli interessati, ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, se prescritta da
una disposizione di legge che tale effetto espressamente riconoscesse e fosse
effettuata nei modi prescritti dalla disposizione stessa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 7
marzo 1997, n. 217; Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 1993, n. 467; Cons. Stato, sez. V, 19
settembre 1991, n. 1176; Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 1982, n. 839).
Oggi, pertanto, nessuno dubita - a seguito della novella del 2000 - che la
pubblicazione del provvedimento è sufficiente a costituire la situazione di
conoscenza legale ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione solamente
quando essa è prescritta da una disposizione normativa che espressamente riconosce
tale effetto e solo quando tale operazione è stata effettuata nei modi stabiliti dalla
disposizione stessa (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1585;
Cons. Stato, sez. V, 2 dicembre 2002, n. 6601; Cons. Stato, sez. VI, 11 gennaio 2001, n.
96).
Del resto, una diversa interpretazione sarebbe costituzionalmente “eccentrica” atteso
che la Corte costituzionale con la sentenza 8 aprile 1997, n. 86 ha posto il principio
generale in materia di tutela giurisdizionale, per cui - salvo il caso di una specifica
disposizione legislativa che attribuisca alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
l’effetto della decorrenza del termine - solo dalla piena ed effettiva conoscenza di un
atto inizia a decorrere il termine decadenziale per la sua impugnativa.
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Come chiarisce la sentenza in commento, la pubblicità contenuta nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana circa l’adozione di un determinato atto
amministrativo, nella fattispecie, non è idonea ad assolvere il requisito della
conoscenza legale del detto provvedimento, perché non prevista da norme di legge
che vi ricolleghino tale effetto.
Tuttavia, osserva il Decidente, è piuttosto evidente come in capo alla parte appellata
debba ritenersi perfezionato il requisito della conoscenza del provvedimento
impugnato, pur in difetto di formale comunicazione.
Infatti, le ripetute indicazioni contenute negli atti giudiziari in uno al notevole lasso
di tempo decorso dall’adozione del provvedimento e dalla sua pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale (e, si potrebbe aggiungere, alla qualità professionale
dell’appellata), integrano quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, ai sensi
dell’art. 2729 c.c., consentono di provare il fatto ignoto attraverso fatti noti.
La circostanza che gli atti giudiziari fossero direttamente conosciuti dal solo
difensore processuale non rileva al fine di escludere la validità dell’inferenza (posto
che, se così non fosse stato – nel senso che gli atti fossero stati direttamente portati a
conoscenza della parte –, il problema neppure si poneva). Non vale, dunque,
richiamare l’orientamento giurisprudenziale che nega l’esistenza di un onere di
conoscenza della parte rappresentata degli atti comunicati al suo difensore o di cui
questi abbia conoscenza, giacché il punto è un’altro: la presunzione risiede proprio
nel fatto che, secondo regole di comune esperienza, il difensore dialoga con la parte
che rappresenta processualmente sulle questioni rilevanti per la controversia, a
maggior ragione dopo che la stessa si sia già conclusa con sentenza.
3) T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 14 gennaio 2009, n. 105
Pres. Speranza, Est. Scudeller - Fera Pietro c. Commissario Straordinario Albo Psicologi,
Ministero di Grazia e Giustizia
(Sulla giurisdizione ordinaria in materia di iscrizione all’albo degli psicologi e sulla
traslatio judicii)
La decisione in commento, in aperta adesione ad un orientamento ormai risalente
(Cass. civ., Sez. Un., nn. 2994/1991, 682/1992, 2096/1992, 136/1993, 4182/1994), rileva
che in tema di controversie relative all’iscrizione all'albo professionale degli
psicologi, secondo le previsioni della l. 18 febbraio 1989, n. 56, deve affermarsi la
giurisdizione del giudice ordinario (con pienezza di poteri, inclusa quindi la
pronuncia di condanna ad eseguire l'iscrizione medesima), la quale è espressamente
prevista, nella disciplina definitiva, in sede di ricorso contro i provvedimenti degli
istituendi consigli regionali o provinciali, giurisdizione che deve essere affermata,
nella disciplina transitoria, anche in sede di ricorso contro i provvedimenti del
commissario straordinario nominato per la formazione di detto albo, atteso che pure
in tale ipotesi l'iscrizione stessa si correla al riscontro di requisiti predeterminati dalla
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citata legge, con margini di discrezionalità meramente tecnica e non amministrativa,
di modo che le posizioni soggettive degli aspiranti hanno natura e consistenza di
diritti soggettivi (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2004, n. 12267).
Data l’appartenenza della controversia alla giurisdizione ordinaria, il Decidente,
viste la sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007 che, nel dichiarare
l’illegittimità dell’articolo 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 ha introdotto
l’istituto della translatio judicii, quindi la possibilità di proseguire il giudizio innanzi
al giudice fornito di giurisdizione, con conservazione degli effetti processuali e
sostanziali della domanda e viste le decisioni del Consiglio Stato sez. VI, 13 maggio
2008, n. 2231, Consiglio Stato sez. VI, 28 giugno 2007, n. 3801, Consiglio di Stato sez.
V, 14 aprile 2008, n. 1605; Consiglio di Stato sez. V, 20 agosto 2008, n. 3969, ha
dichiarato il difetto di giurisdizione dell’adìto Tribunale e la salvezza degli effetti
processuali e sostanziali della domanda che dovrà essere riassunta, ai sensi dell’art.
50 c.p.c., innanzi al giudice competente nel termine perentorio di giorni novanta,
decorrente dalla comunicazione a cura della segreteria o dalla notificazione, se
anteriore, della sentenza.
4) T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 7 gennaio 2009, n. 37
Pres. f.f. ed Est. Biancofiore - Zangara c. Regione Calabria
(Sulla traslatio judicii)
E’ noto che la Corte Costituzionale, con la decisione n. 77 del 2007, nel sancire il
principio di translatio judicii, in base al quale ha dichiarato la illegittimità
costituzionale dell’art. 30 della c.d. legge TAR, nella parte in cui non prevede che
quando un giudice dichiari il proprio difetto di giurisdizione deve anche indicare il
giudice a cui appartiene la potestas iudicandi, dinanzi al quale si conservano gli effetti
sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta, ha anche
escluso espressamente la possibilità di applicare l’art. 50 c.p.c. al processo
amministrativo ritenendo espressiva di una scelta di fondo rimessa alla
discrezionalità del legislatore l’individuazione della disciplina della riassunzione.
Tale posizione, invero, non è stata condivisa dal Consiglio di Stato che ha appunto
ritenuto applicabile l’art. 50 c.p.c. che ha stabilito in sei mesi il periodo di tempo
necessario per la riassunzione dinanzi a giudice competente, pena la decadenza.
In altre analoghe circostanze il TAR ha condiviso questa posizione dell’Alto
Consesso, osservando che se da un lato il giudice delle leggi, in ordine alla
traslazione del giudizio, ha sottolineato che “la determinazione delle relative
modalità spetti al legislatore che dovrà intervenire con “l’urgenza richiesta
dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale””, “parte della
giurisprudenza amministrativa ha, però, ritenuto che, nelle more del necessario
intervento legislativo – per evitare l’inconveniente di una azione sospesa sine die e
dunque nella assoluta disponibilità di una delle parti – trovi applicazione in via
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analogica l’art. 50 c.p.c.. (T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 26 settembre 2008, n.
1319) “Tale norma – prosegue il TAR – dettata in materia di competenza, stabilisce
che deve essere lo stesso giudice che declina la competenza a fissare il termine della
riassunzione, puntualizzando che, in mancanza, il termine è quello di sei mesi “dalla
comunicazione della sentenza”.
Nel caso in esame - osserva il Decidente - la posizione non può essere condivisa,
perché le Sezioni Unite, nel declinare la giurisdizione sulla controversia de qua hanno
cassato senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro ed hanno
dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo.
La decisione non conteneva termine per la riassunzione, né è stata comunicata alle
parti, sicchè in assenza di una contraria dimostrazione e specificazione del momento
in cui la sentenza è stata comunicata o quando è stata pubblicata, il Collegio ritiene
applicabile l’art. 35 della c.d. legge TAR per la riassunzione del giudizio davanti al
T.A.R. in caso di rinvio della causa a questo da parte del giudice di appello, come da
risalente ma condivisibile giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V,
3 novembre 1978, n. 1083).
5) T.A.R. Sardegna, 12 gennaio 2009, n. 15
Pres. Silvestri; Est. Manca - S. M. c. Consiglio Regionale della Sardegna
(Sull’interesse “diretto, concreto e attuale” legittimante l’accesso)
L’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, nella versione introdotta
dall'articolo 15, comma 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15, subordina l’esercizio del
diritto di accesso alla dimostrazione della titolarità di «un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al
quale è chiesto l'accesso».
L’interesse all’accesso è ulteriormente circoscritto dall’art. 24, comma 3, che esclude
l’ammissibilità di «istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato
delle pubbliche amministrazioni».
Secondo il Decidente, l’interesse all’accesso - nella definizione risultante dopo le
modifiche della legge n. 15/2005 - si presenta sempre collegato ad una situazione
giuridica tutelata dall’ordinamento, mostrando una natura strumentale e non
autonoma rispetto a questa. In altri termini, l’esercizio del diritto di accesso è
costruito come un mezzo (ulteriore) per la tutela di autonome posizioni giuridiche
sostanziali. Inoltre, occorre che l’interesse sia diretto (cioè personale), concreto e
attuale.
Queste due ultime qualifiche, data la premessa della natura strumentale dell’accesso,
non possono che essere riferite alla situazione giuridicamente tutelata, e tuttavia non
possono essere interpretate nel senso di dover dimostrare la concreta e attuale
possibilità di agire per la tutela giurisdizionale della situazione giuridica sottesa
all’interesse all’accesso, dato che le ragioni per agire potrebbero emergere solo dopo
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l’avvenuta conoscenza del contenuto dei documenti amministrativi di cui si chiede
l’accesso. Le due ultime qualifiche impongono, piuttosto, di verificare la consistenza
dell’interesse al fine di evitare che l’accesso diventi un inammissibile strumento di
controllo generalizzato.
Merita di essere evidenziato che altra parte della giurisprudenza sembra riferire il
requisito dell’attualità all’interesse conoscitivo e non alla situazione giuridica
correlata (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-quater, 26 marzo 2008, n. 2599, secondo cui
non si richiede anche l'attualità delle esigenze di tutela della situazione giuridica
sottostante, giacché l'attualità va pur sempre riferita all'interesse conoscitivo,
laddove, per altro aspetto, la “corrispondenza” non può significare ovviamente
sovrapposizione tra interesse conoscitivo e situazione giuridicamente tutelata,
dovendo essere intesa nel senso della “correlazione” o “collegamento”; cfr. anche
T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 7 maggio 2007, n. 1263).
6) T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 14 gennaio 2009, n. 18
Pres. f.f. Caruso, Est. Burzichelli - Stranieri c. Comune di Reggio Calabria
(Sull’accesso alle informazioni ambientali)
E’ noto che il legislatore ha riconosciuto il diritto di accesso agli atti delle
Amministrazioni comunali e provinciali (cfr. art. 7 e ss. della legge 8 giugno 1990, n.
142, oggi confluiti nel d.lgs. n. 267/2000, cd. Testo unico degli enti locali), ed ha
introdotto, immediatamente dopo, quale istituto di carattere generale, il diritto di
accesso nei confronti di tutte le Amministrazioni pubbliche (artt. 22 e ss. della legge 7
agosto 1990, n. 241), al fine di rendere concreto il diritto di partecipazione
procedimentale previsto dalla stessa legge.
Nel sistema delineato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (recentemente novellata dalle
leggi nn. 15 e 80 del 2005), il diritto di accesso ai documenti amministrativi non si
atteggia come azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo
generalizzato sull’Amministrazione. Come è noto, invero, ai sensi dell’art. 24, comma
3, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, come modificato dall’art. 16 della legge n. 15
dell’11 febbraio 2005, “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo
generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”.
Ciò comporta che il diritto di accesso è sempre fondato sull'interesse sostanziale
collegato ad una specifica situazione soggettiva giuridicamente rilevante e che esso è
strumentale ad acquisire la conoscenza necessaria a valutare la portata lesiva di atti o
comportamenti, mentre va escluso che il diritto medesimo garantisca un potere
esplorativo di vigilanza da esercitare attraverso il diritto all'acquisizione conoscitiva
di atti o documenti, al fine di stabilire se l'esercizio dell'attività amministrativa possa
ritenersi svolto secondo i canoni di trasparenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre
2004, n. 7412).
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Orbene, in tale contesto si inserisce la disciplina speciale, di origine comunitaria, che
riguarda il c.d. diritto di accesso alle informazioni in materia di ambiente. Ed invero,
il d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 39, attuativo della direttiva Cee 90/313, e successivamente - il d.lgs. 19 agosto 2005, n. 195, con il quale è stata data attuazione
alla direttiva 2003/4/CE (l’art. 12 del d.lgs. 19 agosto 2005, n. 195 ha abrogato il d.lgs.
24 febbraio 1997, n. 39) sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale hanno
stravolto il sistema comune ampliando sia soggettivamente che oggettivamente
l’accesso alle informazioni ambientali, ed introducendo quell’azione popolare che la
giurisprudenza aveva negato in relazione alla disciplina contenuta nella legge n.
241/1990.
La normativa nazionale di matrice comunitaria si connota per due particolarità:
a) l'estensione del novero dei soggetti legittimati all'accesso;
b) il contenuto delle “informazioni” accessibili.
Il legislatore, nel prevedere che il diritto alle informazioni in materia ambientale
spetta a chiunque ne faccia richiesta senza che questi debba dimostrare il proprio
interesse, ha svincolato l’accesso da una particolare posizione legittimante del
richiedente: in tal senso è stato osservato che la sopra richiamata normativa ha
introdotto nel nostro ordinamento un principio di tutela oggettiva della qualità del
bene ambiente, attraverso un controllo sociale diffuso sugli atti delle autorità
pubbliche comunque incidenti sul valore tutelato (Cons. Giust. amm. Reg. Sicilia, sez.
giur., 24 dicembre 2002, n. 693).
Anche dal punto di vista oggettivo vi è stata un’estensione del diritto di accesso, che
non riguarda più soltanto i documenti (anche se estensivamente individuati) ma le
“informazioni relative all’ambiente” intese come “qualsiasi informazioni in forma scritta,
visiva, sonora o contenuta nelle basi di dati riguardante lo stato delle acque, dell’aria, del
suolo, della fauna, della flora, del territorio e degli spazi naturali, nonché le attività, comprese
quelle nocive, o le misure che incidono o possono incidere negativamente sulle predette
componenti ambientali e le attività o le misure destinate a tutelarle, ivi compresi le misure
amministrative e i programmi di gestione dell’ambiente”(informazione intesa, dunque,
come insieme di elementi e, quindi, non solo di atti, che costituiscono la scienza
dell’Amministrazione).
Si è detto, in particolare, che il d.lgs. n. 195/2005 realizza una forma di pubblicità
delle informazioni ambientali più ampio della generale disciplina della l. n. 241/1990
sull'accesso ai documenti amministrativi: in particolare, in deroga a quest'ultima
legge, la normativa comunitaria consente l'accesso all'informazione a chiunque ne
faccia richiesta, senza necessità di dichiarare il proprio interesse, senza contare che il
concetto stesso di "informazione ambientale" deve intendersi in senso lato, non
limitato cioè soltanto agli specifici documenti amministrativi già formati, con
conseguente necessità, per l'Amministrazione, di una eventuale attività di
elaborazione di notizie in proprio possesso (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 20
novembre 2007, n. 6380; cfr. anche <<l'accesso alle informazioni ambientali spetta a
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chiunque, senza bisogno di documentare la propria legittimazione ed il proprio interesse>>
cfr. T.A.R. Liguria, sez. I, 27 ottobre 2007, n. 1870).
Nella decisione in commento viene precisato che il ricorrente si era rivolto al Collegio
dopo aver stipulato un contratto di somministrazione d’acqua potabile con un
Comune e dopo aver rilevato che l’acqua non risultava nè incolore, né insapore.
Secondo il Decidente, poiché l’art. 5, secondo comma, del decreto legislativo n.
31/2001 impone al Comune di svolgere appositi controlli per verificare se le acque
destinate al consumo umano siano salubri e pulite fino al punto di consegna
individuato dal contatore, il ricorrente ha effettuato richiesta di accesso agli atti
relativi all’analisi dell’acqua potabile nel periodo 2002-2007 con specifico riferimento
alla propria utenza idrica. Non avendo l’Amministrazione provveduto sull’istanza, il
ricorrente ha proposto gravame.
Ad avviso del Collegio il ricorso è fondato (anche) ai sensi dell’art. 3, comma I, del
decreto legislativo n. 195/2005, il quale precisa che l’informazione in materia
ambientale prescinde dall’individuazione di uno specifico interesse in capo al
richiedente e dell’art. 2 (“Definizioni”) del medesimo decreto legislativo n. 195/2005
secondo cui per “informazione ambientale” si intende “qualsiasi informazione disponibile
in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale
concernente, tra l’altro, lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua,
il suolo, il territorio, etc.”.
7) T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 13 gennaio 2009, n. 78
Pres. Onorato, Est. Carpentieri - Cascone Vittorio c. Unita' Sanitaria Locale n. 35
Castellammare di Stabia
(Sulla rilevanza giuridica ed economica dello svolgimento di mansioni superiori)
La decisione in commento si sofferma sulla questione della rilevanza delle cd.
mansioni superiori nell’impiego alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.
Merita di essere premesso che la retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal
dipendente pubblico ha dato luogo ad orientamenti giurisprudenziali non univoci.
Tuttavia, costituisce ormai ius receptum il principio secondo cui lo svolgimento di
mansioni superiori nell'ambito del pubblico impiego è del tutto irrilevante, sia a fini
giuridici che economici, salvo che specifiche disposizioni di legge disciplinino
diversamente detta ipotesi consentendo l'adibizione del dipendente a mansioni
superiori, con correlativa maggiorazione retributiva.
In particolare, secondo la prevalente giurisprudenza, la rilevanza (giuridica ed
economica) delle superiori mansioni svolte presuppone non solo un'espressa (ex
multis, Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2003, n. 5161; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio
2003, n. 825; Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 2001, n. 1786) previsione normativa (si
pensi all’area del personale medico del servizio sanitario nazionale in virtù della
norma risultante dall’art. 29 del d.P.R. n. 761/1979, secondo l’interpretazione offerta
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dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 296/1990 e dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato nella decisione n. 2/1991) ma anche altri tre presupposti:
a) un provvedimento di incarico (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2003, n.
7530; Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2003, n. 2779; Cons. Stato, sez. V, 17 aprile 2003,
n. 2013; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2003, n. 827);
b) la disponibilità del relativo posto in organico, per vacanza od assenza non
occasionale del titolare (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2002, n. 5504; Cons.
Stato, sez. V, 3 dicembre 2001, n. 6011; Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 1999, n. 390);
c) che l’incarico concerna mansioni della qualifica immediatamente superiore a
quella posseduta dall'istante (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2003, n.
7530; Cons. Stato, sez. V, 2 dicembre 2002, n. 6609).
Merita di essere osservato, inoltre, che il legislatore, al tempo della privatizzazione
del pubblico impiego, aveva enunciato nell’art. 56 del d.lgs. n. 29/1993 il principio (in
deroga alla disciplina privatistica) della irrilevanza delle superiori mansioni svolte;
nel tempo, tuttavia, la portata del medesimo - sotto la spinta soprattutto della
giurisprudenza costituzionale - si è andata progressivamente stemperando.
La prima breccia al riguardo è stata aperta dal d.lgs. n. 80/1998 (art. 25) che ha
reintrodotto, in sostanza, la rilevanza delle mansioni superiori sia agli effetti
economici sia di carriera, rinviandone però l’operatività all’entrata in vigore della
nuova disciplina dettata dai contratti collettivi. Poco dopo, il d.lgs. n. 387/1998 (art.
15) - rimanipolando la precedente disciplina - ha fatto cadere il “rinvio” del predetto
art. 25, limitatamente alle “differenze retributive”.
In dipendenza di tali interventi normativi, le decisioni del Consiglio di Stato, Ad.
Plen., 28 gennaio 2000, n. 10 e 23 febbraio 2000, n. 11 hanno statuito che a decorrere
dall’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998 va riconosciuto con carattere di
generalità il diritto alle differenze retributive a favore del dipendente pubblico che
abbia svolto le funzioni relative alla qualifica immediatamente superiore; detta
nuova disciplina riguarda, però, solo il periodo successivo all'entrata in vigore del
d.lgs. n. 387/1998 (cfr. altresì, Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2003, n. 3920; Cons.
Stato, sez. VI, 19 maggio 2003, n. 2690; Cons. Stato, sez. VI, 15 gennaio 2002, n. 188;
Cons. Stato, sez. V, 22 novembre 2001, n. 5924).
Non può essere ignorata l’esistenza di un orientamento secondo il quale nel pubblico
impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente
alle mansioni superiori, stabilito dal comma VI dell'art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993
come modificato dall'art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, è stato soppresso dall'art. 15 del
d.lgs. n. 387 del 1998 con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma sesto,
ultimo periodo, disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere
transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme
ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e
quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all'intero
periodo transitorio. Secondo tale impostazione, la portata retroattiva della
disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte
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Costituzionale, che ha ritenuto l'applicabilità anche nel pubblico impiego dell'art. 36
della Costituzione, nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una
retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla
conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva
una norma in contrasto con i principi costituzionali (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 aprile
2007, n. 9130; Cass. civ., sez. lav., 4 agosto 2004, n. 14944; Cass. Civ., sez. lav., 8
gennaio 2004, n. 91).
Tuttavia, per la consolidata giurisprudenza amministrativa, il diritto alla retribuzione
delle mansioni superiori va riconosciuto, con carattere di generalità, a decorrere
dall'entrata in vigore del d.lg. n. 387/1998, che, atteso il suo evidente carattere
innovativo, non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse e
non può trovare applicazione nei confronti del dipendente che abbia cessato di
svolgere mansioni superiori anteriormente, senza che possano configurarsi sospetti
di incostituzionalità della norma, con riferimento all'art. 3 Cost., a causa della
(pretesa) disuguaglianza, sotto il profilo temporale, della disciplina dello
svolgimento di mansioni superiori, non remunerabile per il passato. Nel cessato
regime e prima della novella del 1998, nel rapporto di impiego con le pubbliche
amministrazioni, in linea generale, è la qualifica e non le mansioni il parametro al
quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l'assetto rigido
della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzativo, collegato anch'esso,
secondo il paradigma dell'art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento
della spesa pubblica (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2002, n. 5620).
E’ stato osservato, inoltre, che la pretesa di chi venga adibito a mansioni superiori ad
una retribuzione più elevata rispetto a quella stabilita dalla normativa di settore non
può trovare fondamento nell'art. 36 della Costituzione.
In tal senso, la Corte costituzionale con sentenza del 27 maggio 1992, n. 236, ha
precisato che l’art. 36 Cost. non deve trovare incondizionata applicazione ogni volta
che il pubblico dipendente venga adibito a mansioni superiori: invero, <<l’art. 98,
comma 1, Cost. vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura
logica del rapporto di scambio>>.
Di tale orientamento si è resa interprete la giurisprudenza amministrativa, nella sua
più autorevole espressione (Cons. Stato, Ad. Plen., 18 novembre 1999, n. 22), che ha
condiviso il necessario coordinamento del principio di corrispondenza della
retribuzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato con altri principi di pari
rilevanza costituzionale. In particolare, è stato affermato che l'art. 36 Cost., che
sancisce il principio di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e
quantità del lavoro prestato, non può trovare incondizionata applicazione nel
rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari
rilevanza costituzionale, quali quelli previsti dall'art. 98 Cost. (che vieta, come detto
sopra, che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica
del rapporto di scambio) e quali quelli previsti dall'art. 97 Cost., contrastando
l'esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita con il buon
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andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, nonchè con la rigida
determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei
funzionari.
Inoltre, i canoni dell’imparzialità e del buon andamento risulterebbero violati se la
mansione svolta dal dipendente con qualifica inferiore fosse equiparabile a tutti gli
effetti a quella da normalmente attribuita al personale specificamente selezionato a
tal fine con apposite procedure concorsuali, secondo la regola prescritta dal comma 3
della detta disposizione, anche in considerazione del fatto che gli interessi pubblici
coinvolti hanno natura indisponibile e, quindi, l'attribuzione al dipendente di
mansioni ed il conferimento del relativo trattamento economico non possono
costituire oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi
Va precisato, infine, che secondo la giurisprudenza prevalente il dipendente adibito a
mansioni superiori non può avanzare richiesta di riconoscimento dell’indennizzo ex
art. 2041 c.c. atteso che l’esercizio di mansioni superiori alla qualifica rivestita, svolto
durante l’ordinaria prestazione lavorativa, non reca alcuna effettiva diminuzione
patrimoniale in danno del dipendente - il c.d. depauperamento - che dell’azione ex
art. 2041 c.c. è requisito essenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre
2003, n. 7530; Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2003, n. 3920; Cons. Stato, sez. V, 28
febbraio 2001, n. 1092; Cons. Stato, sez. V, 26 giugno 2000, n. 3626; Cons. Stato, Ad.
Plen., 23 febbraio 2000, n. 12; Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2000, n. 11; Cons.
Stato, sez. V, 14 aprile 1997, n. 356).
Il fondamento, inoltre, non può essere ravvisato nell'art. 2126 c.c., il quale, oltre a non
dare rilievo alle mansioni svolte in difformità dal titolo invalido, riguarda un
fenomeno del tutto diverso (lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi non è
qualificabile pubblico dipendente) e afferma la retribuibilità del lavoro prestato sulla
base di un titolo nullo o annullato; pertanto, esso non incide in alcun modo sui
provvedimenti che individuano il trattamento giuridico ed economico dei dipendenti
pubblici, non consente di disapplicare gli atti di nomina o di inquadramento e
l'amministrazione è tenuta ad erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni
superiori solo quando una norma speciale consente tale assegnazione e la
maggiorazione retributiva (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2003, n. 7530;
Cons. Stato, sez. V, 30 settembre 2002, n. 5053; Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2002,
n. 4743; Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 6798); risultano, inoltre,
inapplicabili al pubblico impiego le previsioni dell'art. 13 l. 20 maggio 1970 n. 300,
che sostituisce l'art. 2103 c.c. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2001, n. 195 e Cons.
Stato, sez. V, 11 settembre 2000, n. 4805) nella parte in cui si prevede, nel concorso di
determinate circostanze, il definitivo conferimento al lavoratore della qualifica
propria delle superiori mansioni svolte, atteso che nel settore del pubblico impiego
l'accesso alle varie qualifiche, la progressione nelle stesse e il passaggio dall'una
all'altra sono regolati da norme specifiche che, prescrivendo a tal fine un determinato
modus procedendi, mirano a tutelare l'interesse non solo dell'amministrazione ad
affidare le mansioni di maggiore responsabilità ai soggetti più meritevoli, ma anche
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dei personale dipendente a che nella scelta dei soggetti da promuovere si proceda
assumendo come criterio guida il merito, e non l'arbitrio (per il rilievo secondo cui
l'obbligo di adeguare il trattamento economico alle mansioni esercitate si applica al
settore del pubblico impiego solo nei limiti previsti da norme speciali cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 30 giugno 2003, n. 3920; Cons. Stato, Sez. V, 17 gennaio 2000, n. 286 e Cons.
Stato, Ad. Plen., 18 novembre 1999, n. 22).
Secondo la decisione in commento, ai fini della remunerabilità delle mansioni
superiori svolte dal dipendente pubblico, devono necessariamente concorrere
cumulativamente tre presupposti indefettibili: l’esistenza di un posto in pianta
organica vacante e disponibile corrispondente alle mansioni superiori di che trattasi;
un atto formale di conferimento dell’incarico promanante dall’organo fornito di
competenza a deliberare l’attribuzione della qualifica; l’effettivo svolgimento delle
mansioni superiori – corrispondenti alla qualifica immediatamente superiore (per il
personale sanitario, per un periodo eccedente quello di franchigia previsto
dall’articolo 29, comma II, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761).
Questo assunto corrisponde ad una massima ormai consolidata nella giurisprudenza
amministrativa, in base alla quale per i dipendenti delle A.S.L. “l'art. 29 comma 2 del
d.P.R. n. 761 del 1979 subordina la possibilità di riconoscere le differenze retributive per
l'espletamento fattuale di mansioni superiori al ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di
fatto, operanti in modo concomitante: le mansioni devono essere svolte su un posto di ruolo,
esistente nella pianta organica, e di fatto vacante; su tale posto non deve essere stato bandito
alcun concorso; l'organo gestorio deve aver attribuito la supplenza con una formale
deliberazione, dopo aver verificato i presupposti indicati in precedenza, assumendosene tutte
le responsabilità” (Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2007, n. 1048; Id., 5 febbraio 2007, n. 451;
16 giugno 2005, n. 3153; 12 luglio 2004, n. 5043; sez. VI, 10 maggio 2006, n. 2579).
8) T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 14 gennaio 2009, n. 99
Pres. Speranza, Est. Ianigro
(In materia di esclusione dalla gara per ipotesi di “collegamento sostanziale”)
L’art. 34, comma 2, d.lgs n. 163 del 2006 (c.d. Codice dei contratti pubblici), stabilisce
che: "Non possono partecipare alla medesima gara concorrenti che si trovino fra di loro in una
delle situazioni di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile. Le stazioni appaltanti
escludono altresì dalla gara i concorrenti per i quali accertano che le relative offerte sono
imputabili ad un unico centro decisionale sulla base di univoci elementi".
Tale norma, riproduce - nella prima parte - la previsione già contenuta nel comma 1bis dell'art. 10 della legge n. 109 del 1994, che sanciva unicamente il divieto di
partecipazione a una stessa gara di imprese che si trovassero in situazione di
"controllo" ai sensi dell'art. 2359 c.c..
Il secondo periodo del vigente dato normativo ne ha ampliato decisamente la
portata, includendo anche la diversa ipotesi di collegamento, disciplinata dal comma 3
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dell’art. 2359 c.c., riscontrabile ove una società eserciti su un'altra "un'influenza
notevole".
La norma in esame mira a tutelare il libero confronto tra le offerte, nonché i principi
di correttezza e trasparenza della gara che risultano pregiudicati dalla presentazione
di offerte che, seppure provenienti da imprese diverse, siano riconducibili ad un
medesimo centro di interessi. Se le imprese partecipanti ad una gara non si trovano
in posizione di reciproca ed effettiva concorrenza, per effetto di accordi interni alle
concorrenti, è inevitabile che si verifichi una distorsione nella regolarità della
procedura di affidamento.
Sul punto giova ricordare che la giurisprudenza risultava divisa, sotto l’impero della
c.d. legge Merloni, quanto ad applicabilità dell’art. 10, comma 1-bis, anche alle
fattispecie di “collegamento” (e non di controllo in senso stretto):
a) secondo l’indirizzo minoritario, il riferimento, tra le situazioni di cui all'art. 2359
c.c., alla sola situazione di controllo (e non anche a quella di collegamento) va inteso
in senso tecnico, come volontà di includere l'una e di escludere l'altra: il legislatore
della c.d. l. Merloni in altre disposizioni - in relazione ai concessionari di lavori
pubblici (art. 2, comma 3) e agli affidatari di incarichi di progettazione (art. 17,
comma 9) - enuncia distintamente, infatti, controllo e collegamento. Al quesito se il
comma 1-bis dell'art. 10 Legge n. 109 del 1994 della Legge Merloni possa applicarsi
analogicamente a situazioni diverse da quelle di controllo va data risposta negativa.
In primo luogo, l'argomento - fondato, come si è visto, sul confronto con la diversa
formulazione di altre disposizioni della stessa Legge - della consapevole esclusione
dall'ambito oggettivo della norma delle situazioni di collegamento tra imprese
esclude che sussista il presupposto - una lacuna dell'ordinamento - per procedere
all'analogia. In secondo luogo, una norma che fa divieto di partecipare alla medesima
gara a imprese in situazione di controllo è una norma che introduce un'eccezione ai
princìpi costituzionali della libertà di iniziativa economica e di uguaglianza: essa,
pertanto, non è suscettibile di applicazione estensiva o analogica (per l'assimilazione
tra le due specie di interpretazione nel caso di norme eccezionali, cfr. Cass., 9
novembre 2004, n. 21317; 27 agosto 2004, n. 17162; 23 luglio 2004, n. 13810). La
giurisprudenza ha segnalato: "In riferimento all'attività di agenzia, essendo previste
sanzioni penali e amministrative per chi eserciti attività di agente senza essere iscritto
all'albo, le limitazioni che tali sanzioni comportano alla libertà di contrarre debbono
comunque essere interpretate restrittivamente ai sensi dell'art. 14 delle preleggi; ne
consegue che la normativa che sancisce la nullità dei contratti di agenzia stipulati con
persone non iscritte nello speciale ruolo previsto dalla Legge n. 204 del 1985 non può
ritenersi estesa ai subagenti, e comunque la stessa va disapplicata dal giudice
nazionale in considerazione del contrasto con la Dir. 86/653/CEE" (Cass., 19 maggio
2003, n. 7844; 20 settembre 1996, n. 8368): cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 25 maggio
2005, n. 4170;
b) secondo la tesi maggioritaria, l'art. 2359 c.c. quando, al terzo comma, dispone che
si considerano collegate le società sulle quali un'altra società od impresa esercita
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un'influenza notevole, lascia, in pratica, alla stazione appaltante (od, in suo difetto, al
Giudice amministrativo) valutare anche senza la previa tipizzazione di fatti e
situazioni, i vari fenomeni di "collegamento" tra imprese suscettibili di intaccare i
principi che presiedono allo svolgimento delle gare pubbliche, tra i quali la
segretezza delle offerte e la par condicio dei concorrenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 7
maggio 2008, n. 2087). Veniva precisato, inoltre, che nelle gare d'appalto, anche a
prescindere dall'inserimento di una apposita clausola nel bando di gara, in presenza
di indizi gravi, precisi e concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un
unico centro decisionale, è consentita l'esclusione delle imprese, benché non si
trovino in situazione di controllo ex art. 2359 c.c. (altrimenti sarebbe facile eludere la
descritta norma imperativa posta a tutela della concorrenza e della regolarità delle
procedure di gara). La stessa circostanza che il bando di gara faccia esplicito
riferimento solo all'art. 2359 c.c. non può precludere all'Amministrazione di disporre
l'esclusione di imprese che vengano reputate in una situazione di collegamento
sostanziale, se gli elementi che connotano il caso concreto facciano ritenere violati i
principi generali in materia di pubbliche gare posti a garanzia della correttezza delle
procedure. In tale evenienza, infatti, prevale l'esigenza di assicurare l'effettiva ed
efficace tutela della regolarità della gara ed in particolare la par condicio fra tutti i
concorrenti nonché la serietà, compiutezza, completezza ed indipendenza delle
offerte, in modo da evitare che, attraverso meccanismi di influenza societari, pur non
integranti collegamenti o controlli di cui all'art. 2359 c.c., possa essere alterata la
competizione, mettendo in pericolo l'interesse pubblico alla scelta del "giusto"
contraente. L'esclusione dalla gara deriva invero dall'applicazione diretta dei già
richiamati principi posti a tutela della libera concorrenza, della segretezza delle
offerte e della par condicio dei concorrenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 ottobre 2006,
n. 6212).
Orbene, sotto il profilo applicativo va rimarcato che, con l'elaborazione esegetica
operata in subiecta materia dalla giurisprudenza amministrativa, l'esclusione per
collegamento sostanziale può configurarsi solo previo accertamento della presenza di
una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti univocamente volti a configurare il
presupposto applicativo della esclusione.
Tali indici rivelatori (T.A.R. Lazio, sez. III, 8 maggio 2007, n. 4096; T.A.R. Lombardia,
Milano, sez. III, 4 aprile 2006, n. 896), alla stregua dell'insegnamento
giurisprudenziale, devono essere tali "da ingenerare il più che ragionevole sospetto che
l'accordo tra le partecipanti possa pregiudicare l'imparzialità e la regolarità della gara"
(Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 949).
In particolare, quanto all'individuazione degli elementi univoci indicatori della
riconducibilità delle offerte a un unico centro decisionale, la giurisprudenza ha
desunto la sussistenza del collegamento da una serie di elementi indiziari, ritenuti
espressivi della comunanza delle imprese interessate, sulla base di una nutrita
esemplificazione (indicazione nelle stesse buste spedite dalle imprese dalla
medesima sede amministrativa; spedizione degli stessi plichi dal medesimo ufficio
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postale, nello stesso giorno e con le stesse modalità; rilascio delle polizze fideiussorie,
presentate come cauzione, da parte della stessa compagnia e agenzia di assicurazioni,
nella medesima data e con numero progressivo successivo; coincidenza del numero
di fax e dell'indirizzo di posta elettronica; rapporti di parentela tra gli amministratori
unici di suddette società e gli intrecci azionari esistenti e facenti capo agli stessi
soggetti; ecc.).
L'alterazione della par condicio dei concorrenti e la violazione dei principi di
concorrenza e di segretezza dell'offerta possono ritenersi provate qualora ricorrano
elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l'id quod pleriumque accidit, il venir meno
della correttezza della gara.
Ciò si verifica se le offerte provengono da un medesimo centro decisionale o,
comunque, provengono da due o più imprese collegate e sussistano elementi tali da
far ritenere che si tratti di offerte previamente conosciute, anche se non concordate
dalle partecipanti.
9) T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 10 gennaio 2009, n. 36
Pres. Campanella, Est. Brugaletta
(In materia di motivazione in forma numerica)
A conferma dell’estrema “fluidità” dell’argomento della legittimità della
“motivazione in forma numerica” (cfr. l’Osservatorio di diritto amministrativo n. 3,
in cui è stata commentata la decisione del Consiglio di Stato, sez. VI, 16 dicembre
2008, n. 6228) si analizza nel presente numero la recentissima decisione del T.A.R.
Sicilia, Catania.
Il Decidente, occupandosi della questione della sufficienza (sub specie della
legittimità) della motivazione in forma numerica (nella fattispecie in relazione alle
prove di abilitazione per la professione forense), ricorda innanzitutto che le
ordinanze 14 novembre 2005, n. 419 e 27 gennaio 2006, n. 28, della Corte
costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
rispettivamente dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e degli artt. 23, comma 5, 24, comma 1 e
17 bis, comma 2, del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 e ss. mm. (in quanto volte ad ottenere
l’avallo della Corte ad una certa interpretazione delle disposizioni impugnate,
piuttosto che a sottoporre alla stessa un dubbio di legittimità costituzionale), hanno
esplicitamente escluso che "la tesi dell’inesistenza di un obbligo di motivazione per
gli esami di abilitazione e in generale per i concorsi costituisca <<diritto vivente>>",
suggerendo di fatto ai giudici remittenti di optare per una soluzione ermeneutica
conforme ai principi costituzionali di cui artt. 3, 24, 97, 98 e 113 Cost., dei quali era
stata denunciata la lesione.
Il Decidente ricorda anche che l’art. 11, comma 5, del decreto leg.vo 24 aprile 2006, n.
166, nel disciplinare le modalità di correzione delle prove scritte del concorso
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notarile, prescrive testualmente: "Il giudizio di non idoneità è motivato. Nel giudizio di
idoneità il punteggio vale motivazione", mentre il successivo art. 12, comma 5, nel
disciplinare le modalità di svolgimento delle prove orali del concorso notarile, così
dispone: "La mancata approvazione è motivata. Nel caso di valutazione positiva il punteggio
vale motivazione". Secondo il Decidente, le due norme da ultimo riportate, ancorché
riferite al concorso di notaio, debbono essere considerate come espressione del
principio di trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione, sancito, a
livello normativo, dall’art. 3 della legge n. 241/1990 e, ancora prima, dall’art. 97,
comma 1, Cost., la cui valenza dev’essere estesa a qualsiasi procedimento
concorsuale.
Il Decidente da lealmente atto che l’orientamento della giurisprudenza prevalente,
mossa dalla preoccupazione di garantire la speditezza e l’economicità dell’azione
amministrativa, ha sempre affermato che, anche dopo l’entrata in vigore della l. n.
241 del 1990, nelle procedure concorsuali l’attribuzione del punteggio numerico
soddisfa l’obbligo della motivazione; tuttavia, detta giurisprudenza ha omesso di
considerare che la valutazione di una prova ha natura composita, in quanto essa:
a) costituisce l’espressione di un giudizio tecnico – discrezionale, che si esaurisce
nell’ambito del procedimento concorsuale, allorché tale giudizio è positivo, di modo
che essa può essere resa con un semplice voto numerico;
b) rappresenta al tempo stesso, oltre che un giudizio, un provvedimento
amministrativo che conclude il procedimento concorsuale, tutte le volte in cui alle
prove di un candidato venga attribuito un punteggio insufficiente, donde la
necessità, in tale ipotesi, che all’assegnazione del voto faccia seguito l’espressione di
un giudizio di non idoneità, con il quale vengano esplicitate le ragioni della
valutazione negativa, conformemente al disposto di cui all’art. 3 della l. n. 241 del
1990, ove questo venga interpretato - conformemente all’orientamento prevalente nel senso che la motivazione è necessaria solo per gli atti aventi contenuto
provvedimentale.
Secondo il Decidente, la soluzione prospettata è coerente con le ripetute affermazioni
giurisprudenziali secondo cui (cfr. T.A.R. Toscana, sez. II, 4 novembre 2005, n. 5557),
in tema di prove scritte concorsuali, al candidato deve essere assicurato il diritto di
conoscere gli errori, le inesattezze o le lacune in cui ritiene che la commissione sia
incorsa, sì da potere valutare la possibilità di un ricorso giurisdizionale e che,
conseguentemente, il rispetto dei principi anzidetti impone che alla valutazione
sintetica di semplice <<non inidoneità>> si accompagnino quanto meno ulteriori
elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo la motivazione del
giudizio valutativo; tra questi, in specie, in uno alla formulazione dettagliata e
puntuale dei criteri di valutazione fissati preliminarmente dalla commissione,
elementi e dati che consentano di individuare gli aspetti della prova non valutati
positivamente dalla commissione (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2004 n.
974); pertanto, nei casi di valutazione negativa, ove sussista l’obbligo della
motivazione, la competente Commissione è costretta ad un più attento esame degli
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elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il proprio operato,
suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità giurisdizionale, il che
sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon andamento di cui all’art. 97
Costituzione.
Ove, dunque, venga annullata la determinazione di valutazione negativa – per la
ricordata insufficienza della valutazione numerica – deriva l’obbligo per
l’Amministrazione di valutare ex novo gli elaborati scritti, conformandosi ai principi
di diritto enucleati dal Collegio, e tale valutazione dovrà essere effettuata con
l’osservanza di ogni modalità utile a garantire l’anonimato degli elaborati, e, in ogni
caso, con una composizione diversa rispetto a quella della sottocommissione che ha
effettuato la prima valutazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 febbraio 1998, n. 6250;
T.A.R. Veneto, sez. I, 15 gennaio 2004, n. 62; Cons. Stato, sez. V, 29 agosto 2005, n.
4407; T.A.R. Napoli, sez. II, 20 gennaio 2006, n. 764; T.A.R. Veneto, sez. III, 8
settembre 2006, n. 2882).
10) Consiglio di Stato, sez. VI, 29 dicembre 2008, n. 6591
Pres. Barbagallo, Est. Chieppa
(Sul “silenzio-assenso” ex art. 20 della legge n. 241 del 1990)
Secondo la decisione in commento, l’art. 20 della legge n. 241 del 1990, novellato nel
2005, ha inteso generalizzare l’istituto del silenzio assenso, rendendolo applicabile a
tutti i procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi, fatta salva l’applicazione delle ipotesi di denuncia di inizio attività,
regolate dal precedente art. 19.
Rispetto a tale generalizzazione il comma 4 dell’art. 20 ha introdotto alcune eccezioni
in determinate materie, tra cui quelle inerenti il patrimonio culturale e paesaggistico
e l'ambiente, che riguardano non l’impossibilità in assoluto di prevedere speciali
ipotesi di silenzio assenso, ma l’inapplicabilità della regola generale dell’art. 20,
comma 1.
In sostanza, la generalizzazione dell’istituto del silenzio assenso non può applicarsi
in modo automatico alle materie indicate dall’art. 20, comma 4, ma ciò non impedisce
al legislatore di introdurre in tali materie norme specifiche, aventi ad oggetto il
silenzio assenso, a meno che non sussistano espressi divieti, derivanti
dall’ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi costituzionali.
Invero, il dato testuale del comma 4 dell’art. 20 è chiaro: <<Le disposizioni del presente
articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente […]>>; l’eccezione riguarda solo "le disposizioni del presente
articolo" e non può essere estesa a disposizioni precedenti, aventi ad oggetto il
silenzio assenso, rispetto alle quali i commi 1, 2 e 3 dell’art. 20 della legge n. 241 del
1990 nulla hanno innovato.
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Tali disposizioni restano, quindi, in vigore e, del resto, se, come appena detto, l’art.
20, comma 4, non impedisce l’introduzione di norme speciali, dirette a prevedere il
silenzio assenso anche nelle materia menzionate dal comma 4, non può che ritenersi
che eventuali norme speciali preesistenti restano in vigore.
Tale tesi, oltre ad essere conforme al dato testuale della disposizione, si pone in linea
con la stessa ratio delle riforma della legge n. 241 del 1990, che è stata quella di
generalizzare l’istituto del silenzio assenso ed è irragionevole ritenere che tale
generalizzazione abbia comportato un effetto abrogante su norme, che tale istituto
già prevedevano.
L’unico limite che le disposizioni speciali devono rispettare è quello derivante dai
principi comunitari e costituzionali.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha chiarito che, in linea di principio, al
legislatore non è affatto precluso sul piano costituzionale - nell'ambito delle diverse
fasi di abilitazione di lavori edilizi - la qualificazione in termini di silenzio-assenso
del decorso del tempo entro il quale l'amministrazione competente deve concludere
il procedimento e adottare il provvedimento (Corte Cost., n. 404/1997; n. 262/1997 e n.
169/1994).
Si tratta in questi casi – secondo la Corte - di una scelta di politica legislativa
nell'obiettivo di tempestività ed efficienza dell'azione amministrativa e quindi di
buon andamento, costituzionalmente compatibile purché siano esattamente
individuati l'unità organizzativa ed il soggetto addetto responsabile dell'istruttoria e
degli adempimenti finali, di modo che non vi sia differenza sotto il profilo della
responsabilità tra atto espresso e silenzio derivante da scelta consapevole di non
esercitare il potere di intervento (repressivo o impeditivo).
La Corte Costituzionale ha, invece, censurato alcune leggi regionali, che prevedevano
il silenzio-assenso in procedimenti complessi, caratterizzati da un elevato tasso di
discrezionalità e dall’inclusione di specifiche valutazioni in materia ambientale, per
le quali è richiesto un pronunciamento espresso, quali quelle in materia di tutela
idrogeologica e paesaggistica (Corte Cost., n. 26/1996, n. 194/1993, n. 437/1992, n.
302/1988).
Con riguardo al diritto comunitario, anche la Corte di Giustizia CE ha ritenuto non
compatibile il silenzio assenso solo in presenza di procedimenti complessi in cui, per
garantire effettività agli interessi tutelati, è necessaria una espressa valutazione
amministrativa, quale un accertamento tecnico o una verifica; in questi casi
ammettere il silenzio assenso significherebbe legittimare l'amministrazione a non
svolgere quella attività istruttoria imposta a livello comunitario per la tutela di
particolari valori e interessi (v. Corte Giust. CE, 28 febbraio 1991, C-360/87 in materia
di protezione di acque sotterranee).
Secondo la menzionata giurisprudenza costituzionale vi è un nesso indissolubile tra
gli artt. 28 e 97, commi I e II della Costituzione, in quanto la tempestività e la
responsabilità sono elementi essenziali per l'efficienza e quindi per il buon
andamento della pubblica amministrazione.
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Il Decidente ribadisce, infine, che accertata la vigenza della norma che prevede il
silenzio-assenso, una volta decorso il relativo termine l’unica possibilità di intervento
per l’amministrazione è legata all’adozione di un provvedimento di annullamento
d’ufficio ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
11) T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 14 gennaio 2009, n. 162
Pres. Perrelli, Est. Dongiovanni
(Sull’omissione dei termini di inizio e di conclusione dei lavori e sull’art. 43 del Testo
unico espropriazioni)
La decisione che si commenta offre una interessante “messa a fuoco” della questione
relativa all’omessa determinazione dei termini di inizio e di conclusione dei lavori
nella dichiarazione di pubblica utilità e del significato precettivo da attribuire all’art.
43 del Testo Unico espropriazione.
Secondo il Decidente, l'omissione dei termini di inizio e fine dei lavori non determina
la nullità ma soltanto l'annullabilità della dichiarazione di pubblica utilità, il che ne
impone l’impugnazione nei termini decadenziali di cui all’art. 21 della legge n.
1034/1971 (cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n. 4/2003 e, più di recente, T.A.R. Lazio,
Roma, sez. II, n. 6377/2008).
Del resto, tale principio pare essere stato recepito dallo stesso legislatore il quale, con
l'art. 21-septies l. n. 241 del 1990, aggiunto dall'art. 14 della l. n. 15 del 2005,
nell'introdurre la categoria normativa della nullità del provvedimento
amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia solo il difetto assoluto di
attribuzione, che evoca la c.d. "carenza in astratto del potere", cioè la mancanza in
astratto della norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento
amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area della annullabilità
per violazione di legge la categoria della c.d. nullità per carenza di potere in concreto
che le Sezioni unite della Corte di Cassazione avevano coniato proprio con
riferimento ai procedimenti espropriativi nei quali l’amministrazione avesse omesso
di fissare i termini di cui all'art. 13 l. n. 2359 del 1865 (cfr. T.A.R. Campania, sez. V, n.
5025/2005).
Sotto altro aspetto, anche la Corte regolatrice della giurisdizione, seppure in via
indiretta (nel pronunciarsi cioè sull’individuazione del giudice competente a
conoscere di una controversia in materia espropriativa), sembra aderire a tale
impostazione quando afferma che la giurisdizione amministrativa in materia di
procedimenti amministrativi non può venire meno per il fatto che uno dei vizi
attribuiti alla dichiarazione di pubblica utilità, necessario presupposto della
procedura espropriativa, sia ravvisato nella mancanza o incompleta indicazione dei
termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 atteso che tali situazioni sono dedotte
per dimostrare (nel merito) alcune delle ragioni della prospettata invalidità di
ciascuno di detti atti ed ottenere l'annullamento. Per cui, anche con riguardo a questo
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profilo, la posizione giuridica dedotta in giudizio deriva dall'esercizio illegittimo del
potere da parte della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che in tal caso
spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che
l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio
illegittimo del potere ablativo (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 2765/2008).
Ora, non essendo stata impugnata nei termini di rito, la dichiarazione implicita di
pubblica utilità, seppure invalida in ragione della mancata indicazione dei termini di
cui all’art. 13 della l. n. 2359/1865, è comunque efficace ed ha sorretto, in ragione della
sua inoppugnabilità, la successiva azione amministrativa che ha portato
all’occupazione d’urgenza del terreno; comportamento che, pertanto, deve ritenersi
legittimo fino alla scadenza dei 5 anni dalla data di immissione in possesso da parte
dell’Ente pubblico.
Così ricostruita la fattispecie e ritenendo che non sussistano dubbi sulla giurisdizione
del giudice amministrativo con riferimento alla domanda risarcitoria proposta
conseguente all’ipotesi ricondotta nella c.d. "occupazione acquisitiva", pur quando
l’irreversibile trasformazione del terreno è avvenuta nel periodo di occupazione
legittima (tra le più recenti ed esaustive, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 9 del 30 luglio
2007; n. 12 del 22 ottobre 2007; sez. IV, 27 giugno 2007, n. 3752; 16 novembre 2007, n.
5830 e 30 novembre 2007, n. 6124), va altresì specificato che mentre la distinzione tra
occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità) ha perso di significato sia con riferimento alla
giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab
origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera) che alla
decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito
permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa
(aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte Europea dei diritti
umani e dalle previsioni contenute nell’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001 - di recente, cit.
Cons. Stato, sez. IV, 27 giugno 2007, n. 3752; 16 novembre 2007, n. 5830 e 30
novembre 2007, n. 6124), l’unico elemento di differenziazione ancora esistente
riguarda invero l’individuazione del dies a quo di commissione dell’illecito posto che,
in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento
dell’immissione in possesso da parte dell’amministrazione mentre, in caso di
occupazione appropriativa, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del
terreno (ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai
fini della quantificazione del risarcimento del danno).
Quanto al secondo principio di diritto affermato dal Decidente, si osserva che l’art. 43
del T.U. delle espropriazioni per pubblica utilità, approvato con d.P.R. 8 giugno 2001,
n. 327, applicabile anche alle occupazioni sine titulo già sussistenti alla data di entrata
in vigore del citato T.U. delle espropriazioni (cfr. Cons. Stato, Ad Plen., n. 2/2005 e
Cons. Stato, sez. IV, nn. 3752/2007 e 2582/2007) preclude all’Amministrazione di
diventare proprietaria di un bene in assenza di un titolo previsto dalla legge. Infatti,
secondo tale disposizione, l’Amministrazione può divenire proprietaria al termine
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del procedimento espropriativo, che si conclude sul piano fisiologico con il decreto di
esproprio o con la cessione del bene espropriando ovvero, quando vi è una patologia,
e il bene è stato "modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento", con
l’emissione del decreto di acquisizione ai sensi dell’art. 43 (tertium non datur).
Il testo e la ratio del citato art. 43 del T.U. espropriazione ribadiscono quindi il
principio per il quale, nel caso di occupazione sine titulo, vi è un illecito da cui
consegue che l’autore sia tenuto a restituire il suolo ed a risarcire il danno cagionato,
salvo il potere dell’Amministrazione di fare venire meno l’obbligo di restituzione
attraverso l’adozione dell’atto di acquisizione del bene al proprio patrimonio posto
che l’irreversibile trasformazione del fondo non ha determinato alcun trasferimento
di proprietà in capo all’ente pubblico.
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