Dimitri D’Andrea “Legittimità” dell’antropologia filosofica Premessa L’idea di dedicare alcune sedute del SIFP al tema Antropologia e politica nasce dalla convinzione che nella società contemporanea il rapporto individuo-mondo (naturale, sociale, intersoggettivo) sia investito da trasformazioni radicali che finiscono per incidere, tra l’altro, anche sul rapporto fra individuo e democrazia e, più in generale, su quello fra individuo e politica. Il focus di queste sedute sarà quindi duplice: in primo luogo valutare l'esistenza e definire i contorni di un eventuale mutamento antropologico rispetto all'individuo della società occidentale moderna; in secondo luogo, considerare l'incidenza di questi mutamenti sulla pensabilità di alcune categorie decisive della politica e della società contemporanea (democrazia, opinione pubblica, istituzione, stato nazionale, autonomia, libertà, responsabilità, ecc.). Comprendere le trasformazioni che processi ed eventi anche molto recenti determinano sulla società e sulla politica, nonché interrogarsi sulle risposte che in termini politici ed istituzionali, ma anche morali la nostra civiltà-cultura – la nostra condizione materiale e simbolica, emotiva ed etica - è in grado di dare impone di riportare lo sguardo sul soggetto, di pensare la società e i suoi ordinamenti come qualcosa che produce e, al tempo stesso, è prodotto da forme specifiche di soggettività, impone di tematizzare il rapporto fra ordinamenti sociali (condizioni di esistenza economiche, sociali e tecniche) e tipi umani, qualità individuali, tipi di condotta1, risorse di senso disponibili. Fra gli esempi di questo tipo di riflessione possono essere citati l’ultimo lavoro di Richard Sennet sulle conseguenze antropologiche della flessibilità nel capitalismo post-fordista2 o il Bauman di In Search of Politics. Innanzitutto, credo sia opportuno distinguere fra vari tipi di antropologia filosofica, e valutare la possibilità scientifica di un discorso sull’uomo che aggiri le secche dell’ipostatizzazione e della naturalizzazione di contenuti storicamente prodotti, o quello della utilizzazione dell’essenza umana come fondamento normativo. Penso, cioè, che sia necessario chiedersi se abbia senso elaborare un’antropologia storica, e in caso affermativo quali siano i vantaggi esplicativi o ermeneutici che essa offre. E, più in profondità, se un’analisi antropologica possa avere una rilevanza “normativa” - e di che tipo questa possa essere – senza violare la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore e senza tradursi in un discorso sull’essenza dell’Uomo. Il mio tentativo sarà quello di delineare un’argomentazione a sostegno di una risposta positiva ad entrambi i quesiti. Innanzitutto una chiarificazione terminologica. Con il termine antropologia filosofica ci si riferisce di solito a quella esperienza teorica della prima metà del Novecento i cui principali esponenti sono Max Scheler, Arnold Gehlen ed Helmuth Plessner. Diversamente, io intenderò qui per antropologia filosofica il genere di riflessione filosofica che si organizza intorno alla domanda “che cos’è l’uomo?”. Questa “definizione” – l’assumere come costitutivo dell’antropologia filosofica la domanda “che cos’è l’uomo” e non “qual è la natura dell’uomo o la sua essenza” – consente di dilatare l’arco temporale dell’antropologia filosofica non soltanto al di là dell’Antropologia filosofica novecentesca, ma anche al di là dell’esperienza tardo settecentesca (Herder) che in qualche modo ne costituisce una anticipazione, arrivando a coincidere in sostanza con la riflessione filosofica moderna. Mi pare, infatti, che il problema “che cos’è l’uomo?” individui non soltanto uno dei problemi cruciali della 1 2 W. Hennis, Il problema Max Weber, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 55-69. R. Sennet, The Corrosion of Character, Norton, New York-London 1998. 1 filosofia - e della filosofia politica in particolare – moderna, ma che ne costituisca in qualche modo uno dei tratti peculiari. In particolare mi sembra tipico della filosofia politica moderna il ricorso ad una riflessione su “che cos’è l’uomo?” in chiave fondativa. La risposta alla domanda “che cos’è l’uomo?” gioca, infatti, in una gran quantità di autori anche molto lontani da una prospettiva immediatamente normativa (Hobbes) il ruolo di passaggio insostituibile dell’argomentazione filosofico-politica, spesso intervenendo a definire sia l’orizzonte problematico, sia lo spazio di possibilità del discorso politico. Prima di discutere la rilevanza e l’attualità di una riflessione antropologica mi sembra indispensabile introdurre una sommaria fenomenologia che restituisca l’idea della pluralità e profonda diversità delle antropologie “possibili” e che consenta di identificare le caratteristiche indispensabili di un possibile discorso antropologico contemporaneo. 1. Caratteri e percorso dell’antropologia filosofica L’antropologia moderna nasce come risposta all’ansia tipicamente moderna del fondamento, all’esigenza di un punto di partenza del ragionamento sulla società e sulla politica che non rimandi necessariamente ad un sistema metafisico e che consenta di argomentare intorno alla società. L’antropologia filosofica è il versante disciplinare di quel venire meno dell’ordine come dato naturale che costituisce il nucleo centrale della modernità. La domanda “che cos’è l’uomo?” assume rilevanza crescente proprio a partire dalla mancanza di criteri oggettivi e/o condivisi per stabilire forme e finalità dell’ordine sociale e politico. L’antropologia filosofica nasce, quindi, dall’esigenza di rispondere al problema tipico della modernità (come è possibile l’ordine) e alle sue diverse declinazioni e modulazioni (ordine sociale, politico e loro relazione in primis). L’idea di fondo che accomuna tutte le antropologie è che la risposta alla domanda “che cos’è l’uomo” contribuisca a dare indicazioni non soltanto sul funzionamento della società, ma anche su che cosa fare per migliorarla. Quasi sempre dimensione e intenti analitici sono parte integrante di un percorso argomentativo che ha comunque anche uno spessore normativo. E quasi sempre la modalità con cui dimensione analitica e proposta normativa si intrecciano è legata al fatto che la riflessione antropologica interviene a limitare le finalità che è possibile perseguire e gli strumenti a cui è possibile ricorrere per perseguirle. La riflessione antropologica delimita l’ambito di ciò che posso “sperare” e dei mezzi che posso efficacemente utilizzare. Questa configurazione di un’antropologia “empirico”-descrittiva che interviene nella definizione dei compiti, delle forme e dei mezzi della politica e della società mi sembra restituisca la generalissima cifra comune di quasi tutte le antropologie lato sensu politiche della prima modernità (con l’eccezione forse di Locke, almeno secondo certe interpretazioni): da Hobbes a Rousseau, da Mandeville ad Smith. La dimensione normativa viene argomentata a partire da una certa antropologia, ma quest’ultima non ne costituisce il fondamento ontologico. Mi sembra, cioè, estraneo alla fisionomia dell’antropologia filosofica moderna l’operazione di dedurre la dimensione normativa direttamente dalla definizione di una natura umana: soltanto l’ontologia scheleriana dei valori costituisce forse un esempio di deduzione del dover essere dell’uomo direttamente dal suo concetto o dalla sua essenza. In quasi tutti gli altri casi, il percorso mi pare più indiretto e caratterizzato dall’intervento dell’antropologia come dimensione “empirico-fattuale” nella elaborazione di finalità e strategie. Da questo punto di vista l’antropologia hobbesiana possiede un carattere paradigmatico: non la deduzione di un 2 contenuto normativo da una concezione della natura umana come qualcosa che contiene in sé delle finalità positive, ma il tentativo di individuare dei comportamenti su cui gli uomini si possono accordare a partire da una natura che, al di fuori di ogni telos, rende tutti interessati alla conservazione di sé come primo dei beni. La riflessione antropologica hobbesiana presenta le caratteristiche-tipo dell’antropologia moderna: una descrizione della natura umana, della condizione umana come ciò che definisce i compiti a cui trovare soluzione e delimita l’ambito dei mezzi e delle soluzioni possibili. Prima di affrontare la questione dei caratteri e dell’utilità di un’antropologia filosofica contemporanea mi sembra opportuno distinguere i vari tipi di riflessione antropologica a partire da quattro alternative: la prima fra un’antropologia analitica e un’antropologia assiologica; la seconda fra un’antropologia positiva e un’antropologia negativa; la terza fra antropologie della natura umana e antropologie storiche; l’ultima fra antropologie delle passioni e antropologie del senso o delle immagini del mondo. L’intento non è ovviamente quello di elaborare una tassonomia completa delle antropologie, ma semplicemente di mettere in luce delle differenze e delle opposizioni che poi verranno utilizzate nella parte in cui tenterò di delineare i caratteri di una antropologia che possa giocare un ruolo nella riflessione filosofica sulla politica e sulla società. b. Antropologia positiva - antropologia negativa Una distinzione chiave fra i vari modelli antropologici è quella fra antropologie positive ed antropologie negative. Le antropologie positive sono quelle antropologie che attribuiscono alla natura umana un contenuto determinato, che attribuiscono all’uomo alcune caratteristiche naturali che ne determinano in positivo alcuni tratti del comportamento sociale e della relazione con l’ambiente. Quelle negative sono tutte le antropologie dell’assenza di contenuto della natura umana, che attribuiscono all’uomo una assenza di definitezza naturale che equivale all’assenza di qualsiasi limite naturale alle forme in cui gli uomini possono strutturare il loro rapporto con il mondo. È un’antropologia dell’assenza di un contenuto positivo – nel senso di positum – della natura umana. È un’antropologia della natura umana come assenza di natura. Nietzsche è stato il primo a formulare questa posizione: «Poiché l’uomo è più malato, più insicuro, più mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro animale non v’è dubbio - è l’animale malato: come mai è così? Certo, più di tutti gli altri animali presi insieme, egli ha anche tentato, innovato, affrontato, sfidato il destino: questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo insaziato, che per l’ultima supremazia contende con animali, natura e deità, questo pur sempre indomabile, eternamente di là da venire che per l’empito della sua stessa forza non trova più requie, sì che il suo futuro, come uno sprone, spietatamente gli va frugando nella carne d’ogni presente - come non dovrebbe essere, un tale ardito e ricco animale, anche il più esposto al pericolo, il più lungamente e profondamente malato tra tutti gli animali malati»3. Un’antropologia vuota, un’antropologia da cui non è possibile dedurre in positivo diritti, doveri, forme sociali e politiche. Un’antropologia negativa che colloca un vacuum laddove gli altri animali hanno il pieno di una natura che li vincola a forme definite di rapporto con il mondo. La malattia è appunto l’assenza di quel rapporto fisso-rigido con l’ambiente che è condizione che determina al contrario la salute animale. Di una posizione sostanzialmente analoga G. Anders ha dato una definizione in termini di antropologia della libertà. «[…] ho visto nell’uomo l’essere che fondamentalmente non può essere sano e non vuole essere sano, insomma l’essere che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler definire. 3 F. Nietzsche, Genealogia della morale, III dissertazione, § 13, p. 103. 3 […] la libertà dell’uomo come affermazione in positivo del suo non potersi stabilire in alcun luogo». «L’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli non ha un’essenza»4. È appena il caso di notare che neppure una siffatta definizione della natura umana ne rende impraticabile un uso immediatamente assiologico: Scheler fonda in modo immediato su un’idea molto simile di natura umana la doverosità di una condotta e di un agire che risponda adeguatamente a ciò che l’uomo è. In maniera sostanzialmente difforme dal main stream dell’antropologia moderna, qui l’idea di natura viene usata non come elemento analitico di rilevanza normativa, ma come fondamento ontologico del valore della libertà. L’idea di Gehlen dell’uomo come animale carente, indefinito e perciò al tempo stesso compito a se stesso e costretto ad agire5 è, a mio avviso, solo in parte riconducibile a questa immagine radicalmente negativa della natura umana. c. Antropologia storica - antropologia della natura umana. Le antropologie possono distinguersi inoltre fra le antropologie che pretendono di descrivere la natura dell’uomo nella sua immutabilità e quelle antropologie che invece si concepiscono come descrizioni di una tipologia umana storicamente definita e determinata. L’esempio più ovvio della prima è l’antropologia hobbesiana; un esempio significativo della seconda è la riflessione di Tocqueville e, per un diverso tipo di antropologia, quella di Hans Blumenberg. In un passaggio di La legittimità dell’età moderna H. Blumenberg formula un’argomentazione che costituisce a mio avviso la più radicale neutralizzazione di un’antropologia della natura umana. Più precisamente, una neutralizzazione antropologica dell’antropologia filosofica: «L’autoconservazione è una caratteristica biologica e, nella misura in cui l’uomo entrò sulla scena del mondo come essere imperfettamente equipaggiato ed adattato, fin dal principio egli ebbe bisogno dei sussidi, strumenti e procedimenti tecnici per soddisfare le proprie esigenze elementari. Ma, riferito a questa natura dell’uomo, lo strumentario dell’autoconservazione rimase costante per lunghi periodi di tempo ed entro margini di varianti minime. Sembra che, per lunghi tratti della sua storia, l’uomo abbia considerato la propria situazione nel mondo non come una situazione di carenza fondamentale e di miseria fisica»6. Blumenberg non si rifiuta di praticare il livello della natura umana; anzi fa propria una visione che ricalca nei punti essenziali l’immagine che della natura umana era stata fornita dall’esperienza dell’antropologia filosofica. L’uomo imperfettamente equipaggiato ed adattato di cui parla Blumenberg coincide perfettamente con l’uomo di Gehlen e dell’antropologia filosofica. Su questa immagine del resto si basa gran parte della riflessione di Blumenberg sul mito. Il mito è appunto quella modalità di relazione con il mondo tipicamente umana che nasce dall’esigenza di fronteggiare l’assolutismo della realtà, l’impatto con un mondo nei confronti del quale non si possiedono meccanismi adattivi. Anche se l’inadattamento non costituisce un dato originario7, esso è nondimeno l’atto, l’esperienza costitutiva dell’umano, l’elemento che definisce la fuoriuscita dal preumano e l’ingresso nell’umano. L’operazione di Blumenberg nei confronti dell’antropologia consiste tuttavia nella radicale esclusione di rilevanza di questa origine. Ciò che ha dettato la forma della relazione dell’uomo nei confronti del mondo non è l’oggettività di questa condizione, ma l’orizzonte che è stato delimitato dalla risposta simbolica, di senso a questa realtà. 4 G. Anders, L’uomo è antiquato, II, Bollati Borignhieri, [1980], Torino 1992, pp. 117-8. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, [1940 (1); 1950 (2)]Feltrinelli, Milano 1983, pp. 35-37. 6 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, [1966, 1974], Marietti, Genova 1992, p. 144. 5 7 4 L’uomo dis-adattato ha vissuto in uno mondo che percepiva creato e provvidenzialisticamente ordinato per il suo bene: questa condizione è rimasta celata ai suoi occhi, e di fatto non ha condizionato per quasi due millenni il suo rapporto con il mondo. La reazione dell’uomo è stata iper-adattiva, non soltanto ha cancellato la percezione della inadeguatezza, ma l’ha sostituita con una percezione di centralità e di ordine finalisticamente governato che è il suo esatto contrario. Quello che allora è rilevante nello scandire le forme della percezione del mondo e della realtà non è la natura, l’oggettiva fisionomia del rapporto dell’uomo con il mondo, ma la forma in cui esso (l’uomo) l’ha organizzato e l’organizza. Quel che conta non è l’antropologia come descrizione di una oggettività, ma un’esperienza soggettiva degli esseri umani che non intrattiene un rapporto di verità con quel prius, con quella oggettività. Comprendere, ad esempio, la modernità significa comprendere l’irrompere di una coscienza del mondo il cui dato significativo non è l’essere finalmente adeguata alla natura oggettiva e naturale della condizione umana, ma il fatto di avere una certa fisionomia. Quello che conta è la configurazione storica e contingente (non necessaria e mutevole) del rapporto dell’uomo con il mondo e con i propri simili. L’antropologia della natura umana perde importanza, completamente neutralizzata nel suo senso e nel suo ruolo dalla predominanza e dalla assoluta centralità di quella antropologia storica – di quella configurazione storicamente variabile del rapporto uomo-mondo e uomo-uomo - che non necessariamente deve essere adeguata o fedele a quella condizione oggettiva ed eterna di cui si occupa l’antropologia della natura umana. L’antropologia rilevante per il discorso filosofico sulla società e la politica non è in primis quella della natura umana, ma quella dell’epoca in cui viviamo, un’antropologia storica che può esprimere un rapporto con il mondo e con i propri simili all’insegna di una percezione della realtà che può anche contraddire in modo patente quella che su un piano meta-epocale possiamo ritenere la situazione oggettiva del rapporto uomo-mondo. Sul piano del modello antropologico, e malgrado le assonanze quasi letterali con la posizione di Gehlen, la posizione di Blumenberg sembra così avvicinarsi molto a quella già ricordata di Anders. d. Antropologie delle passioni - Antropologie del senso o delle immagini del mondo Non si tratta di una vera e propria contrapposizione, ma più propriamente di una differenza che mi sembra possieda una qualche rilevanza. Il punto che mi sembra rilevante è relativo al fatto che le antropologie del senso o delle immagini del mondo rendono esplicita la dipendenza, l’interrelazione, l’intreccio della stessa dimensione emotiva con l’esistenza di un piano di senso che trascende non soltanto la singola azione ma anche la vita del singolo individuo. Sono le antropologie che inseriscono le dinamiche emotive che definiscono un tipo di soggettività nel contesto di una percezione del mondo e del suo senso. Casi paradigmatici di questo tipo di antropologia sono sia la ricerca weberiana sui tipi di personalità nella loro relazione con gli ordinamenti del mondo e con le grandi religioni universali, sia la ricerca di Hans Blumenberg. L’analisi delle passioni e di quella loro concreta fisionomia che caratterizza un determinato tipo di soggettività non può prescindere dalle domande e dalle risposte che sono disponibili per quel determinato tipo umano su questioni relative al senso della vita e del mondo. L’immagine del mondo, della vita e di ciò che sta al di là della vita individuale sono decisive per comprendere i caratteri di un tipo di soggettività. È sicuramente difficile individuare una linea evolutiva della riflessione antropologica nella modernità. Si possono a mio avviso svolgere soltanto due considerazioni di carattere negativo. La prima riguarda l’impraticabilità di una 5 descrizione dell’evoluzione dell’antropologia in direzione dell’affermarsi di una antropologia storica. Se ricorriamo alla coppia antropologia storica – antropologie della natura umana possiamo facilmente constatare che il Novecento conosce il riaffermarsi indiscusso dell’antropologia della natura umana: l’esperienza teorica che va sotto il nome di antropologia filosofica è un’antropologia della natura umana. Il ricorso fecondo alle scoperte dell’etologia, della fisiologia e della biologia umane e delle scienze empiriche dell’uomo in genere è finalizzato a restituire un’immagine della natura dell’uomo come dato oggettivo e suscettibile di essere modificato. È vero: le implicazioni normative di tale natura sono minime, ma nondimeno si radicano in una idea della natura dell’uomo. La capacità corrosiva dell’antropologia filosofica novecentesca nei confronti delle filosofie della storia si basa appunto sulla utilizzazione della natura dell’uomo come fondamento prosaico di un divenire dell’uomo centrato sulle istituzioni e caratterizzato dall’attivazione di meccanismi compensativi che non possono essere completamente rimossi, e la cui parziale rimozione viene comunque pagata a prezzi altissimi. Questo non vuol dire che manchino nel Novecento antropologie storiche, ma semplicemente che non è possibile individuare una linea di evoluzione dell’antropologia segnata dal venire meno di una pretesa di definizione della natura umana. La seconda riguarda l’uguale impraticabilità di una caratterizzazione della trasformazione dell’antropologia lungo l’asse antropologie delle passioni – antropologie del senso. Nel Novecento si ritrovano in abbondanza esempi di antropologie di ambedue le specie. 2. Antropologia storica e filosofia politica e sociale Può la filosofia politica e sociale fare a meno di un’antropologia? La mia risposta è genericamente negativa. Non può, a mio avviso, fare a meno di un’antropologia storica in una duplice accezione: analisi della soggettività nella sua configurazione presente; collocazione di questa realtà in una prospettiva di più lunga durata che consenta di cogliere tendenze e invarianze (Weber, Blumenberg, Bauman, ecc.). In una prospettiva generale l’antropologia mi sembra parte integrante di uno sguardo filosofico sulla politica e la società. Per uno sguardo filosofico sulla politica e la società mi pare essenziale il riferimento alle strutture profonde dell’individualità contemporanea, alla peculiare configurazione fra dimensione emotiva, immagini del mondo, risorse di senso, costituzione psichica. E questo perché soltanto uno sguardo sul soggetto consente di mettere a fuoco tre aspetti cruciali di ogni riflessione sulla società e la politica: le conseguenze sugli individui delle forme sociali e delle decisioni politiche; gli spazi di possibilità che esistono per modificare e “migliorare” le istituzioni politiche e sociali; le condizioni di efficacia di un discorso normativo. Essenziale per la filosofia sociale è un’antropologia storica che miri a mettere a fuoco le caratteristiche di lunga durata della soggettività, il suo orizzonte: antropologia come una sorta di long durée della soggettività, come luogo delle invarianti epocali e degli orizzonti ultimi che configurano il soggetto di una determinata fase storica. In questo senso, descrittivo, storicoricostruttivo, consapevole della propria “contingenza” un’antropologia storica è una parte essenziale della filosofia, un prospettiva essenziale per un interrogarsi sugli ordinamenti sociali con un respiro propriamente filosofico. Mi pare, cioè, che lo specifico dello sguardo filosofico sulla società sia il tentativo di cogliere e tematizzare l’intreccio fra individuo e società, fra forme della soggettività e ordinamenti politici e sociali. Il riferimento a questa dimensione mi sembra, del resto, inaggirabile anche per 6 qualsiasi proposta normativa che voglia raccogliere la sfida di un confronto con la soggettività così com’è, che voglia accettare di confrontarsi con l’esistente. Ma quale antropologia? Non credo che alla filosofia politica e sociale sia indispensabile una antropologia della natura umana. Credo, invece, che in modo meno impegnativo e carico di implicazioni e di assunzioni metafisiche sia indispensabile un’antropologia storica. Un’antropologia che non postula l’esistenza di una natura umana, ma che si limita a “censire” le forme concrete di “soggettività epocale” e a ricostruirne le tendenze evolutive. Particolarmente significativo in questo quadro mi pare il ricorso ad una dimensione comparativa non soltanto in senso diacronico, ma anche in senso sincronico, nel senso, cioè, di una comparazione fra differenti tipi di civiltà e fra i diversi tipi di soggettività. L’approccio antropologico che a me pare più convincente è del tipo di quelle che ho definito antropologie del senso o delle immagini del mondo: un’antropologia storica in cui la presenza costitutiva di un riferimento alla dimensione metafisica del senso consenta di tematizzare tra l’altro anche le conseguenze antropologiche di quella condizione specificamente contemporanea che è lo sgretolarsi di qualsiasi struttura sovraindividuale di senso, sia di carattere religioso, sia di filosofia della storia. Il tipo di antropologia che mi sembra più fecondo per una riflessione filosofica sulla società e la politica è quella che non prende le passioni come un dato ultimo ma le concepisce come uno degli elementi che contribuiscono a definire ed è a sua volta definito dalle relazioni sociali e dalle risorse di senso. L’antropologia analitica che ci interessa è l’assetto di lunga durata che si stabilisce fra passioni, forme sociali e risorse di senso: si tratta di una costellazione mutevole e in cui nessuno degli elementi costituisce il fondamento ma semplicemente un elemento irriducibile della relazione. Antropologia come descrizione della configurazione epocale della soggettività all’incrocio fra dimensione emotiva, assetti sociali, risorse di senso (prospettive metafisiche). A quelle antropologie che fanno entrare in gioco nella descrizione dei tipi di soggettività umana la componente delle rappresentazioni astratte di carattere metafisico, religioso o Geschichtsphilosophisch. Il nostro rapporto anche emotivo con il mondo in aspetti essenziali della nostra vita ed esperienza sociale mi pare in buona parte plasmato dalle nostre immagini del mondo e, direi, in tanta parte dalle immagini di un “altro mondo”. Weber è l’autore che forse più di ogni altro si è spinto sul sentiero di un’antropologia storica del senso o delle immagini del mondo. L’intera Sociologia della religione è un affresco di antropologia storica comparativa, la messa a confronto di ciò che l’uomo è diventato in seguito all’intreccio fra diverse immagini del mondo, interessi materiali e ideali, ordinamenti sociali. Competizione, lotta, padroneggiamento teorico e pratico del mondo, l’intreccio fra rifiuto religioso e dominio razionale del mondo non rappresentano costanti antropologiche che definiscono una ipostatizzata natura umana, ma una concreta configurazione antropologica diversa e irriducibile a modelli di soggettività come quelli tipici del mondo cinese o del mondo orientale. L’uomo è un animale culturale nel senso che il suo rapporto con il mondo è mediato da una percezione del mondo che è a sua volta il prodotto complesso di un insieme di fattori che sfugge a qualsiasi determinante monocausale. La Sociologia della religione è il tentativo di mettere a fuoco i fattori, o meglio il percorso che ha portato a quel fenomeno assolutamente peculiare che è l’uomo occidentale moderno, ad una configurazione della soggettività e degli ordinamenti di vita che non ha equivalenti in altre parti del mondo. Nessuna ontologia, nessuna diversità della natura umana sta alla base di una diversità che può essere definita, senza esitazione, antropologica, perché possiede una dimensione temporale e una profondità da configurare una sorta di seconda natura. 7 Ma proprio perché sganciata da un fondamento ontologico da una diversità nella natura umana la riflessione di Weber è anche una riflessione sulla condizionatezza di questa antropologia dell’uomo occidentale moderno e sul rischio che la parabola evolutiva dell’Occidente moderno stesso metta in discussione non soltanto gli ordinamenti di vita che hanno fatto la specificità dell’Occidente, ma anche la soggettività che ha giocato un ruolo decisivo nel produrli. È il tema delle conseguenze della morte di dio e della minaccia degli “ultimi uomini”. La morte di dio mette in pericolo la modernità occidentale, espone la soggettività occidentale moderna al rischio di una mutazione antropologica perché consuma - ha consumato - le risorse di senso che ne hanno scandito la peculiarità. Il tema della morte di dio ci introduce a quella dimensione della riflessione antropologica che si confronta appunto con gli esiti del venir meno della prospettiva ultraterrena e del suo sostituto funzionale le filosofie della storia. 3. Antropologia filosofica e dimensione normativa Ma un’antropologia filosofica dell’epoca presente - in grado di declinare struttura emotiva, ordinamenti sociali e orizzonti di senso - consente anche una operazione fondamentale per una ricognizione filosofica della società e della politica: individuare gli spazi di possibilità di un discorso normativo. Nella “migliore” tradizione della teoria politica e della filosofia sociale moderna la proposta normativa si è sempre configurata o come risposta ai disagi e alle patologie di una determinata configurazione storica della soggettività, o come un “dover essere” che nella sua aspirazione a tradursi effettivamente in istituzioni e ordinamenti politici e sociali finiva necessariamente per venire a confronto con ciò che l’uomo era diventato. Mi pare che una relazione di questo tipo fra dimensione normativa e riflessione antropologica conservi intatta tutta la sua importanza. Credo, tuttavia, che valga la pena interrogarsi anche su un ulteriore possibile intreccio fra dimensione normativa e riflessione antropologica: quello che potrebbe realizzarsi in una definizione normativa di natura umana. Mi chiedo cioè se il rapido procedere delle scienze della vita, il suo intervenire sempre più in profondità sulla vita umana non ponga problemi etici e politici per fronteggiare i quali si debba – si sia costretti – a ricorrere ad un’idea normativa di natura umana, di vita umana, di essere umano e così via. Le biotecnologie pongono cioè un problema di definizione dell’umano, il problema di dotarsi di una definizione normativa di che cosa sia l’uomo proprio a partire da una condizione in cui l’uomo può diventare se non tutto, molto altro da quello che non soltanto zoologicamente è stato finora. Problemi analoghi – anche se non esattamente identici - si pongono a partire dalle conseguenze indesiderate, anche se ormai in gran parte conosciute-previste, della capacità umana di dominare e sfruttare tecnicamente risorse non rinnovabili del pianeta. Il rapporto uomo-natura, il rapporto con le altre specie animali e con l’ecosistema è ormai, anche nelle sue dimensioni più generali, un rapporto decidibile, e decidere come vogliamo che si configuri rimanda ad un’idea di come vogliamo che l’uomo di domani sia. Mi sembra, per concludere, che dagli sviluppi della tecnica ci venga una spinta ad elaborare una idea normativa di uomo che per l’ampiezza e la profondità del potere della tecnica sulla natura dell’uomo non possa che essere un’idea normativa di natura umana. © Dimitri D’Andrea 2001 8 9