il diario on line Numero 49 Marzo 2014 del Lions Club Palermo dei

Numero 49
Marzo 2014
il diario on line
del Lions Club Palermo dei Vespri
Lions Club Palermo dei Vespri - Distretto 108 Y/b - Circoscrizione I - Zona 1
Lions Club
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EDITORIALE DI MARZO
C
ari Amici, Care Amiche, la
bella stagione che già inizia
porta sulle nostre coste un intensificarsi di sbarchi di uomini e
donne, provenienti dall’Africa, che
hanno sfidato atroci sofferenze,
inseguendo il sogno di una vita
Gabriella Maggio
migliore. Chi sopravvive ai disagi
ed alle privazioni del lungo viaggio per terra e per mare
una volta giunto sulla spiaggia resta spesso deluso
dell’accoglienza e tende a fuggire per cercare fortuna.
Ed eccoli agli incroci stradali come lavavetri o nei mercati a chiedere l’elemosina o in altre situazioni di grave
indigenza.
Con la loro presenza ci impongono varie considerazioni di carattere umanitario, ma anche teorico come
studio del fenomeno migratorio. Non di immigrazione
infatti oggi possiamo parlare, ma di migrazione, come
ci suggerisce il sociologo Richard Sennett dalle pagine
di La lettura, supplemento domenicale del Corriere
della Sera. Questi uomini, infatti, non vengono per vivere stabilmente in un luogo, ma si spostano secondo
la loro convenienza o le opportunità che trovano. Il fenomeno ci impone di rivedere il concetto di straniero
nel mondo globalizzato e di pensare con attenzione ai
diritti, con la consapevolezza che nessuna legge può
imporre il sentimento di appartenenza.
Di solito i migranti tendono a cercare l’identità attraverso la propria cultura originaria che cementa il gruppo ed in qualche modo guida, ma spesso ostacola la
loro integrazione, sollecitando stereotipi xenofobi, che
la crisi economica enfatizza. La memoria è importante,
ma è una rete in cui non bisogna restare prigionieri,
deve interagire con la cultura del nuovo paese dove si
vive.
Questa potrebbe essere una potenziale linea per affrontare meglio il problema,che considerato nel suo
insieme appare enorme, ma ha bisogno di tempo per
svilupparsi ed affermarsi come tutte le azioni culturali.
Nascere in un luogo piuttosto che in un altro è un fatto
casuale, pertanto anche la cultura di un popolo lo è.
Partendo da questa considerazione si potrebbe iniziare
un cammino.
INDICE DA FARE
Noi per le donne Gabriella MaggioPag. 3
Vincenzo Bellini
Tommaso Aiello “ 4
Le ricette letterarie di Marinella
“ 6
Giovani talenti palermitani
Gabriella Maggio “ 7
Viaggiatori stranieri in Sicilia
Daniela Crispo
“ 10
Centoventesimo anniversario
dei fasci siciliani
Gabriella Maggio “ 11
L’otto marzo delle donne Carmelo Fucarino “ 12
Imagerie Médicale
Natale Caronia
“ 14
Il tom tom è femmina
Carlo Barbieri
“ 15
D’europa si continua a parlare Irina Tuzzolino “ 16
Dalla Cina all’Italia
Pino Morcesi
“ 17
Il mito di Faust nel cinema
G. Romagnoli “ 18
Pretesto: Carmen di Bizet
Carmelo Fucarino “ 19
La poesia è parola
Lavinia Scolari
“ 20
Tempo di poesia
Gabriella Maggio “ 21
Settantesimo anniversario
delle Fosse Ardiatine
Gabriella Maggio “ 22
La Carmen di Amodio
Salvatore Aiello “ 23
Luigi Lo Cascio ri-legge Otello Carmelo Fucarino “ 24
Il canto alato di Gonca Dogan Marta Santoro
“ 26
Nuvole su Palermo
Riccardo Carioti “ 27
In difesa del coniglio
Carmelo Fucarino “ 28
Carlo Barbieri e Lise Bourbeau Carlo Barbieri
“ 29
Hanno collaborato : Salvatore Aiello, Tommaso Aiello, Carlo Barbieri,
Riccardo Carioti , Natale Caronia, Daniela Crispo, Carmelo Fucarino,
Marinella, Pino Morcesi, Gianfranco Romagnoli, Marta Santoro, Lavinia
Scolari, Irina Tuzzolino.
Lions Club
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NOI PER LE DONNE
ARTE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Gabriella Maggio
Nicoletta Signorelli Il ratto di Proserpina
Domenica 23 febbraio 2014 nello Spazio della Cavallerizza di Palazzo Sant’Elia è stata inaugurata la mostra di
pittura Noi per le donne - Arte contro la violenza sulle
donne , curata da A. M. Ruta. La mostra si colloca come
ideale prosecuzione della precedente Artedonna, nella
quale la curatrice, la brava A.M. Ruta, aveva tracciato
un ampio e suggestivo percorso di storia della pittura
femminile in Sicilia dal 1850 al 1950. Adesso il percorso
si estende fino ai giorni nostri, accogliendo pittrici in
divenire che ancora continuano la loro ricerca artistica
e pittorica. Averle messe insieme offre al pubblico un
buona ed efficace antologia della pittura di genere siciliana. Infatti sono donne che dipingono donne, tranne alcune come Fr. Gagliardo di Carpinello, Mariolina
Spadaro, Miriam Pace, Carla Horat e Renata Bonacci
hanno scelto temi naturalistici o astratti. Le altre hanno
dipinto donne, della mitologia come Nicoletta Signorelli che fissa l’attimo in cui Proserpina è preda del nume
che la ghermisce con violenza o invece Danila Leotta
che reinterpreta il mito in chiave moderna ed enigmatica nel volto di donna in primo piano, lasciando l’esplicitazione della violenza alla dichiarata simbologia della
trappola per topi, cui l’accomuna il melograno. Ma an-
che donne qualsiasi, alcune rappresentate senza volto,
solo corpi ciechi. Tuttavia le pittrici nei loro quadri oltrepassano il tema della violenza, pur rappresentandolo, e oppongono e propongono la loro creatività alla
brutalità.
La mostra, proposta dall’ Inner Wheel del Distretto
211° che ha come tema internazionale Noi per le donne, non ha fini di lucro ed è stata realizzata grazie alla
generosa partecipazione della Fondazione Sant’Elia,
dei Club service : Inner Wheel Palermo Decano e Palermo Centro, Soroptimist, Rotary Palermo Est, Palermo Ovest, Palermo Sud, Palermo Parco delle Madonie,
Rotary Costa Gaia, Lions Club Palermo dei Vespri e
Palermo Normanna ed anche dell’Associazione Volo,
dell’ Associazione ANDE e della Fanale Arte Architettura. Le venti pittrici partecipanti hanno donato ciascuna una loro opera, che sarà sorteggiata per la raccolta
fondi per il progetto Ibiscus ed a favore dell’Oncologia
Pediatrica Catania-Palermo. La mostra è visitabile fino
al 26-03-2014.
Lions Club
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VINCENZO BELLINI:
UN SICILIANO TRA I GRANDI COMPOSITORI DELL’OTTOCENTO
Tommaso Aiello
Una vita breve è forse segno del
L’0pera di Bellini rappresenta
destino,ma è anche un segnale
senza dubbio l’ incarnazione più
inequivocabile che la fortuna si
pura dell’opera romantica italiana
è girata dall’altra parte.Vincenzo
nella prima metà del XIX secolo.
Bellini è vissuto appena 34 anTutta la sua attività,non avendo
ni,ma è in buona compagnia con
coltivato l’opera buffa,si impernia
altri grandi del passato:J.Keats 26
sul nuovo genere,tragico per ecanni,G.Byron 36 anni,Raffaello 37
cellenza,e le undici opere che egli
anni,Leopardi 39 anni e ci fermiacompose durante la sua breve vita
mo qui per non intristirci troppo.
sono altrettanti successi in questo
Tutti però sono accomunati da
campo. Forse Bellini ha minor
una vita intensa tesa a lasciare
sicurezza,scrive Renè Leibowitz,
un’impronta indimenticabile del,un mestiere meno consumato di
la propria opera.Vincenzo BelliRossini e Donizetti;forse la sua
ni,siciliano,nacque a Catania nel
invenzione musicale appare più
1801 da una famiglia di musicisti.
limitata di quella dei suoi due
Dapprima fece esperienza di mugrandi contemporanei.Ma li susica sacra,poi un soggiorno di 6
pera certo entrambi per la verità
Vincenzo Bellini in una miniatura-Milano
anni a Napoli culminò con il sucprofonda del sentimento,come li
cesso di Bianca e Gernando che gli procurò una com- eguaglia nell’assoluta naturalezza e nella spontaneità
missione dalla Scala.Il Pirata fu la sua prima collabo- dell’espressione musicale.Queste caratteristiche gli hanrazione con il librettista Felice Romani,con l’eccezione no non solo attirato l’ammirazione di molti grandi suoi
de’ I Puritani,e con il quale si affermò come operista di successori(Verdi e Wagner in particolare),ma gli hanno
prima grandezza.Scrisse undianche permesso di concepire
ci opere in appena otto anni;alcune fra le più commoventi
ne citiamo alcune che ebbero
situazioni drammatiche di tutta
grandissimi interpreti nelle
l’arte operistica,soprattutto fra
varie rappresentazioni:Il Pirata
le scene d’amore. Inoltre l’arte
con Gigli,Callas,Corelli,Cabaldel bel canto,la tecnica vocalè,Tullio Serafin; I Capuleti e i
le in generale e l’ispirazione
Montecchi con Carteri,Simiopropriamente detta della linea
nato,Scotto,Pavarotti,Gruberodel canto,quali si manifestano
va,Claudio Abbado, Riccardo
nella prima metà del XIX seMuti;La Sonnambula con Gicolo,trovano senza dubbio la
gli,Schipa,Callas,Sutherlanloro più splendida affermaziod,Tullio Serafin;Norma con
ne nell’opera di Bellini. Questo
Lauri-Volpi,Callas,Del Monaspiega la popolarità quasi coco,Simionato,Sutherland,Pavastante di una partitura come
rotti,Serafin,Bonynge;Beatrice di Tenda con Sutherlan- Norma(1831),che gode tuttora di uno straordinario fad,Kabaivanska,Gavazzeni;I Puritani(ultima opera) con vore presso il pubblico anche per merito di una grande
Lauri-Volpi,Callas,Sutherland,Tullio Serafin.
cantante,Maria Callas,che ha dato un po’ dovunque delLe opere furono rappresentate nei maggiori teatri del le splendide rappresentazioni di quest’opera.Comunque
mondo:Milano,Parigi,Londra,NewYork,Venezia,Dre- possiamo dire con Renè Leibowitz,che Norma “torna di
sda,Edimburgo,Boston,Montreal,Vienna,Napoli,Paler- moda” ogni volta che si trova un’artista in grado di renmo e Catania.
dere con la maestria necessaria la parte della protagoni-
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sta:e questo dimostra appunto l’altissimo valore ragmigliori interpreti
giunto dalla scrittura vocale. Scrive il filosofo tedesco
di Norma,tra le quaSchopenhauer”Sia qui menzionato,che
li ricordiamo Aniraramente l’effetta
Cerquetti,Leyla
to genuinamente
Gencer,Elena Souliotragico della catatis,Joan Sutherland,strofe, quello che
Montserrat Caballè,Svien conseguito
hirley Verret,Renata
mediante la rasseScotto,non riescono a
gnazione e la subliuscire dall’ombra della
mazione spirituale
Callas con una soluziodei
personaggi,è
ne interpretativa indivistato così ben moduale.Per Maria Callas
tivato e trasparenil personaggio di Norma
temente
espresso
è una parte assegnata dal
come
nell’opera
destino:Lei stessa sosteNorma,quando si
neva che,quando non saarriva al duetto
rebbe stata più capace di
<<Qual cor tradisti
cantare l’eroina di Bel- lini,avrebbe abbondonato
qual cor perdesti>>”.
per sempre la scena.”Della Callas,che interpretò la NorA tanti anni di distanza dalle parole di Schopenhauer,- ma ben 92 volte,abbiamo due eccellenti e fondamensiamo ancora tutti convinti dell’alto valore di trascen- tali testimonianze registrate,entrambe del 1955:una
denza e di catarsi che esprime la Norma di Vincenzo trasmissione Rai del 29 giugno con Mario del Monaco
Bellini.
ed Ebe Stignani,sotto la direzione di Tullio Serafin e la
Un’opera che non vuole ritrarre una donna feroce e ge- registrazione della prima alla Scala del 7 dicembre. La
losa e che non ha nulla a che vedere con la figura di voce della Callas è più slanciata rispetto alle precedenti
Medea;un’opera invece che è la rappresentazione di un rapprentazioni,ma molto costante e l’insieme più rafamore tanto impossibile sulla terra quanto necessario finato.La conduzione dell’aria è fluida,la cabaletta non
negli abissi imperscrutabili del cielo. A proposito delle ha solo brio virtuoso,ma è anche drammaticamente più
difficoltà interpretative delle partiture,scrive un grande plausibile.Mario del Monaco canta Pollione,ostentando
direttore d’orchestra,Richard Bonynge,”che la cantan- la propria superiorità come un novus Hercules e la sua
te che potrebbe interpretare una perfetta Norma,non partner è adeguatamente provocatoria.Ebe Stignani nel
è mai esistita e forse non esisterà
ruolo di Adalgisa non risulta essere
mai.L’opera pretende quasi troppo
all’altezza dei collegni,mentre sucda un soprano:il più grande potencessivamente Giulietta Simionato,ziale espressivo drammatico,una
scritturata per le otto repliche in
forza emotiva sovrumana,una tecprogramma alla Scala,offre un’innica di Belcanto perfetta,una voce
terpretazione eccellente.
di classe e grandezza e diverse altre
La Callas e la Simionato,nel duetinfinite qualità”.
to,sono quasi perfette.E’ ancora ArMa è proprio nel ruolo di Norma
thur Schopenauer che scrive di “un
che Maria Callas,mettendo in luce
insieme di suprema perfetta tragele sue grandi doti di interprete,si ridia,un autentico modello di tragica
allaccia a una tradizione interrotta
struttura dei motivi,tragico proe provoca un’autentica rivoluziogresso dell’azione e tragico svilupne,come risulta chiaramente dalle
po,che attraverso l’effetto edificante
parole di Friedrich Lippmann,uno
del mondo passa ai sentimenti degli
dei principali studiosi di Bellini: La
eroi che,a loro volta,vengono trasua interpretazione non solo rimasmessi agli spettatori”.Così succene ineguagliabile ma anche senza
de, ad esempio,in uno dei momenti
Maria Callas,
alternative convincenti.Persino le
più alti dell’opera,quando Norma e
debutto americano nella Norma nel 1954
Lions Club
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abbiamo già detto,certe pagine fra le più prestigiose di
Wagner.Purtroppo a soli trentaquattro anni la morte
aveva troncato non solo una brillante carriera,ma quella nuova riforma del teatro italiano che I Puritani,con
geniale lungimiranza,avevano fatto intravedere. Una
vita troppo breve per il più geniale compositore siciliano.
Pollione si avviano verso il rogo. Perfino Wagner giudica questa scena uno dei più grandi finali della storia
dell’opera. Ma torniamo per un attimo all’arco di vita
del Bellini che lo porta alla composizione della Norma
e diciamo subito che dopo le esperienze giovanili arriva alla partitura della Sonnambula dove l’artista appare
spiritualmente trasfigurato,pronto a rispondere in pieno ai richiami del teatro e della vita. Ora davvero sono
vicine le vette alte del canto,quelle che ne testimoniano
la grandezza delle concezioni e la nobiltà delle aspirazioni,e che in particolare traducono i sentimenti di un
cuore cui era pure concesso di conoscere i palpiti possenti della virilità.Mentre le opere precedenti sono un
passaggio obbligatorio di chi si evolve e ricerca la sua
strada e quindi rappresentano la produzione caduca
che un artista,a detta dello stesso Bellini,deve tributare all’altare della gloria,la composizione Sonnambula
e della Norma lo portano verso nuove sperimentazioni
che si concretizzano ne I Puritani.Da questa composizione ne uscì uno dei più schietti melodrammi che
un operista preverdiano abbia mai concepito e realizzato.Duetti,arie,cavatine,quel tale unico recitativo e
quei finali concertati di Paradiso,scrive Franco Abbiati,i vocalizzi della impazzita Elvira e i sovracuti dello
spasimante Arturo,si trasfigurano nell’idealizzazione
musicale,depongono l’ombra terrena della scuola,del
procedimento,del mestiere per assurgere agli accenti
inclassificabili dell’espressione immediata,pertinente,naturale quanto la voce stessa della natura.Chi si ostina
a vedere in Bellini solo un melodista ispirato,ma povero
e primitivo nelle strutture armoniche,dovrebbe riascoltare il mirabile brano tratto dal finale del secondo atto
di Norma(Deh,non volerli vittime),in cui l’accentuato
cromatismo,le progressioni armoniche in generale e
la scrittura vocale e orchestrale preannunciano,come
LE RICETTE
LETTERARIE
DI MARINELLA
Carlo Castellaneda negli Insegnamenti di Don
Juan, in cui narra in prima persona le tappe attraverso le quali lo sciamano Don Juan lo guida
all’iniziazione allo sciamanesimo mesoamericano,
parla anche del chili, piatto di origine messicana.
Ingredienti
Gr.600 di carne di manzo, 1 cipolla bianca, 1 cipolla rossa,1 peperone verde, gr.500 di pomodori
pelati, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, gr.
400 di fagioli neri( in scatola o secchi, ammollati
in acqua per 12 h e lessati), 1 peperoncino piccante, 1 cucchiaio di zucchero, olio q.b., sale, cumino,
cannella, coriandolo, pepe nero, cumino, 1 mestolo
di brodo di carne.
Preparazione
Rosolare nell’olio la polpa di manzo tagliata a cubetti, le cipolle , il peperone ( senza i semi ed i filamenti), il peperoncino ( privato dei semi ) tagliato
finemente per circa 10 mm. Aggiungere i pomodori schiacciati con la forchetta, il concentrato e
lo zucchero, i fagioli,
dopo altri 10 mm. aggiungere le spezie e se
occorre un po’ di brodo di carne. Cuocere
a fuoco basso per 1h.
Servire con tortillas.
Lions Club
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GIOVANI TALENTI PALERMITANI
Gabriella Maggio
I Concerti di Natale che si sono
svolti nelle Chiese storiche della
città dal 26 dicembre al 6 gennaio
hanno dato l’occasione al pubblico
palermitano non soltanto di vedere
luoghi di solito chiusi al pubblico,
ma anche di apprezzare il talento di
giovani cantanti e musicisti. In questo contesto ho ascoltato il concerto
di musica sacra del Maestro Bartolomeo Cosenza e del suo Ensemble
Da mihi virtutem . Dal momento
che mi è sembrato molto interessante e che mi ha incuriosito il fatto che
un giovane oggi scriva musica sacra,
ho rivolto alcune domande al Maestro per farlo conoscere ai Lettori ed
alle Lettrici di Vesprino.
seguito il dottorato di ricerca. A tale
riguardo, e con mia grande soddisfazione, sono state pubblicate in alcune
riviste scientifiche dei lavori di ricerca
a cui ho preso parte. Non ho neanche
tralasciato gli studi musicali e scrivere
un brano, in particolare di musica sacra, e poterlo eseguire ad un concerto
mi riempie di gioia e mi regala tante
soddisfazioni.
Cosa spinge oggi un giovane musicista alla musica lirico- sacra, ispirazione personale, committenza o
altro ?
Io sono un credente e spero di contiIl Maestro compositore
nuare a comporre con umiltà e di avere
Bartolomeo Cosenza
sempre obiettivi da raggiungere. Per
conseguire il mio primo diploma, in organo e composiLei è un ingegnere chimico, un musicista e un com- zione organistica, ho dovuto studiare, per motivi logistipositore, può l’aspetto scientifico conciliarsi con ci, in varie Chiese di Palermo. Suonare le opere di auquello artistico musicale?
tori come Girolamo Frescobaldi, Johann Sebastian Bach
Penso proprio di sì. Anzi le dirò di più. Nel corso dei miei o César Franck nei luoghi sacri mi ha fatto vivere più
studi musicali, in particolare quelli di composizione, il intensamente il mistero della fede e mi ha fatto capire
metodo di studio razionale, tipico degli ingegneri mi ha come nella musica vi sia Dio. Ricordo ancora il concerto,
aiutato moltissimo, soprattutto nell’elaborazione di algo- in occasione della 54° edizione della Settimana di Muritmi e strutture inerenti le forme compositive musica- sica Sacra a Monreale, quando ho eseguito il mio primo
li. Penso che la conoscenza, in genere, non proceda per brano di musica lirico sacra: “Abbi pietà di me Signor”.
settori chiusi, isolati l’uno dall’altro, ma alla
fine tutto serve e si può collegare. L’armonia ad esempio può essere vista come una
chimica dei suoni. Nell’ultima mia tesi di
laurea in composizione (musicale), che ha
come titolo “Reattori chimici e processi compositivi”, ho collegato due mondi apparentemente disgiunti, quello dei processi chimici
e quello della composizione seriale e non.
Questo argomento, mi è valso la lode e la
menzione alla tesi.
Ma lei si sente più musicista o ingegnere?
Io mi sento entrambi e cerco sempre di dare
il meglio di me stesso in ciascun campo. Non
ho mai tralasciato gli studi del settore ingegneristico chimico, anche dopo che ho con-
L’Ensemble Da mihi virtutem con Natisa Katai in Regina degli Angeli,
durante un concerto nella Chiesa di Sant’Anna.
Lions Club
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Era un fuori programma, così,
valori e dei principi sani, soprattutin continuazione, senza neanto in una società come la nostra che
che presentarlo, lo eseguii. Alla
si pone quotidianamente al di là define del concerto il parroco della
gli steccati di ogni moralistica consiChiesa mi si avvicinò e mi doderazione. La musica parla a tutti,
mandò chi fosse l’autore proprio
perché è essenzialmente un linguagdi quell’ultimo brano appena esegio particolare e speciale che ciascuguito. Temevo il peggio. Mi feci
no può riconoscere e fare proprio.
coraggio e gli dissi che la musica
La musica sacra è essenzialmente
ed il testo di quel brano erano i
comunicazione d’amore.
miei. Il parroco mi sorrise e mi
propose di ripetere proprio quel
Ha un progetto di creare un’attebrano in occasione di una celesa, un gusto ?
brazione, confidandomi di esserNon voglio creare attese o gusti
si commosso all’ascolto di quella
particolari. Non ho queste pretese.
musica. Proprio quella parola
Sono però un idealista e credo mol“commosso” fu per me come una
to nelle enormi potenzialità della
benedizione, una carica di enermusica. Quello che mi propongo ad
gia, un incentivo a continuare
ogni concerto è quello di sensibilizquello che avevo appena iniziazare quanto più persone possibili
to a fare: scrivere musica sacra.
con tematiche quanto mai attuali
Domenico Ghegghi e Maria Francesca Mazzara
Da allora decisi di dedicarmi a
e scottanti. Temi come il precariato,
nella Preghiera del disperato,
durante il concerto al Duomo di Monreale
questo genere di musica con più
la disoccupazione, la crisi economiassiduità e di presentare qualche
ca globale che stiamo vivendo, visti
mia composizione ad ogni nuovo concerto. Così come però sempre in una chiave speranzosa. Il grande teolouno scultore lavora la materia prima ottenendo un’opera, go cristiano Karl Barth diceva che il cristiano deve avere
allo stesso modo il compositore deve saper organizzare i in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. Allo stesso
suoni, in modo da produrre musica. Una musica che sia modo il compositore deve far sì che la sua musica possa
capace di parlare, di comunicare al cuore con umiltà e vestirsi di attualità e perché no, a volte deve essere annaturalezza. Il fine di ogni mia composizione è quello di che uno strumento di provocazione, solo così potrà essere
sensibilizzare chi ascolta, commuovere per l’appunto, ab- profonda, incisiva e potrà arricchire di valori le nostre
battendo l’indifferenza, l’apavite. Io nel mio piccolo cerco
tia e il disinteresse. E’ chiaro
di fornire questi input concerperò che per commuovere gli
to dopo concerto, grazie anche
altri, il primo a commuoveral supporto dell’Ensemble Da
si deve essere il compositore
mihi virtutem, di cui sono
stesso. Ecco perché ogni mia
molto fiero ed orgoglioso.
composizione nasce inizialmente come un dialogo, un
Come e’ nato l’Ensemble Da
ringraziamento, o una premihi virtutem? e come si
ghiera a Dio, per poi diventare
propone oggi?
un canto sacro pieno d’amore
L’ensemble che dirigo e per il
per il sommo Creatore. Come
quale compongo, è di recente
dice Sant’Agostino infatti, “chi
costituzione e debutta (all’iL’Ensemble Da mihi virtutem
canta prega due volte”.
nizio con il nome ensemble
al concerto che si è tenuto al Duomo di Monreale.
Vivaldi) in un concerto paDa sinistra verso destra i Maestri Luigi Rocca (violino),
A quale pubblico si rivolge ? Guido Maduli (flauto), Nicola Genualdi (tromba), Silvio Na- trocinato dalla Regione Sicilia
La mia musica si rivolge a tut- toli (viola da gamba) e Bartolomeo Cosenza (compositore il 13/12/2012 a Santa Maria
ed organista).
ti, senza alcuna differenza. E
della Pietà a Palermo, in occosì deve essere. Penso che la
casione dell’evento “Valorizmusica sia uno strumento potentissimo per divulgare dei zazione della Chiesa Santa Maria della Pietà”. Seguono,
Lions Club
diversi altri concerti a Palermo e provincia tra cui a Santa Flavia nella Basilica Soluntina, in occasione del “Santa Flavia Sacred Festival”; nella Cattedrale di Cefalù, in
occasione dell’inaugurazione dell’“Anno della Fede” nel
concerto “Sotto il suo sguardo”; a Lascari nel concerto
“Musica e preghiera”, per “La Giornata della Memoria”;
a Casa Professa, in occasione della giornata nazionale
di tutte le vittime di mafia; nel Duomo di Monreale in
occasione della rassegna “Uno strappo di musica”; nella
Chiesa di Sant’Anna; a Santa Maria di Porto Salvo Anna
in occasione della V edizione “Natale a Palermo”; e poi
un’esibizione a RAI TRE nella trasmissione “Buongiorno
Regione”.
L’Ensemble Da mihi virtutem con Natisa Katai in Regina degli Angeli, durante un concerto nella Chiesa di
Sant’Anna.
Allo stato attuale il gruppo è formato dai Maestri del
Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo: Nicola Genualdi (tromba), Guido Maduli (flauto), Luigi Rocca
(violino) e dal Maestro Salvo Palmeri (fagotto); dai tenori Domenico Ghegghi e Pierluigi Mazzamuto; dai soprani Maria Francesca Mazzara, Natisa Katai e dal mezzosoprano Carmen Ghegghi; e dal sottoscritto (Maestro
concertatore all’organo e compositore).
Domenico Ghegghi e Maria Francesca Mazzara nella
Preghiera del disperato, durante il concerto al Duomo di
Monreale
Tengo a precisare che i membri dell’ensemble, ancora prima di essere grandi professionisti e Maestri di indubbio
valore artistico, sono persone
splendide e di animo nobile con
i quali condivido l’amore per la
musica, per il bello e la cultura.
L’Ensemble Da mihi virtutem al
concerto che si è tenuto al Duomo di Monreale. Da sinistra verso destra i Maestri Luigi Rocca
(violino), Guido Maduli (flauto), Nicola Genualdi (tromba),
Silvio Natoli (viola da gamba) e
Bartolomeo Cosenza (compositore ed organista).
A proposito di crisi, quale
particolare significato e ricadute ha o può avere oggi la
crisi economica sulla produzione artistica ?
La crisi economica che stiamo
vivendo sta mietendo molte vittime anche nel campo artistico.
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Chiudono i teatri, le orchestre, le associazioni musicali,
complice anche l’indifferenza della nostra classe politica
che considera la musica un bene su cui non occorre investire. Niente di più sbagliato. La musica, in quanto arte,
deve reagire a questo degrado culturale, potendo mettere in luce problematiche sociali ed economiche. Molti
dei miei brani musicali nascono dalla volontà di descrivere questa enorme crisi tramite gli occhi dei deboli che
vivono nella nostra società, i senza nome che vengono
schiacciati da un sistema molto più grande di loro e su
cui niente possono.
Questi senza nome sono i precari, i disoccupati, gli operai che perdono il posto di lavoro, gli imprenditori che
chiudono la loro attività, i molti disperati che si suicidano, persone che sono vittime della recessione che vive il
nostro Paese. Questi brani di musica sacra vogliono per
l’appunto essere una risposta a questo decadimento non
solo economico della società, ma anche morale ed etico.
Un incoraggiamento a combattere. La crisi che stiamo
vivendo investe tutti i settori. Ne subiscono le conseguenze soprattutto i giovani che non trovano sistemazione in
campo lavorativo, soprattutto nel nostro Paese (fenomeno che anch’io condivido). Giovani precari neolaureati,
ricercatori di grande capacità che studiano nel nostro
Paese e che successivamente vengono richiesti per lavoro
all’estero, arricchiscono con il loro bagaglio culturale altri
Paesi dove vengono apprezzati e valorizzati. Questo fenomeno ovviamente causa un ingente danno economico
e produttivo al nostro Paese. Brani come “La preghiera del precario” o “ La preghiera del disperato” (interpretato
quest’ultimo da due artisti d’eccezione: Domenico Ghegghi e
Maria Francesca Mazzara), che
ho scritto, sono di fatto le preghiere di tutti quelli che vivono
questa situazione di forte disagio e di frustrazione; sono la
preghiera del giovane laureato,
del musicista, più in generale
la preghiera di chi ha investito
tanto nel nostro Paese per poi
non avere nulla e che quindi si
sente inutile, senza ideali, senza
dignità, senza lavoro.
L’immagine “La Preghiera del
precario” che fa da sfondo ai
concerti dell’ensemble Da mihi
virtutem. .
L’immagine “La Preghiera del precario”
Preghiere che nascono sì dalla
che fa da sfondo ai concerti
dell’ensemble Da mihi virtutem. .
disperazione ma che si nutrono
Lions Club
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sempre di speranza e di un forte ed incessante bisogno di
ritrovare nella fede cristiana Dio come unica, vera e sola
certezza ed ancora di salvezza e di amore in questo mondo che sta perdendo ogni punto di riferimento. Ritrovare
Dio, in questa società caratterizzata sempre più da un’eclissi dell’etica, dell’onestà, del decoro, del buonsenso e che
soffoca in maniera becera l’iniziativa e di conseguenza
l’inventiva e la creatività. Brani di provocazione e di preghiera per non arrendersi, per tornare a sperare in questo
Paese ricchissimo di magnificenze, ricettacolo di storia,
arte, musica e cultura. Canti per avvicinarci a Colui che
è verità, sapienza, immenso amore e che mai ci abbandona. Ora più che mai c’è bisogno del Buon Pastore, cioè
del Cristo, il Dio fattosi Uomo. Sono convinto che dietro
le difficoltà di questa vita risplenda un piano di inconcepibile bellezza.
VIAGGIATORI
STRANIERI
IN SICILIA
Daniela Crispo
I viaggiatori stranieri che visitano la Sicilia nell’Ottocento intrecciano curiosità e gusto per esperienze nuove ed emozionanti a ricerche storico-antropologiche di ampio respiro. Rispetto al Settecento
è cambiata la prospettiva di osservazione: dalle
testimonianze archeologiche del passato, dal pittoresco dei paesaggi all’osservazione degli uomini e
del loro carattere, del loro rapporto con l’ambiente.
E’ quanto emerge dal Diario italiano, in forma epistolare, del conte prussiano Paul Yorck von Wartenburg, che nel 1891 soggiorna venti giorni nell’isola. La Sicilia appare al conte nettamente separata
dall’Italia per paesaggio naturale, per storia, per il
carattere degli uomini. Per quanto riguarda la storia, la stratificazione isolana, leggibile chiaramente
nei suoi monumenti e documenti, sembra non scalfirla né caratterizzarla. Nel profondo del suo essere
l’Isola gli appare profondamente autoreferenziale,
fuori dal tempo. Anche gli uomini, visti nella loro
spontaneità come forze naturali incoercibili, non
sono riconducibili precisamente ad uno o all’altro
dei popoli che hanno nel tempo vissuto in Sicilia.
A pochi decenni dall’Unità, il viaggiatore riteneva
perciò necessario un intervento
del nuovo Stato per valorizzare
l’agricoltura e le tante potenzialità che l’isola offre con opportuni ed incisivi provvedimenti
tecnici e legislativi in grado di
utilizzare come risorsa e non
come ostacolo la sua diversità. Ma aveva anche modo
di percepire che una facile
quanto sterile retorica costituiva l’approccio degli amministratori alla condizione
dei siciliani.
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CENTOVENTESIMO ANNIVERSARIO
DEI FASCI SICILIANI
Gabriella Maggio
Al centro Carmelo Fucarino
Giovedì 27 febbraio 2014 presso la Società per l’Amicizia fra i popoli, per la sezione Corso di Storia della
Sicilia Carmelo Fucarino ha trattato il tema “I Fasci siciliani a Prizzi e la fondazione a Lercara” nel 120° anniversario della repressione. Il relatore di origini prizzesi
ha affrontato il tema con riferimento alla storia nazionale e con ampia disamina di fonti locali, compulsate
durante la stesura della Stratigrafia del Comune di Prizzi come metafora della storia dell’Isola, pubblicato nel
2005. Nella sua ricostruzione storica i Fasci ” …furono
il primo esempio in Italia di movimento sociale e popolare di massa con una composizione sociale diversa da
luogo a luogo..” ( op.cit. p.677 vl.II) . Carmelo Fucarino
ha sottolineato che i Fasci sono stati un laboratorio
politico-economico unico in cui contadini, braccianti,
mezzadri, artigiani e operai ed in alcuni casi ragazzi e
donne avevano trovato argomenti comuni di unione e
di lotta politica, che avrebbero potuto orientare diversamente la storia della Sicilia. Ma vennero duramente
repressi dalle autorità e il significato del movimento ridotto a pura rivendicazione salariale. Dal dibattito è
emerso il ruolo di Crispi che, legato a corrotte clientele
locali impedì l’attuazione di riforme in Sicilia.
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L’8 MARZO DELLE DONNE
Carmelo Fucarino
In margine all’incontro culturale “Regine e Sante pro- vite esemplari, la prima imbevuta di illuminismo, di
tettrici nella Toponomastica panormita” a cura del Cen- mecenatismo culturale ed artistico, la seconda dopo il
tro di Cultura Siciliana e riguardo alla Porta Carolina, decolté dell’amata sorella Maria Antonietta quella della
di fronte all’Orto Botanico, declassata a Porta Reale per spietata regina che, nuova Salomé, chiese la testa dei
odio verso la regina. Altra donna ebbe una porta, Porta rivoluzionari, fra cui Pagano e Caracciolo e l’Eleonora
Felice, in onore di donna Felice Orsini, moglie del vi- Pimentel Fonseca, colpevole di avere scritto una feroce
ceré Marcantonio Colonna. Vero splendore di Mariano satira («Rediviva Poppea, tribade impura, d’imbecille
Smiriglio.
tiranno empia consorte stringi pur quanto vuoi nostra
Si battaglia e si fanno pressioni sulla cattiva coscienza ritorta l’umanità calpesta e la natura…»). Al Tanucci
maschilista, chiamando in causa la statistica degli omi- subentrò lord Acton con la supervisione inglese e l’incidi di genere, detti con bruttissimo neologismo “fem- trigante donnicciola lady Hemma Hamilton, sua tropminicidi”. Quelli a danno dell’altro genere sono sem- po intima. A me ha intricato la prima parte della sua
plici omicidi senza aggravanti. Perciò si vuole, si dice vita, vera regina e governante al posto del distratto e
trasversalmente e a gretti fini elettoralistici, relegare le inetto marito, intento a cagliare ricottine alla Favorita.
donne in una riserva
In particolare mi ha
indiana, ove il solo
sorpreso del suo difatto di essere donna
spotismo illuminato
garantisca l’elezione,
la fondazione della
naturalmente in liste
Colonia di S. Léucio
bloccate prefabbrie delle sue seterie, atcate e senza le “ortiva dal 1789 al 1799,
rende”, “pericolose”
e in principal modo
preferenze (d’accoril suo Codice-Stado i partiti padronali
tuto,
antesignano
e naturalmente andel
cattolicesimo
che Grillo & C.). Ci
sociale alla Thomas
sarebbe da chiedere
Moore o alla Toniochi sceglierà queste
lo. Fu la vera parità
unte, i capi dei paruomo-donna, senza
titi maschilistici o
steccati e protezioFoto Archivio dell’autore
altre donne delegate
ni. In essa uomini
a questa professione. In altri termini anche con i pochi e donne vissero uguali, con uguali prerogative e pari
voti di famiglia si può entrare a governare l’Italia, essen- compensi. Alle donne fu riconosciuto il diritto di studo semplicemente prime nella lista chiusa, con il solo diare, ereditare, possedere proprietà, educare i figli e
“pregio” e capacità di appartenere al genere femminile. soprattutto scegliersi liberamente il marito.
Con questi criteri si potrebbe riportare in Parlamento Naturalmente con la propaganda savoiarda del loro
a governarci anche il cavallo di un celebre imperatore, Regno perfetto contro la barbarie borbonica si buttò
oggi forse meglio il “fedele” cane, il parente più stretto il bambino assieme all’acqua sporca. Paradigma la ferdi famiglia.
rovia Napoli-Portici, irrisa come giocattolo regio. Per
Nell’incontro sopradetto ho voluto ricordare una don- tutti però valga il giudizio di Alexandre Dumas padre,
na eccezionale nel bene, ma anche nel male, la terribi- amico, cronista e finanziatore per gioco di Garibaldi:
le vendicatrice Maria Carolina, moglie sedicenne per «Nel 1778, quando cioè Saint-Simon aveva appena doprocura del nostro Ferdinando, quello della Palazzina dici anni, e Fourier non ne aveva cinque, il re FerdinanCinese e di Ficuzza, passato da IV a zero. Tredicesima do non solo ideò il falansterio, ... ma lo mise ad effetto,
figlia dei diciotto della prolifica Maria Teresa, visse due dandogli leggi più umanitarie di quelle compilate da’
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due capiscuola, e da’ loro due discepoli. Aspetto alla
costituzione di San Leucio, quelle di Saint-Simon e di
Fourier son timidi saggi di socialismo» (Da Napoli a
Roma, Napoli 1863, tradotto dal napoletano Eugenio
Torelli Viollier, “il garibaldino che fece il Corriere della Sera”). Intanto un principio etico fondamentale: «I
Doveri negativi son quelli, che impongono l’obbligo di
astenersi dall’offender alcuno in qualunque maniera.
Or in tre maniere si può offendere alcuno. Si può offendere nella persona, nella roba, e nell’onore». Ad essi si
affiancano quelli positivi che «impongono di fare a tutti
il maggior bene che si possa. Questi sono o generali, o
particolari. I generali riflettono sopra tutti i nostri simili».
Perciò, «la virtù, e l’eccellenza nell’arte, che si esercita,
debbon essere la caratteristica dell’onore, e della singolarità; e questa, qual debba esser tra voi, sarà qui sotto
prescritta. Nessun di voi pertanto, sia uomo, sia donna, presuma mai pretendere a contrasegni di distinzione, se non ha esemplarità di costume, ed eccellenza
di mestiere». Prima del lodatissimo Olivetti di Ivrea ai
lavoratori fu assegnata una casa con acqua corrente e
servizi igienici, fu creata un’assistenza malattie e ospedali a carico dello Stato, il campo più attivo e moderno
del Regno borbonico. Suscita una certa commozione
la lettura dell’articolo III Sul matrimonio, cristiano e
moraleggiante, che inizia: «La donna fu concessa da
Dio all’uomo per sua ragionevol compagna». Detto del
matrimonio, dell’età e della ripartizione del lavoro di
entrambi chiarì: «Nella scelta non si mischino punto i
Genitori, ma sia libera de’ giovini, da confermarsi», con
un preciso e romantico rituale di scambio di bouquet di
fiori. In merito «essendo lo spirito, e l’anima di questa
Società l’eguaglianza tra gl’Individui, che la compongono, abolisco tra’ medesimi le Doti». Indicato l’uomo
come capo naturale di questa unione, la natura «gli
proibì nel tempo stesso di opprimere e di maltrattare
la sua moglie. Con tuono di maestà in ogni occasione
gl’intima l’obbligo di amarla, di difenderla, e di garantirla da’ pericoli, a’ quali la sua debolezza la porterebbe.
Il marito deve alla moglie la protezione, la vigilanza, la
previdenza, gli alimenti, e le fatiche più penose della
vita. La moglie deve al marito la giusta preferenza, la tenera amicizia e la cura sollecita per cimentare da più in
più la cara unione». Perciò, «comando ad ogni marito
di questa Società di non tiranneggiar mai la sua moglie,
né di essere ingiusto, togliendole quella ricompensa che
sia dovuta alla di lei virtù: ad ogni moglie, che rendasi
cara al suo marito; che nelle cure, e ne’ travagli sia la sua
fedele compagna». Sembra il nostro codice civile.
L’istruzione elementare fu obbligatoria e gratuita, e
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quello che più strabilia in tema di parità, il diritto allo
studio fu esteso in ogni Comune con «la Scuola normale, in cui s’insegna a’ fanciulli, ed alle fanciulle sin
dall’età di anni 6 il leggere, lo scrivere, l’abbaco».
Quando in Inghilterra il lavoro minorile era soggetto
ad età e orari disumani, qui si stabilì l’ingresso a 15 anni
con turni regolari per tutti con otto ore giornaliere e
con un salario sufficiente a sostentare le famiglie. La disoccupazione giovale fu combattuta e risolta: «Per non
farli andare altrove a cercar la maniera d’impiegarsi, ho
(il Re, promulgatore dello Statuto) provveduto questo
luogo di macchine, di strumenti e di artisti abili ad insegnar loro le più perfette manifatture». Se tutto questo
potrebbe sembrare ovvio nella società italiana del 2014,
si rifletta su questo articolo in epoca di maggiorascato
maschile: «Abbian i figli porzion eguale nella successione degli ascendenti; né mai resti escluso la femina
dalla paterna eredità, ancorché vi sian de’ maschi». Ed
educatori riflettete: «Se i Genitori danno la vita, i Maestri danno la maniera di sostenerla. Quegli obblighi
dunque, che i figli hanno a’ Genitori, quelli stessi i discepoli hanno a’ Maestri. Ad essi debbono l’amore, e la
gratitudine: ad essi l’ubbidienza, ed il rispetto».
Solo questo, per ragioni di spazio, ho potuto ricordare di questo Statuto che invito
a leggere intero per ricavare
qualche riflessione sull’uso
improprio, immorale e mistificatorio, che si è fatto della Storia della Nazione.
GIORNATA
INTERNAZIONALE
DELLA DONNA
La Redazione di Vesprino
augura a tutte le donne
di potere realizzare
serenamente
il proprio progetto
di vita
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IMAGERIE MÈDICALE
Natale Caronia
Col termine di imagerie mèdicale i nostri cugini francesi indicano quella serie
di indagini strumentali che servono alla
diagnostica clinica. Notoriamente fanno
parte di tale strumentazione le apparecchiature a raggi X, la TAC, gli ultrasuoni,
la risonanza magnetica e la medicina nucleare. Spesso viene chiesta la modalità di
funzionamento di questi sistemi diagnostici, quale la più opportuna e se le radiazioni sono pericolose, così come i mezzi di
contrasto impiegati. Ritenendo di qualche
utilità affrontare l’argomento e, in sintonia
con il Direttore editoriale Gabriella Maggio Carioti,
cercherò di divulgare in maniera piana la costellazione
strumentale che ho visto irrompere prepotentemente
nel mondo sanitario nel volgere di pochi decenni sconvolgendo, in senso positivo, la potenzialità diagnostica.
Similmente si è avuto il lievitare dei prezzi della diagnostica, perché la tecnologia ha un costo ed è imperativo scegliere oculatamente la tecnica più appropriata e
quella che esponga il paziente a rischi minori.
I Raggi X
Come spesso accade nella storia dell’uomo, la scoperta
dell’uso clinico dei raggi X avvenne nel 1895, quasi per
caso, con la radiografia di una mano fatta dal fisico tedesco Wilhelm Roentgen, che ricevette il Nobel nel 1901
per questa scoperta. La prima radiografia rappresenta
un’applicazione pratica degli studi sulle scariche elettriche nei tubi di Crookes. Questo fisico, ancor prima di
Roentgen, aveva notato che le pellicole fotografiche poste vicine ai tubi nel corso degli esperimenti venivano
impressionate; ma non aveva approfondito le ricerche
su questo fenomeno. I raggi X vennero inizialmente così
chiamati per la loro natura sconosciuta. Oggi sappiamo
che sono delle radiazioni elettromagnetiche della stessa famiglia della luce, delle onde radio, raggi gamma
etc., da cui differiscono solo per la lunghezza d’onda,
che è compresa tra i 10 nanometri ed un picometro. Il
tubo a raggi X è costituito da un’ampolla sotto vuoto
con agli estremi un polo negativo ed un polo positivo;
al polo negativo esiste un filamento, come nella vecchia
lampadina ad incandescenza, che viene riscaldato e che
produce una nuvola di elettroni. Applicando una forte
differenza di potenziale (di diecine di migliaia di volts a basso amperaggio) tra polo negativo e positivo, la
nuvola di elettroni viene scagliata contro l’anodo. Oggi
sappiamo che i raggi X vengono prodotti per un effetto
di frenamento degli elettroni che colpiscono l’anodo, in
quanto l’energia ceduta dagli elettroni scagliati dal catodo (polo negativo) contro gli atomi dell’anodo (polo
positivo) viene restituita in parte come raggi X ed in
parte sotto forma di calore. La breve lunghezza d’onda
permette alle radiazioni X di attraversare i corpi, i quali
assorbono i raggi in maniera proporzionale al rispettivo
numero atomico (densità); l’attenuazione differente subita durante l’attraversamento permette di discriminare
i tessuti molli (cute, muscoli) dai duri (ossa, metalli). I
raggi così “filtrati” all’uscita dai corpi in esame sono
resi visibili su schermi fluorescenti o registrati su pellicola o captati dai moderni sistemi di rilevamento allo
stato solido. L’inconveniente dei raggi X è che sono radiazioni ionizzanti, ossia capaci di produrre ioni lungo
il loro percorso, quindi di danneggiare i tessuti viventi,
modificare i cromosomi e determinare alterazioni genetiche. E tuttavia non bisogna averne paura in quanto
in natura siamo sottoposti continuamente a radiazioni
ionizzanti da parte del sole; tuttavia è opportuno che le
indagini radiografiche siano effettuate a ragion veduta e
che il rischio (remoto) sia compensato da un beneficio
effettivo e reale. E’ noto a tutti il risultato positivo ottenuto a livello mondiale e come con lo screening mammografico abbia salvato innumerevoli donne, come
pure noti sono i risultati ottenuti nella lotta contro la
tubercolosi con lo screening delle comunità. Successivamente vedremo insieme come il matrimonio tra i
raggi X e computer abbia generato la TAC.
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IL TOMTOM È FEMMINA
Carlo Barbieri*
TomTom. Sembra il nome di un capotribù centrafricano o di uno stregone Voodoo, ce n’era uno in un film
di 007... ma non divaghiamo. Il TomTom è un tipetto
indipendente che crea dipendenza e provoca incazzatorie. Praticamente è femmina. Non a caso noi uomini
scegliamo sempre, fra le opzioni possibili, che a guidarci sia una voce femminile, magari con quell’accento
“tetesco” che a noi “maletetti italiani “ incute ancesrale
timore.
Un aggeggio capace di portarti a destinazione, certamente, ma anche di farti lasciare comode autostrade
per ignobili trazzere, di farti prendere sensi unici dalla
parte sbagliata, di invitarti a svoltare dritto dentro il Tevere facendoti venire il sospetto che i cartografi abbiano memorizzato come esistente e ancora funzionante,
che so io, il Ponte Rotto o un ponte di barche alleato.
Ho lasciato una sola volta la mia macchina parcheggiata sotto casa senza ricoverarla in garage, e il giorno
dopo me la sono trovata con un vetro rotto e il cruscotto violentato: si erano fottuti il navigatore con tutto il
cucuzzaro di accessori.
Ho saputo poi dal concessionario che i furti dei satellitari sulle auto come la mia sono frequenti, mentre
arrabbiatissimi clienti giurano su internet che gli ingegneri della casa tedesca, forse abituati al germanico
rispetto per la proprietà privata, avevano progettato il
tutto in modo da renderlo facilmente asportabile togliendo solo poche viti. Non comprerò mai più un’auto
con navigatore satellitare. Non comprerò naturalmente
neanche uno di quegli antiestetici TomTom che si appiccicano con ventose e che temi sempre che si stacchino mentre vai a 130 sull’autostrada. Ma dal momento
che ormai non posso farne più a meno (l’ho detto: il
TomTom è femmina) ho deciso per una rivoluzione
copernicana: non più il navigatore come accessorio
della mia auto, ma il contrario. Comprerò l’auto come
accessorio al navigatore. Vi spiego. Ho scoperto che alcune auto hanno sul cruscotto comodissimi posticini,
di cui non si sono accorti neanche i progettisti, dove
si può poggiare o addirittura incastrare il telefonino. E
dal momento che sugli smartphone, come per esempio
il mio I-Phone, si può installare il TomTom , il gioco
è fatto. Comodissimo. Costa pure poco. E si aggiorna
automaticamente, e gratis. Dimenticavo: è bene usare
il telefonino TomTom-izzato solo con moglie o compagna a bordo, e vi dico perché. Le donne cercano sempre di prendere in castagna il TomTom, ne sono gelose,
un po’ perché noi uomini prestiamo più attenzione alle
sue indicazioni che alle loro, e un po’ per via della voce
femminile con la quale, secondo le nostre dolci partner,
chissà quali storie intrecciamo in loro assenza. Questa
antipatia stimolerà l’attenzione della donna che, decisa a dimostrarvi che lei è più brava, starà con gli occhi
aperti e vi impedirà non solo di entrare nei sensi vietati
in cui vuole cacciarvi il rivale, ma anche di uscire dalla
macchina dimenticandoci dentro il prezioso telefonino
bene in vista. Vi costerà qualche “Ma proprio non ci
stai con la testa? Quest’affare ti sta facendo rincoglionire!”... Ma tanto noi uomini ci siamo abituati, no?
*Già postato su http://www.ilfattobresciano.it
C. B. vive tra Roma e Palermo. Ha scritto Pilipintò, Una
pietra al collo, Il morto con la zebiba.
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D’EUROPA SI CONTINUA A PARLARE
Irina Tuzzolino
D‘Europa si continua a parlare, ma in termini puramente economici di pesanti compiti a casa che sono
metafora di tasse e sacrifici. Presentata così l’UE non
attrae più, sembra un inutile peso, in una situazione già
difficile, soprattutto per chi non ha attenzione per la
storia. E così in tutti i Paesi crescono i movimenti che
hanno in programma di uscire dall’euro, senza chiarire
come e a quale prezzo.
Si accontentano dell’annuncio. Le elezioni europee
potrebbero essere una risorsa per imprimere una svolta ad una situazione di stallo, ma in questo momento
vengono usate dagli europeisti e dagli antieuropeisti
per sostenere il loro punto di vista senza addentrarsi in
programmi e progetti. Troppe polemiche e troppa aritmetica rischiano di provocare una grande confusione.
Manca un progetto europeo grande o meglio grandioso
tanto forte da vincere le resistenze e far rinascere speranza e fiducia. Del ‘900 oggi sembrano vive le separazioni ed i conflitti fra gli Europei, piuttosto che i grandi
progetti di unità e cooperazione formulati da Altiero
Spinelli, Robert Schuman, Konrad Adenauer. Sembra
lontano l’ideale dell’Europa come Paese policentrico,
universo cosmopolita, anche se di fatto basta guardarci attorno per percepirlo anche in molti dettagli della
quotidianità. Ma per questo non abbiamo occhi, preferiamo immaginarci progetti a nostro danno, orditi dai
nostri partner europei, piuttosto che assumerci la parte
di responsabilità che ci spetta in termini di inefficienza
e trascuratezza. L’unione politica potrebbe essere una
soluzione al problema generale nel lungo periodo.
Ma gli Stati dovrebbero rinunziare ad una parte cospicua della loro sovranità e soprattutto dovrebbero cominciare sin da ora a rinnovare una cultura europeista,
che da tempo, almeno nel nostro Paese, si è indebolita.
Eppure l’Europa da lungo tempo è una realtà culturale
ben individuata e riconosciuta come tale. Tralasciando il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, che mi
sembra troppo lontano nel tempo, è dal ‘700 che essa è
percepita come unità culturale dai più diversi Autori a
cominciare da Voltaire. Un decisivo passo avanti verso
l’unificazione sono stati, secondo me, la moneta comune e gli stage degli studenti medi ed universitari, ma a
quanto pare non sono stati sufficienti.
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DALLA CINA ALL’ITALIA
Pino Morcesi
Una gualchiera
medioevale fabrianese
Un tempo le invenzioni nate in Oriente venivano perfezionate in Occidente e da qui diffuse in tutto il mondo. Oggi avviene il contrario, perché abbiamo abdicato
alla nostra creatività ed inventiva e ci sentiamo succubi
di quella che viene chiamata Cindia, cioè Cina ed India,
di cui guardiamo ammirati il tasso di crescita, sebbene
in questi mesi stia rallentando. Il cammino della carta
quale noi la usiamo è stato lungo, ma risolutiva è stata
la modifica apportata alla sua fabbricazione dalla cartiera di Fabriano intorno alla metà del 1200. Infatti i
Cinesi usavano la carta già nel II sec. a. C. La carta era
ricavata dalla corteccia del gelso macerata nell’acqua, la
pasta ottenuta era trattata con colle per renderla resistente ed impermeabile agli inchiostri. Il segreto della
fabbricazione della carta fu ovviamente tenuto nascosto per qualche secolo, ma poi venne conosciuto, favorendone così una larga utilizzazione. Sono stati gli Arabi a diffonderne in Occidente l’uso. Si narra infatti che
due fabbricanti di carta cinesi siano finiti prigionieri
degli Arabi e che sotto tortura abbiano rivelato i segre-
ti dell’arte. La carta avanza quindi insieme alla civiltà
araba, conquistando l’Europa. Ma non tutte le persone
che contano la vogliono usare per redigere documenti ufficiali perché si deteriora facilmente in quanto le
colle usate la rendono facile preda degli insetti. Infatti
Federico II di Svevia ne proibisce l’uso nella sua Cancelleria. Gli artigiani di Fabriano però trovano il modo
di migliorare la qualità della carta cominciando dalla
sfilacciatura degli stracci di cotone da cui ricavare la
pasta per preparare la carta nelle gualchiere, dove si
sfrutta l’energia dell’acqua del fiume e dalle colle più efficaci, che rendono più resistente la carta, ricavate dagli
scarti della lavorazione delle pelli. La sicurezza nell’impiego della carta nei documenti ufficiali è garantita dalla filigrana che viene inserita in ogni foglio. A queste
innovazioni si unisce il costo contenuto che permette la
diffusione dell’uso della carta di cui poi si gioverà l’invenzione dei caratteri mobili della stampa. Ancora oggi
Fabriano è sinonimo di scrittura: il computer ha fatto
aumentare il consumo di carta.
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IL MITO DI FAUST NEL CINEMA
Gianfranco Romagnoli
Richard Burton ed Elizabeth Taylor
E’ un topos della nostra cultura occidentale il mito di
Faust, ossia il desiderio della giovinezza e del potere
conseguiti mediante un patto con il diavolo: un contratto a termine che ha come prezzo l’anima.
Dalla sua origine in un racconto medioevale tedesco,
questo mito è stato fonte di ispirazione di opere letterarie (ricordiamo tra gli autori Marlowe, Goethe e
Thomas Mann), musicali (Berlioz, Gounod) e cinematografiche: è di queste ultime che ora ci occuperemo.
Il primo di questi film lo troviamo agli albori della cinematografia: è La damnation de Faust, realizzato nel
1903 dal regista-attore francese Georges Méliès, considerato uno dei padri dell’arte cinematografica che egli
praticò sul versante del fantastico.Sempre nell’era del
cinema muto segue, nel 1910, il Faust di Henri Andreani e David Barnett , un cortometraggio muto del 1910,
diretto da Henri Andréani, David Barnett ed Enrico
Guazzoni. basato sull’opera Faust di Charles Gounod e
sul libretto di Jules Barbier e Michel Carré,interpretato
da Ugo Bazzini, Fernanda Negri Pouget, Alfredo Bracci
e Giuseppe Gambardella.
Con lo stesso titolo, Faust, esce in America nel 1915
un film diretto e interpretato dal regista e attore inglese
Edward Sloman., ed ancora, nel 1922, in Inghilterra,. Il
Faust di Challis Sanderson, interpretato da Sylvia Caine
(Margherita), Lawford Davidson (Mefistofele), Gordon
Hopkirk (Valentino), Minnie Rayner (Marta), Dick
Webb (Faust). Ancora si intitola Faust un film, uscito in
Germania nel 1926, del regista espressionista tedesco
Friederich Wilhelm Murnau, tra i cui interpreti ricor-
diamo il grande Emil Jannings nella parte di Mefistofele, Gösta Ekman (Faust) e Camilla Horn (Gretchen).
Nell’era del cinema sonoro il primo film italo -francese
sul mito di Faust è, nel 1949, La bellezza del diavolo
di René Clair , interpretato da Gérard Philipe, Michel
Simon Nicole Besnard, Carlo Nonchi e Paolo Stoppa.
Segue nel 1960 il Faust di Peter Gorski interpretato
regista-attore tedesco Gustaf Gründgens. Nel 1967 si
impene all’attenzione del pubblico il film Doctor Faustus, tratto dalla tragedia del drammaturgo elisabettiano Cristopher Marlowe, diretto ed interpretato da Richard Burton con Elizabeth Taylor nella parte di Elena,
la mitologica bellezza che Faust ottiene in sposa, cui fa
seguito, nel 1967, il film musical britannico di Stanley
Donen con Peter Cook ,Dudley Moore, Eleanor Brown
e Raquel Welsh.
Dopo il Faust del regista ceco Jan Svanjmayer (1994)
e il Fausto 5.0 del regista catalanoi Alex Ollé (Spagna
2001) è degno di nota il Mephisto del regista ungherese Istvan Szabò interpretato da bravissimo Klaus Maria
Brandauer (!981), vincitore di vari premi internazionali tra cui nel 1982 il premio Oscar per il miglior film
straniero. Ricordiamo ancora, in chiusura, Bedazzled
(200) film statunitense comico.fantastico diretto da
Harold Ramis con Elizabeth Hurley e Brendan Fraser;
Faust, Love of the Damned (Spagna 2001) per la regia
di Brian Yuzna con Mark Frost, Isabel Brook e Jennifer
Rope, e il Faust del russo Aleksandr Sokurov (2011),
premiato al Festival di Venezia.
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PRETESTO: CARMEN DI BIZET
Carmelo Fucarino
A parte la quarantina di film e le fantasie di musica da
camera (una di Busoni), mai opera lirica ha avuto tanto successo popolare, da quella prima sfortunata alla
Opéra-comique di Parigi il 3 marzo del 1875, tanto da
divenire base e pretesto per trasposizioni “altre”, con
le quali sulle melodie popolari spagnole e il naturale
incanto della plaza des toros e del toreador, creati da
due parigini doc, tanti si sono sbizzarriti in ideazioni
ed orchestrazioni di generi diversi. Già ad inizio quella novella di Prosper Mérimée del 1845 era stata rielaborata in opéra-comique dal giovane musicista che vi
aveva introdotto la coppia Escamillo e Micaela e reso
malfamato il buon don José, ma aveva creato soprattutto e scritto quella perla della celeberrima habanera
(la danza di La Habana) L’amour est un oiseau rebelle.
A parte l’ammirazione dei musicisti come Čajkovskij,
Puccini e Brahms, e di pensatori come Nietzsche e
Freud, la reazione scandalizzata dei perbenisti fu violenta e decretò un iniziale insuccesso con l’avvio di
quella crisi psichica e fisica che condurrà alla morte a
soli 37 anni il musicista.
Per le trasposizioni cominciò nel 1943 Robert Russell
Bennett con la sua Carmen Jones, adattamento e orchestrazione per un musical a Broadway su testi e musica di Oscar Hammerstein II. Nel 1949 vi mise mano
il geniale creatore di balletti, Roland Petit, con il primo
suo balletto Carmen, interprete assieme alla congeniale
Zizi Jeanmaire, su musica di Bizet e con una coreografia che seguiva una trama presso a poco simile. Il successo fu enorme come le sue cinquemila repliche, che
continuano acclamate nei teatri del mondo. Nel 1967
Rodion Shchedrin ne trasse un altro balletto, rivisto e
modernizzato nel 2000 da Matthew Bourne con il suo
The Car Man. Divenne musical drammatico con Peter
Brook nel 1981, per tornare balletto con le coreografie
di Ramόn Oller nel 2007 e con Carmen. The passion di
Mauricio Wainrot per The Royal Winnipeg Ballet nel
2008.
Come si vede la traiettoria che ha condotto alla realizzazione di Amedeo Amodio per l’Aterballetto, con adatta-
mento e interventi musicali originali di Giuseppe Calì,
si pone su questa scia di metalettura e di ri-creaszione.
È l’elemento passionale e sensuale, quell’insistenza sulla
fisicità a dare il là alla interpretazione della musica di
Bizet e alla vicenda noir di amore e di morte. Con una
sostanziale differenza. Nel tragico epilogo Carmen in
abito bianco, la veste della purezza virginale delle nozze, smette gli abiti della seduttrice e si purifica in una
plateale uscita verso il suo destino di morte. Certo ritorna la moda ormai consolidata della scena spoglia e
dei parallelepipedi ruotanti, ma dobbiamo farcene una
ragione.
Quello che interessa è la resa musicale e la lettura scenica e coreografica. L’Abbagnato giocava in casa, anche se
spesso avviene che nemo propheta in patria. In questa
occasione la bravura dell’étoile ha avuto l’unisono della simpatia del pubblico. Tuttavia caldi applausi sono
stati tributati ai pur valenti e spesso perfetti Nicolas Le
Riche, Ashley Bouder e Alexandre Gasse. Così è risultato efficace e prorompente in dinamismo il balletto del
Massimo, in alcune performance corali di rara efficacia.
La coreografia di Amodio è ormai collaudata da quella
sua prima uscita nel 1995. Forse frastorna il pubblico
il ricorso a quell’incipit dalla fine, dalla chiusura del
sipario con le ultime note dell’opera Carmen, con la
quotidianità delle azioni e la morte che si appresta a
segnare una vicenda terrena, per risalire in flashback
alla storia di malavita e di amori dirompenti. Sa molto
di pirandelliano e dei Sei personaggi in cerca di autore quello sciogliersi dei teatranti tornati al loro banale
quotidiano nei personaggi di Mérimée e dare loro nuova, reale vita oltre alla dismessa finzione scenica. Ma
sono notazioni che nulla tolgono alla lettura personale
della vicenda e della musica di Bizet. Forse è mia impressione, ma in qualche coreografia insistita si sentiva una certa stanchezza, una sensazione di stasi che
nuoceva alla dinamicità della musica. Abusata la lunga,
lenta vestizione del torero e della Carmen che si avvia
sposa della Morte, l’insistenza su evanescenti e morbide
figure sceniche.
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LA POESIA È PAROLA.
V RASSEGNA POETICA PALERMITANA
Lavinia Scolari
Giovedì 20 Marzo 2014, nella preziosa cornice della
Biblioteca Comunale di Palermo, si è svolta la V Rassegna Poetica Palermitana organizzata dall’associazione VOLO, in collaborazione quest’anno, per la prima
volta, con l’associazione L&D (Letteratura e Dintorni).
Accompagnati dalla chitarra di Antonina D’Anna e dal
violino di Chiara Bellavia, poeti ben noti del panorama
poetico siciliano si sono susseguiti in un pomeriggio
all’insegna della parola, del ricordo, e della musicalità del verso. Aprono il pomeriggio i saluti di Maria
Di Francesco, Presidentessa dell’associazione VOLO e
voce attiva e instancabile della Rassegna Palermitana.
Parola è Poesia, questo il titolo dell’incontro, ideato e
curato come ogni anno dalla Prof.ssa Gabriella Maggio,
che inaugura l’appuntamento citando il Montale delle
Poesie Disperse: è proprio vero che tutti scrivono poesie. Ed è bello che sia così. La poesia - ricorda Gabriella
- ci parla della vita, pone delle domande e ci offre delle
risposte. Ma non è proprietà solo di chi la compone. La
poesia è anche di chi la legge. E di chi l’ascolta, come in
questa ricca serata. A dare il via alle letture, la poetessa
e pittrice Carla Amirante, con due componimenti tratti dalla sua ultima raccolta Il faro, in cui il sentimento
dell’esistere, spesso filtrato dalla memoria del mito, si
accompagna a un’indefessa speranza. Tony Causi, per
la prima volta ospite dell’evento, ha dato prova di un’armoniosa sintesi di sentimenti e introspezione, ambientati in uno sfondo naturalistico dove la poesia dipinge
scenari segreti.
Il Prof. Carmelo Fucarino, da storico e studioso delle
letterature antiche, ci ha regalato due inediti di grande
bellezza, pregni di cultura classica, in cui ha celebrato
la nascita della phoné, il suono, destinato a tramutarsi
in logos, la parola, discorso e principio razionale, che
pare alludere alla vicenda del mondo che rinasce nei
suoni. Colta e delicata la rivisitazione del Carme IV di
Catullo “Phaselus ille, quem videtis, hospites, [/ ait fuisse navium celerrimus], «quella barca, che vedete, amici
miei, [dice di essere stata la più rapida delle navi...]».
Il tema del ricordo e della florida giovinezza del passato si sposa bene con il recupero poetico del maestro
latino, Catullo, forse il più grande poeta che abbia mai
cantato d’amore. Il Leitmotiv dell’amore è un tratto peculiare anche dei versi di Emanuele Lanzetta, che nella
sua Verranno a chiederti del nostro amore, il cui titolo è una citazione dotta, offre una riscrittura del tema
dell’amore perduto, intenso e passionale, dove la lirica
parla al ricordo dei sensi. Le poesie di Francesca Luz-
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zio, critica letteraria e poetessa, sono accomunate dal
tema dell’idea, l’idea che nasce e accompagna l’autore
fuori dal guscio del proprio io, e l’idea come direzione
di vita da seguire, che indica il movimento incessante
della “ricerca del futuro”, da cui uno dei componimenti
trae il titolo.
La ricorrenza della Pasqua è invece l’argomento di attualità sacra delle due opere di Pietro Manzella, che
in Eden e nel suo intenso dialogo con Dio, rivela un
poetare mosso da un anelito di profonda umanità e di
ricerca, anche struggente, della Veritas. Egle Palazzolo,
scrittrice e poetessa che non ha bisogno di presentazioni, legge con spontaneità e dolcezza due componimenti in cui il motivo del ripiegamento interiore e del
rifiuto della speranza, in un bel contrasto con la fresca
spontaneità dell’autrice, ci racconta di un cuore vibrante, ma timoroso di aperture. Bellissimi i suoi versi sui
sogni: «Non toccare i miei sogni, non sforbiciarli (...)
non sono tuoi».
Al poeta successivo, Pippo Pappalardo, dobbiamo il
merito di averci ricondotto alle origini, il nostro dialetto, la lingua di casa e della memoria, la prima lingua,
un patrimonio da non dimenticare: Paisi miu e Sugnu
Vecchiu hanno il sapore nostalgico e profondo della
vera poesia di Sicilia. Sulla scia di questo ritorno alla
natura aspra e profumata di Trinacria, si colloca Elisa
Roccazzella, poetessa prolifica e più volte premiata, che
legge dalla sua raccolta I favi di Ibla due componimenti
musicali e pittorici:
La gioia del sorbo e Vecchie case dipingono agli occhi
della mente il paesaggio soleggiato e arcano della nostra isola. La talentuosa Elena Saviano, scrittrice nota
anche a livello nazionale, conferma le sue doti poetiche di scrittura armoniosa, equilibrata e sapiente con
Eros e Stupore. Chiude la serata dei poeti in Rassegna
Biagio Balistreri con i suoi DNA e Desiderio, tratte dalla raccolta Fabbricante di Parole, che procedono con
uno stile naturale e mai ampolloso, di grande efficacia
comunicativa e musicalità del verso. Sono in seguito
intervenuti altri poeti presenti tra il pubblico che
hanno letto versi editi e inediti, arricchendo così
l’incontro, in un’atmosfera di festa e condivisione. Il saluto spetta alla curatrice della Rassegna,
Gabriella Maggio, poetessa dall’ispirazione fiorente e vivida, che ci offre il contraltare della Poesia come Parola, in un componimento che riscrive il tema dell’incomunicabilità servendosi
dell’immagine classica e statuaria della Nike e
raccontando lo scontro atavico tra una tenace
istanza della parola e una cocciuta e indolente
sordità.
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TEMPO
DI POESIA
Gabriella Maggio
Oggi 21 marzo si celebra
la giornata mondiale della poesia.
Propongo ai Lettori ed alle Lettrici
di Vesprino un sonetto di Shakespeare:
XXIII
Come un pessimo attore in scena
colto da paura dimentica il suo ruolo,
oppur come una furia stracarica di rabbia
strema il proprio cuore per impeto eccessivo,
anch’io, sentendomi insicuro, non trovo le parole
per la giusta apoteosi del ritual d’amore,
e nel colmo del mio amor mi par mancare
schiacciato sotto il peso della sua potenza.
Sian dunque i versi miei, unica eloquenza
e muti messaggeri della voce del mio cuore,
a supplicare amore e attender ricompensa
ben più di quella lingua che più e più parlò.
Ti prego, impara a leggere il silenzio del mio
cuore
è intelletto sottil d’amore intendere con gli occhi.
(Salerno Editrice a c. di Tommaso Pisanti)
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SETTANTESIMO ANNIVERSARIO
DELLE FOSSE ARDEATINE
Gabriella Maggio
Il Presidente della Repubblica al Mausoleo Ardeatino
Oggi ricorre il 70° anniversario della strage delle Fosse Ardeatine*. Il 24 marzo 1944, dopo un attentato dei
Partigiani in via Rasella dove erano morti 33 soldati
tedeschi, scattò la rappresaglia tedesca sulla popolazione romana inerme, secondo la regola 10 italiani per
un tedesco. L’esecuzione venne effettuata nelle cave di
pozzolana vicine alla via Ardeatina, dove rimasero i
corpi senza vita ed oggi sorge il Mausoleo Ardeatino,
in memoria. Certamente non bisogna dimenticare ed
è necessario ricordare anche ai giovani, poco attenti
alla storia, gli orrori della guerra vissuta direttamente
dai nonni o dai bisnonni. La memoria aiuta o dovrebbe
aiutare a non commettere gli stessi errori. Ma c’è anche
il dovere di guardare avanti, alla realtà dell’Unione Europea, nata sulle macerie morali e materiali della guerra. Come ha detto Giorgio Napolitano: La pace non è
un regalo, è una conquista. E noi la dobbiamo all’unità
europea. Sebbene in questi ultimi tempi si parli poco e
in tono polemico e deluso dell’Europa ed i particolarismi nazionali si facciano sentire, c’è bisogno d’Europa.
Le prossime scadenze elettorali potrebbero essere uno
strumento utile per adeguare l’U. E alle nuove esigenze
degli Europei.
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intervenuto al Mausoleo Ardeatino alla cerimonia commemorativa del 70° anniversario dell’eccidio delle Fosse
Ardeatine. “La pace non è un regalo, è una conquista.
E noi la dobbiamo all’unità europea” il massacro di 335
civili e militari italiani, fucilati a Roma il 24 marzo 1944
dalle truppe di occupazione tedesche come rappresaglia per l’attentato partigiano compiuto da membri dei
GAP romani contro truppe germaniche in transito in
via Rasella, attentato che aveva causato, sul posto e nelle ore successive, la morte di 33 soldati del reggimento
“Bozen” appartenente alla Ordnungspolizei dell’esercito
tedesco, reclutato in Alto Adige. Per la sua efferatezza,
l’alto numero di vittime e per le tragiche circostanze
che portarono al suo compimento, esso divenne l’evento-simbolo della durezza dell’occupazione tedesca di
Roma.
*Le “Fosse Ardeatine”, antiche cave di pozzolana situate nei pressi
della via Ardeatina, scelte quali luogo dell’esecuzione e per occultare
i cadaveri degli uccisi
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LA CARMEN DI AMODIO
Salvatore Aiello
Foto Teatro Massimo
E’ andato in scena al Massimo di Palermo il balletto
Carmen su musica di Bizet con adattamento ed interventi musicali originali di Giuseppe Calì, coreografia di
Amedeo Amodio nata nel 1995 per l’Aterballetto.
Nella conferenza stampa ha ricordato Amodio la genesi della sua Carmen, concepita allorché da ragazzino,
faceva parte del corteo dei paggi che affiancavano l’ingresso di Anna Bolena della Callas e ha ricordato ancora il coreografo che al termine dell’opera si creò un gran
frastuono per smontare le scenografie, così ha pensato
di ambientare il suo spettacolo, fatto di personaggi che
per caso si incontrano dando vita ad una storia tragica
di amore e morte obbediente ad un fato imperscrutabile che vuole inverare in Carmen la libertà di scegliere di
amare chi si vuole.
Carmen è un personaggio della drammaturgia operistica che non conosce tramonto e che si sostanzia di
sangue e di arena in una Spagna assolata e tormentata
messa in risalto dalla grande vena ispiratrice di Bizet
che ha anche saputo creare, per compiacere la borghesia in contrasto con la passionaria protagonista, la docile e tenera Micaela.
Chi credeva che Amodio rispettasse in pieno lo svolgimento dell’opera è rimasto certamente deluso perché la
sua operazione era invece la scarnificazione di essa; ciò
che infine per lui conta è l’attualità dei personaggi e delle loro reazioni istintivamente colti a nudo. La sua coreografia ha messo al bando ogni virtuosismo, ogni riferimento particolare, in qualche momento in contrasto
con ciò che la musica raccontava per cui i protagonisti
sulla scena agivano liberamente, senza irreggimentati
schemi, senza visibili particolari effetti coreutici.
La palermitana Eleonora Abbagnato, attesissima, per la
prima volta affrontava il personaggio dopo averlo interpretato nella creazione di Roland Petit dando ancora
un saggio delle sue abilità tecniche, del maturato dominio del palcoscenico e della sua espressività, pochi gesti,
passi poco tumultuosi ma sempre tesi a raccontarci le
vicende della sigaraia in perfetta sintonia con Nicholas
Le Riche un Don Josè abile, vittima e succube del lacerante ostaggio dei sensi che lo porterà al femminicidio
finale allorchè il sangue sgorgherà sul vestito bianco di
Carmen.
In risalto l’ingenua Micaela di Ashley Bouder e con
loro completavano il quartetto l’Escamillo di Alxandre
Gasse un giovane che ha esibito talento e totale partecipazione al ruolo. Valido l’apporto dell’orchestra guidata
dall’attenta discreta direzione di Mikhail Agrest e del
Corpo di ballo del teatro Massimo.
Le scene e i costumi erano di Luisa Spinatelli.
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LUIGI LO CASCIO RI-LEGGE OTELLO
Carmelo Fucarino
Già l’operazione della lettura di un’opera classica era
avvenuta con le Baccanti di Euripide (non vi includo
l’ardua prosa di Kafka). L’autore-attore-regista aveva voluto riscrivere con l’ottica e la realtà mediatica il
mito, capolavoro unico ed inimitabile del tragediografo ateniese. E l’operazione era riuscita a salvare e immettere nell’affabulazione del teatro moderno un testo
che pur nella struttura classica mantiene ancora oggi la
sua magia linguistica, proprio perché necessariamente
soggetto alla traduzione moderna. Con Shakespeare l’operazione risultava più ardua, sia per la spigolosità del
testo inglese, con il suo arcaismo linguistico e con la
prolissità delle strutture logiche del “bardo” anche nella sua
patria. La traduzione
nella nostra lingua
elimina certamente la patina arcaica,
ma la fedeltà al testo
non può cancellare
il barocchismo, spesso pesante, un certo
andamento raziocinante, che ormai non
sopportiamo neppure nel prossimo a noi
Pirandello.
Perciò il miracolo di
questa rielaborazione del mito del Moro di Venezia,
che oggi anche nella realizzazione dell’opera verdiana
scaligera, si evita di colorare in nero. Quindi la tirata
dotta iniziale sulla negritudine e la “diversità” per la
quale Jago si era definito, his Moorship’s ensign, “alfiere
di Negreria”, lacerante verso il Labbragrosse (thicklips),
e che aveva suscitato scandalo ed orrido disgusto negli
USA e un vespaio di ipotesi sul “black” o semplicemente “brown”, la morbosa querelle iniziata da S.T. Coleridge e riassunta da C. Bradley (Shakespearian Tragedy,
London, 1957, pp. 163-164) che trovava che «avrebbe
avuto qualcosa di mostruoso il pensare che una bella
fanciulla veneziana si innamori di un autentico negro».
Il libero adattamento di Lo Cascio, Gigi con affetto, è
un tipico esempio del miracolo del metateatro sul quale
è stata costruita questa azzardosa ri-lettura. Accettabile o criticabile per presunti o reali eccessi, flashback
narrativi e innesti “altri”, a patto che questi si ritrovino e stigmatizzino nelle ardite rielaborazioni offerte da
professionisti del Nord in altri Otelli e Carmen ed altre
scommesse sceniche, troppo elogiati da critici free lance nostrani.
Un saggio di incipit è l’ode al fazzoletto, mentre nella
moda corrente dei supporti mediatici scorrono su uno
schermo le manipolazioni di cellule della vita (penso).
Quel fazzoletto diventa simbolo e uno dei protagonisti
che regolano la vicenda, il feticcio che dirige le azioni,
fino a diventare sudario funebre a chiusura di sipario.
La scena resta essenziale, ma estremamente allusiva e “parlante”, a parte le sedie
volanti ormai di rito.
Poi l’a-storicità della
vicenda, che salta la
mediazione della scena teatrale e rimanda
a quella Novella settima della Deca terza
degli Ecatommiti di
Giambattista Giraldi
(1504-1573), Cinzio
come Apollo e Artemide dal delio Cinto. Perciò diventa, come nel novelliere, “cuntu”, che è l’affabulazione
delle nostre nonne siciliane, qui avviata e condotta per
tutto il tempo scenico dal soldato narratore, mediatore
tra realtà scenica e finzione (i personaggi pirandelliani?).
Perciò questo ardito sconcertante scarto tra il dramma
che si realizzò un tempo diacronico tra cene e schiamazzi nel mitico Globe Theatre e il palcoscenico del
Teatro Biondo con un pubblico più composto e assorto,
ove prende vita lu cuntu. Teatro nel teatro di un dramma in cui i personaggi prendono corpo e narrano la
loro vita, attraverso una serie di stupendi monologhi,
che diventano prove di bravura dei quattro attori, che
hanno superato se stessi.
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Lo snodo di una storia umana rappresentata-rivissuta in quadri che sconvolgono lo sviluppo del divenire
cronologico per apparire convulsione atemporale di
“memoria poetica”. La provocazione di Otello per la
fiamma che incendia la virginale Desdemona, ripresa
inconscia delle note eterne dei klea andròn, le lacrimevoli sventure e le egregie imprese, quelle che turbarono
i primi palpiti della fanciulla Nausicaa per il vecchio
Odisseo, o le pur celebri “le donne i cavalieri le armi gli
amori” di quell’Ariosto che campeggia immenso nella
fuga sulla luna del furente Otello, diverso dal vanesio
Astolfo, alla ricerca del rovinoso fazzoletto e dell’ampolla con le lacrime dell’amata. È la fanciulla votata al
tradimento come predice lo stesso padre ammonendo
Otello: «Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: She
has deceived her father, and may thee». Quell’Otello
che era stato tragico fino alla follia in quella iterazione
di convulse parole e in quel trasalimento furente, pezzo
di grandissima bravura del magico Vincenzo Pirrotta.
Follia, si badi, diversa dalla parodia comica dell’Orlando che sradica alberi e lancia all’aria armenti, ma resa
nello squassare da pathos antico del corpo e dell’anima fino allo sfinimento. Eppure l’impressione che ne
ho ricavata è che il vero protagonista è stato il dramma
interiore del perverso Jago, un personaggio dimidiato
alla ricerca del suo vero essere, se mostro immondo o
angelica farfalla.
Sì, il bla-bla sul deserto che produce la gelosia, sull’irrefrenabile indomabile “possesso” maschilista che offre la stura alle lamentazioni sui “femminicidi”. Ma se
Otello non ha dubbi nella decisione e concede l’ultima
preghiera («Have you pray’d to-night, Desdemona?»), il
dramma resta invece equivoco e ambiguo nel profondo
Es di Jago, senza giustificazioni e senza pentimenti assolutori. Il vero protagonista è lui che manipola e regge
l‘azione con la sua viscida perfidia dall’inizio alla fine, il
burattinaio, il manipolatore, Satana incarnato che insinua «I am not what I am», serpente che stravolge addirittura le parole di Dio «I am that I am» (Esodo, 3, 14).
Lui che dice e dissimula, onesto e perfido fino all’inverosimile («Bontà esser cosa contraria alla coscienza,
uccidere per volontà di uccidere»).
E in questa identificazione Lo Cascio è stato anche lui
mostruoso e geniale. Otello appare oggetto e vittima,
capro espiatorio dell’umana crudeltà, dell’esiziale sete di
potere. Incapace di discernere: «Mondo infame! Sono
arrivato al punto di ritenere mia moglie virtuosa, e di
credere ch’ella non lo sia; di ritenere te un uomo onesto, e di credere che tu non lo sia!». E alla fine «I kiss’d
thee ere I kill’d thee: no way but this; Killing myself, to
die upon a kiss». Ha paura di quel sangue che macchiò
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in eterno lady Macbeth: «Here’s the smell of the blood
still. All the perfumes of Arabia will not sweeten this
little hand».
E prima e non ultima in questa straordinaria interpretazione del dramma dell’odio e della dissimulazione dell’insinuante viscido Jago, relegata in un angolo
la gelosia tradizionale del Moro, la provocazione della
lingua siciliana dei personaggi, sola esclusa la diafana
universale Desdemona, unica estranea vittima sacrificale della cattiveria umana, in confronto a tutti gli altri sanguigni coprotagonisti. Probabilmente se ne accorgeranno in Italia, ma in Sicilia il ricorso alla lingua
siciliana è stato quasi inavvertito, anzi ha conferito al
linguaggio una sua pregnanza, una sua essenzialità che
per nulla disturbava nella fonazione e nell’udito. Quel
suono caldo e melodioso che ne è uscito, chiaro e senza
forzature folcloristiche o idiotismi di stretta marca, non
certo dialetto della Kalsa, come qualcuno ha erroneamente azzardato. È il dialetto del siciliano di oggi, non
dotto come quello di Meli o maccheronico come quello
di Verga, gaglioffo e pornografico come quello di Micio
Tempio, criptico e a creazione gaddiana nella strutturazione semantica come l’invenzione di Camilleri.
Il siciliano di Otello e di Jago è quello semplice, ritmico
e completo, nato dalla commistione tra lingua materna,
tramandata da generazioni, e traslitterazione nell’italiano televisivo. È la lingua che Luigi ha praticato e ricorda dentro di sé nelle scorribande scolastiche, prima del
salto altrove.
È perciò la lingua nuova, processo in fieri, che senti dal
barbiere o dal verduraio, che non è più il gergo incanaglito e oscuro di un tempo (si provi a capire l’esperimento dialettale originale di Visconti con La terra
trema), ma questa “mescidazione” linguistica che aggiunge all’italiano dei media la icastica, epigrammatica complessità semantica del siciliano, lingua che si è
arricchita con tutte le significazioni dei conquistatori,
ne ha ricavato semantemi intraducibili, eppure di una
chiarezza stupefacente. Questa armonia, questo particolare impasto ritmico linguistico, con il supporto dei
versi, endecasillabi ed altri, ha reso miracoloso il comunicare dei personaggi.
Un grandioso sberleffo quel “voscenza” di un commiato. Che Shakespeare fosse lo Scrolla-lancia di Messina?
A proposito Shakespeare si espresse nel suo dramma
con una combinazione di prosa, poesia rimata e versi
unrhymed or “blank”, cioè pentametri giambici, come
il teatro greco antico aveva usato nei dialoghi il colloquiale prosastico trimetro giambico.
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IL CANTO ALATO DI GONCA DOGAN
INCANTA IL PUBBLICO DELLA MAZZOLENI
Marta Santoro
Gonca Dogan
Sulle ali del belcanto era il titolo del concerto della XXIX Stagione degli Amici dell’Opera Lirica Ester
Mazzoleni che il 22 marzo ha avuto come sede la suggestiva sala Almeyda dell’Archivio Storico Comunale di
Palermo protagonista Gonca Dogan, una nuova vestale del belcanto ottocentesco impegnata a riproporre lo
stile e soprattutto i segreti che aleggiano nelle opere
di Bellini e Donizetti meno note ma che grazie alla renaissance sono rientrate nel repertorio. Si deve a Maria Callas della Bolena e a Leyla Gencer della trilogia
elisabettiana il riproporre, nel XX° secolo, il soprano
drammatico di agilità la cui memoria si era persa con
l’avvento della scuola verista e dei suoi interpreti.
Gonca Dogan, turca anche lei, si riappropria degli insegnamenti della Gencer felice di collocarsi come erede
della grande maestra di cui ha assimilato l’alta lezione e
soprattutto la totale passione per la Musica.
I brani scelti hanno visto ripercorrere un arco interpretativo assai significativo e raramente proposto in
concerto; dalle belliniane Adelson e Salvini e Norma,
approdava alle donizettiane arie da: Caterina Cornaro,
Roberto Devereux, Anna Bolena e Maria Stuarda con
un’incursione nel Faust , nella Rondine e nella Rusalka.
Rondine.
Alberto M
aniaci
Un parterre vivamente attento ed entusiasta è stato calamitato dalla personalità interpretativa ed esecutiva
della cantatrice che come una fedele Aracne, ha tessuto la sua tela dispensando e mettendo in luce un canto
alato per gli ampi archi di fiato, tecnicamente sorretto,
rilucente per bellezza di timbro, smalto argenteo, facilità della zona acuta adeguatamente sorvegliata.
E’ difficile scegliere fior da fiore, nel complesso ci sentiamo di apprezzare la sua facilità di comunicare, attraverso la musica, la storia dei personaggi a tuttotondo
rivissuti nella loro psicologia, abbandonandosi quindi
a momenti di dolore, tensione, tenerezze, invettive e attimi di alta immedesimazione ed ispirazione raggiunti
soprattutto nella “Canzone alla luna” e in “Casta diva”.
Sulle ali del belcanto si è cimentato il bravo, giovane pianista Alberto Maniaci un autentico talento che
ama l’Opera e si sente, allorché riesce a respirare con
la cantante sostenendone momento per momento tutte le aspettative, dando anche prova del suo pianismo
nell’emozionante esecuzione dell’Intermezzo di Manon
Lescaut e dell’Overture della Rusalka.
Una serata da non dimenticare con un pubblico numeroso e pienamente appagato.
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NUVOLE SU PALERMO
Foto di Riccardo Carioti
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IN DIFESA DEL CONIGLIO
Carmelo Fucarino
?
QUESTO
O
È l’ultimo trend italiano, il coniglio da salotto per un
milione e mezzo di italiani, dicono i buonissimi crociati
animalisti. Penserete, un discreto numero di italiani ha
deciso di mangiare sano e allevarsi il coniglio biologico
in casa. Nella Padania, da Torino a Venezia, la carne di
coniglio è cucinata in mille modi, è leggera ed economica, di gusto delicato. I piatti sono vari e appetitosi,
basta visionare le gustose ricette on line.
E no! Non si tratta di dieta e di cucina. È una nuova
moda che si prevede fascinosa e ricca di aficionados e
di fanatici. È la nuova tendenza di sostituire i padroni
di divani e morbidi e caldi letti di civili abitazioni, cioè
il “fedelissimo” per antonomasia (più dell’Arma, anche
se tale dote è risultato del ben vivere e dell’imprinting,
altro che “vita da cane”) e il “micissimo” delle altezzose
fusa, il trend di adottare a loro posto il timido e tremebondo coniglio come animale, si dice emotivamente così, “di affezione”. Perché i figli sono un impiccio,
lungo quanto la vita, a parte i dispiaceri, gli animali
relativamente. Si soffre e si fanno funerali, ma sempre
animale è con un arco di vita più breve del celebre cane
di Odisseo. Se vuoi farti la vacanza esotica, porti il caro
amico in pensione, sia cane o gatto, oppure tartaruga in
letargo, pappagallo clonato e suonato, anche serpente
da salotto o coccodrillo. Metodo più spiccio, se ne hai le
tasche piene, puoi sbarazzartene anonimamente in au-
QUESTI
?
tostrada o da un ponticello su un ruscelletto. Al limite
nel Po o nel Tevere.
Ma andiamo al nostro sempliciotto e timidotto. Quando li allevavamo in casa, se lo prendevo in mano sentivo il cuoricino battere impazzito sotto le dita e i suoi
occhietti sgomenti ti facevano pietà, e il suo zigare assordante, più struggente del definitivo scappellotto dietro il collo.
Ora la Feder F.I.D.A (in sito, Federazione Italiana Diritti Animali, ONLUS, «nasce dall’esigenza di vedere
umani ed animali uniti in una sorta di SINDACATO
che difenda e rappresenti i diritti degli uni e degli altri!») si è mobilitata e ha già raccolto, dice, undicimila
firme in tre giorni da parte di un gruppo di “amanti dei
conigli”, per fare rientrare queste indifese bestiole nella classificazione di “animali di affezione. Se così sarà,
come per cani e gatti, scatterà il divieto di “consumarli”
in griglia o tegame e di farsi pelliccette o pullover con la
loro lana. Così si preconizza il crescere della voluttà del
coniglio casalingo, tra poltrone e coperte di seta, perché l’animale (immagino quelli giganteschi da record)
è affettuoso, intelligente, capace di integrarsi facilmente
in un appartamento cittadino, creare un forte e solido
legame affettivo con chi lo coccola e nutre (in Petsparadise, Consigli su come mantenere un coniglio in appartamento). Certo, l’integrazione. Per gli extracomunitari
Lions Club
non basta l’integrazione, si chiede l’inclusione. Anche
il Sivelp (Sindacato Italiano Veterinari Liberi Professionisti, dal sito ufficiale «un’associazione di categoria,
apartitica ed apolitica, nata per promuovere, in totale
indipendenza, istanze ed interessi della Medicina Veterinaria libero-professionale»,
Responsabile pubblicazioni Dr. Angelo Troi), si mette
a disposizione con cardiologi, neurochirurghi specializzati, dermatologi e gastroenterologi, come fa per i
cani e i gatti. Ci mancherebbe, lasciar fuori da questa
assistenza veterinaria specialistica il pauroso e timido
coniglietto. Promettono di occuparsi dell’assistenza di
base (gestione corretta, trattamenti routinari, profilassi). Ma sentite, anche di “chirurgia di base come la sterilizzazione”. Povero coniglietto, amico dei miei deliziosi,
poveri pranzi! Eri vissuto nei ritmi tuoi naturali di vita.
Certo, hai rischiato nei roveti e nei boschi di essere preda di lupi, volpi e rapaci, la poiana delle mie parti non
scherza. Poi dai tempi in cui l’uomo rese domestici gli
animali hai goduto i tuoi momenti belli, entusiasmanti,
direi appassionanti.
Cosa ti restava nella tua breve vita, oltre al mangiare
foglie fresche e carote per nutrirti? Metti la grande goduria, la pazzia di una breve, ma intensa esistenza che
si sfrenava nel sesso. Questo immenso unico piacere,
farlo con tutto l’abbandono… come un coniglio.
Ora perché la casalinga insoddisfatta strusci le labbra
contro le tue, vogliono chiuderti in una stanza a scivolare sulle ceramiche, quando arriva l’altro ospite, il
cagnaccio fedele, obbligarti a fare la pestifera e disgustosa pipì in luogo deputato, segregarti da ogni altro
contatto o colloquio o strusciamento “conigliesco” e…
castrarti. Auguro a simili difensori dei diritti degli animali di essere castrati non oltre i dieci anni. Non ha il
mio caro coniglietto il diritto “umanissimo” del sesso a
gogò, per il quale è famoso, per anttonomasia, fra tutti gli animali domestici? L’unica sua voluptas negatagli
per evitare prole indesiderata… da salotto, come per le
loro padroncine e consorti?
Perché poi la gallina così affettuosa, fedele e intelligente, come quella della canzone, non deve avere gli stessi
diritti di “animale d’affezione”? Non avrebbe neppure
bisogno di essere castrata. Senza gallo fa le uova sterili.
E si eviterebbe l’aviaria.
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CARLO BARBIERI E
LISE BOURBEAU*
Carlo Barbieri**≠
E’ importante ricordarsi che gli altri
non possono mai farci sentire colpevoli,
perchè il senso di colpa
può venire soltanto dall’interno.
Lise Bourbeau
Hitler sarebbe stato d’accordo.
Carlo Barbieri
da “Cambiamo il punto di vista”,
inedito destinato a rimanere tale.
*Studiosa del comportamento umano
** Scrittore, autore di
“La pietra al collo”, “Il morto con la zebiba”.