SAPERE FEMMINILE E CURA DELLA CITTA’ Quando le istanze del quotidiano costruiscono il territorio Annalisa Marinelli Abstract a cura dell’autrice In questi ultimi sei anni, da quando è stato pubblicato il mio libro 1, sono diventata promotrice della cura come di una competenza femminile sul mondo. La cura è quell’universo complesso di impegni, azioni, relazioni e sentimenti che quotidianamente costruiscono le vite di ciascuno di noi. Si tratta di un sapere femminile perché, per una secolare organizzazione sociale, sono le donne a occuparsi prevalentemente del lavoro di cura. Con la mia ricerca ho cercato di costruire un modello che mettesse in evidenza tutte le competenze della cura in modo da renderle disponibili e spendibili anche in altri ambiti come quello della progettazione architettonica, della pianificazione urbanistica, della costruzione politica. Non meravigli il legame tra cura e dimensione politico-territoriale. Già Platone sosteneva che insegnare ad avere cura di sé significava insegnare a occuparsi della polis, ad assumersi la responsabilità della vita sociale e politica della città. C’è infatti uno stretto legame tra l’obiettivo della cura, che è quello del benessere psicofisico degli individui e la costruzione dei loro legami affettivi e sociali, e la qualità dell’ambiente in cui queste dinamiche si giocano. È esperienza di ciascuno di noi che la qualità della vita è strettamente correlata tanto alla qualità dell’ambiente in cui viviamo quanto alla possibilità o meno di prenderci cura di noi stessi e del nostro personale “ecosistema”. Mettere dunque in relazione questi due mondi, invertendo i parametri che normalmente presidiano la costruzione del territorio, consente di attivare quel circolo virtuoso grazie al quale le istanze del quotidiano e della vita siano alla base delle scelte politiche, sociali e territoriali e il territorio costruito secondo queste istanze consenta una maggiore qualità della vita e maggiori possibilità di vivere la cura con agio. La cura: una competenza femminile sul mondo Con il termine cura si intendono molteplici significati. Si parla del lavoro casalingo come di quello sanitario, della cura legale ma anche delle mansioni di un religioso (il curato). In senso generale cura significa attenzione solerte, competenza, un lavoro fatto con impegno, ma significa anche affanno, preoccupazione. L’ambiguità semantica del termine ci mette subito in guardia rispetto alla natura duplice, al carattere ambiguo di questo lavoro che può essere fonte di grandi sofferenze. Prendendo le distanze dalla caramellata retorica sulla maternità, va dichiarato subito che l’ambiguità è una dimensione caratteristica del lavoro di cura che prevede un forte coinvolgimento emotivo e di ricerca di senso esistenziale giocato in una relazione tra individualità contrapposte potenziale generatrice di conflitti laceranti. 1 Annalisa Marinelli, Etica della cura e progetto, Liguori, Napoli, 2002. Sapere femminile e cura della città. Quando le istanze del quotidiano costruiscono il territorio Annalisa Marinelli Di tutte le accezioni possibili della cura, quello dell’intelligenza domestica rappresenta il suo modello più proprio, il più consueto e forse per questo meno oggetto di riflessione teorica, ma il più rispondente alle sfide della contemporaneità. In esso in fatti si mettono in campo capacità che sono spesso annoverate tra quelle competenze trasversali (soft skills) tanto ricercate nel mondo del lavoro produttivo e scientifico o nelle relazioni sociali e politiche. Una tra le altre: la capacità di gestione della complessità e dell’imprevisto. In casa ci si trova ad avere a che fare con un sistema nel quale si giocano competenze molto diverse tra loro. Il curriculum vitae di una casalinga spazia da competenze di tipo economico (si dice, infatti, economia domestica) a saperi di pedagogia o medicina, si praticano contemporaneamente tecniche artigianali vecchie quanto il mondo e tecnologie più innovative che ormai riempiono le case, si produce linguaggio (la lingua madre), cibo, beni affettivi, memoria… Questa politecnìa, già di per sé complessa, viene poi gestita non secondo procedure standard, prestabilite e consolidate, ma secondo temporalità molteplici nelle quali i frequenti imprevisti ridisegnano di continuo la scala delle priorità. Questa flessibilità estrema ha come unica guida nell’agire il senso di responsabilità che scaturisce dalla fedeltà all’esperienza e dalla profonda cognizione del contesto e quindi dal sapersi mettere in relazione con l’ambiente, i materiali disponibili, i tempi e i corpi degli altri con i quali s’interagisce. Sta forse nella natura poco “strutturata” di questa guida la radice di tante ansie e preoccupazioni, ci si domanda di continuo: “avrò fatto bene?” E in genere, specie con i bambini, la risposta è spesso fuori dalle aspettative ed è questo continuo esercizio di decentramento che costruisce nel tempo un forte principio di realtà. Altra caratteristica della cura è nel suo rapporto con l’effimero. Nel lavoro di cura, infatti, non si producono oggetti durevoli, ma relazioni, educazione, cibo, gesti, linguaggio, gusti, memoria, … insomma, beni che si consumano; per questo lo slogan delle casalinghe è “tanto lavoro per nulla”. Ma l’aspetto frustrante del lavoro di cura non è dato dall’immaterialità dei suoi prodotti. Tanti lavori condividono la stessa caratteristica senza essere frustranti. L’aspetto più duro della cura è dato dal suo scarso riconoscimento sociale, dalla sua trasparenza al mondo e dall’indifferenza di quest’ultimo. Eppure la gratificazione in questo tipo di lavoro esiste e non nasce dalla produzione di un oggetto, ma dallo svolgersi stesso dell’azione di cura; l’accento si sposta dal valore dato alla mediazione dell’oggetto al valore della relazione tra i soggetti. È proprio la relazione la matrice dalla quale si genera l’etica della cura. Una relazione non gerarchica come nella tradizionale (patriarcale) idea di responsabilità, ma asimmetrica, dinamica nella quale la carta vincente è l’autorevolezza e non l’autoritarismo. Nella relazione di cura le forze dei soggetti in gioco si alternano di continuo. La cura, infatti, è spesso conflitto, un corpo a corpo, un confronto a volte anche duro d’identità, temporalità e libertà contrapposte. Agire con cura chiama in causa il senso della misura, il sapere fermarsi in tempo: troppa cura è dannosa tanto quanto l’incuria, le cronache sono piene di esempi di maternità che scivolano nell’abnegazione e poi nel gesto disperato, ma senza spingersi troppo in là, basti pensare a quanti figli sono rovinati dalle eccessive cure materne. 2 Sapere femminile e cura della città. Quando le istanze del quotidiano costruiscono il territorio Annalisa Marinelli Riassumendo, quindi, il paradigma della cura si articola in: complessità, flessibilità, gestione dell’imprevisto, senso di responsabilità, capacità di ascolto e di adattamento al contesto, valorizzazione della relazione, autorevolezza, senso della misura. Tutte insieme queste caratteristiche costituiscono una formidabile attrezzatura tramandatasi di madre in figlia. Dare parola alla cura Le donne dunque possiedono questa sapienza ma spesso senza consapevolezza sottoforma di una pratica (si dice infatti che le donne sono più “pratiche”, più pragmatiche), cioè senza che questa raggiunga un livello di elaborazione teorica cosciente capace di restituire il valore, la dignità, la portata simbolica che tale modello di lavoro possiede. Perché quella del quotidiano è una dimensione silenziosa. Le numerose microattività che affollano l’universo del quotidiano, legate alla cura, alla riproduzione di sé, all’accudimento, alle relazioni, non possiedono un codice, un linguaggio comunemente condiviso per essere raccontate, per diventare discorso e dunque pensiero. Le parole che normalmente si usano per descrivere il quotidiano sono spesso quelle del lamento e della rivendicazione, sono accompagnate da sospiri di rassegnazione. Ci si lamenta del carico di un lavoro ineluttabile, del poco tempo e della sua scarsa qualità. All’universo delle microattività del quotidiano non si dedica il pensiero e quando lo si fa è spesso un pensiero svilente, dequalificante. C’è in questo silenzio una grande mistificazione: vi si occulta il valore di un impegno esistenziale capace di dare gratificazioni pari a nessun’altra attività di tipo “produttivo”. L’insieme delle microattività che costituiscono l’architettura della vita sono le poche capaci di dare un senso all’esistenza. Manca un linguaggio capace di descriverne il valore, il piacere, la forza creativa, ma anche il potere in esse contenuto. Una parola sulla cura permetterà un pensiero sulla cura e, di conseguenza, una condivisione del suo linguaggio e una presa di coscienza collettiva. Credo che sia un passaggio indispensabile per la costruzione di un nuovo patto sociale tra generi. Se si vuole che l’universo della cura diventi accattivante per gli uomini bisogna mostrarne le dimensioni di piacere e di potere e imparare a condividerle. Conciliazione e condivisione: un nuovo patto sociale tra generi Insisto molto sulla necessità di una condivisione della pratica della cura tra donne e uomini. La sapienza della cura ha infatti la particolarità di essere una “filosofia in atto e pratica” che si possiede solo praticandola. Una società in cui donne e uomini condividono la conoscenza della cura è sicuramente orientata e facilitata al miglioramento di sé stessa. Praticare il lavoro di cura dà accesso a un livello di consapevolezza maggiore riguardo a tutte quelle difficoltà che compongono l’universo del quotidiano e la cui soluzione sta alla base del miglioramento della qualità della vita. Tenere insieme felicemente le istanze della vita, i tempi biologici, i corpi differenti, con l’organizzazione sociale, il lavoro, le città, i tempi della tecnica è la grande sfida della conciliazione. Ma troppo a lungo la conciliazione è stata affrontata come “ottimizzazione dell’agenda delle donne”, come denuncia Marina Piazza, e il problema non solo non è stato risolto, ma si è casomai aggravato negli anni. 3 Sapere femminile e cura della città. Quando le istanze del quotidiano costruiscono il territorio Annalisa Marinelli La conciliazione passa necessariamente attraverso una profonda revisione culturale, un vero e proprio scatto paradigmatico che vede coinvolti entrambi i generi verso la costruzione di un nuovo patto sociale. Questo è stato il percorso praticato dagli Svedesi che per una loro particolare storia sociale ed economica hanno da lungo tempo affrontato e risolto il nodo del doppio ruolo delle donne nella società come madri e come sostenitrici della famiglia. Decenni di strumenti di sostegno familiare mirati a facilitare l’accesso delle donne al mondo del lavoro e delle decisioni e un maggiore coinvolgimento degli uomini nel lavoro di cura, fa della società svedese un modello di democrazia maturo. Le istanze del quotidiano costruiscono la città della cura: l’esempio di Stoccolma Quando si percorrono le strade di Stoccolma si ha come l’impressione che lì la vita sia più facile, che gli svedesi abbiano capito qualcosa che li ha resi capaci di elevare la loro qualità della vita individualmente e collettivamente. Io credo che quel qualcosa sia proprio il paradigma della cura. A Stoccolma si percepisce che l’attività è scandita da un ritmo più simile a quello del cuore: un basso livello di rumore, un passo più lento, una maggiore efficienza che non è frenesia, ma affidabilità e accessibilità. Questo risultato è dato da un insieme armonico di microarchitetture del tempo e dello spazio misurate sul passo del più piccolo o del più fragile. In questo sistema il più grande o il più forte hanno possibilità che, viste dalle nostre città, sembrano straordinarie mentre chi si trova in difficoltà non è condannato a sopravvivere. Non è assistenza quella che viene offerta ma pieno diritto di cittadinanza per tutti. Il territorio accessibile consente la massima libertà di movimento e dunque di partecipazione alla vita cittadina. Con una carrozzina si accede a qualsiasi percorso senza fatica, le barriere sono abbattute in modo semplice ed economico (1). La città è innervata da una rete verde punteggiata da frequenti luoghi di sosta curati e accoglienti (2). Anche la residenza prevede sempre piccoli spazi comuni aperti, con una dimensione domestica per i piccoli e che consente la costruzione di reti di vicinato e di supporto reciproco (3). Ci sono molti luoghi anche al chiuso dove sono allestiti spazi ricreativi per ogni età. L’intera città è piena di posti dove trovare riparo in qualsiasi momento e 2e3 1 per ogni esigenza. 4 Sapere femminile e cura della città. Quando le istanze del quotidiano costruiscono il territorio Annalisa Marinelli Nelle grandi strutture pubbliche e private ci sono delle stanze dedicate interamente alla cura dei bambini (4). Il paradigma della cura è la regola comunemente condivisa (perché socialmente valorizzata) che non sottende solo alla costruzione della città fisica, ma regola anche i ritmi sociali con una forte attenzione alla conciliazione di tutti gli aspetti della vita. La famiglia, dotata di risorse in forma di tempo e di reddito, si trasforma da unità di consumo a unità produttiva. Non più solo relegata nella sfera del privato e dell’emotivo, diventa volano economico per l’intera città. 4 La cura per l’ambiente e l’alta qualità della vita fanno parte di una politica di investimenti basata su un’idea del lusso come bene collettivo (5). La socializzazione dell’etica della cura si traduce in un senso di corresponsabilità per i bisogni quotidiani. Così, ad esempio, anche un passaggio della crescita così intimo e delicato come quello dell’abbandono del ciuccio da parte di un 5 bimbo, viene facilitato attraverso l’istituzione di un luogo simbolico e la socializzazione in un rituale collettivo (6). L’evoluzione storica della società svedese ha permesso di raggiungere un patto sociale tra generi fecondo e vantaggioso per la qualità della vita. In Svezia la cura è diventata cultura attraverso un percorso pragmatico che ha visto il pieno coinvolgimento degli uomini nelle attività quotidiane e la paritetica presenza delle donne nei luoghi delle decisioni. La dimensione del quotidiano è passata così dal silenzio al discorso politico ed è diventata la grammatica che struttura l’architettura micro e macro di una società che ha interiorizzato la civiltà della cura, che la conosce, la pratica, la rispetta. 6 ANNALISA MARINELLI Architetta, progettista, ricercatrice e mamma. Promuovo la cura come una competenza e amo dare un senso politico al mio agire come professionista e come impegno civico personale. Tra le pubblicazioni segnalo un libro e qualche articolo: 2002: Etica della cura e progetto, Liguori, Napoli, 2002. 2007: “Stoccolma, città a misura di mamma e bebé”, lettera pubblicata su La Repubblica, 26 agosto 2007, Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.a., Roma. 2003: “La città accessibile: riflessioni su Stoccolma”, Nuova città – Rivista fondata da Giovanni Michelucci, VIII serie, n° 7/giugno 2003, Edizioni Polistampa, Firenze. 2003: “Agire con cura”, Via Dogana, n°65/giugno 2003, Libreria delle Donne, Milano. 2003: “Discutiamo: Etica della cura e progetto”, DWF, n° 1/gennaio-marzo 2003, Utopia, Roma. 5