l`annientamento degli ebrei ungheresi

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L’ANNIENTAMENTO DEGLI EBREI UNGHERESI
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a comunità ebraica ungherese fu annientata nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, quando l’Armata Rossa si stava avvicinando ai confini dell’Ungheria e gli ebrei,
terrorizzati ma speranzosi, contavano i giorni in attesa che l’incubo finisse. All’epoca,
vivevano in Ungheria circa 800mila ebrei. Quella ungherese era l’unica grande comunità
ebraica nella sfera di influenza e di controllo del Terzo Reich a essere stata relativamente
risparmiata dalla furia omicida nazista. Il 19 marzo 1944, da un giorno all’altro, gli ebrei ungheresi si trovarono risucchiati dall’atroce meccanismo di sterminio organizzato dai nazisti, con
l’appoggio del governo ungherese. L’imminente disfatta tedesca e la responsabilità che gli autori del crimine avrebbero dovuto affrontare di li a poco non sortirono l’effetto di porre fine agli
omicidi. Al contrario, nell’estate del 1944, le deportazioni degli ebrei ungheresi ad Auschwitz
procedettero più rapidamente rispetto a quanto non fosse avvenuto per altre comunità ebraiche
d’Europa, a parte la deportazione di massa dal ghetto di Varsavia nell’estate del 1942. La macchina di morte funzionò a pieno ritmo durante quei mesi, dal punto di vista sia dell’entità dello
sterminio degli ebrei ad Auschwitz-Birkenau sia della barbarie con cui si effettuò l’operazione.
L’impero austroungarico era stato sciolto alla fine della prima guerra mondiale. Lo Stato ungherese fu costituito in seguito a questa sconfitta e dopo la breve ed effimera rivoluzione di ispirazione sovietica condotta da Béla Kun, leader politico di origini ebraiche. In un primo tempo,
la nazione ungherese si rafforzò sotto la reggenza dell’ammiraglio Miklós Horthy, con governi
conservatori di centrodestra. All’epoca, gli ebrei ricominciarono a svolgere un ruolo di primo
piano nella vita economica e culturale, nella stampa e, a livello individuale, nella politica del
paese. La comunità ebraica contava circa 450mila persone, oltre 200mila delle quali vivevano a
Budapest, cioè circa il 5 per cento della popolazione del paese. Questa comunità, nota per la sua
lealtà verso la nazione e i valori patriottici magiari, si dimostrò riluttante a rivendicare i diritti
delle minoranze o a chiedere l’intervento degli organismi internazionali quando, per esempio,
venne instaurato il numero chiuso che limitava l’accesso degli ebrei alle università.
Gli ebrei ungheresi erano organizzati in comunità, si dividevano in tre principali correnti religiose e gestivano una rete di istituti e scuole elementari e di studi talmudici avanzati (yeshivah).
Il movimento assimilazionista, che poteva contare su un ampio sostegno, riponeva grande fiducia nell’emancipazione che era stata concessa agli ebrei ungheresi nell’Ottocento e partecipava
alla vita sociale e culturale del paese.
L’Ungheria tra le due guerre era stata costituita come componente etnico-territoriale dell’ormai smembrato impero austroungarico. Circa due terzi del suo territorio e tre milioni di magiari, vale a dire quasi un terzo della nazione ungherese, vennero inglobati in altri stati costituiti
o ampliatisi dopo la seconda guerra mondiale: la Romania, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia.
Significativo è osservare come gli ebrei di cittadinanza ungherese che andarono a finire in questi
paesi avessero in genere mantenuto i rapporti con la tradizione, la lingua e la cultura ungheresi.
Ciò che restava dell’Ungheria accettò a denti stretti e con grande amarezza le frontiere tracciate nei trattati di Trianon e Versailles dagli Alleati vincitori. L’Ungheria aveva rapporti molto
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tesi con i paesi limitrofi e finì per avvicinarsi gradualmente a nazioni non confinanti come l’Italia fascista e la Polonia. Tuttavia, il regime di Horthy cercava di impedire alle fazioni ultranazionalistiche di organizzarsi e alzare la testa. Nel 1923, l’Ungheria fu ammessa tardivamente nella
Società delle Nazioni. Il regime di Horthy contava sull’appoggio dei ceti conservatori e della
nobiltà tradizionale che manifestavano nostalgia e attaccamento al passato.
La crisi economica generalizzata della fine degli anni Venti colpi duramente l’Ungheria. Le
difficoltà e le incertezze provocarono un’intensificazione dei fenomeni di antisemitismo. Nel
periodo fra le due guerre mondiali, gli ebrei in Ungheria erano una minoranza piuttosto in vista:
molti di loro occupavano importanti posizioni nella vita economica del paese ed erano ampiamente rappresentati nell’intellighenzia e nelle professioni liberali.
L’ascesa al potere di Hitler ebbe effetti immediati sull’Ungheria e la Germania si dimostrò
subito interessata a consolidare i rapporti economici con questo paese. Vista e considerata la politica del Terzo Reich, intenzionato a sovvertire gli accordi di Versailles, e sullo sfondo della sempre crescente aggressività di Berlino, gli ungheresi cominciarono a coltivare la speranza di poter
riconquistare il loro status internazionale e i tenitori perduti avvalendosi dell’influenza tedesca.
In questo contesto, si moltiplicarono le organizzazioni filotedesche e filonaziste. La classe
politica ungherese era divisa. Erano in molti ad auspicare un riavvicinamento alla Germania,
ma altri – come per esempio il primo ministro, il conte Pal Teleki, e, per certi versi, lo stesso
Horthy – temevano evidentemente le implicazioni di un’alleanza senza condizioni con i tedeschi, ormai posseduti da un’aggressività senza freni.
Nell’aprile 1938, dopo l’Anschluß (l’annessione dell’Austria al Reich) e lo schieramento di
truppe naziste lungo la frontiera fra Germania e Ungheria, il parlamento magiaro varò la prima
legge antisemita (detta Prima legge ebraica), incontrando ancora una certa resistenza da parte
dell’opposizione. Il provvedimento – che imponeva un tetto massimo del 20 per cento alla presenza degli ebrei nelle professioni liberali, nelle belle arti, nella classe dirigente, nell’industria
e nel commercio – indusse un gran numero di israeliti a convertirsi al cristianesimo; fra il 1938
e il 1939 furono ben 14654.
Con gli accordi di Monaco, gli ungheresi ottennero una fetta di Cecoslovacchia. Più o meno
in quello stesso periodo, fu promulgata e applicata la Seconda legge ebraica, basata su principi
razzisti. Nel 1939, quando il Terzo Reich aggredì la Polonia dando inizio alla prima fase della
Seconda guerra mondiale, l’Ungheria non entrò nel conflitto. Nel marzo del 1941, però, prese
parte con le forze tedesche all’occupazione della lugoslavia in cambio dei territori che le erano
stati promessi. Prima di ciò, nell’agosto del 1940, si era annessa la grande provincia rumena
della Transilvania settentrionale. Nel 1941, l’Ungheria varò la Terza legge ebraica, una legge
razziale elaborata sul modello delle Leggi di Norimberga con l’intento di proteggere la razza
magiara. Ma il passo fatale che rese schiava l’Ungheria – da paese alleato dello Stato nazista a
vero e proprio satellite del Terzo Reich – fu la decisione di entrare in guerra contro l’Unione Sovietica alla fine di giugno del 1941 e poi di svincolarsi in maniera irrevocabile dal mondo libero
e dagli Alleati occidentali, nel dicembre dello stesso anno, dichiarando guerra agli Stati Uniti.
La Seconda legge ebraica vietava agli ebrei di prestare servizio militare. Nel 1939-1940, ebrei
ed “elementi inaffidabili” vennero obbligati al lavoro coatto nell’esercito. Nel marzo 1942, furono emanate istruzioni riguardanti «l’impiego degli ebrei per esigenze di guerra» in battaglioni
ausiliari. Gli ebrei di queste unità speciali erano disarmati e indossavano abiti civili, un berretto
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militare e un bracciale giallo. Erano comandati da ufficiali e soprintendenti dell’esercito e venivano «impiegati» per costruire strade e fortificazioni, trasportare carichi, scavare trincee e per
operazioni di sminamento. Si stima che nel biennio 1942-1943 siano state richiamate in queste
unità circa 50mila persone. Nel gennaio 1943, mentre l’esercito ungherese veniva massacrato sul
campo, anche i battaglioni ausiliari ebraici subirono perdite pesantissime. Si ritiene che durante
la grande ritirata siano morti dai 40mila ai 43mila ebrei costretti al lavoro coatto nell’esercito. Gli
ebrei fatti prigionieri dai sovietici erano considerati nemici. A volte, i comandanti dell’Armata
Rossa (ebrei e non ebrei) al corrente della loro situazione li lasciavano scappare prima che venissero deportati nei campi per prigionieri di guerra nell’interno dell’Unione Sovietica.
Fino al marzo 1944, quando la Wehrmacht invase il paese, l’Ungheria non aveva ancora cominciato a uccidere gli ebrei né a consegnarli sistematicamente ai tedeschi ed erano stati perpetrati soltanto due omicidi di massa sotto la responsabilità delle autorità e dell’esercito ungheresi.
Poco dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa – l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della
Germania –, i funzionari del ministero ungherese che si occupavano degli “stranieri”, cioè rifugiati apolidi che si erano infiltrati in Ungheria, predisposero un’operazione, coordinata con le
autorità naziste, per trasferire gli ebrei apolidi in Galizia. Nel luglio 1941, questi ultimi furono
arrestati e vennero catturati insieme agli stranieri anche numerosi ebrei ungheresi. Nella seconda settimana di agosto, già 14mila ebrei erano stati consegnati alle SS. Alla fine di agosto,
per ordine di Friedrich Jeckeln, comandante delle ss e della polizia della zona di occupazione
meridionale, queste persone furono assassinate insieme agli ebrei della città di Kamenec-Podolski. Nel gennaio 1942, da 600 a 700 ebrei furono uccisi a Novi Sad e nelle vicinanze a seguito di
un’azione punitiva dell’esercito ungherese nella quale perirono circa 3300 civili, perlopiù serbi.
L’eccidio fu poi oggetto di indagine e i responsabili furono perseguiti penalmente, ma i mandanti riuscirono a fuggire in Germania.
Le annessioni territoriali dell’Ungheria raddoppiarono quasi la popolazione ebraica della
nazione portandola a 725mila persone nel 1941, a cui se ne aggiungevano altre 100mila, definite
ebree secondo le leggi razziali. Come detto sopra, fino all’occupazione da parte delle truppe tedesche nel marzo 1944, gli ebrei stavano molto meglio in Ungheria che non nella maggior parte
delle nazioni occupate e degli stati nella sfera di influenza nazista. Gli ebrei godevano ancora
di una certa libertà personale e i rifugiati di religione israelitica, il cui numero non è mai stato
accertato, ma che sicuramente si aggirava attorno alle 15-20mila persone, vi avevano trovato
riparo. Le istituzioni ebraiche potevano ancora operare anche se, nel 1942, l’amministrazione
della comunità ebraica fu privata dello status ufficialmente riconosciuto alle altre confessioni
religiose. Diversi personaggi pubblici e leader della comunità ebraica mantenevano rapporti
regolari con le autorità ungheresi e alcuni di essi erano anche in contatto con Horthy.
Nell’aprile del 1943, Horthy fu convocato al castello di Klessheim per incontrare Hitler, il
quale era venuto a conoscenza delle mosse esplorative compiute dal governo di Miklós Kallay
per separarsi dal blocco nazista nel tentativo di instaurare un dialogo con gli Alleati. Nel corso
dei colloqui, Hitler sollevò la “questione ebraica” affermando che «i parassiti ebrei vanno trattati
come batteri pericolosi e annientati». Horthy rispose di non poter uccidere gli ebrei, visto che
erano stati banditi dalle posizioni che ricoprivano nell’economia.
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Lo sterminio degli ebrei ungheresi cominciò quasi subito, non appena l’Ungheria compi i
primi passi per uscire dalla guerra e concentrarsi sulla difesa del proprio territorio dagli attacchi
dell’esercito sovietico. L’esercito magiaro sul fronte sovietico fu annientato in due grandi operazioni: la battaglia di Sta-lingrado e il combattimento nelle vicinanze di Voronez. All’inizio del
1944, quando l’Armata Rossa si stava ormai avvicinando ai Carpazi, Kallay intensificò gli sforzi
per svincolare il proprio paese dalla Germania e pervenire a un accordo con gli Alleati occidentali. Per tutta risposta, l’alto comando tedesco decise di occupare l’Ungheria, che la Wehrmacht
invase il 19 marzo 1944.
Il 17 marzo 1944 Horthy fu nuovamente convocato al castello di Klessheim. Hitler e i comandanti del Reich gli comunicarono la loro decisione; i colloqui proseguirono sotto il diktat tedesco
e nel tentativo, da parte dell’Ungheria, di rendere la capitolazione un po’ meno amara. Mentre,
capeggiata da Horthy, la delegazione ungherese tornava a casa, i tedeschi invasero l’Ungheria.
Il primo ministro fu costretto alle dimissioni e gli successe Dome Sztojay, ex ambasciatore d’Ungheria a Berlino. Dal punto di vista formale, Horthy mantenne la propria carica, sostenendo che
in tal modo l’Ungheria sarebbe rimasta indipendente. Di fatto, invece, la pretesa ungherese di
mantenere la propria sovranità facilitò le cose alla Germania.
Le truppe tedesche che invasero l’Ungheria erano affiancate da centinaia di agenti segreti
della Gestapo e da 100-150 membri di un’unità speciale (Sonderkommando) agli ordini di Adolf
Eichmann. Fu solo in Ungheria che Eichmann guidò personalmente l’unità incaricata di attuare
la “soluzione finale”, assistito da un gruppo di collaboratori che si occupavano di concentrare
gli ebrei e di deportarli nei campi di sterminio.
Sembra che Horthy, nell’incontro al castello di Klessheim, si fosse impegnato a consegnare un
gran numero di ebrei, destinati ad andare a “lavorare in Germania”. Le linee generali del piano
erano state preparate in anticipo, e l’operazione venne condotta congiuntamente dalle autorità e
dai funzionari di polizia tedeschi e ungheresi.
I capi della comunità di Budapest, non sapendo come comportarsi, contattarono Horthy e
alcuni membri del governo per essere consigliati su come rispondere alle richieste della Germania. I funzionari suggerirono loro di ubbidire ai tedeschi. I membri del Consiglio ebraico non la
pensavano tutti allo stesso modo, ma i più ritenevano di non avere scelta e di dover instaurare
un dialogo diretto con i tedeschi per mitigare le conseguenze distruttive dei decreti. Probabilmente pensavano che fosse il male minore. Invece i tedeschi diedero ai membri del Consiglio
direttive contraddittorie, apposta per frastornarli.
Nella prima settimana di aprile, il governo ordinò agli ebrei di indossare la stella gialla. In seguito furono confiscate le proprietà collettive e personali. Subito dopo l’inizio dell’occupazione,
fu istituito a Budapest il Consiglio centrale degli ebrei ungheresi e Samu Stern, ben noto capo
della comunità, ne assunse la presidenza. Stern sottolineava il dovere di “ubbidire alle istruzioni
e alle direttive” e rivolse il seguente messaggio ai suoi correligionari:
Ricordiamo l’ammonimento dei nostri eminenti profeti e maestri. Loro ci insegnano che il
timor di Dio e la pietà sono le più grandi virtù dell’uomo. Lavorate e non disperate. Questo è
l’imperativo odierno.
Fu promesso agli ebrei che avrebbero potuto continuare a condurre indisturbati la loro vita
religiosa, sociale e culturale. In un incontro con Eichmann, fu detto ad alcuni rappresentanti
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della comunità che tutte le direttive antiebraiche sarebbero rimaste in vigore per l’intera durata
della guerra, ma che dopo la fine del conflitto tutto sarebbe tornato come prima.
Nel loro complesso, gli ebrei ungheresi erano inconsapevoli dei pericoli a cui andavano incontro, anche se a Budapest cominciavano a circolare notizie sulle gravissime difficoltà in cui si
dibattevano gli ebrei d’Europa nelle zone controllate dai nazisti. Rifugiati, testimoni di deportazioni in paesi vicini ed evasi da Auschwitz presentarono alle autorità ebraiche relazioni dettagliate su ciò che stava succedendo. Nella maggior parte dei casi, le notizie furono accolte con
scetticismo. Evidentemente, gli ebrei ungheresi credevano che a loro sarebbe stato risparmiato
quel genere di destino e riponevano fiducia in quello che era stato il loro paese.
La domanda cruciale che spesso ci si pone è come mai la leadership ebraica non abbia condiviso le informazioni con la gente del posto per metterla in guardia. Tuttavia, è pur vero che alcuni membri di movimenti giovanili hanno raccontato di essersi trovati di fronte a reazioni ostili
e di grande scetticismo quando portavano queste terrificanti notizie nei villaggi ebraici delle
campagne. La vicenda più nota e controversa è quella che riguarda il Comitato di soccorso che
operava in Ungheria. Era un patronato a sé stante, sotto la guida sionista, che entrò in trattative
con l’unità di Eichmann proponendo di fornire camion, materiale vario e denaro in cambio della liberazione e dell’allontanamento in massa di un certo numero di ebrei: un accordo che non
giunse mai alla fase pratica. Rezso (Rudolf) Kasztner, il membro più in vista del comitato, fu accusato di preoccuparsi solo di un piccolo gruppo a cui era stata promessa la salvezza in cambio
del silenzio e dell’abbandono della comunità ebraica. Fu solo dopo il suo assassinio, commesso
in Israele ad opera di estremisti, che la Corte suprema israeliana prosciolse Kasztner dall’accusa
più grave mossa contro di lui, e cioè di essere stato un collaborazionista.
Per radunare gli ebrei e attuare la deportazione programmata, la polizia e la gendarmeria
ungheresi furono messe sotto il controllo e la guida dei tedeschi. La prima fase fu quella della
ghettizzazione, definita “alloggiamento e reinsediamento”. La gendarmeria istituì ghetti nelle
varie regioni. Solo alcuni sindaci e funzionar! di polizia preferirono dimettersi piuttosto che
prendere parte all’operazione; la maggior parte vi partecipò in un modo o nell’altro, e non senza un certo entusiasmo.
L’internamento nei ghetti fu attuato gradualmente, dalla metà di aprile ai primi di giugno,
nelle varie regioni: dalla Rutenia carpatica alla Transilvania settentrionale, passando per le zone
interne. I luoghi dove istituire i ghetti furono scelti in maniera del tutto improvvisata: sinagoghe, fabbriche abbandonate, zone residenziali abitate da ebrei, e persino in aperta campagna. Il
passaggio da una vita più o meno normale a un’esistenza confinata in luoghi di segregazione,
in un contesto perlopiù ostile in cui gli ebrei subivano vessazioni e venivano depredati dei loro
beni, gettò le famiglie e le comunità nell’angoscia e nello sconforto. Secondo i piani del Sonderkommando di Eichmann e della polizia ungherese, la ghettizzazione era solo una prima fase del
concentramento in previsione del trasporto verso il campo di sterminio di Auschwitz. I trasporti
cominciarono il 15 maggio 1944 e andarono avanti fino alla fine della prima settimana di luglio.
Le occasioni di scappare dai ghetti e trovare rifugio presso famiglie non ebree, oppure di
attraversare la frontiera con la Romania, si presentavano di rado, e comunque mancò il tempo
materiale per organizzare qualsiasi tipo di fuga. L’atteggiamento della popolazione, secondo
molte testimonianze – fatta eccezione per un numero limitato di persone – era ostile ed estraniato, e i delatori imperversavano.
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Gli ebrei in Ungheria, più che altrove, insistevano per mantenere unite le famiglie e non avevano la più pallida idea della destinazione finale del viaggio che intraprendevano. In tutto, partirono 147 treni merci, stipati di famiglie strappate dalle loro case nell’Ungheria post-Trianon e
nei territori annessi. Secondo coloro che perpetrarono il crimine, le persone trasportate – uomini,
donne, bambini e anziani – furono 435mila.
L’operazione di trasporto interessò l’intero paese. Il 7 luglio Horthy ordinò di cessare le deportazioni. La ragione di questa misura, oltremodo tardiva, è stata ricondotta agli avvertimenti e alle
sollecitazioni rivolti all’Ungheria dai paesi alleati, dai paesi neutrali e dal Vaticano, oltre che alle
manifestazioni di resistenza e protesta di alcune personalità di spicco nella stessa Ungheria. Comunque, il motivo principale della condotta di Horthy fu la sua intenzione di liberare l’Ungheria,
sebbene a caro prezzo, dal turbine della guerra e dalla dipendenza dalla Germania.
Anche questa audace risoluzione arrivò però troppo tardi.
Il 15 ottobre 1944, in risposta alla decisione di Horthy, le Croci Frecciate di Ferenc Szàlasi salirono al potere con un colpo di Stato. Questo partito filonazista – che era attivo e aveva acquisito
forza già prima della Seconda guerra mondiale – era sempre stato escluso dai governi ungheresi,
fino a quando non fu imposto dai tedeschi nell’ultima fase dell’occupazione, alla metà di ottobre
del 1944. Il partito delle Croci Frecciate era un movimento fascista, ultranazionalista e fortemente
antisemita che legò il proprio destino in modo indissolubile a quello della Germania di Hitler.
Il governo guidato dagli ufficiali delle Croci frecciate riprese ben presto le deportazioni, trasformando il paese in un luogo di terrore e di morte. Circa 80mila ebrei, soprattutto donne, furono condotti a piedi verso il confine con l’Austria; una marcia che produsse indicibili sofferenze
e mietè un gran numero di vittime. Da luglio in poi, gli ebrei di Budapest potevano risiedere
esclusivamente nelle cosiddette “case ebraiche”, contrassegnate da una stella gialla all’ingresso.
In un secondo momento furono trasferiti in un vero e proprio ghetto.
Durante le diverse fasi delle deportazioni, specie l’ultima, migliaia di ebrei furono salvati da
persone oneste e coraggiose – primi fra tutti lo svedese Raoul Wallenberg, lo svizzero Cari Lutz,
rappresentanti della Croce Rossa, oltre a esponenti del mondo cristiano e del movimento clandestino – che, mettendo spesso a repentaglio la loro stessa vita, si adoperarono per proteggere i
perseguitati. Anche gli ebrei in prima persona svolsero un ruolo chiave in quei giorni tragici, in
particolare i membri dei movimenti giovanili sionisti i quali intuirono, a ragione, che stante la
situazione dell’Ungheria, la forma più adatta di resistenza non era una sollevazione attiva, bensì
il tentativo di sfruttare al massimo ogni opportunità di soccorso esistente. Preparare documenti
falsi, trovare cibo, proteggere gruppi di bambini, trasferire le persone in pericolo dall’Ungheria
alla Romania: è anche così che molti ebrei furono aiutati, da persone che si mobilitarono per loro
nelle ultime fasi e durante l’assedio di Budapest, che fu liberata nel febbraio del 1945.
Ci vollero meno di due mesi per annientare gli ebrei d’Ungheria, e questi lasciarono un segno nella vita dei prigionieri. Coloro che prima della deportazione avevano condotto una vita
più o meno normale si erano portati dietro grandi quantità di cibo, parte del quale fu introdotto
clandestinamente nel campo. Molti prigionieri furono incaricati di riordinare gli abiti e gli effetti
personali delle vittime, fra cui si trovavano gioielli di valore, oro, monete e banconote. Parte del
bottino fu introdotta di nascosto nel lager e sebbene i prigionieri non potessero fare alcun uso dei
preziosi in quanto tali, li barattavano con il cibo. Alcuni detenuti si appropriarono di oggetti di
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valore, in vista delle marce della morte che cominciarono nella seconda quindicina del gennaio
1945. Una piccola percentuale di ebrei ungheresi dei trasporti – uomini e donne – ricevettero numeri di matricola contenenti i codici A e B. Questi prigionieri furono portati all’interno del campo
o trasferiti in altri campi, dove affrontarono la prova durissima dell’esistenza umana nel lager.
Alla voce “ebrei ungheresi” redatta da Randolph Braham in Encyclopedia of the Holocaust, si
legge verso la fine:
La comunità israelitica ungherese perse 546.500 vite durante la guerra, di cui 63mila prima
dell’occupazione tedesca. Delle 501.500 persone che perirono dopo l’occupazione, 267.800 provenivano dall’Ungheria post-Trianon – 85.500 da Budapest e 182.300 dalle province – e 233.700 dai
territori annessi fra il 1938 e il 1941 che erano appartenuti a Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia.
Un ex prigioniero ricorda lo scoramento di quei giorni:
Le camere a gas lavoravano a ciclo continuo, giorno e notte. Una colonna di fuoco saliva dai
camini di Auschwitz e restava sospesa in aria insieme a una densa nuvola di fumo. I crematori,
riempiti fino all’inverosimile, esplodevano e uno dei camini venne demolito. Ma l’officina della
morte non si fermava mai e fu riattivata persino la camera a gas della casa colonica presso il bunker
2, chiusa dal 1942. Furono scavate delle enormi fosse dentro le quali venivano bruciati i cadaveri.
Molti testimoni riferiscono di bambini arsi vivi nelle fosse di Birkenau.
Noi prigionieri di Auschwitz abbiamo patito le pene dell’inferno. La guerra ci aveva spalancato
davanti abissi di sofferenza e di dolore, e credevamo che la forza della distruzione non potesse più
sorprenderci. Ora sappiamo che ci eravamo sbagliati. Ogni abominio causava nuova angoscia, ci
stordiva, ci riportava tutto alla coscienza. Ogni mattina, lo sguardo atterrito dei prigionieri di Auschwitz si posava sui crematori, nella velata speranza che la follia fosse finita, che i camini da cui
erano passati migliala di esseri umani si fossero finalmente fermati. Ma le nostre preghiere rimasero
inascoltate. Le fiamme fuoriuscivano dal ventre della morte esattamente come il giorno prima. Il
mondo non era rinsavito durante la notte. Terrorizzati e ridotti all’impotenza, sopravvivevamo con
un peso sul cuore e un nodo in gola che non ci lasciavano mai.
Israel Gutman*
* Israel Gutman (1923-2013) è stato uno storico israeliano. Sopravvissuto alla rivolta del ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento, dopo la seconda guerra mondiale si trasferì in Israele dove iniziò la carriera accademica di storico volta soprattutto a ricostruire
le vicende della Shoah. Professore emerito di storia ebraica, ha diretto il centro ricerche dello Yad Vashem di Gerusalemme e curato
l’Enciclopedia dell’Olocausto (1990). Tra le sue opere: Anatomia del campo della morte di Auschwitz (1994) e Storia del
ghetto di Varsavia (1996), racconto della rivolta che vide deportare nei campi di sterminio di Treblinka e di Auschwitz tutti gli ebrei
del ghetto della capitale polacca.
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