VITA Nacque a Roma nel 102 o nel 101 a.C. (la data tradizionale è il 100 a. C.). Nipote di Mario, mostrò subito le sue simpatie per il partito democratico, e sposò giovanissimo Cornelia, figlia di Cornelio Cinna, collega di Mario. Fu perciò perseguitato da Silla dittatore e dovette allontanarsi da Roma; ma per intercessione di amici fu alla fine richiamato. Si recò quindi in Oriente, dove combatté valorosamente meritandosi la corona civica; e a Rodi, dove, come Cicerone, si perfezionò nell'eloquenza ascoltando le lezioni di Apollonio Molone. Durante questo viaggio cadde in mano dei pirati ma, liberatosi con un forte riscatto, si vendicò facendone crocifiggere un buon numero a Pergamo. Di ritorno a Roma, iniziò la carriera politica, sempre nel partito democratico. Fece i suoi primi passi come oratore, accusando Cornelio Dolabella di concussione, e diede prova di grande abilità. Divenuto questore, perse la moglie e la zia, e ne volle egli stesso pronunciare l'elogio funebre. Notevole quello per la zia, in cui sosteneva che la gens Giulia discendeva da Iulus, figlio di Enea, e quindi da Venere. In veste di edile diede spettacoli fastosi, spendendo somme incredibili allo scopo di procacciarsi il favore del popolo. Divenne pontefice massimo nel 63 a.C. e prese forse parte alla congiura di Catilina: difese anzi i congiurati in senato per sottrarli alla pena di morte. Pretore nel 62 a.C., e propretore nel 61, ebbe l'amministrazione della Spagna, dove i suoi creditori non lo avrebbero lasciato partire se Crasso, grande banchiere e padrone di case, non si fosse fatto per lui mallevadore: in Spagna accumulò tante ricchezze che al ritorno pagò tutti i debiti. Cesare, reduce dalla propretura di Spagna, costituì con Pompeo e con Crasso quella coalizione che passò alla storia con il nome di primo triumvirato (60 a. C.). Eletto console nel 59 a.C., fece una grande riforma agraria; proconsole nel 58 a.C., ottenne il governo della Gallia Cisalpina e Narbonese con quattro legioni per cinque anni (58-54 a.C.) e, scaduto il periodo, si fece rinnovare lo stesso governo per altri cinque anni (54-50 a.C.). Nei primi sette anni di governo gallico combatté la famosa guerra che sposterà l'asse della politica estera romana dal Mediterraneo all'Europa centrale. La guerra civile (49-45 a.C.) fu preparata dal fatto che Pompeo, preoccupato dalla fama e dalle vittorie militari di Cesare, si era riaccostato al senato, iniziando una sorda lotta contro di lui; e dal fatto che Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, era morta. Nel 50 a.C. il senato, poiché i Parti minacciavano la Siria, ordinò che tanto Cesare quanto Pompeo cedessero una delle loro legioni; ma Pompeo destinò a tale scopo una legione che qualche anno prima aveva prestato a Cesare per domare l'insurrezione della Gallia, in modo che questi si vide privato a un tratto di due legioni. Il primo dicembre dello stesso anno il senato, per evitare una guerra civile, impose, tanto a Cesare quanto a Pompeo, di deporre i loro comandi; ma il giorno seguente, essendosi sparsa la voce che Cesare aveva valicato le Alpi, affidò a Pompeo il comando delle forze presenti in Italia. Cesare, di fronte a questo atto ostile, inviò una lettera al senato, dichiarando che egli era pronto ad abbandonare il comando delle sue legioni purché Pompeo, fosse disposto a fare altrettanto; e poiché il senato, per tutta risposta, gli impose di licenziare l'esercito, conferendo a Pompeo i pieni poteri per la difesa della repubblica, egli riprese la sua libertà d'azione e varcò il Rubicone (10 gennaio del 49 a.C.). Dopo la vittoria di Farsalo (48 a.C.) e le campagne di Egitto (contro Tolomeo), del Ponto (contro Farnace), d'Africa, Cesare torna a Roma, dove celebrò un quadruplice trionfo (46 a.C.) e si fece eleggere prima console senza collega e poi dittatore a vita. Come dittatore Cesare mirò a sostituirsi al senato, per promuovere un'organizzazione accentratrice dell'impero contro le tendenze oligarchiche e disorganizzatrici del senato: su questa via proseguirà la storia dell'impero fino a Diocleziano. Tuttavia la visione di Cesare era ancora troppo immatura, per cui i fieri repubblicani (M. Giunio Bruto e C. Cassio), vedendo in lui il tiranno, lo uccisero, in senato, ai piedi della statua di Pompeo, con 23 pugnalate (15 marzo 44 a.C.). PERSONALITÀ DI CESARE Cesare aspira a risolvere i due problemi fondamentali della repubblica: - politica interna: Cesare è l'assertore della questione agraria, agitata dal partito democratico, e come console fece una grande riforma in favore della piccola proprietà; si può perciò considerare come il migliore erede dei Gracchi; - politica estera: Cesare mirò a organizzare le province dell'impero sulla base di un accentramento assolutista, monarchico, contro l'oligarchia del senato che considerava a volte le province come beni privati da mettere a sacco (cfr. Verre). OPERE Cesare ha scritto molto, ma numerose sue opere sono purtroppo andate perdute. Tra le opere poetiche perdute sono da ricordare: la tragedia Edipo e le Lodi di Ercole e l'Iter, due poemetti, di cui l'ultimo è una descrizione di un viaggio dall'Italia alla Spagna. Tra le opere in prosa perdute sono da ricordare: il De analogia, trattato di grammatica dedicato a Cicerone; il De astris, che trattava di argomenti connessi con la riforma del calendario; l'Anticato, opera politica, risposta all'elogio di Catone scritto da Cicerone, in cui Cesare difendeva i suoi principi politici contro l'idea aristocratica, di cui Catone era divenuto il simbolo. Non ci rimane neanche un'orazione, ma Cesare si può considerare uno dei massimi rappresentanti del genere attico. Egli aveva uno stile lucido come il pensiero, e fu esaltato da Cicerone e Quintiliano. Importanti l'elogio funebre per la moglie e per la zia, e l'orazione tenuta in senato a favore dei Catilinari. Commentari de bello gallico In 8 libri, di cui l'ottavo fu aggiunto più tardi dal legato Aulo Irzio: ogni libro corrisponde a un anno della guerra gallica (58-50 a.C.). La parola commentarii significa "appunti", perché scritti con l'intenzione di servire per una trattazione più ampia che altri volessero comporre. Furono però appunti così ben fatti che tolsero a chiunque il desiderio di scrivere degli stessi argomenti. Libro I (58 a.C.) Sono narrate le due spedizioni fatte per arrestare i due primi grandi movimenti migratori: -contro gli Elvezi, che, scesi attraverso il Giura francese nelle valli della Saona e della Loira, minacciavano di invadere la Gallia Narbonese; vennero sconfitti a Bibracte sul monte Beuvray. -contro gli Svevi, guidati da Ariovisto, che, varcato il Reno e vinti gli Edui (popolo amico dei Romani), minacciavano di invadere la Gallia; vennero sconfitti nell'alta Alsazia e ricacciati al di là del Reno. Libro II (57 a.C.) È narrata la conquista della Gallia settentrionale, posta tra il Reno e la Senna, e abitata dalle bellicose popolazioni dei Belgi e dei Nervii. Libro III (56 a.C.) Continua la narrazione della conquista gallica: Gallia occidentale, posta lungo il litorale atlantico (Veneti); Gallia meridionale, posta fra la Garonna e i Pirenei (Aquitani). Libro IV (55 a.C.) Sono narrate le due spedizioni contro i Germani e i Britanni: -i Germani (Usipeti e Tencteri), sospinti dagli Svevi, avevano di nuovo passato il Reno, ma furono annientati tra Liegi e Aquisgrana, e solo parte della cavalleria riuscì a varcare il fiume e a rifugiarsi presso i Sigambri. Cesare, per intimidire le tribù germaniche, getta un ponte sul Reno presso Colonia e devasta il territorio dei Sigambri, che si rifugiano nelle foreste: dopo diciotto giorni rientra in Gallia e taglia il ponte. -i Britanni, considerati dai Romani "gli ultimi del mondo", avevano più volte soccorso i Galli contro i Romani. Cesare, sempre a scopo dimostrativo, varca l'Oceano, ma una furiosa tempesta distrugge parte delle navi ed egli, dopo un mese passato sulla costa, abbandona l'isola e rientra in Gallia. Libro V (54 a.C.) È narrata la nuova spedizione contro i Britanni, compiuta in più grande stile della precedente, ma con risultato mediocre: viene varcato il Tamigi e costretto alla resa e preso come ostaggio il re Cassivellauno; è la prima rivolta gallica, fomentata specialmente dagli Eburoni guidati da Ambiorige (che sorprendono e distruggono una legione e mezza di soldati romani), e dai Treviri, guidati da Induziomaro. Libro IV (53 a.C.) Cesare ordina nuove leve, si fa prestare una legione da Pompeo, e porta la sua forza a dieci legioni. Combatte, con il luogotenente Labieno, Eburoni e Treviri, getta una seconda volta un ponte sul Reno, e respinge gli Svevi nelle loro foreste; poi rientra in Gallia, dove con una terribile campagna stermina il popolo degli Eburoni, il cui capo riesce tuttavia a salvarsi con la fuga. Libro VII (52 a.C.) È narrata la grande rivolta gallica, capeggiata da Vercingetorige, principe degli Arverni. Cesare accorre dalla Cisalpina, attraversa le Cevenne nel cuore dell'inverno e, dopo aver devastato, inatteso, il paese degli Arverni, si ricongiunge oltre le montagne alle legioni di Labieno, assedia e distrugge Cénabum (Orleans); passa la Loira, assedia Noviodunùm (Soissons) e la prende nonostante l'accorrere di Vercingetorige il quale, sentendo la difficoltà di vincere i Romani in battaglia, pensa di vincerli con la fame: la Gallia viene devastata, le città distrutte. Cesare piomba allora su Avàricum (Bourhes) nel cuore della Gallia, e la prende d'assalto, massacrandone a popolazione; poi pone l'assedio alla città stessa di Vercingetorige, Gergovia, posta su una montagna, ma è sconfitto: anche gli Edui aderiscono alla rivolta ormai generale, e solo con enorme difficoltà Cesare riesce ad attraversare il paese e a ricongiungersi con Labieno per marciare in difesa della Provenza. Vercingetorige, contravvenendo al suo piano di guerra, affronta Cesare in battaglia campale, per tagliargli la ritirata; ma è sconfitto e costretto a ritirarsi nella città di Alesia, che Cesare cinge d'assedio con due poderose linee di fortificazione. Giunge l'esercito gallico di soccorso, numerosissimo, ma è sconfitto in una grande battaglia campale, e Vercingetorige è costretto ad arrendersi; condotto prigioniero a Roma, fu decapitato ai piedi del Campidoglio in occasione del trionfo di Cesare (46 a.C.). Commentari de bello civili In 3 libri, che si uniscono al De bello gallico mediante il libro ottavo di Irzio. Narrano le imprese degli anni 49-48. Al De bello civili vanno solitamente uniti: il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africanum e il Bellum Hispaniense, di anonimi, che dovevano chiudere la narrazione delle gesta di Cesare. Il De bello civili narra la guerra civile contro Pompeo, dal passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della guerra alessandrina (nov. 48). Non è affatto certo che la divisione in 3 libri risalga allo stesso autore: è possibile, infatti, che il I e il II formassero un unico libro, dato che (tenendo presente, in questa supposizione, la scansione del commentario precedente) narrano gli avvenimenti di un solo anno, il 49, mentre a quelli del 48 è dedicato il III. Il tono, rispetto alla precedente opera, è più partecipe (arrivando addirittura a sfiorare il satirico, quando assale gli avversari), anche per l’intento - pur se non palesemente - "apologetico": C., difatti, vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nella legalità, e che anzi l’ha sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria costante volontà di "pax"; mostra i propri esempi di "clementia" verso i nemici sconfitti ecc. Il destinatario della sua propaganda è lo strato "medio" e "benpensante" dell’opinione pubblica romana, pedina fondamentale per ogni velleità di potere. Nel corso della narrazione, vengono a trovarsi di fronte da una parte C. e dall’altra una classe dirigente ormai indegna di governare: questa contrapposizione tra il vecchio e il nuovo è il fulcro centrale di quest'opera storico-narrativa, ed è anche la sua chiave d’accesso. E’ lui, infatti, C., l’esecutore di un processo storico rivoluzionario, che senza alcun dubbio porterà al superamento dell’oligarchia-senatoria a vantaggio del popolo romano e a una nuova era di gloria per Roma. Certamente, essendo stata scritta da C. stesso, l’opera non può essere asetticamente imparziale: tuttavia, nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua sincerità. Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile e ne attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché loro e non Pompeo erano i veri colpevoli. Loro avevano infangato la sua "dignitas", loro con il "senatus consultum ultimum" avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre il veto. C., di per sé, non voleva la guerra civile. Se così non fosse come si spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli avversari? Non c’è stato un combattimento, poiché il suo scopo era far arrendere l’avversario e non distruggerlo, e ciò avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro Afranio e Petreio e nei primi anni della guerra contro l’esercito di Pompeo. Dalla lettura viene fuori anche un grande amore del generale per i suoi soldati, tanto grande non fargli citare mai nell’opera l’ammutinamento della nona legione a Piacenza. Egli, poi, non parla mai di "hostes", ma di "adversarii", perché gli "hostes" non possono essere cittadini romani. Nella sua opera, insomma, non c’è odio, né nei confronti di Catone e degli ottimati, né tantomeno nei riguardi di Pompeo. Quest’ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano ed era geloso dei successi di C., che offuscavano il suo nome; C., da parte sua, definiva Cnaeus Pompeius Magnus come un uomo che aveva sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo entusiasmare dagli ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso sapeva benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di poter comprendere il suo vero ideale politico. Il nostro autore non commenta la morte di Pompeo, la narra e nel suo silenzio c’è angoscia: non a caso, l’opera termina con l’assassinio di Potino, ordinato proprio da C. per vendicare il grande Pompeo. ARTE DI CESARE Cesare è considerato il più grande storico militare dell'antichità: mentre infatti Senofonte é pieno di elementi superstiziosi, egli non crede ad alcun elemento soprannaturale. Non gli si può tuttavia negare una certa parzialità. Nel De bello Gallico egli mira a giustificarsi di avere assalito popolazioni inermi, mentre in realtà non vi fu mai provocazione e unico scopo dell'impresa fu quello di oscurare la gloria di Pompeo e formarsi un esercito affezionato. Il De bello civili mira a giustificarsi di aver varcato il Rubicone perché trascinato dai suoi nemici. Lo stile di Cesare è tipicamente romano: semplice e chiaro come il pensiero. La lingua, limpida e pura. Nei suoi "Commentarii", C. si propose di fornire materiali agli storici per stendere un’opera criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un’opera d’arte, limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista e testimone, e spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo comportamento militare e politico. E’ da dire, comunque, che sotto questa pretesa d'impassibilità, la critica recente ha tuttavia ritenuto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni quasi "subliminali" degli avvenimenti, a fine di propaganda. Comunque, proprio il suddetto presunto proposito di verità, nonché la semplicità stilistica, conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed eleganza, frutto anche di lunga consuetudine di studio e di labor limae. Lo stesso titolo di "Commentarii" può significare che si tratta di libri di memorie o di appunti presi giorno per giorno; una sorta di diario che riporta il nudo tessuto degli avvenimenti. Sulla traccia del greco Senofonte, poi, C. racconta i fatti in terza persona, al fine di attribuire il massimo di oggettività agli avvenimenti narrati e ai suoi comportamenti; da questo scrupolo dell'oggettività è derivato il rifiuto di inserire lunghi discorsi in forma diretta, così cari, invece, agli storici antichi. Ma accanto al valore storico non si può dimenticare l'effettivo valore artistico di queste opere, che in tutti i tempi hanno costituito un testo base per lo studio della lingua latina. <<Nudi sono – diceva già Cicerone – schietti e semplici questi Commentarii, che, pur essendo privi di ogni ornamento, sono pieni di grazia>>. Non minori sono gli elogi tributati all’opera dagli studiosi moderni: il Marchesi, ad es., afferma che nessuno degli antichi seppe scrivere un opera <<dove siano adoperate meno parole per dire tutto, dove tutte le cose più complicate siano espresse con così sobria e precisa chiarezza da sembrare disegnate>>. La narrazione, come visto, è sempre condotta in modo personalissimo e sempre fresco e non viene mai appesantita dall’autocelebrazione. Sul piano strutturale dell'intera opera, ogni elemento linguistico punta direttamente a mettere in mostra la figura dello scrittore, che è insieme demiurgo-ordinatore di ogni azione; autore-narratore di ogni piano e di ogni progetto; attore-protagonista di ogni scena ideata e realizzata. Una preziosa spia, in tal senso, è il fatto che il racconto - come accennato - è sapientemente riportato in terza persona e in essa il nome di "Caesar" oppure, in sua vece, "is" o "ipse" appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione spesso anche la prima persona plurale ("nostri", "nostrum", "nostrorum"): e ciò sia per mettere sempre in prima linea la persona dell'autore sia per coinvolgere, per quanto su un piano inferiore a quello del comandante, gli attori secondari del racconto, che sono, poi, sempre "i soldati di Cesare". Ad essi si contrappongono, nella veste di soggetti passivi, oggetto del racconto, i nemici, che, nel "De bello gallico" sono i barbari con i loro vari nomi, nel "De bello civili", invece, sono gli oppositori politici dello scrittore, anch'essi puntualmente individuati. Naturalmente, alcuni di questi nemici hanno una grande personalità (ad esempio, Vercingetorige nel "De bello gallico" e il già detto Pompeo nel "De bello civili"), tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore, che tutti riesce a superare. In questo contesto, ha molta importanza, quindi, mettere in evidenza i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e turbinose della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro significati è facile cogliere l'intima ansia dello scrittore, che pone su un versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori, ossia quelli della sua parte; sul versante opposto, invece, egli colloca i nemici, tutti destinati alla sconfitta. Gli scenari delle battaglie vengono concepiti sempre come degli immensi palcoscenici, in cui le azioni del "regista-attore" vengono scandite appunto dall'uso dei tempi del verbo, in cui prevale il presente storico, che consente allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il racconto, suscitando l'attenzione del lettore, dall'altra, di "rappresentare" quasi cinematograficamente gli eventi narrati (non mancano il perfetto e l'imperfetto, ma ciò avviene con minore frequenza e il loro uso è subordinato alla volontà del narratore di frapporre una netta separazione tra se stesso e la narrazione). Sul piano stilistico, poi, a C. vengono concordemente riconosciute dalla critica le seguenti qualità: la chiarezza (= "perspicàitas"), ossia un procedimento lineare e terso, alieno da ogni pensiero contorto e involuto; la brevità (= "brevitas"), che mira all'essenzialità e alla rapidità; l'assenza di ornamenti superflui, come bene intuì il già citato Cicerone; l'eleganza del dettato (= "urbanitas"), al punto che pochi sono gli scrittori dell'intera latinità che possano gareggiare con lui in purezza e proprietà di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli incarnò quel "puri sermonis amator", che, in uno scritto minore, aveva vista realizzato nel poeta comico Terenzio; infine, l’armonia e simmetria dei costrutti, che gli antichi (con Cicerone ancora, che ne fu il massimo maestro) chiamavano "concinnitas". Sul piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la tendenza all’arcaismo e compie determinate scelte sui vocaboli, senza preoccuparsi se poi ciò causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano sintattico, egli predilige la paratassi all’ipotassi, soprattutto per motivi di chiarezza, e riesce a costruire sempre un periodare lineare e lucido. Grande, infine, risulta il valore dei "Commentarii" sia per ciò che si riferisce alla geografia, all'etnografia, all'economia, alla civiltà dell'Europa nordoccidentale, sia specialmente (e ovviamente) per quanto riguarda le istituzioni e gli usi militari dei Romani. C., anzi, si presenta davvero come l'unico grande storico militare della latinità e come uno dei più autorevoli informatori geografici dell'antico mondo germanico.