Recensioni Libri Gennaro Cicchese – Giovanni Chimirri Chimirri,, Persona al centro. Manuale di antropologia filosofica e lineamenti di etica fondamentale,, Mimesis, Milano 2016. Un volume di pp. 751. fondamentale Dire che l’uomo è persona significa far emergere la singolarità e l’eccezionalità dell’essere umano in quanto tale. Il concetto di persona, in linea generale, declinato nella sua accezione esistenziale e dinamica, indica l’io come soggetto, capace di autodeterminarsi nella libertà e di realizzarsi autenticamente nella relazione. Nel contesto socio-culturale occidentale contemporaneo è sempre più evidente la tendenza a una sorta di liquefazione o “liquidità” (Z. Bauman) delle relazioni sulla base di una progressiva “eclissi” del soggetto umano che ha comportato un forte de-centramento del senso dell’umano nel sociale. Inoltre nel corso della storia del pensiero, e non a caso, il concetto di persona si è spesso trasformato in un “problema” antropologico (perché persona e non individuo?), etico (quando e come l’uomo è persona?), giuridico (la persona e la facoltà di autodeterminarsi), oggetto spesso di dibattiti ideologici e tuttora al centro dell’attenzione. Studiata da psicologi, psicoanalisti, educatori, politici e giuristi, l’idea di persona ha assunto e assume diverse accezioni, ma, nonostante ciò, si può affermare che rimangono attuali le parole di Durkheim nel testo La divisione del lavoro che ricordano come «nessuno contesta al giorno d’oggi il carattere vincolante della regola che ci ordina di essere, e di essere sempre più, una persona». La questione allora ci si presenta declinata nella seguente domanda: «La persona: opzione etica o vincolo epistemologico?» (G. Stanghellini). In quello che viene considerato da più studiosi come «il cataclisma in cui l’Io e il mondo stanno naufragando, la possibilità di salvazione dell’io come persona sembra possibile solo attraverso un atto di coraggio» (B. Callieri). Ecco allora che il libro di Gennaro Cicchese e Giovanni Chimirri, nasce da un gesto di coraggio che i due autori hanno messo in atto nel riproporre il “paradigma personale e personalizzante”, al fine di tentare una formulazione di un modello antropologico di riferimento più idoneo alla complessità contemporanea della cultura dell’incertezza. Gli autori sembrano realizzare con il loro lavoro le parole di Romano Guardini, che così sintetizza l’insegnamento classico sulla persona: «Persona è l’essere umano formato, interiore, creatore, in quanto è in sé e dispone di sé. Persona significa che io, nel mio essere, in definitiva non posso venir posseduto da nessun altro essere, ma che mi appartengo. Posso esistere in un tempo in cui esiste la schiavitù, e un uomo può acquistare un altro uomo e disporre di lui. Ma l’acquirente non esercita il suo potere sulla persona, bensì sull’essere psicofisico [...] La persona come tale sfugge al rapporto di proprietà. Persona significa che Philosophical News LIBRI 105 io non posso essere usato da nessun altro, ma che io sono il mio fine [...] Persona significa che io non posso essere abitato da nessun altro, ma che, in rapporto a me, sono solo con me stesso; non posso essere sostituito da nessun altro, ma sono unico [...]. L’essere persona non è un dato di natura psicologica, ma esistenziale: fondamentalmente non dipende né dall’età, né dalla condizione psicologica, né dai doni di natura di cui il soggetto è provvisto [...] Il rispetto dell’uomo come persona è una delle esigenze che non ammettono discussione. Se questa esigenza viene messa in forse si cade nella barbarie (R. Guardini, Mondo e persona, in Scritti filosofici, vol. II, Milano 1964, p. 32 e p. 77)». Partendo, infatti, da un riposizionamento della persona al centro della filosofia (cap. 1) si passa ai fondamenti metafisici dell’antropologia (cap. 2), all’inseità (sostanzialità), all’analisi cioè di quelle condizioni che giustificano il suo carattere di “irriducibilità” e di conseguenza all’impossibilità di ogni sua strumentalizzazione. Le dimensioni cognitive dell’esperienza umana vengono analizzate nel cap. 3, con un’esposizione dei principali temi della filosofia della conoscenza e dell’epistemologia. Il cap. 4 presenta l’unità psicosomatica dell’uomo con un approccio che rivendica un’identità personale nell’unificazione di tutte le esperienze coi dati psichici, spirituali, cognitivi, corporali. Il cap. 5 è dedicato al tema della libertà (autodeterminazione) e responsabilità, mentre il cap. 6 tratta della finalità dell’agire, del rapporto teoria/pratica e dei valori. L’esplorazione di questi grandi temi è sostanziata dal Chimirri (cf. Psicologia del corpo, Trattato filosofico sulla libertà). L’imperativo kantiano, «considera l’altro sempre come fine e mai come mezzo», introduce la tematica dell’alterità, tema di punta del Cicchese (cf. I percorsi dell’altro. Antropologia e storia), dando vita a quell’antropologia dialogica che recupera il “silenzio” come dimensione costitutiva dell’essere umano, che educa e predispone all’autentico ascolto (cf. Incontro a te. Antropologia del dialogo), tematiche riprese e ampliate nel cap. 7 sulla persona e l’amore, sulla relazione interpersonale (cap. 8) e nella dimensione dialogica personale (cap. 9). Nei capitoli 10 e 11, infine, si affrontano rispettivamente i temi della fondazione del bene e del relativismo morale, e della storia in prospettiva antropologica, fino ai grandi temi della morte e dell’immortalità. Gli autori propongono un percorso ulteriore di grande attualità che si presenta come una vera e propria provocazione nel nostro contesto culturale e politico contemporaneo (cap. 7): «Sebbene il percorso storico mostri tendenze negative nelle relazioni interpersonali [...] si sta sempre più prendendo coscienza a livello personale, sociale ed economico, di una semplice verità, e cioè che la vera affermazione di sé avviene “non affermandosi” ma “offrendosi per amore” secondo il motto: mi dono quindi sono» e questo non solo nel senso di donatività, ma di oblatività (p. 443). Riportando la citazione di Gianfranco Morra «Non vi è persona che nell’amore e per l’amore» l’intenzione degli autori si concentra allora sulla radice agapica della persona. L’amore è la struttura dell’essere umano (pp. 446 ss), è «stile, metodo e contenuto: cioè sarà dischiusa all’intelligenza del mistero e al vincolo sostanziale ontologico (che unisce tutti gli esseri nella dimensione fondativa dell’amore) che è anche un vincolo relazionale (nell’unità e nella distinzione di tutti gli esseri) capace di 106 RECENSIONI Philosophical News attingere alla sostanza dell’amore» (p. 458). Il senso della reciprocità interpersonale matura, allora, si attuerà sia come riconoscimento vicendevole sia come incontro e convergenza delle differenze (p. 445) nella consapevolezza che la persona non è completamente afferrabile da nozioni oggettive e oggettivabili. Essa è un mondo a sé, inviolabile al punto da far dire a Lévinas che “l’idea metafisica del segreto della persona” è alla base di una società veramente libera: «La sfida del nostro tempo non consiste tanto nel “parlare” della persona: il mondo è stanco di parole! È venuto piuttosto il tempo di mettere in pratica ciò che sappiamo, per conoscerlo e perfezionarlo, attraverso l’esperienza vissuta: è il dinamismo dialettico di vita e pensiero, anima e nutrimento l’una dell’altro. Quello che conta, oggi più che mai, è insegnare, praticare e testimoniare una vita degna del nome persona» (pp. 442443). Questo manuale vuole essere una proposta «per professori, studenti, cultori della disciplina, laici credenti, per aiutare a ritrovare il bandolo della matassa in un tempo non facile segnato dal dramma contemporaneo di un umano che diventa purtroppo sempre più disumano o postumano» (p. 12). Il testo vorrebbe anche tentare di rispondere agli interrogativi dell’uomo contemporaneo offrendo un lavoro «che abbracci l’uomo nel suo pensare, essere e agire», e in questo senso gli stessi autori sono ben consapevoli che questo manuale è allo stesso tempo una sfida e un compito nel periodo della “globalizzazione dell’indifferenza” (p. 13). Un compito che si assume nella responsabilità e una sfida per una “nuova umanità”. In definitiva si tratta di undici intensi capitoli con un approccio inter- e multidisciplinare alla “questione uomo” che può dare interessanti spunti di riflessione all’ontologia, alla gnoseologia, alla psicologia, alla comunicazione, alla politica, alla morale e alla teologia. La metodologia rispetta l’intenzione di non appesantire il lettore, scegliendo di omettere le note a piè di pagina e fornendo comunque un’ampia bibliografia finale per ogni capitolo e tema trattato. Il Manuale si distingue pure per l’apporto di preziosi brani antologici a fine capitolo nonché degli indici dei paragrafi (ben 350) e di tutte le sentenze dei classici che l’introducono. Claudia Caneva Università degli Studi di Roma 3 [email protected] Michela Beatrice Ferri, Sacro contemporaneo. Dialoghi sull’arte,, Àncora, sull’arte ncora, collana “ArTeo“, Milano 2016. Un volume di pp. 167. Il trionfo del laicismo del secolo XIX portò, episodicamente, e non sistematicamente, certo, alla “morte di Dio”, e alla “morte dell’arte”. Quantomeno, tali nozioni penetrarono profondamente nel mondo dell’arte, che in fondo era prima di tutto, soprattutto, e ab origine, arte sacra; ed anzi, fondamentalmente, la nozione stessa di “arte” non si scioglieva dalla propria sacralità, tanto che la stessa connotazione della locuzione qui sopra, “sacra”, in qualche modo era inutile. Se non a distinguere quel piccolo spazio “profano” che l’arte poi ha sempre conservato. Anche se al mistero cristiano si sostituivano, poniamo nel Rinascimento, i “misteri pagani” indagati da Wind tra gli altri. Certamente, il laicismo – e ahimè troppo spesso “laico” e “laido” soffrono della vicinanza tra le consonanti, tragicamente accostate in quasi ogni alfabeto – ha proiettato, nel Novecento, l’arte sacra in recessi lontani, ma non inaccessibili. E come ricordano gli autori interpellati in questo mirabile volume, gli stessi futuristi, alla fine della loro stagione, immaginarono uno spazio per il “sacro” – forse presaghi di quella dimensione “religiosa” dell’esistenza, anche senza Dio, etsi deus non daretur. La dimensione che divinò, e a cui diede appropriati contorni, uno dei miei Maestri all’università di Genova, Alberto Caracciolo. Qui essa torna nelle parole di uno dei diciannove protagonisti dei dialoghi, Enzo Cucchi (1949-) – l’unico invero a non “dialogare”, propriamente – quasi che non sia necessario “credere” per produrre “arte sacra”, o in qualche modo inserire il sacro nell’arte. O l’arte nel sacro. Questo prezioso percorso platonico – dialoghi appunto con critici, filosofi, artisti – ci apre dimensioni notevoli di riflessione, sia sul “sacro contemporaneo”, sia sull’arte e sul sacro non necessariamente congiunti in una diade. Percorso di estetica, percorso di mistica, percorso, poi, radicato in una magnifica tradizione di religiosità – ed arte – lombarda. Non necessariamente borromaica. Ma anche, un poco. Innanzi tutto, colpisce il contrasto tra la riflessione dei filosofi e quella degli artisti, tra la dimensione speculativa, e quella “pratica” del fare arte sacra, con la considerazione, che aleggia in tutta l’opera, riguardo alla “sacralità” intrinseca a tutta l’arte, anche quella più profana. Arte come mezzo di edificazione, arte come legame con la dimensione dell’Eterno, arte che se secondo Platone era “qualcosa di terzo rispetto alla verità”, ma in ogni caso della verità era ipostasi – e su questo i neoplatonici avranno molto da dire – e dunque non poteva essere messa da parte in modo troppo rapido. Come lo stesso conflitto tra iconoclasti e iconoduli – come rivela in acutissime pagine qui Elio Franzini – non sottintendeva ad una totale 108 RECENSIONI Philosophical News eliminazione dell’arte, ma alla sostituzione, nei luoghi sacri, delle figure umane con figure naturali, giardini, animali, in qualche modo divine per emanazione, ma non per identità immediata. Del resto, la stessa cancellazione dell’immagine sacra a seguito della Riforma fu assai meno radicale e assai più problematica di quanto non sembri, come dimostrano, per la Germania del Nord, le straordinarie ricerche di J. A. Steiger dell’università di Amburgo. Che vi sia stata tuttavia una crisi novecentesca nell’arte sacra, ampiamente preparata nel secolo precedente, è indubbio. Non solo nelle arti figurative, ma anche in architettura, la sciatteria, la blanda imitazione, la povertà di ingegno e fantasia hanno spesso dominato, in ogni ambito, e la prima intervista con Andrea dall’Asta, direttore della Galleria San Fedele di Milano – uno dei luoghi eccellenti di questo libro – ampiamente lo conferma. Il razionalismo in architettura non era movimento religioso, se non di una religione della ragione, appunto, che mal si conforma – almeno in apparenza e in origine – con le esigenze spirituali del Sacro. Opere incerte – come la chiesa in cui ho ricevuto la Comunione, e tuttora talvolta frequentata – come quella di Santa Maria dei Servi nel quartiere genovese della Foce, consacrata dal Cardinale Siri nel 1972, opera di Leonardo Bucci e Raffaello Trinci – sono testimonianze dell’incerto incontro tra modernità e fede. Incerte, non assolutamente terribili. D’altra parte – come del resto per infinite altre testimonianze del passato genovese e italiano – la chiesa originaria venne distrutta dai bombardamenti aerei del 1944-45. Gli aerei dei futuristi posero fine veramente alla compostezza romanica e alla superbia del gotico. La modernità cercò di costruire edifici “inattaccabili”. In un certo senso. Nel frattempo, tra mille polemiche, vengono costruite, in Italia, moschee e chiese ortodosse. Ad Abano Terme, proprio ai primi di novembre 2016, è stata posta la prima pietra di una chiesa ortodossa che sarà un prefabbricato in legno, perfettamente smontabile, che arriverà appunto smontata dalla Romania. Probabilmente, ma non necessariamente, la dimensione “artistica” è stata sacrificata, in perfetto stile razionalista, peraltro, a quella funzionale. Per questo, il libro di Ferri ha un’immensa attualità. E lascia emergere tutta una serie di artisti noti e meno noti che stanno anche conquistando il “mercato”, inaspettatamente, un mercato dove solo all’apparenza l’arte completamente priva di ispirazione religiosa (ma esiste davvero?) domina la scena. Dal finno-americano Matti Auvinen (1958-) al ligure (di adozione) Edoardo Alfieri (1913-1988), sono, personalmente, sempre stato affascinato dagli scultori che, senza essere un Arturo Martini – qui debitamente ricordato – cercano di strappare l’arte sacra al mortale abbraccio del funerario e del ripetitivo. Ci riuscirono? In parte sì. In fondo, è una costante dialettica, terribile e splendida, tra l’io che si nega e quello che si esalta, tra l’io e Dio. Detto altrimenti – e mi pare una chiave per capire il dramma della modernità – Giotto non firmava i propri lavori, lasciando che l’arte, e il divino, assorbisse ed elevasse l’artista. Il culto del genio che sulla scia dell’Illuminismo il mondo romantico colloca al centro della scena, fa sì che la situazione si rovesci, l’artista supera l’opera, e Dio in quella: e dunque ecco che basta firmare un water-closet, che esso acquista valore, basta mettere sotto vuoto un po’ dei propri escrementi, e debitamente firmarli (almeno, la scatola), perché Philosophical News LIBRI 109 acquistino un valore, di mercato, che poi diviene, astrattamente, “qualità” e dunque valore artistico. In questa tremenda tensione tra l’artista e il divino, tra l’uomo e Dio, come una scossa tellurica provocata dalle pareti in frizione di una gigantesca fraglia, scaturisce l’opera d’arte. E la riflessione che questo libro suscita, comprende ampiamente tutte le dimensioni che ho elencato, e quest’ultima, davvero potente, davvero incontrollabile. Paolo L. Bernardini Università degli Studi dell’Insubria [email protected] D. Penna, Dio l’uomo e la felicità. La riflessione morale di Pietro Abelardo come etica della relazione, relazione, premessa di L. Mauro, Europa Edizioni, Roma 2015. Un volume di pp. 207. A leggere il titolo con cui Davide Penna intitola il suo volume, Dio l’uomo e la felicità. La riflessione morale di Pietro Abelardo come etica della relazione, desta una certa curiosità l’utilizzo dell’espressione «etica della relazione», laddove la koinè degli studiosi – allorché si riferisce a Pietro Abelardo, il celebre pensatore francese del XII secolo – è solita parlare di «etica dell’intenzione». Si tratta, come peraltro sottolinea anche Letterio Mauro nella premessa al volume, di una chiave di lettura «inedita» (p. 14), meritevole di essere segnalata non perché approda ad improbabili e stravaganti interpretazioni decontestualizzanti, ma semmai, proprio al contrario, poiché è in grado di render ragione, nel rispetto delle esigenze contestuali ad un secolo e ad un pensatore lontano dalla contemporaneità, della più autentica “modernità” di Abelardo e, nondimeno, di esser fedele al più profondo intento della sua opera. È proprio su questo punto, dunque, che crediamo di dover concentrare l’attenzione, pur non senza almeno ricordare le pagine con le quali Penna tratteggia con pertinenza il secolo abelardiano; un periodo, com’è noto, di rinnovamento culturale, attraversato dal forte desiderio di un ritorno ad una vita autenticamente evangelica, così come da un rinnovato sguardo sulla natura e sul suo rapporto con l’uomo. Dalla prospettiva del pensiero filosofico e teologico, inoltre, non è da sottovalutare che proprio in questo secolo assistiamo ad una progressiva affermazione della scienza teologica e dello stesso metodo scolastico, unito, per quanto riguarda la riflessione morale, al cosiddetto «risveglio della coscienza» (Marie-Dominique Chenu), per il quale il rimando all’interiorità a alla cura di sé, sulla scia del detto delfico «conosci te stesso», riceve un precipuo approfondimento e, non a caso, è stato elaborato anche nella nota nozione di «socratismo cristiano» (Étienne Gilson). L’accuratezza e l’agilità con le quali Penna scrive tali pagine, oltre a favorire la comprensione del testo anche al lettore non-specialista, introducono gradualmente all’incontro con l’originale personalità di Pietro Abelardo. Assai conosciuto per i suoi studi sulla logica, Abelardo non è sempre stato valutato esaustivamente anche per quanto riguarda la riflessione morale, che tuttavia ha, nel pensiero del filosofo, un ruolo centrale, come egli stesso afferma: «Nella ricerca della vera beatitudine, che importanza può avere lo studio della grammatica, della dialettica e delle arti? Tutte queste discipline giacciono molto più in basso rispetto all’eccellenza della morale e non hanno la forza di elevarsi a tale livello. […] Così, attraverso la guida di queste ancelle, potremo raggiungere la signora: in esse Philosophical News LIBRI 111 abbiamo la via che ci conduce di gradino in gradino alla morale in cui troveremo la pace e la fine della nostra fatica» (Dialogus, Milano 1992, p. 137). Penna ripercorre le tematiche morali abelardiane considerando le opere teologiche del pensatore, così come il di lui Epistolario con Eloisa, il Sic et non e altre opere, ma concentrando la propria indagine intorno al Dialogus inter Philosophum, Iudaeum et Christianum e all’Ethica seu Scito te ipsum. Lo stadio attuale della ricerca ha individuato almeno due punti fermi. La proposta etica di Abelardo, infatti, sembra articolarsi su due differenti poli. Da una parte, in consonanza con il suo tempo, Abelardo mostra un carattere prettamente teologico del suo pensiero, per cui Dio gioca un ruolo decisivo nella definizione del bene dell’uomo. Anzi, di più, è Lui il bene dell’uomo ed è Egli stesso il criterio di ogni giudizio morale. È Lui, quindi, la cosiddetta «misura oggettiva» dell’etica, dove però, si badi bene, Penna non intende «riferire ad Abelardo una concezione di Dio come mero oggetto, la cui esistenza e volontà siano disponibili al possesso umano, ma rifar[s]i al significato etimologico del termine oggettivo: ciò che sta di fronte, il “Tu” con il quale l’uomo è chiamato a relazionarsi in ordine alla sua realizzazione, il suo πρός τι» (p. 98). Dall’altra, v’è anche una dimensione soggettiva: quella dell’intentio. Com’è noto, infatti, l’elemento che, per Abelardo, rende un comportamento buono o cattivo è dato dall’attenzione interiore, dall’intenzione della volontà che si apre al consensus, ossia ad una adesione per la quale si è pronti a realizzare un determinato comportamento. La bontà o la malizia di un atto umano, pertanto, non dipendono dall’azione esterna, ma appunto dal consensus: «Dio nel dare il premio guarda e pesa l’animo piuttosto che l’azione, e l’azione non aggiunge nulla al merito, sia che proceda da una volontà buona o da una volontà cattiva» (Scito te ipsum, Firenze 1976, p. 17). La riflessione morale di Abelardo ruota attorno a questi due poli, alla continua ricerca di un punto di equilibrio. In tal senso, entrambe le dimensioni non dovrebbero essere schiacciate l’una sull’altra, poiché ciò comporterebbe il classificare l’etica di Abelardo come essenzialmente religiosa o soggettivista, a seconda che si estremizzi la misura oggettiva o quella soggettiva. La lettura soggettivista, in particolare, sembra propiziata dal concetto di “azioni indifferenti”, che pare svuotare di significato la dimensione oggettiva. Penna, tuttavia, in linea con altri studiosi, mostra che le cose non stanno proprio così. Infatti, non solo è possibile mostrare il versante sociale dell’etica di Abelardo, ma occorre rimarcare che proprio il riferimento a Dio come garante del bene e del male, «pone limiti precisi al giudizio della coscienza del singolo» (p. 173). In ultima analisi, quindi, e qui emerge in tutta evidenza l’originalità di Penna, i concetti di intentio e di consensus affermano «che il centro della moralità risiede nell’iniziativa del singolo nella relazione con l’Altro (il consenso è sempre rispetto a qualcos’altro percepito come giusto o sbagliato) e che il principio morale risiede non dell’esteriorità, ma nell’interiorità intesa come luogo di relazione con l’Altro da sé, Dio; siamo di fronte, dunque, non solo ad un’etica personale del consenso ma soprattutto ad un’etica relazionale dell’interiorità» (pp. 139-140). A giustificare l’interpretazione di Penna, in effetti, basta anche solo considerare il significato dei lemmi intentio e consensus. Il primo rimanda ad in-tentus e segnala 112 RECENSIONI Philosophical News proprio il tendere-in, il volgersi verso, altro. Il secondo dice, invece, il con-sensus, il sentire/pensare insieme all’altro (o lo stesso dell’altro). In altri termini, ambedue i lemmi richiamano implicitamente il ritmo e la grammatica della relazione. Va dunque al lavoro di Penna il merito di esprimere con cura e rigore ciò che già era presente, ma ancora inespresso, nel testo di Abelardo: «Solo la categoria di relazione intesa come unità nella differenza concepita alla luce della rivelazione trinitaria, su cui Abelardo eserciterà il suo pensiero lungo tutto il percorso intellettuale, può […] aprire ad un’ermeneutica che sia, nello stesso tempo, fedele al testo e attenta alle esigenze di fondo espresse dal pensiero abelardiano. […] solo la dimensione relazionale può rendere ragione dell’interiorità del singolo come luogo di ascolto e possibilità di incontro con l’Altro da sé e portare a percepire il di-fronte, l’objectum, come una chiamata personale alla realizzazione di sé e non, banalmente, un formale vincolo esteriore» (p. 16). Emanuele Pili Università di Genova [email protected] Vittorio Possenti, Il realismo e la fine della filosofia moderna moderna,, Armando, Roma 2016. Un volume di pp. 288. Con Il realismo e la fine della filosofia moderna Vittorio Possenti si prefigge di rinnovare la filosofia attraverso un ritorno alla metafisica e al realismo. Non si tratta tuttavia di un salto all’indietro; il realismo sostenuto da Possenti fa infatti riferimento ai vari ambiti del sapere, come le scienze e senza rigettarne al tempo stesso l’intrinseco rapporto con la metafisica. Secondo l’autore, per uscire dalla filosofia moderna (ormai da tempo conclusa) è necessario ristabilire la centralità della filosofia dell’essere: nessun sapere può sostituirsi alla filosofia che da sempre ricerca il significato del tutto. La filosofia non può non interrogandosi sul perché e sul dover essere di tutte le cose per fermarsi al che della scienza, limitandosi a cogliere le interazioni fra i saperi positivi. L’intento di Possenti è quello di rinnovare la filosofia attraverso il suo reincantamento, ponendo l’accento sull’essere e sul dover essere, facendo ricorso alla metafisica e all’etica; superando quindi lo storicismo che tende a tralasciare importanti tradizioni culturali. Si possono intraprendere più percorsi, sia con l’ausilio dell’antropologia sia con quello della religione, ma è solo attraverso l’approfondimento della concezione dell’essere (unito a un difficile ricorso alla metafisica e al realismo), che può avvenire quel rinnovamento radicale che la filosofia ha bisogno. Il volume si compone di tre parti: la prima ha per titolo “La strada maestra del realismo”, la seconda “Filosofia dell’essere e chiusura della modernità filosofica” e la terza “Problemi del divenire e dell’eterno”. La prima parte si sofferma sull’analisi del realismo inteso come il percorso principale (la “strada maestra”) della filosofia, perché permette di conoscere l’essere e la verità. È solo a partire dal realismo diretto (o immediato) che è possibile cogliere il nesso fra la ragione e la realtà. È sempre presente infatti un’intenzionalità conoscitiva volta alla totalità dell’esistente, in cui la percezione ha la meglio sulla rappresentazione. La ragione ha secondo Possenti un rapporto cognitivo diretto con l’oggetto (con la realtà), ciò significa che l’uomo non crea gli oggetti e le essenze, ma può scoprirli, approssimandosi sempre di più alla res. Il realismo si distacca pertanto da Kant, dai nominalisti e dai costruzionisti. Il realismo sostenuto da Possenti, pur accogliendo il contributo della scienza, non si limita né a questa né all’ambito teoretico, ma si apre all’ontologia, alla metafisica, all’etica e all’antropologia. Tommaso scriveva in De caelo et mundo che “lo studio della filosofia non è fatto per sapere quale sia stata l’opinione degli uomini, 114 RECENSIONI Philosophical News quanto piuttosto per sapere quale sia la verità delle cose”1. Il compito del realismo è proprio quello di pensare l’essere, di organizzare il discorso metafisico che per Tommaso si concretizza nell’atto radicale di esistere (actus essendi). La scienza in senso stretto si sofferma sugli oggetti senza ricercare l’ente in quanto ente, non si concentra sui problemi metafisici essenziali che concernono l’Assoluto; percorrendo questa via il realismo può comportare una ripresa della teologia naturale. L’approccio da seguire nella filosofia secondo il nostro autore non deve essere in prima battuta di tipo ermeneutico, bensì percettivo. All’interpretazione può infatti sfuggire il rapporto con l’originario e con la verità. Per avviare una proficua meditazione sulla verità, che non può ridursi a mero concetto speculativo, Possenti sceglie di riprendere l’alleanza fra filosofia e Rivelazione. Ora comprendiamo meglio il motivo per cui l’autore, rifacendosi alla seconda navigazione platonica, sostiene la tesi di una terza navigazione per definire l’evoluzione dell’ontologia metafisica di Tommaso rispetto all’ontologia ellenica. Tommaso non si ferma né alla sostanza né all’essenza, ma giunge all’essere stesso portando a compimento la centralità ontologica dell’actus. Tommaso perviene direttamente alla verità della parola di Dio. Dio infatti ha detto a Mosè “Ego sum qui sum” (io sono l’essere stesso). Scrive Possenti riprendendo la Summa Teologiae: «per Tommaso l’esse come actus essendi è non soltanto l’atto di tutti gli atti e la perfezione di tutte le perfezioni, ma anche ciò che attua tutte le forme e le fa essere2». Nella seconda parte, l’autore sostiene che in età moderna sono emerse ontoteologie che divergono da quella di Tommaso, come le ontologie libertiste di Schelling e Pareyson e quelle logicistiche di Hegel, Gentile, Severino e Bontadini. In queste ontoteologie, la ricerca del vero è, secondo Possenti, viziata dall’identità fra Logica e Metafisica. Per rinnovare la metafisica è pertanto necessario partire, come fece Tommaso, dall’ente (ens) e non dall’essere (esse): il primo è un soggetto (una sostanza), mentre il secondo è un’attività. I filosofi, che come Hegel partono dall’esse, restano intrappolati nella logica e progressivamente si allontanano dal mondo reale verso quello arbitrario del pensato. È nella persona, ovvero in «quell’ente più perfettamente essente che è la persona3» che la riflessione filosofica trova il suo cominciamento. Possenti ritrova pertanto nell’identità tra la filosofia dell’essere e la filosofia del soggetto personale il punto di svolta per far ripartire la metafisica, scorgendo nel pensiero di Jacques Maritain l’apertura di un ciclo postmoderno. Secondo il filosofo francese infatti, il pensiero moderno, assumendo un carattere prettamente ideosofico e non ontosofico, si è spinto verso l’oblio dell’essere. Maritain invece riprende la speculazione sull’essere a partire dagli sviluppi della filosofia medievale e riassume: «l’orizzonte ontoteologico e metafisico della terza navigazione4». Possenti ritiene quindi che per superare la ormai conclusa filosofia 1 2 3 4 V. Possenti, Il realismo e la fine della filosofia moderna, Armando, Roma 2016, cfr. p. 65. Ivi, p. 132. Ivi, p. 180. Ivi, p. 199. Philosophical News LIBRI 115 moderna sia necessario ripartire dalla metafisica dell’essere e dalla terza navigazione, essenzialmente aperte a domandare su Dio. Nella terza parte – dopo un primo capitolo in cui si connettono le problematiche del realismo e del divenire ad alcune questioni inerenti il caso, l’evoluzione e la finalità – Possenti definisce il compito essenziale della filosofia contemporanea. Ciò consiste in un nuovo rinnovamento della filosofia capace di superare il nichilismo per ritornare alla metafisica: una transizione dall’eterno ritorno, al ritorno all’eterno. L’autore vuole recuperare l’eternità, quale orizzonte trascendente fuori dal tempo che la filosofia moderna ha progressivamente annullato e secolarizzato. Heidegger, pur recuperando la domanda sull’essere, rinuncia di fatto all’eterno nel momento in cui assegna il primato alla temporalità, interpretando la metafisica come una scienza temporale5. Nietzsche nega l’eterno soprannaturale e con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale esprime una temporalità infinita, in cui il divenire tende ad approssimarsi sempre di più all’essere. Con Il realismo e la fine della filosofia moderna Possenti, oltre a inserire capitoli in larga parte inediti, raccoglie e sistema alcuni scritti già pubblicati in precedenza tra il 2007 e il 2015. Pur essendo un testo filosofico non adotta né un linguaggio eccessivamente tecnico né presuppone, per poter essere apprezzato, una conoscenza approfondita del dibattito filosofico contemporaneo. Le pagine sono arricchite inoltre da preziosi approfondimenti sulla dottrina tomista dell’essere e sul pensiero di Maritain, e da un importante raffronto fra le metafisiche liberiste e quelle logicistiche. Dopo aver constatato che la filosofia moderna si è conclusa, Possenti ritiene che per rinnovarla, per reincantarla nuovamente, sia necessario superare il nichilismo e l’antropocentrismo che per troppo tempo l’hanno condizionata. Egli suggerisce quindi di ripercorrere il cammino ormai dimenticato in direzione dell’essere e dell’eterno attraverso una nuova metodologia filosofica, il realismo, capace di schiudere un nuovo orizzonte di senso e di speranza. Riccardo Sessarego [email protected] 5 Cfr. ivi, p. 258 Hili Razinsky, Ambivalence: Ambivalence: A Philosophical Exploration Exploration,, Rowman & Littlefield International, London New York Forthcoming December 2016. Un volume di pp. 320. When a friend tells me that she loves and at the same time does not love her husband, I tend not to interpret her literally. I will treat my friend’s emotional states seriously but not her wording. A literal interpretation regards the friend as having two opposing attitudes regarding the same object. But it is impossible to love and not love the same person at the same time, this is a contradiction. Applying the charity principle I will interpret my friend’s words less literally. Maybe she is expressing the disappointment that after entering the routine of marriage she does not experience the excitement and enthusiasm of love. Maybe she wants to say that she loves some features of her husband’s character but dislikes others. Or maybe she is sometimes so angry with her husband that she cannot feel the love that she knows she has. My friend’s sentence is consistent with each of these interpretations and that is why I prefer them to the literal interpretation. My interpretive strategy assumes that strict ambivalence – in which two opposing attitudes constitute together a unified attitude – must be impossible. At least, this was my interpretive strategy until reading chapter 3 of Hili Razinsky’s book on ambivalence. In this chapter Razinsky starts with the complex view of emotion, according to which an emotion is a complex of mental and behavioural elements drawn from several categories. Razinsky argues convincingly that emotions are among the elements included in the complex and that the relation between the elements is not always harmonious. Conflict between different elements is part of what integrates them to create a unity that stands in relation to other parts of the subject’s mind. This sophisticated addition to the complex view of emotion creates the conceptual place for ambivalent emotions. My friend’s attitude to her husband is a single “tension-fraught attitude” where each of the poles refers to the other pole as opposing to it. I am convinced by this chapter that my friend’s statement that she loves and does not love her husband can (in some cases) be taken literally. In such cases my friend’s statement is not less coherent and rational than the statement that she loves her husband or the statement that she does not. This chapter is however only one example of a multi-faceted investigation of ambivalence. Chapter 8 takes an even more radical stand. It investigates statements such as: “Hannah ought to apologize and she also ought not to apologize”.A statement that says that Hannah ought to apologize aims at objectivity; it aims to convey what Hannah really ought to do.But the ambivalent statement does not seem to convey what Hannah really ought to do.The temptation to interpret the “inconsistent” statement non-literally is even stronger than in the example discussed above. Maybe Philosophical News LIBRI 117 Hannah has a reason to apologize and a reason not to apologize and she is still deliberating as to which reason is stronger. Or maybe it is a case where the reasons are on a par. According to such interpretations objective ambivalence is only a phase or aspect of deliberation. Often the deliberator starts with opposing value judgments and deliberates with the aim of reaching a non-ambivalent judgment. However, Razinsky shows that such interpretations do not exhaust the relationship between ambivalence and deliberation. The chapter offers an elaborate account of the role of ambivalence in deliberation and one of its interesting results is that an ambivalent judgment is not always a passing stage in deliberation; it can be the conclusion of the deliberation. The natural objection to this possibility is that Hannah deliberates in order to know whether to apologize or not. How can the ambivalent judgment that she ought to apologize and she ought not to apologize guide her in what to do? Razinsky responds to this objection by showing that ambivalent judgments about what one ought to do do not necessarily inhibit action.The thought that ambivalent judgements inhibit action rests on a simplistic view about the way deliberation guides action. It is not true that a full specification of the action is given prior to the deliberation, the deliberation shapes the options. For example Hannah might decide to apologize in a way that respects also her judgment that she ought not to apologize.This is just one example of the novel and interesting insights that this chapter provides. The author of this book takes the notion of ambivalence very seriously. Acknowledging that strict ambivalence is possible and even common undermines very entrenched philosophical views of personhood, action, emotion, belief, value and rationality. Showing us the path toward novel accounts of these important concepts, Razinsky also challenges the view that ambivalence implies a miserable and impoverished life. The book constitutes an analysis of a variety of ambivalent structures and forms, from self-overcoming (see the introduction section on Shahrazad’s wise and courageous feat in One Thousand and One Nights) to selfdeception (Ch. 7). Chapter 6 criticizes the view that although ambivalence is possible, it is merely the departure point, residue, or failure in the pursuit of harmony. Rejecting Neo Aristotelian attempts to “contain” ambivalence within a life guided by a norm of harmonization, Razinsky discovers in Freud a more viable view of the relations of ambivalence and the pursuit of harmony, according to which, ambivalence is pervasive, and a concern with harmony can be combined with it in various ways. While ambivalence excludes contented repose, it is not a barrier to significant and creative behaviour and action (Ch. 6 and 8). The merit of this book lies in showing that ambivalence is often central to our capacity to act, care, and respond to reality. This implies that flourishing is often a matter of how a person shapes her ambivalence, rather than of whether she succeeds in avoiding ambivalence. Razinsky’s book is full of real life examples which make the arguments clearer and more convincing. The book is well written, interesting, surprising, and original. Dalia Drai Ben Gurion University of the Negev [email protected] Emanuele Severino, Dike Dike,, Adelphi, Milano 2015. Un volume di pp. 374. Nel libro Dike l’autore Emanuele Severino getta uno sguardo retrospettivo sul proprio cammino filosofico, considerando quali assiomi di partenza i due scritti fondamentali La struttura originaria (1958) e L’essenza del nichilismo (1972). l’impostazione è, come la maggior parte delle filosofie continentali, di carattere genealogico. Severino, dopo avere individuato in Nietzsche la dissoluzione della tradizione epistemico-metafisica, propria dell’Occidente, la quale tradizione tenta di determinare tutte le forme del sapere in relazione alla volontà umana, riparte dalla locuzione di Anassimandro1. Essa, nella propria lapidaria enigmaticità, segna il cespite arcaico a partire da cui viene a determinarsi il cammino storico della civiltà occidentale. Nell’interpretare la sentenza, Severino ingaggia da subito un duello decisivo che segna l’interezza del proprio sforzo meditativo, quello con Martin Heidegger2. La radicalità dei due pensatori ha quale terreno di scontro l’opposta concezione del tempo, la quale concezione li divide abissalmente. Quello di Heidegger è un pensiero finitista, l’eon è illuminato a partire dalla ritrazione dell’essere che ne illumina la finitudine velandosi. Severino, al contrario, è determinato a costituire l’incontrovertibilità dell’episteme dell’essere in quanto eterno, che, proprio in virtù di quella struttura originaria, da cui il filosofo italiano parte e di cui l’ente diveniente costituisce solo l’apparire, deve porre rimedio alla “follia dell’Occidente”, il quale Occidente ha fiducia nel divenire. Dike diviene allora la via della necessità assoluta. Dopo essersi confrontato con la struttura costitutivamente agonica del pensiero arcaico, nelle formulazioni di Anassimandro e Eraclito, Severino mostra come, a differenza dei primi due, Parmenide si collochi su un piano superiore, rivelando la necessità che l’ente sia ciò che è. Anche in questo scritto per Severino occorre mostrare il cuore della verità ben rotonda ponendo la necessità dell’essente, quale 1 «Le cose dalle quali vi è generazione per gli enti sono le stesse nelle quali avviene la dissoluzione secondo necessità; infatti essi stessi rendono giustizia ed espiazione reciprocamente per la loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo». E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, p. 30. 2 Il filosofo tedesco aveva interpretato il celebre detto in una conferenza tenuta nel 1946. Cfr., Holzwege, tr. it. A cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968. Cfr. anche più recentemente Holzwege (sentieri erranti nella selva), a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2002, pp. 748-877. Philosophical News LIBRI 119 identità originaria con se stesso, a fondamento degli epifenomeni che si manifestano nella “Terra”, quali sono li dei e i mortali. Emergono quindi due direttrici: a) la manifestazione del divenire non deve essere pensata unilateralmente a partire da se stessa, ma in relazione alla stabilità dell’essere; b) il dualismo del pensiero greco, la polemos per Eraclito che genera tutte le cose e tutte le cose consuma per poi ricomporle, il dualismo di Anassimandro fra dike e adikia entro l’orizzonte temporale, e persino quello netto tra ontologia e meontologia decretato da Parmenide, vanno sostituiti da un monismo assoluto, quello dell’essere che già da sempre è, non è stato, infatti non sarebbe più, e non sarà, altrimenti non sarebbe ancora. Viene quindi contratta e ridotta ad apparenza, dall’autore, la determinazione estatica dell’esistenza. Dike allora non ha più un’accezione primariamente etico e politico, valore che viene nonostante tutto rilevato, ma un valore ontologico. Dike è pertanto il cuore pulsante dell’essere. Severino è qui in polemica, ancora una volta, con tutta la tradizione occidentale, la quale tradizione ha pensato l’ente a partire da un legame con l’ens summum che determinasse la condizione di possibilità del divenire. Così accadeva nei pensatori quali Tommaso d’Aquino, Cartesio, Spinoza e Hegel. A quest’ultimo vengono riservate considerazioni particolari3. Secondo il filosofo italiano il metodo dialettico rappresenta un coerente sviluppo della dottrina eraclitea degli opposti. Essa ha una valenza logico-ontologica, che avvolge la realtà nei suoi tre momenti: a) il momento astratto-intellettivo, in cui l’idea è data in sé; b) il momento scettico o dialettico negativo, dove le determinazioni iniziali vengono soppresse dall’intelletto che le arresta; c) il momento speculativo-razionale in cui l’idea completa il suo cammino circolare, essendo in sé per sé identità di soggetto e oggetto. Il sillogismo disgiuntivo hegeliano che porta a far coincidere pensiero e realtà, essendo il culmine del pensiero moderno secondo Severino, considera il tempo una proprietà del pensiero. Per Severino però la struttura originaria fonda un’unità logico-ontologica in cui la totalità degli enti è eterna, nella misura in cui sta alle spalle dell’Apparire, contenendone già tutti i momenti in un eterno presente. Questo è l’errore della Filosofia, da Anassimandro fino alla fenomenologia, la quale fenomenologia per ultima si rivolge all’apparire immediato dell’ente, considerandolo nella sua provenienza dal Nulla. Dopo essersi confrontato in modo critico con le principali posizioni teoretiche della storia della metafisica, il professor Severino dà il via ad una stringente sequenza di argomentazioni, tese ad espellere il non essere dal cuore dell’ente. In ultima analisi la posizione di Severino appare come sempre accattivante, contro-intuitiva e provocatoria. Egli interpreta magistralmente i classici, attraverso una profonda conoscenza della lingua greca e di quella tedesca. L’errore che è proprio della sua filosofia, di cui è connaturata, è quello invece di identificare, sovrapponendola, la storia concreta con quella dei pensatori fondamentali. Inoltre appaiono violenze esegetiche che portano a snaturare l’intenzione originaria dei pensatori da lui interpretati. Il grande filosofo oscilla così da un piano di carattere 3 E. Severino, Dike, cit., pp. 59-64. 120 RECENSIONI Philosophical News critico-argomentativo ad uno storico-narrativo. Così come l’idea di giustizia dei greci trapassa troppo arbitrariamente nell’idea della necessità ontologica. Giovanni Vallebona Università degli Studi di Genova [email protected] Alejo José G. Sison, Happiness and Virtue Ethics in Business. The Ultimate Value Proposition Proposition,, Cambridge University Press, Cambridge 2015. Happiness and Virtue Ethics in Business is the latest book from Alejo Sison, who is a professor of philosophy at the University of Navarra and internationally recognized as a leading scholar of virtue ethics, one of the three main areas in ethics, along with the deontological and utilitarian ethics. The book’s main theme – happiness – has engaged philosophy since ancient times, but has recently taken on a different hue that distances it from its meaning in classical antiquity. Happiness is essential for understanding Aristotle’s virtue ethics, but in the second half of the twentieth century, especially with Richard Easterlin, it became identified with individual, subjective wellbeing. As the subtitle of this book indicates, Sison gives readers a strong argument for moving past modern social science’s quantitative and empirical approaches (so-called “modern happiness studies”) and reinstating an objectivist approach to virtue. Throughout the 300 pages that make up this book, Sison contrasts the different topics that have been studied regarding happiness with an integrative approach to virtue. This approach is nothing more than the expression of a more realistic human rationality, which instead of splitting up the various aspects involved, integrates them into an overall picture of what constitutes a successful life. That is precisely what the Greek notion of “eudaimonia” meant, which Sison presents in the final chapter, developing an Aristotelian position that gives unity and meaning to the text. It is worth noting that both the final chapter and the epilogue provide an excellent summary of the Aristotelian approach applied to business, a line of research that Professor Sison anticipated in his earlier book The Moral Capital of Leaders: Why virtue matters (Edward Elgar, 2003). Happiness and Virtue Ethics in Business also presents a good summary of the various results that modern happiness studies have put forward, which focus on analyzing the correlation between specific variables such as income, consumption, motivation, psychological satisfaction, biological disposition, work, leisure, inflation, politics, religion, etc. and happiness understood from an individual and subjective point of view. Sison attempts to transcend this approach supplementing it with Aristotelian virtue ethics. There is a significant difference between the classical and modern approaches. While for Aristotle happiness can only be understood within a community, which supports certain assumptions and values, for the modernist line that Easterlin initiated, happiness is nothing more than a sense of wellbeing that is subjectively and individually experienced. It is worth noting that this approach deliberately 122 RECENSIONI Philosophical News avoids normative philosophical discussion and focuses on subjective psychological perceptions, unlike economic theories that analyze more objective indicators such as income level or gross product collected in a “utility function”. The curious thing about this approach is that, thanks to the help of many experimental tools, it acquires a certain sense of objectivity in accordance with current scientific paradigms. While accuracy is important in measuring, we should remember the Aristotelian warning that not all realities are measurable to the same degree of accuracy and that “the study of ‘Eudaimonia’ or human flourishing within the political community, which requires more flexible standards” (29). In any case, instead of using technique and measuring instruments without reflection, they should be used within a narrative or interpretive horizon that gives them a meaning that is truly human. By including an exhaustive, up-to-date and widely inclusive examination of the main issues that modern happiness research has addressed, Sison reveals that happiness studies quite obviously and systematically omit virtue and its crucial role in achieving happiness. The last chapter, therefore, develops an Aristotelian perspective that is laudable because it is objective and understands life in its entirety, it examines happiness as a rational development, and assumes a teleology in human life that demands effort and discipline, which makes happiness a reward of virtue or, in different words, human excellence. Aristotelian eudaimonia is presented as a praxis that includes the administration of both internal goods, which is the object of ethics, and external goods, i.e., economics, and within the latter provides a natural boundary, subordinating both to the community realm of politics since «happiness, mainly, is not a matter to be thought about, but one to be lived and experienced by real individuals of flesh and blood» (250). «Happiness is a complex human phenomenon with an inescapable social dimension, where context and quality are of primary importance» (33); that is to say, happiness is not material or quantitative, it cannot be measured in strict terms, and it has a common foundation based on universal human experience that makes it objective. This does not mean that there is such a thing as an objectively virtuous action independent of the person who performs it; rather, it means that the prudent man performs virtuous action. «All virtuous acts require prudence (phronesis) or practical wisdom, the habit of making rational choices accompanied by the right reasons to act in a certain way, given a set of circumstances» (254). Thus, the challenge is posed: it is imperative that businessmen, towards whom this book is primarily aimed, develop the virtue of prudence or practical rationality. The modern happiness studies that are reviewed throughout this book begin from the individualism of homo economicus, which is directly influenced by neoclassical economics. It is nothing more than a rational abstraction explained from production and consumption, or rather, consumerism, which is the expression of the moral failure of a desire that cannot be educated or controlled because it has lost its ultimate reference. In the end, only an ideal of life, and the narrative that this ideal demands, can offer such a reference. «The recovery of Aristotelian virtue ethics serves to give a stronger foundation and greater integration or coherence to many of the findings of modern happiness research» (269), thus providing a more Philosophical News LIBRI 123 realistic vision, which is essential for recovering the meaning of a truly human life. «Happiness is not something one acquires or simply does, but something one becomes [...] developing the proper virtues of character» (272). In short, as the book concludes, contrary to the modern way of thinking, happiness is not a right, but rather a reward of virtue. The book’s scope transcends the limits of business by offering a clear diagnosis of the current cultural crisis and, what is more, presenting clues for overcoming it. Germán Scalzo Universidad Panamericana [email protected]