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INSEGNAMENTO DI
STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO II
LEZIONE IX
“TENTATIVI DI CODIFICAZIONE IN ITALIA”
PROF.SSA MARIA NATALE
Storia del Diritto Medievale e Moderno II
Lezione IX
Indice
1
L’attività di Bernardo Tanucci ------------------------------------------------------------------------- 3
2
Tentativi di codificazione in Toscana ------------------------------------------------------------------ 5
3
L’ideologia antigiurisprudenziale. Ludovico Antonio Muratori -------------------------------- 7
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 L’attività di Bernardo Tanucci
Nel decennio successivo al 1740, due importanti tentativi di codificazione, a Napoli ed in
Toscana, rappresentarono la più nitida espressione dell’ideologia della codificazione tipica del
primo Settecento. Il primo progetto di Codice generale a Napoli, fu elaborato sotto Carlo di
Borbone, grazie all’impegno del suo ministro Bernardo Tanucci. Quantunque a Napoli si fosse
parlato di codificazione de diritto già prima di questo momento, questo fu effettivamente il primo
tentativo legato ad una visione di dispotismo illuminato.
Tra il 1734 ed il 1740 si cercò di avviare una serie di riforme giudiziarie, volte sia a limitare
l’arbitrio delle magistrature, sia a colmare il distacco che, nella pratica, sussisteva tra la legislazione
e l’applicazione del diritto, incidendo altresì sul piano giurisdizionale con l’istituzione di
magistrature nuove destinate a sostituire le vecchie.
Frutto di quest’attività fu la nascita nel 1739 a Napoli del Supremo Magistrato del
Commercio e dei cd. Consolati di Terra e di Mare. L’istituzione a Napoli di queste magistrature,
competenti nella speciale materia del commercio, fu fenomeno direttamente collegato a quello che
portò alla luce dei primi tentativi di codificazione. Entrambi i fatti erano infatti collegati ad una
visione tendenzialmente rinnovatrice volta a fondare su nuove basi l’ordinamento giuridico.
A Napoli si finì così per legiferare nelle materie di competenza dei nuovi tribunali e,
successivamente, si progettò una codificazione generale sulle materie civili di competenza dei
tribunali tradizionali.
Nonostante le idee del Tanucci fossero sufficientemente chiare, specialmente sul significato
politico che un’operazione di codificazione del diritto avrebbe avuto, la situazione del regno e la
carenza del potere sovrano votarono l’impresa all’insuccesso.
Ed infatti, l’insuccesso vi fu e di codificazione si finì per non parlare per diversi anni, sino a
quando in un clima ed in un contesto politico mutato, ormai in ritardo sui tempi, si intraprese
nuovamente una politica di riforma, nella consapevolezza che, prima ancora che sul piano
normativo, la novità dovesse incidere sul piano pratico cercando di limitare l’arbitrio delle
magistrature tradizionali. Fu, infatti, in questo periodo che si posero le basi per cui nel 1774
Bernardo Tanucci promulgò i dispacci che istituirono nel Regno di Napoli l’obbligo di motivazione
delle sentenze in tutti i tribunali maggiori, oltre a prevedere poi il divieto per quelle magistrature di
fondarsi sull’autorità dei dottori.
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Tentativi che, com’è evidente, erano rivolti a fondare su nuove basi certe e chiare
l’ordinamento giuridico della modernità.
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2 Tentativi di codificazione in Toscana
Di ben maggiore importanza fu il tentativo di codificazione che ebbe luogo in Toscana.
Francesco di Lorena (marito di Maria Teresa d’Austria) aveva assunto i poteri nel Luglio 1737
affidandone l’amministrazione al suo ministro Emanuele de Richecourt, insigne statista che tentò
ben presto di unificare lo Stato sotto il profilo giurisdizionale, amministrativo e legislativo. A tale
scopo, già nel 1737 l’insigne statista scriveva al sovrano: «sarà necessario rifondare le leggi di
questo paese, che per la loro moltitudine danno luogo a liti continue, e nella maggioranza non si
adattano ai tempi presenti».
Nel 1745 il sovrano incaricava Pompeo Neri di progettare la rifusione generale di tutte le
leggi dello Stato in un Codice simile a quello della Savoia ed incaricava Venturi Neri di preparare
un progetto di riforma dell’organizzazione giudiziaria. Nel 1746, infine, veniva nominata una
Commissione, presieduta da Richecourt, cui i progetti avrebbero dovuto essere sottoposti.
E può ben dirsi che proprio l’ideologia ed i progetti del Neri concludano, assieme all’opera
del Muratori, su cui si soffermeremo tra breve, una stagione della cultura giuridica settecentesca.
In sintesi può dirsi che la riforma di Pompeo Neri avrebbe dovuto incidere oltre che sulla
legislazione, unificandola, anche sulla consuetudine, sulla giurisprudenza e sulla prassi dei
tribunali: in breve, la riforma avrebbe dovuto lasciare inalterato il sistema delle fonti ed il rapporto
diritto comune-diritto statutario particolare, limitandosi a unificare il diritto statutario e a
circoscrivere la possibilità della dottrina di dare armi ai pratici alimentando la molteplicità delle liti.
La concezione di Pompeo Neri nasceva, con ogni evidenza, da una visione pragmatica della
realtà in aperto contrasto con la linea razionalistica del Domat. Secondo Pompeo Neri, era
necessario confrontarsi con i fatti e, proprio in questa prospettiva, non ci si poteva non rendere
conto della inutilità di visioni sganciate dal collaudo empirico. Piuttosto che cercare di risistemare
l’ordinamento giuridico nell’ambito di un disegno razionale alla Domat, bisognava cercare un
ordine estrinseco in cui collocare un documento legislativo che potesse costituire un punto di
riferimento capace di arginare la deriva arbitraria della magistratura.
In questo senso si comprende come il Neri, assumendo come legislatore un atteggiamento
antirazionalistico, mostrasse di intendere il compito affidatogli come compito di mera raccolta e di
prudente coordinamento del materiale legislativo, limitato per di più da un confine che egli stesso
riteneva intangibile: quello del diritto romano. Pompeo Neri si diceva, infatti, convinto della
necessità di non erodere l’area di vigenza del diritto romano, che al massimo tollerava di essere
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intaccato da interventi legislativi capaci di modificarlo, solo in parte, per aspetti di dettaglio. Alla
base di quest’atteggiamento di grande rispetto e di grande considerazione nei confronti del diritto
romano era da scorgersi una motivazione di ordine politico: la Toscana era uno Stato piccolo,
collocato in mezzo a Stati di diritto comune; appariva perciò coerente con il buon senso politico
limitarsi a rispettare il diritto romano-comune e raccogliere il diritto principesco negli schemi del
diritto romano-comune.
Coerentemente a questi principi, Neri proponeva un progetto legislativo ordinato secondo lo
schema delle Istituzioni giustinianee, suddiviso nei tre ambiti personae, res, actiones. Si trattava di
uno schema che, anche se per motivazioni diverse, era risultato molto gradito ai giuristi razionalisti
ed era divenuto lo schema più accetto agli illuministi in Germania ed in Francia.
Nonostante la chiarezza del disegno ed il supporto politico di cui godeva, il progetto Neri
non riuscì a realizzarsi e, dopo il 1748, il processo codificatorio in Toscana si arrestò del tutto. Le
idee ed i progetti del Neri restano così soltanto un documento testimone della prima ideologia
codificatoria del Settecento: ideologia per la quale la codificazione è prima di tutto una tecnica
giuridica finalizzata alla certezza del diritto già vigente, alla sua conservazione ed in generale,
all’ordine dello Stato.
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3 L’ideologia antigiurisprudenziale. Ludovico
Antonio Muratori
L’ideologia settecentesca della Codificazione aveva trovato in Italia un autorevole interprete
in Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Della monumentale produzione giuridico-letteraria del
Muratori assume particolare rilievo ai nostri fini il trattatelo intitolato Dei difetti della
giurisprudenza pubblicato nel 1742.
Già nel 1726 in una lunga lettera indirizzata a Carlo VI, Muratori aveva invitato l’imperatore
ad una operazione di semplificazione del diritto, attraverso la selezione riduttiva e la concentrazione
delle leggi in un unico tomo ufficiale. Tale codice carolino si sarebbe dovuto promulgare ad opera
di Carlo VI con vigenza nei territori del suo impero.
Le considerazioni svolte in quella lettera, rimasta inedita, trovarono una più ampia
maturazione ed una più brillante formulazione nel trattato del 1742, destinato al successo e ad una
rapida divulgazione.
Nel suo scritto il Muratori traccia un quadro della situazione giuridica del suo tempo,
condizione che l’autore descrive come prossima alla paralisi e contrassegnata dall’incertezza, dal
disordine e dall’arbitrio privato. La scena della giustizia gli appare infatti monopolizzata da una
giurisprudenza, sia dottrinale che giudicante, sostanzialmente amministratrice di ingiustizia.
I difetti che, ad avviso del Muratori, inquinano la giurisprudenza possono classificarsi in una
duplice categoria. Vi sono infatti difetti intrinseci e difetti estrinseci. Alla prima categoria
appartengono i difetti ineliminabili, ossia le malattie congenite che turbano la vita del diritto ma che
si possono curare senza tuttavia potersi rimuovere completamente. Alla seconda categoria
appartengono invece quei difetti che, proprio perché estrinseci alla natura del diritto, dipendono
esclusivamente dal comportamento degli operatori giuridici, essendo come tali eliminabili.
Appartengono alla prima categoria i seguenti difetti:
a) le norme giuridiche non possono essere mai assolutamente chiare, tanto è vero che
debbono essere interpretate da osservatori sottili, con la conseguenza che i precetti in
esse contenuti divengono ancor più equivoci;
b) ciascuna norma non può prevedere tutti i casi che, invece, la realtà concretamente
presenta;
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c) gli uomini, i quali danno veste giuridica ai rapporti della loro vita quotidiana,
manifestano ciascuno la propria volontà, di modo che è sempre difficilmente
interpretabile e suscettibile di dar luogo a liti la loro intenzione;
d) il diritto dipende, nella pratica applicazione, dalla volontà del giudice che è
inevitabilmente condizionato da passioni, pregiudizi, debolezza dell’animo umano.
Alla categoria dei difetti estrinseci appartengono tutti quei difetti che derivano dalla
inosservanza della antica proibizione, fatta da Giustiniano, di interpretare le norme del corpus iuris.
Essi, dunque, si possono concentrare intorno a due poli essenziali:
a) il caos delle interpretazioni dottrinali e giudiziali ha offuscato e soffocato il testo
normativo sostituendo alla legge l’opinione privata dei giuristi;
b) l’applicazione del diritto è condizionata dalla scelta compiuta dal giudice tra le varie
opinioni dei dottori.
Il problema, ad avviso del Muratori, consisteva nel riuscire a limitare ed a bloccare il
torrente delle opinioni dottrinali e il conseguente arbitrio dei giudici nell’applicazione del diritto. É
bene chiarire che quando Muratori parla della giurisprudenza intende per essa la scienza del diritto,
ossia la sua critica è rivolta contemporaneamente a giudici e dottori.
Individuati i mali del sistema, il Muratori passa a proporre i rimedi che, a parar suo, si
rendono opportuni per riportare la vita del diritto all’ordine, alla chiarezza, alla certezza. Secondo
Muratori si potrebbe pensare, a prima vista, all’opportunità di proibire agli avvocati di utilizza re
nei tribunali le opinioni della dottrina, obbligandoli a fondarsi solo sul testo della legge. Ma questo
sarebbe un rimedio solo apparante perché, argomenta Muratori, gli avvocati continuerebbero e
leggere le opinioni dei giuristi e da queste sarebbero inevitabilmente condizionati. Non solo: i
giudici, liberati dalla soggezione alle opinioni dei dottori, vedrebbero aumentare il loro arbitrio con
conseguenze ancor più gravi. Il rimedio, a giudizio del Muratori, andrebbe perciò individuato in una
complessa opera legislativa elaborata da una commissione di giuristi e di esperti. Costoro avrebbero
il compito di risolvere, per volontà del principe legislatore, i problemi più spinosi e più complicati e
di raccogliere in un unico testo ufficiale le soluzioni più adeguate. L’intervento legislativo auspicto
dal giurista dovrebbe, dunque, consistere in un piccolo codice in cui poter ritrovare la soluzione
delle questioni forensi comunemente più difficili. Il tutto con la sanzione di obbligo per i pratici di
attenersi rigorosamente a tale soluzione.
Come si vede, quella del Muratori è soluzione rivolta a sostituire un’unica interpretazione
ufficiale, scelta e sanzionata dal sovrano, alle tante opiniones pullulanti intorno ai casi produttivi di
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maggiore litigiosità, in modo da escludere le interferenze dottrinali nella decisione dei casi, e
dunque, nell’applicazione pratica del diritto.
Concepita in tali termini, l’idea di Muratori non contiene elementi di innovazione né di
unificazione del diritto vigente; essa mira unicamente ad un obiettivo di semplificazione e di
chiarimento del diritto: obiettivo questo che il Muratori ritiene raggiungibile paralizzando la libertà
di avvocati e giudici. La proposta muratoriana è legata ad una ideologi ancora fortemente
condizionata dalla tradizione, nutrita di teorie solidali con le esigenze dell’assolutismo e non ancora
pronta ad operare il salto verso l’operazione codificatoria vera e propria. Ciò che preme al giurista
non è il superamento del diritto comune ma il semplice risanamento del diritto comune vigente.
Il merito del giurista di Vignola sta dunque nell’aver tentato di sensibilizzare l’opinione
pubblica sui limiti del diritto vigente senza, tuttavia, spingersi oltre i limiti appena indicati.
É significativo che contro il Muratori non si registrino solo le prevedibili ire dei pratici, ma
anche le reazioni di giuristi del calibro di Francesco Rapolla, giureconsulto di spessore, autore di un
pregevole commentario sul diritto napoletano. Da Napoli il Muratori ricevette la critica di Rapolla,
che dedicò al suo antagonista la sua difesa della giurisprudenza (1744). Nel trattato si svolge una
critica dell’opera muratoriana. Il Rapolla è un conservatore per scetticismo, come lo definisce il
Pecorella, che, pur concordando con il Muratore sui mali del sistema, non ne condivide la fiducia
nei rimedi destinati a privare i giuristi della loro libertà e, dunque, del loro stesso ruolo.
La polemica tra Muratori e Rapolla è dunque significativa dello scontro tra chi si fa
promotore della moderata innovazione e chi, pur essendo conscio della necessità del rinnovamento,
si mostra ancor convinto della essenzialità del ruolo svolto dal giurista di antico regime, della
necessità delle sue acrobazie essenziali per mantenere in vita il sistema. Privato della sua libertà e
della sua capacità interpretativa il giurista si troverebbe in balìa di un diritto nel contempo morto ma
incontrollabile.
In conclusione può certamente dirsi che l’opera del Muratori sia la genuina testimonianza di
un atteggiamento antigiurisprudenziale e antiforense tipico di certi settori dell’opinione pubblica,
degli ambienti di governo, della stessa cultura giuridica che attraverso di esso manifesta
l’insofferenza nei confronti di un diritto incerto, confuso, disordinato e incoerente. La rilevanza del
pensiero di Muratori si giustifica perché in esso si convogliano tutti i motivi culturali della polemica
cinque-settecentesca contro il diritto giustinianeo e la giurisprudenza di matrice romanistica. Il suo
trattato dei difetti della giurisprudenza rappresenta, insomma, una massiccia opera concettuale di
idee ispiratrici dei vari tentativi di riordinamento del diritto.
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In altri termini, le teorie del Muratori, pur non essendo di tipo codificatorio, sono
preparatorie della codificazione e si inseriscono nella tradizione culturale che in Europa
preannuncia la codificazione.
É da chiarire che nella cultura del settecento, un’abbondante pubblicistica prese a criticare la
figura del giurista additato quale principale nemico dell’ordine giuridico. Giudici e avvocati sono
indicati quali responsabili per eccellenza dell’incertezza e dei guai del diritto, del quale sono
padroni facendone uso come strumento dipotere e di oppressione. In questo quadro, in cui domina
l’arbitrio e lo strapotere degli uomini di toga, l’uomo comune appare come vittima inerme di un
gioco rispetto al quale egli è destinato a restare estraneo.
Si tratta di una visione che, per più versi, non può non apparire semplicistica: l’arbitrio di
cui erano detentori gli operatori giuridici d’antico regime era uno strumento essenziale per garantire
ad un diritto, dai contenuti incerti e sfumati, di poter essere applicato. Senza l’esercizio di quella
attività, interpretativa e creativa, l’ordinamento giuridico avrebbe cessato di svolgere la propria
funzione con drastiche ricadute sull’assetto sociale e politico. Il male contro cui gli intellettuali
tentavano inutilmente di scontrarsi non consisteva nella attività dei giuristi, bensì le finalità del loro
intervento dovevano essere orientate alla ricerca di un nuovo diritto. Allorquando questo divenne
chiaro alle menti più lucide, e fu sostenuto da una volontà politica forte, si realizzò la svolta che
segnò l’avvento dei codici. Non più, dunque, mero riordinamento del diritto esistente, né camicia di
forza per giuristi e avvocati, ma nuova legge per nuovi sudditi, capaci di imporsi quali protagonisti
di una nuova stagione.
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