Prefazione - Oltre le discipline - Metodi biografici per la ricerca sociale

PREFAZIONE
Oltre le discipline
Pratiche e significati del fare ricerca con le vite umane
Laura Formenti1
Non si può sapere se delle istruzioni sono ben fatte se non mettendole in
pratica
Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, 1981, p. 162
Introdurre al pubblico italiano il manuale di Barbara Merrill e
Linden West sulla ricerca biografica è, oltre che un piacere, un’occasione per riflettere. Quali sono le peculiarità della ricerca biografica, nel più ampio panorama della ricerca qualitativa? Che cosa
chiediamo a un manuale sui metodi biografici? Se ho curato questa
traduzione, è innanzitutto perché penso che un buon manuale dovrebbe essere scritto proprio come questo, all’insegna di una composizione pensosa tra pratica e teoria, tra il racconto delle azioni
concrete che costituiscono la ricerca e un’interrogazione serrata
sul senso dell’impresa di conoscenza, per il ricercatore e per la
sua comunità di appartenenza. La ricerca è infatti una pratica di
conoscenza umana, iscritta dentro contesti e istituzioni, basata su
procedure condivise che richiedono un notevole savoir faire, ma è
soprattutto un’impresa al servizio di una migliore comprensione
dei fenomeni. E, forse, di un mondo migliore.
La ricerca – come sottolineano più volte gli autori del libro – è
in sé un processo di apprendimento: il ricercatore cerca di imparare, a partire da domande più o meno urgenti, per offrire alla gente del suo tempo saperi che possano sostenere uno sviluppo delle
conoscenze complessive nel suo campo specifico. Il ricercatore è
anche un soggetto che inevitabilmente si interroga sulla propria
identità professionale, in continua trasformazione. Un’identità che
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Professore di Pedagogia Generale e Sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca.
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vede oggi i giovani ricercatori agire in un mondo in rapida evoluzione, intriso di contraddizioni e difficoltà, nel quale la riflessività
diventa competenza necessaria alla vita.
Ho curato questa traduzione perché i metodi biografici hanno
ancora bisogno di legittimazione nelle nostre università. Nonostante la “svolta biografica”, c’è chi nutre ancora qualche sospetto
e gli stessi ricercatori faticano a consolidare e legittimare il proprio
lavoro. I metodi biografici richiedono (come tutti) competenza tecnica e formazione, ma più di altri metodi ci chiamano ad andare
oltre la tecnica, la padronanza dei passaggi procedurali, per sviluppare competenze umane: creatività, immaginazione, apertura,
flessibilità, capacità di introspezione e dialogo, analisi del contesto, selezione e sintesi, scrittura, posizionamento etico. Ci invitano dunque a sviluppare riflessività, anche sulla rilevanza sociale e
applicativa del ricercare: per chi e per cosa ricerco? Al servizio di
quali poteri? Se per imparare le procedure può bastare un buon
addestramento, muoversi nel processo di ricerca biografica, dalle
fasi iniziali fino alla pubblicazione dei risultati, è un apprendistato
impegnativo per gli studenti e i giovani ricercatori, oltre che per i
relatori di tesi e supervisori di dottorato. Bisogna sfatare il mito
che si fa ricerca qualitativa “perché è più facile”. In realtà è più difficile, se si vuole farla bene. Sicuramente è più dispendioso e meno
riconosciuto; in alcune discipline i ricercatori biografici possono
sentirsi marginalizzati, come e più dei soggetti con i quali fanno
ricerca! Il lato positivo è che i lunghi tempi di realizzazione delle
ricerche sono (anche) tempi di apprendimento e di trasformazione: la ricerca biografica prende forma nel suo farsi, spesso cambia
direzione durante il suo procedere, perché lo sviluppo di senso accompagna tutto il suo svolgimento.
Merrill e West attribuiscono a queste ricerche la funzione di
costruire teorie “dal basso”, cioè coinvolgendo i diretti interessati,
gli insiders, per esplorare con loro il senso di fenomeni nuovi o poco
conosciuti, cercando le spiegazioni nei particolari e nei dettagli delle
vite umane, più che nelle teorie astratte. Una funzione preziosa sul
piano sociale è quella di “dare voce” a chi fatica a farsi udire (Formenti, 2006). La ricerca biografica consente di capire le questioni
dal punto di vista di chi le vive, dalle sue vive parole. Questo non
significa esaurire tutto ciò che c’è da sapere. Esiste una problematicità del biografico, come “dato”, e il libro lo mette bene in evidenza.
I metodi qualitativi sono straordinariamente ricchi e variegati, e il
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biografico viene spesso coniugato ad altri tipi di informazioni: osservative, discorsive, iconografiche... oltre che al quantitativo, non
più in posizione di sudditanza, ma in una vera sinergia.
Il testo contiene diversi inviti, impliciti ed espliciti, alla trasformazione di pratiche abituali, posture e pregiudizi di chi fa
ricerca. Provo, in queste poche pagine, a cogliere qualcuno di
questi inviti, in base a ciò che mi sembra più urgente nella situazione italiana, dal punto di vista di chi, come me, si occupa di
formazione. Il primo invito è quello all’interdisciplinarità, che
implica la capacità dei ricercatori di fare rete intorno a domande e oggetti trasversali, attraversando i confini tra le discipline.
Questo testo evoca soprattutto ricerche che studiano i processi educativi e formativi in età adulta; ma modalità analoghe di
lavoro possono essere utilizzate per mettere a fuoco altri temi
di ricerca, relativi per esempio alla salute, all’immigrazione, al
lavoro, e così via.
Il secondo invito richiama alla necessità di mostrare la ricchezza della ricerca biografica e autobiografica nel panorama italiano,
dove sta vivendo un momento molto felice e produttivo, anche a
integrazione degli esempi del libro, scritto da autori britannici.
Infine, voglio cogliere l’invito del libro a (ri)pensare la formazione dei giovani ricercatori, che richiede da un lato buone “ricette”, dall’altro un posizionamento più consapevole nei confronti
di un sapere (e di una modalità di costruzione del sapere) che sia
“soddisfacente”: sul piano pratico, teorico, cognitivo, estetico, etico, personale e sociale (Munari, 1993).
Fare rete, oltre i confini geografici e disciplinari
Conosco Barbara Merrill e Linden West da 20 anni nell’ambito
della rete europea “Life History and Biography in Adult Education” della European Society for Research in the Education of
Adults (ESREA, www.esrea.com), rete che insieme a Linden West
coordino e che ha dato vita negli anni a diversi testi collettivi
sui metodi biografici (tra gli altri Alheit, Bron, Brugger e Dominicé,1995; Josso, 2000; Formenti, 2006; West, Merrill, Alheit,
Bron e Siig Andersen, 2007; Monteagudo, 2008), ma fino a oggi
nessun manuale. Questa comunità di ricercatori, fondata nel 1993
da Peter Alheit e Pierre Dominicé (un sociologo e uno studioso di
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scienze dell’educazione), è composta da persone di diversa provenienza geografica, culturale, disciplinare e con riferimenti teorici e
paradigmatici molto eterogenei. In questa grande diversità, ci sono
però due punti fermi:
a) L’interesse per le storie di vita e il biografico in senso lato,
cioè per il racconto individuale dell’esperienza vissuta, “dall’interno” di situazioni e contesti “educativi” e cioè in un ampio ventaglio di situazioni. L’educativo infatti oggi è lifelong e lifewide,
tocca tutti i campi dell’esistenza umana, non solo la formazione
istituzionalizzata e l’apprendimento formale. Basiamo dunque la
nostra comprensione dei fenomeni educativi sul riconoscimento
degli attori sociali, immersi nelle situazioni che vogliamo studiare
e comprendere, portatori di punti di vista che riteniamo essere cruciali per costruire teorie sensate e aderenti alla realtà. Come questo
si traduca in pratica (e in teoria) dipende naturalmente dalle opzioni non solo metodologiche, ma teorico-paradigmatiche, epistemologiche, etico-politiche dei singoli ricercatori o gruppi di ricerca
rappresentati dentro la rete.
b) La scelta (difficile e controversa) di costruire questa comunità internazionale su basi collaborative e inclusive, che significa
riconoscere le dinamiche di potere tra gruppi di ricerca e tra ricercatori, provando a trasformarle in occasioni per una riflessione
condivisa sulla ricerca stessa. Significa anche provare ad attenuare
i fenomeni di marginalizzazione che sono in atto in alcune parti
del mondo accademico, relativi a tematiche o a metodi, o anche a
specifici gruppi culturali. Fenomeni nei quali giocano diversi fattori, tra cui la dominanza linguistica dell’inglese sulle altre lingue
europee e la colonizzazione culturale che ne deriva, la divisione
gerarchica tra paradigmi più e meno accreditati (anche all’interno
della famiglia biografica, si veda West, 2011), tra ricerca di mainstream e ricerca di nicchia, e non ultima la difficoltà dei giovani
ricercatori ad avere voce nelle situazioni ufficiali, come conferenze
e pubblicazioni. Una scelta difficile e controversa, come scrivevo
sopra, non solo perché tocca ovvie questioni di potere ed egemonia
culturale, ma perché la competizione è in fondo un valore nella
ricerca, se intesa come dialettica spassionata tra posizioni e letture
diverse. Il nostro rifiuto va a quel tipo di competizione che porta al
dominio di una prospettiva o di una cultura della ricerca su altre,
secondo una logica che segue le regole del mercato e non l’avanzamento delle conoscenze.
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Fare rete significa anche mettere in pratica l’interdisciplinarità.
Il campo delle scienze sociali e umane è intrinsecamente interdisciplinare. Non è possibile comprendere, per esempio, i fenomeni
legati all’apprendimento di identità, le condizioni che li rendono
possibili, il rapporto tra l’evoluzione del singolo e le mutazioni
istituzionali, storiche e sociali, se non facendo dialogare sguardi
diversi. Nel libro si parla di livelli macro e micro, ma sostengo
che ci vuole anche uno sguardo specifico sul mesosistema (soprattutto quando la cornice è pedagogica, si veda per esempio Formenti, 2011). Oltre ai saperi e alle teorie della sociologia e della
psicologia, della storia orale e dell’antropologia, citate nel libro,
per rispondere a una reale interdisciplinarità nelle vite umane dovremmo chiamare in causa un ventaglio molto ampio di saperi:
filosofici, pedagogici, linguistici, organizzativi e così via, fino alla
letteratura e alle arti.
Bisogna ammettere che il dialogo tra discipline non è facile.
Partecipo da 14 anni all’avventura del Dipartimento di Scienze
Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, nato dal progetto visionario di un filosofo dell’educazione,
Riccardo Massa, che volle raccogliere un gruppo interdisciplinare
di studiosi per lavorare intorno ai temi della formazione umana.
Massa era un filosofo che non disdegnava la ricerca empirica. Nel
nome del dipartimento (che originariamente era “Epistemologia
ed Ermeneutica della Formazione”) traspariva il suo amore per
la buona teoria: critica e riflessiva, complessa e, appunto, interdisciplinare. La ricerca empirica non può essere ridotta a vuoto
tecnicismo: il dato non parla da sé e il ricercatore non è un tecnico
che raccoglie dati. Così nacque un dipartimento (credo unico nel
panorama italiano) nel quale antropologi, filosofi, letterati, linguisti, pedagogisti, psicologi, storici, geografi (e persino matematici,
biologi e fisici) avrebbero potuto lavorare fianco a fianco sugli stessi problemi. Le occasioni reali di dialogo, in un dipartimento, sono
tuttavia poche, riducendosi alle sessioni di laurea e a qualche evento della Scuola di Dottorato (altro strumento di interdisciplinarità
preziosissimo).
Fare rete significa invece creare le occasioni per lavorare insieme su progetti concreti. Quali ostacoli impediscono oggi la collaborazione fattiva tra studiosi di discipline diverse, nonostante l’interdisciplinarità sia una necessità riconosciuta da molti? C’è una
sostanziale mancanza di abitudine a stare nell’inevitabile conflitto
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tra sguardi e punti di vista. Quando persone o gruppi esprimono
idee diverse rispetto a ciò che è “scienza”, la soluzione più ovvia e
razionale, cioè interrogare le cornici nel rispetto e riconoscimento reciproco (Sclavi, 2003), non è quella più praticata, per vari
motivi. Innanzitutto, sul piano filosofico ed epistemologico, molti
aderiscono ancora all’idea di un’unica verità e dunque all’esistenza
di una procedura (la propria) migliore di tutte le altre. Si fa fatica
a riconoscere la parzialità di ogni umano tentativo per dare senso
alla complessità. La superstizione scientista è ancora molto diffusa
e una delle sue ragioni è la mancanza di una formazione critica dei
ricercatori.
Secondariamente, potremmo convenire che la ragione più cogente per non fare rete, o per usare le reti talvolta in modi strumentali e manipolatori, ha più prosaicamente a che fare con il potere. Il
discorso dominante in ambito scientifico, di marca neopositivista,
ottiene oggi una superiorità insindacabile a livello di finanziamenti e sostegni istituzionali, a scapito della varietà e della creatività
dei percorsi di conoscenza. Il controllo del “mercato del sapere”
finisce così in poche mani, che tendono a conservare la propria
egemonia. Molti governi ed enti finanziatori (oltre ai media) hanno privilegiato la ricerca quantitativa, le survey, i dati statistici, più
facili da usare per sostenere questa o quella scelta. Il dato qualitativo invece richiede un pensiero, si espone al dibattito, alla dialettica
interpretativa, appare più incerto. Scrivo “appare” perché nessun
metodologo serio sosterrebbe che il dato statistico è neutro e scevro da interpretazioni. Anche nel lavoro quantitativo ci sono scelte
da fare “a monte”, che possono determinare i risultati in una certa
misura, e il ricercatore deve “sporcarsi le mani” almeno in due occasioni: la raccolta concreta dei dati e la loro interpretazione. Non
si tratta dunque di stabilire la superiorità di un metodo su un altro,
ma di comprendere che esiste una relazione virtuosa tra (certi) tipi
di domande e (certi) tipi di metodi, oltre che una possibile sinergia
tra il qualitativo e il quantitativo.
La terza ragione della difficoltà di fare rete e di avviare una
vera interdisciplinarità è legata all’evoluzione storica delle discipline e alle condizioni attuali del lavoro di ricerca. Se all’inizio del
Novecento, e per qualche decennio, sociologi e psicologi poterono
lavorare insieme nella Scuola di Chicago, considerata la culla dei
metodi biografici, oggi diventa quasi impossibile perfino conoscere
a fondo il lavoro di altri appartenenti allo stesso ambito disciplina-
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re. Paga di più, in termini di carriera, coltivare le proprie conoscenze e pubblicazioni in un contesto ristretto, iper-specializzato. Questo però crea almeno due problemi: il “riduzionismo disciplinare”,
come effetto di un monologo nel quale ci si confronta più spesso
con chi già condivide premesse e metodi, che non con sguardi autenticamente spiazzanti, e l’“idolatria metodologica” di chi assegna un’enorme importanza alle tecniche, de-responsabilizzando i
ricercatori. Il metodo diventa così unico e inattaccabile.
Ora, questo testo ci ricorda che i problemi sui quali facciamo
ricerca sono complessi. Spesso così complessi che l’unica possibilità praticabile è scegliere un ambito d’indagine molto preciso; ma
nel fare un piccolo “carotaggio biografico della realtà” dovremmo
ricordarci che c’è un livello micro, nel quale i soggetti coinvolti
costruiscono le loro narrazioni e teorie di quello che accade (e anche il ricercatore, in questo senso, è un soggetto); e c’è un livello
macro, nel quale sono all’opera i fattori strutturanti, come le appartenenze di classe, di genere, di etnia, i processi sociali, organizzativi, culturali, che influenzano e determinano il campo delle
possibilità. Processi nei quali i soggetti sono implicati anche al di
là della loro consapevolezza. Poi c’è il livello meso, già evocato,
cioè il piano delle interazioni concrete dentro scenari e ambienti
di apprendimento, come la scuola, la famiglia, il luogo di lavoro,
la città... Per dare senso alla complessità della vita, i tre piani (e le
loro interazioni) devono essere interrelati.
Dalla sua fondazione, la rete “Life History and Biography in
Adult Education” ha proposto ogni anno una conferenza nella quale vengono interpellate sullo stesso tema la dimensione soggettiva
e quelle strutturali. Quelli di noi che si sono formati allo sguardo
sociologico (come Barbara Merrill) fanno ricerca sul manifestarsi
delle tradizionali variabili sociologiche (genere, etnia, classe...) nei
racconti dei singoli. Chi per formazione è più interessato all’interpretazione soggettiva (come Linden West) non può prescindere dal
fatto che i soggetti sono solo in parte attori e decisori della propria
vita. La complessità della vita psichica rende indispensabile comprendere il rapporto tra la narrazione di sé e i processi inconsci,
gli aspetti relazionali, il contesto più ampio. Sulla base di questo
riconoscimento, può iniziare un dialogo tra ricercatori.
“Il problema è che la gente ha la tendenza a schierarsi […] Nessuno si sogna di vedere la realtà in un modo diverso dal proprio”
(Pirsig, 1981, p. 77). L’invito a fare rete implica dunque l’impegno
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a un cambiamento di postura, a un confronto reale che sappiamo essere difficile, alla costruzione di nuovi spazi per il dibattito
interdisciplinare, dove le dinamiche collaborative e inclusive prevalgano sulla competizione e la lotta per il dominio (tra saperi e
idee, oltre che tra persone e gruppi). Nel fare rete, dobbiamo anche
ricordare che il quadro complessivo della ricerca sta cambiando:
negli ultimi anni si è sviluppata un’attenzione specifica per l’applicazione dei metodi qualitativi in settori diversi da quelli prettamente accademici. La realizzazione delle politiche sociali, così
come la produzione di beni e servizi adeguati ai nostri tempi mutevoli e cangianti, richiedono infatti sempre di più buone ricerche
qualitative, per esempio nella progettazione dei Piani di Zona, nella valutazione dei servizi, e anche nella riflessione sui loro costi e
benefici, che coinvolge in primo luogo gli stakeholder. Ricerche che
sappiano dare indicazioni concrete su come integrare l’esperienza
di vita quotidiana, e i significati che questa sviluppa, con un’analisi
delle relazioni tra utenti e servizi e con i processi di partecipazione
sociale e di cittadinanza. Un vasto ambito di indagine, nel quale la
ricerca biografica può portare contributi importanti.
Peculiarità della ricerca biografica in Italia:
un’esplorazione trasversale
Confesso di aver subito rinunciato a una fedele ricostruzione interdisciplinare della ricerca biografica e autobiografica in Italia.
Non solo perché sarebbe un’opera titanica, ben oltre gli scopi
di questa introduzione (e le mie competenze)2, ma perché vorrei
mettere in discussione il concetto stesso di interdisciplinarità, che
paradossalmente ratifica l’esistenza delle discipline nel momento
stesso in cui propone di superarle. Il mondo della vita, del quale ci
occupiamo con le nostre ricerche, non è fatto di discipline. Nella
vita quotidiana non ci sono la sociologia, la psicologia, la pedagogia. O l’arte. C’è semmai l’esperienza, personale e interpersonale,
e poi gli sguardi che posiamo su di essa, per darle senso. I soggetti
hanno sguardi, così come i ricercatori. Anche le discipline sono, in
origine, sguardi. Vorrei considerarle non come campi ben delineati,
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La bibliografia italiana aggiunta in coda al testo prova a restituire questa ricchezza, probabilmente con qualche mancanza di cui mi scuso.
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preesistenti alla ricerca e circondati di alte mura, ma prospettive
per leggere le storie e rispondere a certe domande. Così, la può
ricerca può (tornare a) occuparsi di problemi, di fenomeni, perdendo almeno un poco la sua autoreferenzialità. Mettendo al centro le
storie di vita di uomini e donne in carne e ossa, i problemi concreti
che li riguardano e i loro modi di definirli e affrontarli, scopriamo
che ogni sguardo disciplinare ci offre una parziale verità.
È così che, da studiosa di problemi educativi, non posso non
confrontarmi con lo sguardo qualitativo che alcuni sociologi italiani portano sulla vita sociale e quotidiana. Negli ultimi anni è
aumentato l’interesse per il qualitativo in sociologia, con la traduzione di manuali (Silverman, 2002, 2008; Richards e Morse, 2007)
e una crescita esponenziale di lavori di giovani ricercatori.3 Dopo
vicende alterne (per una ricostruzione cronologica si veda Gobo,
2008), oggi la ricerca etnografica, l’intervista nelle sue diverse forme, gli studi di caso, più recentemente il focus group, e in modo più
specifico il narrativo e il biografico (Bichi 2002, 2007; Jedlowski e
Leccardi, 2003; Poggio, 2004)4 vivono una sorta di Rinascimento,
che li ha svincolati dal riduttivo ruolo ancillare tradizionalmente
assegnato al qualitativo rispetto al quantitativo (Ricolfi, 1997). Il
proprium della ricerca biografica viene particolarmente rispecchiato nei lavori che riflettono sugli aspetti narrativi della vita quotidiana (Jedlowski, 2000) o sui processi di costruzione identitaria
(Carbonaro e Facchini, 1993). Il rapporto tra narrazione di sé e
riflessione fu messo a tema, non a caso, da uno studioso interdisciplinare come Alberto Melucci, sociologo e psicoterapeuta, promotore di una sociologia qualitativa e della soggettività (Melucci,
1998; Melucci, 2001; Chiaretti e Ghisleni, 2011).
Una grande vitalità viene oggi da quei settori della ricerca sociale che affrontano tematiche complesse e domande nuove, urgenti, per le quali la ricerca statistica offre poche possibilità di
3
4
Si veda per esempio il Convegno “Raccontare, ascoltare, comprendere: metodologia e ambiti di applicazione delle narrazioni nelle scienze sociali”, 22-23 settembre
2012, organizzato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università
di Trento con il patrocinio dell’Associazione Italiana di Sociologia e dell’Osservatorio dei Processi Comunicativi. Una selezione dei contributi è pubblicata nel
numero monografico di M@gm@. Rivista On-Line, vol. 10. n. 1, gennaio-aprile
2012, a cura di Barbara Poggio e Orazio Maria Valastro.
Si vedano i lavori legati alla sezione “Vita quotidiana” dell’Associazione Italiana
di Sociologia (Jedlowski e Leccardi, 2003).
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risposta, per esempio le ricerche relative a tempo e memoria (un
filone particolarmente fertile nel panorama italiano), ai rapporti
tra generi e generazioni, al mondo del lavoro e delle organizzazioni, alla salute, all’immigrazione (si veda Poggio, Valastro, 2012).
Mi sembra importante ricordare qui che le storie di vita ebbero in Italia una fase pionieristica proprio in ambito sociologico.
Negli anni ’60 diversi studiosi cominciarono a fare ricerca “dal
basso” interpellando direttamente varie categorie di soggetti, per
lo più marginali e dimenticati. Nelle “Autobiografie della leggera”,
Montaldi (1961) raccolse storie di proletari della Bassa Padana,
cercando di non intervenire nel testo, per dare voce alle persone
intervistate rispettandone il linguaggio. Si potrebbe obiettare alla
correttezza del termine “autobiografia” nel titolo, ma l’operazione
di Montaldi resta importante per il suo valore storico e per la postura del ricercatore, politicamente ed eticamente ingaggiato nella
propria impresa di conoscenza, cifra comune a una generazione di
studiosi. Primo tra tutti, Franco Ferrarotti (con i suoi allievi: Cipriani, Macioti e altri), che non solo si impegnò nella sua ricerca a
dare voce a diverse categorie di soggetti, ma attraverso testi come
Storia e storie di vita (1981) e La storia e il quotidiano (1986) offrì
al metodo un impianto teorico-epistemologico di carattere critico
e riflessivo, in dialogo serrato con il lavoro empirico. Per Ferrarotti, la storia di vita chiama la sociologia a essere una scienza
dell’interconnessione, nella quale la società si mette in ascolto di
sé, nel gioco delle interazioni fra gli attori e le circostanze sociali:
I metodi qualitativi sono in primo luogo mossi da un intento scientifico conoscitivo, ma […] la loro giustificazione ultima riposa essenzialmente [sulla] concezione della scienza come impresa umana,
tendente a risolvere problemi e domande della società, fondata su
un atteggiamento di rispetto e di ascolto verso le persone […] che
non possono essere usate strumentalmente […] senza correre il rischio di “oggettualizzarle”, ossia negarle come persone. (Ferrarotti,
1986, p. 160).
Questo sguardo sulla ricerca biografica è diventato un punto
di riferimento per molti studiosi delle histoires de vie (Bertaux,
Dominicé, Josso, Le Grand, Finger, per citarne solo alcuni), che
considerano Ferrarotti un autore imprescindibile, per la forza con
cui rivendica l’autonomia del metodo biografico e le sue radici teo-
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riche. Ferrarotti è critico e autocritico rispetto all’uso dei materiali
biografici; ritiene che una buona teoria e un approccio radicale siano funzionali alla costruzione del metodo, volto a individuare e interpretare le invarianti strutturali, cioè le “convergenze emergenti
tematicamente nelle storie di vita singole nel quadro dell’orizzonte
storico dato” (1981, p. 11).
Per quanto riguarda la relazione tra intervistatore e intervistato, altro grande tema trasversale della ricerca biografica, Ferrarotti sostiene che i racconti biografici “non sono monologhi davanti
a un osservatore ridotto a supporto umano di un magnetofono.
Ogni intervista biografica è una interazione sociale complessa, un
sistema di ruoli, di aspettative, di ingiunzioni, di norme e di valori
impliciti, spesso anche di sanzioni. Ogni intervista biografica nasconde tensioni, conflitti e gerarchie di potere.” (Ferrarotti, 1981,
p. 44). Se l’intervista biografica è un processo di comunicazione
interpersonale, un evento comunicativo complesso tra due (o più)
soggetti, inserito in un contesto sociale e istituzionale più ampio
(Gianturco, 2007), il ricercatore dovrebbe interrogare le strutture
di potere che inevitabilmente si producono in quella relazione, per
poter riconsegnare ai soggetti un ruolo attivo e un potere di scelta,
per quanto sempre locale e parziale. Una sfida per gli approcci
tradizionali, che tendono invece, coerentemente con il progetto
positivista, a oggettivare i propri soggetti rivendicando distacco e
neutralità ma affermando, nei fatti, il potere del ricercatore come
detentore del sapere.
Fin dagli esordi, la ricerca biografica esprime una tensione intrinsecamente e a volte esplicitamente politica: dando voce ai soggetti più marginali e inascoltati prova a ridurre, almeno in parte,
gli effetti negativi del potere e della violenza simbolica che questi vivono nella loro quotidianità. Per riuscirci, però, è necessario
instaurare una relazione di ascolto attivo, riflessivo e metodico,
volto a creare le condizioni perché l’intervistato si senta libero di
esprimere il proprio modo di sentire e di pensare, dando voce all’esperienza.
Merrill e West citano nel loro libro due storici, il cui sguardo –
riconosciuto in Italia e all’estero – aggiunge una nuova dimensione
alla nostra mappa. Alessandro Portelli (1985, 2005), storico orale
e scrittore, ha lavorato su molti fronti, compresa la raccolta di canzoni popolari e politiche, per celebrare la memoria storica orale
del Paese: nelle memorie dei partigiani, dei familiari dei morti alle
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Fosse Ardeatine, nei racconti delle borgate romane. La sua intensa attività culturale e di divulgazione, volta a mantenere il senso
della memoria e della sua trasmissione tra le generazioni, porta
nel lavoro biografico una peculiare attenzione per la restituzione
delle storie a una platea più ampia, rispetto ai circoli ristretti della
ricerca accademica. L’intervista dello storico non mira a oggettivare e sterilizzare le storie, ma al contrario a celebrarne il significato
personale e collettivo più ampio.
Luisa Passerini (1988a e b, 1991) ha affrontato da storica orale
diversi temi di ricerca – la seconda guerra mondiale, il fascismo, la
Resistenza, la classe operaia, la storia delle donne e la generazione
del ’68 – attuando interviste discorsive con testimoni privilegiati,
che lei poi restituisce con una prosa molto implicata, narrativa,
problematizzante, nella quale si mette gioco come ricercatrice, ma
anche come insider. Una cifra, questa, che è propria della ricerca
femminista e che anche Merrill e West ripropongono. Se c’è uno
sguardo che si pone come trasversale alle discipline e critico nei
confronti della tradizione accademica, è quello della ricerca femminista e degli studi di genere. Il panorama italiano ha visto in
azione, nell’arco di 50 anni, gruppi di ricerca molto eterogenei,
dalla Società italiana delle storiche a Diotima (2003), dai gruppi
di autocoscienza e collettivi femministi ai più recenti studi sulla
differenza e sulle disparità di genere. Ricercatrici come Laura Boella, Simonetta Piccone Stella, Renate Siebert, Carmen Leccardi (ma
come restituire qui la moltitudine di voci coinvolte?) hanno basato
il loro sapere su lunghe interviste narrative, segno non solo di una
sensibilità di genere (esiste una “ricerca al femminile”?) ma anche
di un rinnovamento del pensiero e dei rapporti di produzione del
sapere. Le biografie (preziose testimonianze delle vite al femminile)
e le autobiografie (auto-rappresentazioni di un’intera generazione)
sono state veicoli importanti nel dare voce e visibilità, in centinaia
di ricerche, all’esperienza delle donne. Hanno anche portato in seno
all’accademia un nuovo modo di fare ricerca. Prendendo le distanze dai paradigmi interpretativi tradizionali – gerarchici, astratti e
distaccati – di stampo positivista e patriarcale, queste ricercatrici rivendicano modalità di costruzione del sapere più incarnate e
dialogiche, aderenti all’esperienza vissuta, eppure critiche e interroganti. Il racconto di sé – che non separa ricercatrice e ricercata –
rende conto di quello che succede nella vita quotidiana delle donne
e chiarisce i loro vissuti, evitando di colonizzarne l’esperienza con
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l’imposizione di categorie analitiche a priori, ma anzi elaborando
le categorie stesse a partire dall’esperienza, sociale e condivisa.
Continuando questo gioco degli sguardi, quello psicologico
porta dentro il lavoro biografico diverse focalizzazioni importanti.
La prima riguarda la costruzione dell’identità, che oggi sempre più
viene ricondotta ai processi narrativi; questo ha prodotto un intero
filone di studi in psicologia dello sviluppo (si vedano Smorti, 1997,
2007; Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2007; Confalonieri e Scaratti,
2000) ispirati all’approccio di Bruner (2002). La ricerca narrativa
in psicologia cerca una – a volte faticosa – legittimazione accademica, in un campo dominato dal disegno sperimentale, attraverso forme d’indagine miste quali-quantitative, il campionamento
statistico e una “scientificizzazione” delle procedure (si veda per
esempio Carli e Paniccia, 2002), che vede oggi proliferare i metodi
d’intervista standardizzati (che quindi si allontanano decisamente
dal biografico) e l’analisi strutturata o assistita dal computer. Tuttavia, nella psicologia applicata – sociale e di comunità, clinica,
delle organizzazioni... – il biografico è oggi una via sempre più praticata per dare senso alla complessità dei processi di costruzione
del Sé, consci e inconsci (Capello, 2001; Barbieri, 2007), ai processi di apprendimento e formazione in età adulta (Kaneklin, Scaratti,
1998; Oliverio, 1994; Quaglino, 2004), ai processi trasformativi e
di cura (Veglia, 1999; Bert, 2007) o anche allo studio dei processi
psicosociali di cambiamento, crisi ed evoluzione nei gruppi umani
(famiglie, comunità, organizzazioni, luoghi di vita ecc.). Anche gli
psicoanalisti, superata una certa diffidenza verso l’autobiografico
(dovuta in parte alla critica verso ogni lettura ingenua delle storie
di vita come prodotti di una razionalità tutta consapevole) usano
questi metodi, sebbene guidati da un interesse più clinico che metodologico (Morpurgo, 1998; Starace, 2004). Lo sguardo psicologico consente anche di indagare le condizioni dell’ascolto e di una
narrazione autentica di sé nella relazione di ricerca, tenendo conto
delle tante dimensioni implicate: intrapsichiche e comunicative,
cognitive ed emotive, individuali e sociali.
In questo rapido excursus non posso non citare Ernesto De
Martino: in una ricerca che spazia dall’etnografia all’antropologia
visuale alla storia orale vediamo celebrate le forme espressive autonome sia folkloriche che urbane. Un approccio che permise tra
l’altro di salvare almeno in parte (anche grazie alle attività dell’Istituto De Martino, www.iedm.it), un patrimonio culturale e popo-
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PREFAZIONE
lare destinato a essere spazzato via dalla violenza dei cambiamenti
del Novecento. Fare ricerca biografica significa per me onorare
anche le memorie perdute, nascoste, inascoltate; per esempio quelle dei documenti personali, autobiografie, diari, epistolari, album
di famiglia conservati in luoghi della memoria come l’Archivio
Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, fondato da Saverio
Tutino (www.archiviodiari.it) e altri, a Rovereto, Trento, Genova, e in tanti luoghi (oggi anche in rete). Le fonti memorialistiche offrono a chi le legge nel presente nuove aperture di senso sul
passato. Secondo Pietro Clemente, antropologo contemporaneo,
i luoghi della memoria sono un baluardo alla sempre più diffusa
spettacolarizzazione del racconto di vita. La cura della memoria è
un’urgenza impellente nel nostro Paese:
Non abbiamo ancora compiuto come comunità nazionale quel mandato che negli anni ’50 e ’60 ci aveva lasciato l’eredità della resistenza
e del neorealismo, e che De Martino interpretò come ‘vogliono entrare nella storia’, gli uomini dimenticati del Sud e dei nuovi sud, le donne, la gente della vita quotidiana. Non è stato compiuto il mandato di
dare la voce alla gente, anzi esso è stato oggetto di violenza mediatica
[...] [prendono] quelle testimonianze fatte davanti alla morte, e le trasformano in spettacoli fatti davanti ai consumatori di tempo libero.
La parola narrata ha una dimensione sacra. (Clemente, 2010)
Dalla funzione collettiva della memoria al valore formativo
delle biografie, il passo è breve. Mi occupo di storie nella ricerca
educativa, in particolare nell’educazione degli adulti, nei processi
intergenerazionali e famigliari, nella formazione degli operatori.
Lo sguardo pedagogico sulle storie di vita nasce da una banale
constatazione: se c’è qualcosa che caratterizza il soggetto adulto
è l’avere esperienza del vivere, è la sua capacità di guardare indietro, di rivedere e risignificare il proprio percorso di formazione,
di apprendere in modo riflessivo da esso. Usando la sua storia per
fare scelte, per muoversi strategicamente nel mondo. La biografia
e l’autobiografia si sono sviluppate come metodi di conoscenza e
cura di sé (Demetrio, 1996), come strumenti di formazione (Formenti, 1998) e anche come metodi di ricerca (Demetrio, Alberici,
2002; Formenti, 2002; Gamelli, 2003). Le storie “dal basso” consentono di esplorare ambiti nuovi e complessi della formazione
umana, come l’esperienza del rientro in formazione per adulti di-
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OLTRE LE DISCIPLINE
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soccupati, o l’apprendimento della lingua italiana come occasione
di integrazione sociale per le donne straniere, o ancora le strategie
di adattamento e di apprendimento degli studenti non-tradizionali
– maturi, stranieri, disabili, first generation – in università. Studi
narrativi e biografici hanno riguardato diversi campi d’esperienza
e dunque di auto/formazione, dalla disabilità (Giusti 1999), all’orientamento (Batini, Zaccaria, 2000), alla vulnerabilità famigliare
(Formenti, West, 2010), alla trasmissione dell’identità di genere tra
le generazioni (Formenti, 2002).
Queste ricerche centrate sulle storie di vita possono favorire nei soggetti partecipanti prese di coscienza e la costruzione di
nuovi saperi e progetti, sia sul piano individuale che collettivo, in
particolare nelle ricerche di carattere partecipativo e collaborativo
(ricerca-azione, ricerca-formazione). Questo crea una sovrapposizione tra le finalità di ricerca e le finalità proprie della formazione
e/o dell’intervento. L’approccio biografico si presta particolarmente bene, in quest’ ottica, a esplorare i processi di attivazione di
nuovi copioni dentro contesti sociali come la famiglia, la scuola,
l’ospedale, i servizi. Questi ricercatori fanno riferimento a sfondi teorico-paradigmatici diversi, dalla fenomenologia (Iori, 2006;
Mortari, 2006, 2007; Sità, 2012), all’approccio sistemico costruttivista (Formenti, 2002), alla psicopedagogia (Milani e Pegoraro,
2011), alla clinica della formazione (Riva, 2000), alla medicina
narrativa (Zannini, 2003, 2008), agli studi di genere (Mapelli
2007). Ogni teoria o paradigma porta a declinare il metodo in
modi peculiari. A questo si aggiunga che non si tratta di ambiti
di ricerca esclusivi di una disciplina o professione. Sociologi, psicologi e pedagogisti (ma anche altri, senza contare i professionisti
coinvolti) attraversano sempre più spesso gli stessi territori e problemi, ascoltando storie molto simili. Quello che fa la differenza è
la diversità di sguardo, appunto, e quindi di approccio, di analisi
e di lettura delle storie. In questa diversità, ciò che ci salva è la
capacità di riconoscere gli sguardi, riflettere e trovare una composizione soddisfacente.
Per concludere questa parziale mappatura5 vorrei citare due
fonti per me significative.
5
Tra i tanti sguardi rimasti inesplorati c’è quello filosofico di autori come Cavarero,
Rella, Rigotti, Sini, Màdera, Natoli, che considero guide concettuali importantissime nella mia ricerca.
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PREFAZIONE
La prima fa parte della “storia” del metodo biografico in Italia:
la rivista Adultità, 28 numeri pubblicati tra il 1995 e il 2008, di
cui almeno 3 sui metodi biografici e tanti articoli sparsi. L’operazione fu interessante proprio sul piano dell’interdisciplinarità: la
rivista, fondata da Duccio Demetrio metteva a fuoco temi e problemi della vita adulta, visti da prospettive diverse, valorizzando la
comprensione dei vissuti che i soggetti adulti, uomini e donne, portano negli ambiti della vita quotidiana, senza dimenticare le grandi
domande esistenziali: morte, amore, gioco, spiritualità, politica e
così via. Il connubio tra teoria e pratica, tra articoli filosofici e di
ricerca, era un’operazione coraggiosa, in un momento in cui ogni
disciplina cercava di definire il proprio settore in modo espulsivo
ed escludente.
Appartiene a un presente molto vitale, invece, la rivista online
M@gm@, fondata da Orazio Maria Valastro (www.magma.analisiqualitativa.com) che dal 2002 ha dedicato diversi numeri monografici e articoli di autori italiani e stranieri ai metodi biografici e
narrativi (si veda anche Valastro, 2009, 2012).
Un luogo virtuale nel quale trovare nuovi sguardi e possibilità
di composizione inter-intra-trans-disciplinare.
Insegnare la ricerca:
dalle tecniche al pensiero critico e (auto)riflessivo
Come si impara a fare ricerca? Può un manuale costituire uno strumento di formazione alla ricerca biografica? La scelta di tradurre
questo libro nasce da una constatazione: i metodi biografici sono
spesso considerati troppo scontati. Fino a oggi nessun testo ha affrontato in modo così completo e specifico la ricerca biografica,
all’interno della famiglia allargata dei metodi qualitativi e narrativi. Il metodo biografico è un processo; l’approccio dominante nei
manuali metodologici è di tipo classificatorio. Per esempio, l’intervista viene suddivisa in tipi, per ogni tipo si elencano le caratteristiche e le funzioni. Ti dico “che cosa è”, ma non “come si fa” (tranne
qualche eccezione).
Merrill e West non dicono nemmeno “come si fa”, ma “come
faccio io”, anche mostrando le loro reciproche differenze. Sul
piano epistemologico è una scelta importante: c’è qui il riconoscimento, dichiarato ma anche agito, dell’impossibilità di fissare
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OLTRE LE DISCIPLINE
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una procedura corretta a priori, riducendo il metodo a una “tecnica”.
Un altro aspetto cruciale è l’uso della prima persona. Merrill
e West parlano continuamente di sé. Troppi ricercatori si pensano
come esecutori di procedure, la cui verità e correttezza giustifica
a priori le scelte metodologiche. Qui viene proposto un percorso
inverso, che responsabilizza in primo luogo il ricercatore, il suo
essere uomo o donna, di origine proletaria o borghese, nato e
vissuto in una certa parte del mondo, appassionato proprio di
“quel tema” e domanda di ricerca, ricondotto alla sua stessa biografia. Il ricercatore ha una storia, che è in grado di ripercorrere
e sulla quale riflette criticamente. È portatore di cornici che deve
interrogare, specialmente quando i soggetti dei quali sta indagando la vita portano altre cornici, altre esperienze. La ricerche sui
marginali, sui migranti, sui rom, sulle nuove forme di vulnerabilità sociale, richiedono una messa in gioco totale del ricercatore,
pena la caduta nella mistificazione. Pongono problemi metodologici importanti, dalla scelta della domanda alla conduzione delle
interviste, dall’analisi dei materiali alle ricadute dei risultati sulle
popolazioni e organizzazioni coinvolte. Problemi che sconfinano
più volte nella dimensione etica, come Merrill e West mettono
bene in evidenza.
La scelta del metodo biografico, se nasce da un interesse sincero per le vite altrui, “fa esplodere le contraddizioni” del ricercatore. Seguo come supervisore tante tesi di laurea e di dottorato,
nelle quali questi metodi sono usati per studiare gli apprendimenti
e le strategie di adulti alle prese con i mondi sociali e istituzionali:
genitori in ospedale o in carcere, studenti all’università, operatori
nei servizi, e così via. Ogni volta, la prima domanda che faccio alla
studentessa o studente che ho davanti è “perché proprio questo
tema”? Se per esempio l’indagine riguarda l’organizzazione e la
gestione dei corsi pre-parto nei servizi sanitari, è utile esplorare
la propria storia: il racconto di nascita, le cure ricevute (e non),
le mamme incontrate (non solo la propria), le coppie conosciute,
con figli e senza, le letture (ma anche film, telefilm, romanzi), gli
incidenti critici e gli eventi che hanno plasmato nel ricercatore il
senso di “cosa significa diventare genitori”. Queste esperienze costituiscono la base sulla quale vengono formulate le domande di
ricerca, scelto il campione, condotte le interviste e l’analisi, tratte
conclusioni.
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PREFAZIONE
Certo, si può procedere in modo del tutto diverso e usare una
metodologia già costruita. È possibile aderire a un progetto di ricerca senza chiedersi quali sono le sue implicazioni in termini di
conoscenza, per non parlare di quelle etiche. Diventare ricercatori
non è un processo neutrale. Richiede una messa in gioco. Il manuale insiste molto sulla soggettività degli autori (tra l’altro è proprio
felice che siano un uomo e una donna, e così diversi), ma non
cede ad alcuna lusinga narcisista. L’obiettivo è un altro: si tratta di
proporre una postura di ricerca come postura di apprendimento,
riconoscendo che sarà in buona parte determinata dagli habitus
della propria disciplina e comunità di appartenenza, oltre che dallo stile e potere d’azione (relativo) proprio di un soggetto che, nel
caso degli studenti e dottorandi, è in cerca della propria (incerta)
professionalità.
Mantenere un curioso distacco e una riflessiva umiltà aiuta
a pensare in modo originale e creativo, e potrebbe essere (me lo
auguro) un apprendimento strategico per avere in futuro delle
comunità in ricerca più aperte, collaborative e intra-inter-metatransdisciplinari.
Un grazie molto sentito per i preziosi consigli e commenti va a
Angelo Benozzo, Monica Colombo, Andrea Galimberti, Laura Galuppo, Giampietro Gobo, Paolo Jedlowski.
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