Stimolo agli investimenti, ridistribuzione e riforme istituzionali

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1 Prof. Dr. Alexander Grasse Università di Giessen Paper presentato in occasione della conferenza „Va bene?! Le relazioni italo-­‐tedesche al banco di prova“, Berlino, 01.-­‐02.12.2011 (versione aggiornata al 20-­‐12-­‐2011) Stimolo agli investimenti, ridistribuzione e riforme istituzionali Analisi e tesi sulla „Postdemocrazia“ sullo sfondo della crisi finanziaria italiana La tesi di Colin Crouch sullo smisurato potere delle élites economiche risulta più che evidente alla luce della crisi di (ri)finanziamento italiana. Ben cosciente dell’esagerazione Crouch definisce „postdemocrazia“ una collettività in cui, pur tenendovisi elezioni, i cittadini svolgono tuttavia un ruolo secondario e in cui, all’ombra di una messa in scena, la politica reale viene fatta da élites, le quali rappresentano perlopiù gli interessi dell’economia (Crouch 2008: 10). Prendendo lo spunto da questa riflessione, al posto di postdemocrazia si potrebbe parlare nel frattempo anche di „democrazia della Borsa“, appoggiandosi alla tesi di Massimo Giannini, il quale in un articolo di fondo de La Repubblica del 17.11.2011 in occasione del giuramento del governo Monti ha parlato di una „democrazia dello spread“, cioè a dire di una „democrazia“ spinta dai differenziali dei tassi, più precisamente dalle differenze nell’aumento del premio per il rischio per il prestito pubblico di differenti stati, in maniera corrispondente alla differenza dei rendimenti. Ciò conduce a un punto tale per cui non solo vengono imposti dei cambiamenti di governo, ma vengono anche dettati i tempi della formazione di un governo stesso (in questo caso: due giorni e mezzo). Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è visto addirittura costretto a insistere affinché la formazione del governo venisse portata a termine prima della riapertura delle Borse all’inizio della settimana. E come se non bastasse: viene imposto un governo dal quale sono esclusi politici di professione; ciò differenzia in maniera sostanziale il governo Monti dai governi Ciampi nel 1993 e Dini nel 1995, dei quali facevano parte anche politici di professione e che garantivano così un legame immediato fra le frazioni parlamentari e il governo. Sebbene i fatti parlino una lingua affatto diversa e la situazione economica dell’Italia sia di gran lunga meno drammatica di quanto attualmente affermato pubblicamente, ovvero di quanto venga espresso nelle reazioni dei mercati, l’Italia si trova sottoposta a un’enorme pressione. Certo, sotto molti aspetti gli anni berlusconiani sono stati per l’Italia degli anni sprecati e per il suo sistema politico ed economico urgono numerose riforme. Come già avvenuto più volte nella recente storia italiana, anche in questo caso la spinta decisiva proviene dall‘esterno. Sia richiamato alla memoria il fatto che è stato il venir meno della contrapposizione Est-­‐Ovest negli anni 1989/90 a preannunciare la fine della “democrazia bloccata” (si pensi appunto che Tangentopoli nel 1992/93 ha condotto al crollo dell’intero sistema dei partiti). Sono stati i vincoli dell’integrazione economica europea a escludere 2 l’Italia nel 1992 dal Sistema Monetario Europeo a causa del suo alto debito pubblico e degli alti tassi di inflazione, costringendola a misure di bilancio e di politica monetaria che nel 1996 hanno invece reso possibile una sua riammissione. E infine: sono state le decisioni per la fondazione dell’Unione Economica e Monetaria Europea a spingere l’Italia ad agire in maniera più incisiva (lo spauracchio recitava: „L‘Italia in serie B“), tantoché dopo i corrispondenti sforzi per la stabilità l’allora ministro del Tesoro e del Bilancio, Carlo Azeglio Ciampi, rese possibile nella primavera del 1998, fra l’altro grazie all’introduzione di una „Eurotassa“ nel 19971, un ingresso dell’Italia nell’Unione Economica e Monetaria Europea. La „continuità di una relazione di obbligo e di stimolo“, come formulato da Mario Caciagli (Caciagli 2004), appare evidente alla luce dell’attuale crisi italiana con le dimissioni forzate di Silvio Berlusconi e la creazione di un „governo dei tecnici“ il 16 novembre 2011. Senza dubbio l’Italia risulta ripetutamente debitrice all‘Europa di importanti iniziative volte alla modernizzazione. La mia tesi è che nondimeno si tratti al momento attuale solo di una mezza verità. L’attacco sferrato dai mercati all’Italia sembra più corrispondere a speculazioni mirate e dinamiche, definite „animal spirits“2 da J.M. Keynes, che a una seria preoccupazione per la situazione italiana. Le differenze con il caso della Grecia nel frattempo sono sufficientemente conosciute e citate (fra le altre: le strutture economiche ampiamente intatte dell‘Italia, un debito pubblico finanziato nella maggior parte (56%) all‘interno, un’alta disponibilità di capitale della popolazione etc.). Uno sguardo ai numeri nudi e crudi indica come negli ultimi anni il livello di debito pubblico dell‘Italia – nonostante i bassi interessi – sia di nuovo cresciuto dopo aver registrato provvisoriamente una flessione e dopo che i governi di Romano Prodi nel 1996-­‐1998 e nel 2006-­‐2008 avevano dimostrato come fosse possibile un’altra politica.3 Eppure l’attuale debito complessivo corrispondente al 118,4% del Prodotto Interno Lordo si colloca di fatto solo dello 0,3% al di sopra della quota dichiarata nel 1997 sufficiente per l’ingresso dell’Italia nell’Eurozona, che ammontava appunto al 118,1% (cfr. tav. 1). L’aumento significativo nel 2009 e nel 2010 inoltre è da ascrivere in maniera determinante alla crisi economica. 1
Con ciò il nuovo indebitamento poté essere ridotto dello 0,6%; nel 1999 venne rimborsato per il valore pari al 60%. 2
“(…) animal spirits − a spontaneous urge to action rather than inaction, and not (...) the outcome of a weighted average of quantitative benefits multiplied by quantitative probabilities” (Keynes 1936: 161f.). 3
Il governo di centro-­‐sinistra ha introdotto degli impulsi positivi grazie a misure più efficaci nella lotta all’evasione fiscale, il che ha fruttato miliardi alle casse dello stato, e alla reintroduzione della tassa di successione e sulle donazioni, che era stata abolita nel 2001 dal governo Berlusconi. A ciò vanno aggiunti gli inizi promettenti di politica energetica, come ad esempio il piano di intervento per le energie rinnovabili, che prevede una riduzione entro il 2016 del 9% e che conteneva delle agevolazioni fiscali fino al 55% per investimenti in impianti a risparmio energetico. Anche nell’ambito della tutela dei consumatori si sono registrati alcuni piccoli progressi, fra gli altri per mezzo della liberalizzazione nei comparti della telefonia mobile, delle assicurazioni, delle farmacie e delle imprese di taxi; negli ultimi due settori citati si sono potuti ridurre i privilegi delle associazioni di categoria. Inoltre si sono potute registrare ulteriori riforme per la semplificazione burocratica. Il nuovo indebitamento nel 2007 si è ridotto all‘ 1,6% del PIL, tanto che il Patto Europeo di Stabilità e di Crescita, infranto per anni di seguito nell’era Berlusconi, è stato di nuovo rispettato per la prima volta. L’allora ministro dell’economia e delle finanze, Tommaso Padoa-­‐Schioppa, aveva perseguito un pareggio di bilancio entro il 2011. 3 È un dato di fatto inoltre che l'indebitamento italiano è chiaramente un'eredità dell'ultima fase della cosiddetta “prima repubblica” e della “democrazia bloccata”, durante la quale la coalizione di partiti, dominata dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, cercò di arginare i conflitti politici con una generosa politica distributiva. Inoltre la spesa pubblica conobbe un’ulteriore spinta verso l’alto (sotto forma di maggiorazioni delle fatture sulle commesse della mano pubblica) a causa di una estesa corruzione (Tangentopoli). Fino al 1982 il livello di debito pubblico dell'Italia corrispondeva ancora al 60% del Prodotto Interno Lordo, situazione che era conforme al successivo criterio di Maastricht. Fu soprattutto in seguito che la spesa pubblica risultò per interi anni decisamente più alta di quanto le entrate consentissero. Ma dal 1994, data di inizio della cosiddetta “seconda repubblica”, il bilancio dello stato italiano (a differenza della maggior parte degli altri stati europei) registra un saldo primario positivo − un dato spesso ignorato − cioè le spese risultano inferiori alle entrate, non tenendo però in considerazione gli oneri per gli interessi passivi. Tav. 1: Rapporto debito pubblico/PIL (%): Germania e Italia a confronto (1995-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Si può constatare inoltre che il saldo di finanziamento dell’Italia negli ultimi 15 anni non indica alcuna differenza significativa rispetto al saldo tedesco. Dal 1995 la Germania ha infranto il criterio di Maastricht sul limite massimo di nuovo indebitamento netto annuale del 3% del PIL quasi altrettanto spesso dell’Italia: l’Italia 9 volte, la Germania 7 (cfr. tavv. 2 e 3). 4 Tav. 2: Rapporto tra disavanzo pubblico annuale e PIL: Germania (1995-­‐2010) Fonte: Statistisches Bundesamt (2011): Bruttoinlandsprodukt 2010 für Deutschland, Wiesbaden. Tav. 3: Rapporto tra disavanzo pubblico annuale e PIL: Italia (1995-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Per quanto sia indubbio che l’indebitamento strutturale dell’italia è troppo alto, il livello del debito pubblico della Germania negli ultimi tempi è aumentato, al confronto, in maniera molto più marcata, passando dal 59,7% nel 1997 all’83,2% nel 2010 (cfr. tav. 1). Ciò è riconducibile tuttavia, come anche nel caso italiano, in primo luogo alla crisi economica del 2009. 5 Se si include nella valutazione comparata anche il debito pubblico non palese sotto forma di richieste provenienti dal sistema pensionistico e da quello sanitario, viene alla luce addirittura un risultato affatto diverso. Al confronto con la Germania, che evidenzia obbligazioni corrispondenti al 109,4% del Prodotto Interno Lordo, questo „debito implicito“ ammonta infatti in Italia soltanto al 27,6% del Prodotto Interno Lordo. Considerando insieme debito esplicito e implicito, l'Italia si trova in Europa in una situazione decisamente migliore rispetto a tutti gli altri stati dell'Unione; da questo punto di vista la Germania si trova al di sotto dell'Italia, in seconda posizione (Welt online, 07.12.2011). Nemmeno i bassi tassi di crescita dell’Italia giustificano in alcun modo la reazione dei mercati. In comparazione con la Germania che attualmente deve pagare tassi di interesse sempre più bassi per i suoi titoli di debito pubblico (all’inizio di novembre del 2011 per i prestiti a sei mesi dovevano essere pagati tassi di interesse di solo l’0,08%), la crescita media del PIL di entrambi i Paesi a lungo termine è sorprendentemente simile (cfr. tavv. 4 e 5). Tav. 4: Tasso di crescita annua in Germania 1951-­‐2011 (PIL reale) Fonte: Statistisches Bundesamt (a partire dal 1992: Germania unificata; 1961-­‐1991: Germania dell’ovest; 1951-­‐1960: senza i Länder Saarland e Berlino; per il 2011: primo semestre). 6 Tav. 5: Tasso di crescita annua in Italia 1971-­‐2011 (PIL reale) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Mentre l’economia italiana negli anni Novanta è cresciuta mediamente di circa l‘1,8%, in Germania si è registrato nello stesso periodo solo lo 0,3% in più, cioè il 2,1%. Nel primo decennio del 2000 a una crescita media dello 0,9% in Germania si contrapponeva una crescita media in Italia dello 0,4%, pur tenendo conto che entrambi i Paesi nel 2009 sono stati toccati in egual misura dalla crisi economica (riduzione del PIL in Germania del 4,7%, in Italia del 5,0%). Nemmeno la differenza nel PIL pro capite fra Italia e Germania presenta nel corso del tempo degli elementi di rottura e le distanze sono rimaste approssimativamente uguali (cfr. tav. 6). Lo sviluppo dei costi unitari del lavoro di entrambi i Paesi nel periodo 1998-­‐2008 si trovava sotto la media sia dell‘UE sia dell’OCSE (cfr. tav. 7), il che può valere come indicatore per una migliorata capacità concorrenziale, sebbene la Germania abbia chiaramente registrato un ancora più basso aumento, ottenuto tuttavia al prezzo di un abbassamento dei salari reali e con la conseguenza di un indebolimento della domanda interna; aumento annuo dei costi unitari del lavoro: IT: 1,86%, DE: 0,07%, EU-­‐27: 2,02%, OCSE: 2,30% (OCSE 2010). 7 Tav. 6: PIL (ai prezzi di mercato) 1991-­‐2010 (Euro pro capite) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Tav. 7: Sviluppo dei costi unitari del lavoro (%) 8 L’analisi comparata dei tassi di disoccupazione nel periodo 1992-­‐2010 (cfr. tav. 8) evidenzia come fino alla crisi del 2009 l’Italia avesse addirittura per molti anni di seguito un tasso di disoccupazione inferiore alla Germania (pur tenendo conto di altrettanto gravi differenze regionali: in Italia fra Nord e Sud, in Germania fra Est e Ovest). Attualmente il tasso di disoccupazione si colloca con l’ 8,1% chiaramente al di sotto della media dell’UE del 10,0%. Tav. 8: Tassi di disoccupazione: Germania e Italia a confronto (1992-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Dal 2004 i tassi di inflazione dell’Italia si trovano appena al di sopra della soglia del 2% auspicata dalla BCE, con l’eccezione dell’anno 2008 durante il quale anche l’inflazione della Germania ha accelerato (cfr. tav. 9). Nel 2009 e nel 2010 il tasso d’inflazione si trovava addirittura decisamente sotto la soglia del 2%. 9 Tav. 9: Tassi di inflazione: Germania e Italia a confronto (1997-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Presi in toto, i dati macroeconomici, analizzati con la dovuta freddezza, non offrono alcun motivo per l’attuale iperreazione dei mercati finanziari, ma possono semmai essere valutati come indizio del potere delle élites economiche nel senso inteso da Crouch. Per dirla in parole chiare: non si tratta qui di minimizzare i problemi dell’Italia. Proprio la disoccupazione giovanile (15-­‐24 anni di età) nel Bel Paese è preoccupante (di media il 29,4%, in certe regioni dell’Italia meridionale fino al 50%) e anche la quota occupazionale continua a essere troppo bassa: Italia: 56,9%, Germania: 71,1% (cfr. tav. 10); in particolar modo la quota di occupazione femminile è una delle più basse in Europa: mentre in Germania tocca il 66,1%, in Italia raggiunge solo il 46,1%.4 E pensare che un aumento della quota di occupazione offrirebbe un notevole potenziale di crescita; in questo senso il monito del neo Presidente del Consiglio, Mario Monti, di non lasciare inutilizzate queste risorse, appare assolutamente giustificato. A ciò si aggiunga che le infrastrutture dell‘Italia, misurate in base al grado di sviluppo economico e al potenziale economico, richiederebbero miglioramenti massicci. Il settore sanitario, il comparto della tecnologia dell’informazione e molti altri campi della politica necessitano di altrettanta modernizzazione. La disuguaglianza sociale nel reddito e nel patrimonio, comunque alta se valutata con parametri europei, è nettamente aumentata in confronto agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ed ha un effetto deleterio sulla necessaria domanda interna. Anche in questo contesto si evidenziano per l’Italia e per la Germania delle tendenze molto simili (cfr. tavv. 11 e 12), anche se la disuguaglianza dei redditi in Italia risulta essere di nuovo maggiore che in Germania. Riguardo a questo aspetto l'Italia si trova nel frattempo poco dietro agli USA e alla Gran 4
Ciò viene in parte relativizzato dal fatto che il 45% delle donne in Germania lavorano part-­‐time, mentre in Italia sono solo il 29% (Eurostat). 10 Bretagna e appartiene pertanto alle nazioni industrializzate con la più grande diseguaglianza (OCSE 2011a). Tav. 10: Tasso di occupazione (15-­‐64 anni): Germania e Italia a confronto (1993-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Tav. 11: Disuguaglianza elevata in Italia e Germania: incremento di disuguaglianza dei redditi complessivi dal 1985 al 2005 (indice Gini) Germania Italia OCSE-­‐15 Gran Betragna Francia 11 Tav. 12: Diseguaglianze nella distribuzione dei redditi in Germania e Italia (1995-­‐2010) Fonte: Eurostat, novembre 2011; dati per il 2002 e il 2003 non disponibili. Spiegazione: rapporto fra il reddito complessivo del 20% della popolazione con il reddito più alto e il reddito complessivo del 20% della popolazione con il reddito più basso. Sullo sfondo del citato sistema infrastrutturale deficitario e dello stato sociale nella sostanza più debole che in Germania, una politica di austerità, come viene al momento imposta alla Grecia, risulterebbe estremamente rischiosa. La Germania, la Francia, la Gran Bretagna e altri Paesi in crisi di fatto hanno attivato politiche fiscali di ispirazione keynesiana, cioè politiche anticicliche finanziate sul deficit e che hanno spinto massicciamente verso l’alto il loro indebitamento pubblico per operare azioni di salvataggio a favore delle banche. Ciò è avvenuto dopo aver praticato per molti anni una politica di riduzione delle imposte per le imprese ovvero in genere per i redditi da capitale5, che al contempo ha prodotto e continua a produrre enormi mancati introiti per lo stato (cfr. tav. 13)6; la Germania e l’Italia fanno parte di quei Paesi che hanno abbassato ad esempio l’imposta sui redditi da società in maniera più marcata (cfr. tav. 14). 5
In Italia è stata fortemente ridotta non soltanto l'imposta sui redditi delle società (IRES), bensì anche la tassa di successione; quest'ultima, come anche la tassa sulle donazioni, venne addirittura temporaneamente abolita in toto dal governo Berlusconi (cfr. nota 3). Altresì i profitti da capitale furono tassati in misura decisamente inferiore (tra il 12,5% e il 27%), nel frattempo su questi vige una tassa piatta (Flat Tax) del 20%. I profitti da alienazioni delle società di capitale furono in parte del tutto detassati. La tassa sui profitti immobiliari (INVIM) è stata del tutto abolita nel 2002. A partire dal 2003 le imposte sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) sono state modificate, passando da un originario modello fortemente progressivo a un sistema, più volte modificato, graduale e con un'aliquota massima abbassata al 43%. 6
Nel 2009 il gettito fiscale derivante da tasse sul capitale nell’intera UE ammontava solo al 24,6%, mentre nel 2000 esso toccava ancora il 25% (Eurostat 2011). 12 Tav. 13: Sviluppo dell’imposta sui redditi da società dal 1995 al 2011 (EU-­‐27; Eurozona, %) Fonte: Eurostat: Taxation Trends in the EU 2011, p. 62. È un dato di fatto che non è stata la politica di austerità a condurre la Germania fuori dalla recessione, bensì, accanto ad altri fattori, sono stati i programmi congiunturali e ulteriori misure finanziate col deficit dello Stato Federale ovvero dell’Agenzia Federale per il lavoro, sotto forma ad esempio dei cosiddetti accordi salariali sulla riduzione dell’orario di lavoro. Ciò nonostante, da parte dell’UE, del FMI e della stessa Germania si prescrivono ora agli stati sudeuropei delle cure neoliberali da cavallo, sempre con le solite ricette: massicci tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, deregulation dei mercati del lavoro etc. Proprio in considerazione dei pericoli deflazionistici e in confronto alle elevate quote di rischio di povertà in Italia (cfr. tavv. 15 e 16), una tale politica sarebbe oltremodo problematica. 13 Tav. 14: Imposta sui redditi da società: cambiamento percentuale delle aliquote (1995-­‐
2009) Fonte: Eurostat (2009): Taxation trends in the European Union, p. 104 s. In breve: la cultura della stabilità attualmente attestata dai mercati allo stato tedesco grazie a bassi interessi da record è altrettanto una chimera come le sanzioni inflitte all‘Italia sotto forma di rialzi record degli interessi per i titoli di stato: nel novembre del 2011 oltre il 7% per i titoli italiani a 10 anni e solo l’1,98% per i corrispondenti titoli tedeschi!7 7
Va tenuto presente che un tempo l'Italia doveva pagare interessi anche molto più alti e nonostante ciò aveva comunque meno problemi di rifinanziamento, il che a sua volta sottolinea l'attuale iperreazione dei mercati finanziari. Il premio di rischio sui titoli di stato italiani a lungo termine ammontava così per esempio nel 1995 al 12,21%, nel 1996 al 9,40% e persino nel 1997, anno dell'ingresso nell'Unione economica e monetaria, al 6,86%. 14 Tav. 15: Emarginazione sociale: tasso di persone a rischio di povertà (senza trasferimenti) Fonte: Eurostat, novembre 2011; persone con un reddito al di sotto della soglia del 60% del reddito medio; dati per il 2002 e il 2003 non disponibili; dati per il 2010 parzialmente non disponibili. Tav. 16: Emarginazione sociale: tasso di persone a rischio di povertà (trasferimenti inclusi) Fonte: Eurostat, novembre 2011; persone con un reddito al di sotto della soglia del 60% del reddito medio; dati per il 2002 e il 2003 non disponibili; dati per il 2010 parzialmente non disponibili. 15 Piuttosto in Italia urgono dei rafforzati programmi di investimento che permettano al Paese di uscire dalla trappola del debito. L’Italia possiede il potenziale per farcela. Urgente e necessario è ad esempio l’aumento degli investimenti pubblici e privati nella ricerca e nello sviluppo, poiché proprio qui si evidenziano massicci ritardi da parte dell’Italia; tuttavia nemmeno la Germania raggiunge ancora gli obiettivi della UE, così come sono stati fissati nella “Strategia di Lisbona” del 2000 e nella “Strategia Europa 2020” (cfr. tav. 17). L’Italia ha altrettanto enorme bisogno (come del resto la Germania) di recuperare investimenti nell’intero settore della formazione, come risulta evidente dai dati Eurostat, in cui sono messi a confronto i 27 stati membri della UE (cfr. tav. 18). Tutto ciò, insieme a molte altre misure, costa denaro e alla fine è raggiungibile solo attraverso modifiche nella politica fiscale. Queste risultano necessarie anche perché un „(…) crescente patrimonio monetario nelle mani di pochi, la ricerca di nuove opportunità di investimento e il miglioramento delle possibilità di profitto per mezzo degli investitori istituzionali di capitali (…) [sono state] alcune delle condizioni che (…) hanno condotto alla crisi“ (Eissel 2009: 48). E come se non bastasse: „Anche l’attuale crisi di finanziamento statale di alcuni Paesi dell‘Unione Monetaria Europea è riconducibile alla suddetta crisi. Una distribuzione diseguale della ricchezza prodotta negli e fra gli stati non può in fondo che condurre a pesanti disparità. Queste a loro volta si convertono in crisi. Un patrimonio sempre più accumulato e concentrato abbisogna come controparte di sempre più debitori, che alla fine però esistono solo come ‚debitori di terza classe‘“ (Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik 2011). Tav. 17: Spesa per la ricerca e lo sviluppo (percentuale del PIL) Fonte: Eurostat, novembre 2011. 16 Tav. 18: Spesa complessiva per l’educazione (percentuale del PIL) Fonte: Eurostat, novembre 2011. Alla fine del suo trattato sulla cosiddetta „postdemocrazia“, Colin Crouch si chiede come si possa impedire „(…) che la proporzione della diseguaglianza sociale all’interno e fra i Paesi diventi ancora più ampia” (Crouch 2008: 157) e concentra l’attenzione sul fatto che la protesta pubblica di massa è irrinunciabile. Sebbene Crouch anche in un altro punto del suo libro critichi la crescita della diseguaglianza nelle democrazie occidentali negli ultimi due-­‐tre decenni, sollecitando una più forte coscienza del settore pubblico e della politica nel senso del Bene Comune, non vengono spiegati in maniera più precisa né gli aspetti iniqui della distribuzione né tantomeno viene presa ulteriormente in considerazione la politica fiscale quale strumento di manovra dello stato nazionale, esposto a forti pressioni. Con ciò Crouch ha ragione quando sollecita misure sul piano nazionale, in particolar modo qualora non dovessero essere praticabili soluzioni europee, come ad esempio nel caso della Tassa sulle transazioni finanziarie8 ovvero di una Tassa sulle attività finanziarie. Se le analisi di Crouch sono giuste: „Ho cercato di dimostrare in questo libro che la più importante causa del declino della democrazia oggigiorno consiste nello squilibrio fra il ruolo degli interessi delle imprese e quelli di tutti i restanti gruppi della società“ (Crouch 2008: 135), allora sussiste una notevole necessità di un’inversione di tendenza nella politica fiscale nonché di una redistribuzione sociale dall’alto verso il basso. Riscoprire oppure scoprire con piena coscienza questo ambito quale dominio di sovranità statale ed eventualmente europea, è uno dei compiti più urgenti di questi giorni. A questo scopo devono essere rafforzate le 8
Si parla di tassi estremamente bassi oscillanti fra lo 0,01 e lo 0,25%. In Germania si discute di un’aliquota dello 0,05%, il che potrebbe significare un aumento di introiti fino a 36 miliardi di Euro. 17 istituzioni nazionali ed europee, che devono recuperare autorità, e a loro volta risultano indispensabili le riforme corrispondenti. Persino l’OCSE si fa portavoce di misure di redistribuzione fiscale per correggere gli enormi aspetti iniqui della distribuzione. Sulla base dei risultati di uno studio (OCSE 2011a), pubblicato dall’OCSE all'inizio del dicembre 2011, in base al quale si deve registrare una massiccia crescita della diseguaglianza sociale a partire dagli anni ottanta, il segretario generale dell’OCSE Angel Gurría ha constatato: „.L’ineguaglianza sostenuta inibisce la crescita e la coesione sociale. (…) Senza una strategia comprensiva di crescita inclusiva, l’ineguaglianza continuerà a crescere. Non c’è niente di inevitabile di fronte alle ineguaglianze alte e crescenti. La nostra politica ha creato un sistema che le fa crescere ed è giunto il momento di cambiare questa politica. (…) La redistribuzione del reddito dovrebbe essere il nucleo centrale di una governance all’insegna della responsabilità.” (Gurría 2011). Di conseguenza sono stati suggeriti, tra gli altri, un modello fortemente progressivo delle imposte sui redditi, l’abolizione di agevolazioni fiscali per coloro che percepiscono redditi più alti, l’ampliamento della tassazione sui patrimoni così come la lotta all’evasione fiscale. Al tempo stesso viene sottolineato come sia importante mantenere dei trasferimenti finanziari da parte dello stato, per compensare così la perdita del potere di acquisto, causata dalla crisi, dei percettori di redditi più bassi. Per il caso italiano deve essere tuttavia richiamata alla mente la seguente considerazione: „Questo è un ‘governo delle élite‘. Rettori e banchieri, giuristi e avvocati, prefetti e professori. C’è da chiedersi se questo ‘corpo’ selezionato della migliore élite nazionale saprà dare voce e rappresentanza anche alla ‘gente normale’ (Massimo Giannini, La Repubblica online, 17.11.2011). In quanto tale questo ‘esperimento’ italiano sarà istruttivo per quanto concerne la questione del ruolo di tali élites nell’„era postdemocratica“. Effettivamente il pacchetto di austerità e risparmi deciso nel dicembre 2011 dal nuovo governo italiano lascia poche speranze per un cambiamento della politica redistributiva nel senso sopra descritto. Il pacchetto di misure dell’anno 2011, ormai alla sua quinta versione, per combattere la crisi finanziaria è nel complesso un classico programma di risparmio. Il volume ammonta questa volta a circa 20 miliardi di euro all’anno (2012-­‐2014), dei quali la maggior parte proviene da aumenti fiscali come pure dall’innalzamento dell’età pensionabile (a 66 anni) e dal blocco dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni (sopra i 935 euro) nonché da contributi straordinari (per le pensioni sopra i 2.000 euro mensili). Circa 10 miliardi di euro dovrebbero essere utilizzati nell’ambito degli investimenti, il che è del tutto insufficiente, per quanto le misure come tali debbano essere valutate in chiave affatto positiva, poiché esse (attraverso corrispondenti modifiche dell’IRAP) servono al sostegno delle piccole e medie imprese come pure al sostegno dell’occupazione giovanile e femminile.9 9
Tuttavia i primi calcoli mostrano che le imprese più grandi dell’Italia del nord trarranno da ciò maggiori vantaggi rispetto alle piccole imprese dell’Italia del sud (CGIA Mestre 2011a). 18 Tasse più basse sul lavoro e sulla produzione compensate da più alte imposte al consumo (tra le altre quella sugli oli minerali) e soprattutto da un ulteriore aumento dell’IVA (dal 21% al 23,5%; aliquota ridotta: dal 10% al 12%), come deciso dal governo Monti, avranno un effetto regressivo, cioè peseranno maggiormente proprio sui percettori di redditi bassi e indeboliranno la domanda interna, anche in considerazione del fatto che il costo della vita in Italia è comunque già alto, i salari invece, al confronto con gli altri Paesi europei, bassi. Negli ultimi 10 anni il potere di acquisto è già diminuito del 4%. Il pacchetto di risparmi di Monti significa per una famiglia media un ulteriore aggravio di 830 euro all’anno. Se si considerano nel complesso tutti i pacchetti di risparmio dell’anno 2011, allora l’aggravio medio annuale per famiglia ammonta a 2.066 euro. Con questo tuttavia i percettori di redditi più bassi vengono gravati in percentuale in misura decisamente più pesante (CGIA 2011b). La riforma dell‘ICI (che in futuro dovrebbe chiamarsi Imposta municipale unica/IMU), abolita del tutto da Berlusconi nel 2008 sulla prima casa di proprietà come regalo elettorale, dopo che il governo Prodi in precedenza l’aveva già ridotta, è invece opportuna. Le misure annunciate per la lotta all’evasione fiscale (fra le altre l’imposizione di pagamenti elettronici) sono altrettanto benvenute, in quanto le perdite delle entrate da essa causate vengono stimate intorno al 17,5% del PIL, più precisamente in 275 miliardi di euro all’anno. Bisogna poi verificare se verrà attuato l’annuncio di Monti di voler „sottoporre a verifica la ricchezza accumulata“ e che cosa vi si cela dietro. L’introduzione di una tassa patrimoniale, oggetto di discussione da molto tempo, sarebbe una misura adeguata proprio in Italia, poiché in relazione al reddito disponibile il paese ha la più alta consistenza patrimoniale tra gli stati del G7 con al tempo stesso il più basso indebitamento dei nuclei familiari. La „Tassa sui ricchi“, decisa all’ultimo dal governo Berlusconi sotto forma di un’aliquota più alta del 3% per redditi superiori ai 300.000 Euro, che colpisce solo 34.000 nuclei familiari (cioè lo 0,075% di tutti i contribuenti) e che porterà annualmente nelle casse dello stato meno di 50 milioni di Euro, era del tutto insufficiente. Certo anche la tassa sul lusso, decisa adesso dal governo Monti, per gli yacht, gli aerei privati e le auto di grossa cilindrata, come anche la nuova tassa sugli investimenti di capitali, ammontante prima allo 0,1% e poi dal 2013 allo 0,15% (valutata sui prezzi di mercato, con massimale di copertura delle tasse da pagare di 1.200 euro), vanno poco oltre il simbolismo politico. Questo vale anche per la prevista tassa sugli immobili all’estero degli italiani, ammontante allo 0,76%, con un atteso ricavo di 98,4 milioni di euro annuali e per la tassa sulle transazioni finanziarie all’estero, ammontante allo 0,1% (dal 2013 allo 0,15%), con introiti attesi oscillanti fra gli 8,9 fino ai 13,4 milioni di euro annuali. Il patrimonio netto degli italiani ammonta a 8,7 mila miliardi di euro, il che corrisponde a 340.000 euro a famiglia (Morgan Stanley 2011). L’Italia precede così ancora la Germania, dove ogni famiglia privata dispone mediamente di un patrimonio di 186.000 euro (in totale 9,7 mila miliardi). Proprio la circostanza che la distribuzione diseguale dei patrimoni è ancora una volta chiaramente superiore a quella tra i redditi, è un ulteriore elemento a favore di tasse sulle sostanze patrimoniali. Di conseguenza sarebbe da tenere in considerazione, accanto ad una effettiva tassa patrimoniale, un nuovo aumento dell’imposta sulle 19 successioni e sulle donazioni, che fino al 1991 giungeva ancora fino al 20% e che adesso si colloca solo fra il 4% e l’8%. Dall’altra parte il fattore lavoro è gravato in maniera eccessiva: le tasse sui redditi da lavoro sono in Italia (come del resto anche in Germania) circa il 10% superiori alla media OCSE (OCSE 2011b). Infine, ci vorrebbe una politica dei redditi strutturata in maniera più fortemente progressiva (come è noto l'Italia ha dal 2003 un sistema graduale) con un aumento dell’aliquota massima.10 Anche se il governo Monti dovesse ritenere una politica redistributiva poco consona in chiave economica, per ragioni politiche non potrà fare a meno di prendere misure di questa natura al fine di conquistare a proprio favore e del proprio programma di austerità i sindacati e ampie fasce della società. Il 12 dicembre 2011 i sindacati hanno proclamato già il primo sciopero generale contro il pacchetto di risparmi del nuovo governo. Al tempo stesso però “i mercati” non hanno finora reagito alla politica italiana di austerità in maniera positiva, come invece auspicato. Al contrario, a metà dicembre 2011, l’Italia ha dovuto nuovamente pagare per i titoli di stato quinquennali un premio di rischio a livelli record. Le misure producono al momento e in maniera evidente scarsissimi effetti e così si profila una prosecuzione di una politica condizionata dalle borse, estremamente problematica non soltanto sotto il profilo economico, bensì anche sotto quello democratico. La privatizzazione delle imprese comunali ovvero la cessione delle partecipazioni corrispondenti, auspicata da molto tempo fra gli altri dalla Confindustria, sarebbe da osservare altrettanto criticamente poiché ciò rientra in quei fenomeni della postdemocrazia dichiarati molto problematici (non solo) da Colin Crouch: la commercializzazione ovvero l’erosione dei servizi pubblici e parallelamente a questa la riduzione della capacità di intervento pubblico (Crouch 2008: 101-­‐132). Per ciò che riguarda il suo contributo alla previdenza e all’assistenza sociale, il livello locale assume una particolare rilevanza. Crouch vi vede degli ulteriori pericoli connessi: „Quante più attività si privatizzano, e quanto più fortemente il servizio pubblico – in particolar modo a livello comunale – deve sottostare alla logica di mercato, tanto più grande risulta la necessità di installare una democrazia centralistica secondo il modello giacobino, in cui non esistono piani di mediazione dell’azione politica nel rapporto fra governo e cittadini.“ (Crouch 2008: 128 sgg.). Con ciò Crouch individua, in particolar modo sul piano locale e regionale, delle opportunità per dei movimenti controcorrente, proprio perché, aldilà dei partiti, gli attivisti possono svolgere un ruolo molto chiaro a questi livelli e anche perché la vicinanza dei problemi alle cittadine e ai cittadini crea uno spazio potenziale di iniziativa. Dirò di più con la seguente citazione: „Poiché la partecipazione alla politica formale a questo livello (…) di regola è meno complicata e nella sostanza può essere rinvigorita più facilmente, si dovrebbe rafforzare il significato della politica comunale e regionale nel senso di una vera democrazia, 10
Su ciò la Costituzione Italiana dà ad esempio concrete indicazioni, poiché l’art. 53 recita: „Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.“
20 decentralizzando le attività e ampliando l’ambito dei servizi pubblici, di cui sono responsabili le autorità comunali “ (Crouch 2008: 145). Questo è un assunto irrinunciabile di fronte all’acuta, rinnovata crisi del sistema dei partiti e della „casta“ italiana (Rizzo/Stella 2007), che procede di pari passo con la crisi finanziaria. Le istituzioni pubbliche italiane devono essere riformate con urgenza e rapidità. Negli anni berlusconiani sono invece state trascurate. La politica di decentralizzazione e di federalizzazione iniziata nella seconda metà degli anni Novanta allo scopo di migliorare la qualità della democrazia italiana, per mezzo di provvedimenti di semplificazione giuridica (ad esempio il cosiddetto ‘federalismo amministrativo’ con le riforme Bassanini) come anche le corrispondenti riforme costituzionali (1999 e 2001), non sono state perseguite con coerenza. Al contrario: le leggi per l’implementazione del governo Berlusconi hanno di molto ridotto la portata delle riforme del titolo V, parte II della Costituzione. Una, ora come prima, cultura politica e una prassi amministrativa fortemente centralistiche, nonostante qualche progresso, così come le sentenze della Corte Costituzionale hanno finora impedito che si realizzassero cambiamenti urgenti e necessari nella direzione di un rinnovamento democratico dal basso (Schefold 2007, Vandelli 2010). Anche la sinistra politica non è stata in grado di continuare a perseguire questo tema dopo essere stata appunto essa – e non la Lega Nord – ad aver intrapreso la strada delle riforme. Con ciò i partiti del centro-­‐sinistra hanno progressivamente abbandonato un tema importante, permettendo alla Lega Nord, anche nelle tradizionali regioni rosse, di crescere elettoralmente, come mostra l’esempio dell’Emilia-­‐Romagna, che finora sembrava essere rimasta immune all’avanzata leghista (Grasse 2012: 799 sg.). Compito dei partiti, proprio nell’area di centro-­‐sinistra, deve perciò essere quello di affrontare di nuovo questa questione con serietà. Lo stesso vale anche per il governo Monti e per il suo ministro per la „coesione territoriale“, Fabrizio Barca. In effetti la Questione Settentrionale e quella Meridionale rappresentano nella stessa misura un fattore dirompente per il sistema sociale, economico e politico italiano (Perulli/Pichierri 2010, Gardini 2010). I propositi di secessione, annunciati da Umberto Bossi (Lega Nord) nel bel mezzo della crisi finanziaria italiana, ne sono in questo caso il più recente esempio. Una vera riforma federale potrebbe manifestare, a seconda del modello adottato, non solo dinamismo economico, ma anche una notevole forza integrativa. (Grasse 2005 e 2010). Sono necessari quindi impegni massicci per una politica di incentivi economici a livello regionale, il che significa che devono essere ampliate le competenze delle Regioni. Poiché l’Italia, come di fatto nessun altro Paese, si basa economicamente sulla piccola e media impresa (il 95% di tutte le imprese italiane appartengono a questa categoria), e l’internazionalizzazione mostra con sempre più forza i suoi effetti disintegranti fin dentro la „Terza Italia“, risultano necessarie delle misure mirate di incentivo alla crescita tramite la politica (regionale). Decentralizzazione e federalizzazione possono fare da contrappeso a una concentrazione delle élites politiche ed economiche. La suddivisione delle competenze e con ciò la ripartizione della sovranità sul territorio fungono da muri spartifuoco e possono contribuire a controllare la classe politica romana ovvero a diversificarla e ad ampliarla 21 grazie all’integrazione con forze nuove. Politica ed economia devono essere nuovamente ricostruite dal basso. Di fronte alle sostanziali differenze territoriali che vanno ben oltre il dualismo Nord-­‐Sud (Gelli/Grasse 2011), la differenziazione è più che mai necessaria. I livelli di mediazione dell’azione politica fra il governo e i cittadini, reclamati da Crouch per impedire una „democrazia centralistica su modello giacobino“, esistono già in Italia, ma devono solo essere provvisti concretamente di capacità e possibilità di agire. Ciò è di per sé irrinunciabile per il fatto che non esiste un‘alternativa allo sviluppo di nuovi e autonomi programmi di sviluppo nelle regioni. Decentralizzazione e differenziazione rendono possibili nuovi impulsi per la crescita e per l’innovazione. La creazione ad esempio di appositi cluster di ricerca potrebbe, sullo sfondo del già richiamato ampliamento della ricerca e dello sviluppo, essere un importante elemento di politica economica regionale. Va però tenuto in considerazione il fatto che una maggiore libertà di configurazione economica e di politica fiscale condurrà in ogni caso a un aumento delle disparità regionali, cosicché risulterà automaticamente necessario un maggiore processo di redistribuzione sia in senso orizzontale (inter-­‐regionale) sia in senso verticale (Stato-­‐Regioni). Entrambi gli aspetti sono quindi inscindibili. Come abbiamo potuto osservare in Germania, la strisciante centralizzazione ossia la tendenza verso l’unitarismo, hanno fatto perdere una buona fetta della componente di rafforzamento democratico del federalismo. Per contro nel processo di sviluppo verso il cosiddetto federalismo concorrenziale si pone la domanda sui possibili vantaggi per la democrazia derivanti dal decentramento se la sua conseguenza è un accrescimento della disuguaglianza sociale e se viene posta in discussione la coesione territoriale. La questione dell’autodeterminazione territoriale è perciò, questa è la mia tesi, perlopiù una questione di policies, vale a dire di campi politici differenti. Economia, tecnologia, mercato del lavoro e impiego parlano a favore della decentralizzazione per incentivare lo sviluppo. L’ambiente, il sociale e la sanità propendono invece per una regolamentazione centralizzata sotto forma di standard minimi nazionali, per impedire che i Länder e le regioni giochino qui al ribasso, l’uno contro l’altro, ovvero che le diseguaglianze diventino troppo marcate. Ancora più importante è perciò il consenso sulla necessità della ripartizione, l’intesa sulla misura della distribuzione territoriale e sui criteri su cui si basano. (Grasse 2006) 22 Bibliografia Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik (2011): MEMORANDUM 2011. Strategien gegen Schuldenbremse, Exportwahn und Eurochaos (Kurzfassung); http://www2.alternative-­‐
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Europa-­‐am-­‐besten-­‐da.html?wtmc=google.editorspick). 24 Prof. Dr. Alexander Grasse Justus-­‐Liebig-­‐Universitaet Giessen Institut fuer Politikwissenschaft Karl-­‐Gloeckner Str. 21 E 35394 Giessen Germania Tel. ++49 +641-­‐99-­‐23090 (23091 Segr.) Fax ++49 +641-­‐99-­‐23099 E-­‐Mail: [email protected]­‐giessen.de
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