Da “Il sole 24 ore duemila” supplemento al Sole 24 ore del 24 novembre 1999:
LEZIONI AMERICANE Da oltre duecento anni la Costituzione statunitense
consente lo scontro delle fazioni e garantisce l’alternanza.
UN MONUMENTO DELL’ETÀ MODERNA Di Tiziano Bonazzi
I due secoli di vita degli Stati Uniti d’America - il primo
all’insegna di una perifericità orgogliosa, certa di un destino
di libertà unico nella storia, il secondo guidato da una volontà
egemonica altrettanto persuasa del proprio ruolo di crociato
della libertà nel mondo - danno adito a un bilancio storico
esaltante, ma anche amaro, in cui la schiavitù prima e un
immarcescibile razzismo poi si sono intrecciati al trionfo della
democrazia avvenuto quando in Europa dominava ancora la
Santa Alleanza, mentre un imperialismo spesso brutale ha
fatto da contrappunto al ruolo degli Stati Uniti in difesa della
libertà. In questo quadro lavico e tellurico come ogni grande
forma storica di potere politico, la Costituzione ha un ruolo
determinante, tanto che la si può indicare come uno dei
retaggi più alti che gli Stati Uniti possono vantare e
trasmettere al nuovo millennio.
La Costituzione, redatta a Filadelfia nel 1787 dai
rappresentanti degli Stati che undici anni prima si erano
ribellati alla madrepatria britannica, fu il momento finale della
Rivoluzione americana, un evento dal significato molteplice,
al tempo stesso prima rivolta coloniale moderna, atto di
nascita del primo Stato “europeo” fuori dai confini storici
dell’Europa, in territorio di conquista, e rivoluzione che, con
quella francese, segna l’atto di nascita dell’età in cui viviamo.
Una rivoluzione - non “La Rivoluzione” da sempre
utopicamente cercata sia dalla destra che dalla sinistra per
sbarazzarsene o per abbandonarvisi - tutta politica, compiuta
all’insegna di un principio politico rivoluzionario perché
inaudito ed epocale: la sovranità popolare.
La sovranità del popolo, “dichiarata” appunto dall’atto
iniziale della rivoluzione - la Dichiarazione di Indipendenza e fatta propria dalla Costituzione che si apre in nome di “Noi,
il popolo degli Stati Uniti d’America”, non era un termine
vuoto in società in cui il consenso dei larghi strati di popolazione economicamente autonomi e dotati del diritto di
voto era indispensabile alle élite governanti. E per la sua
effettività mise subito in moto lo scontro su chi fosse il
popolo e sui modi del suo essere sovrano. Queste furono le
ragioni che portarono alla Convenzione di Filadelfia e alla
Costituzione, per redigere la quale si dovettero risolvere
intricati conflitti politici e che non fu quindi una Minerva che
balza armata dalla testa di Giove come la vorrebbe una
voluminosa letteratura agiografica.
Essa nacque, invece, da élite sociali coscienti della debolezza
politica di un popolo e di uno Stato composti nel 1787 da
tredici Stati semiautonomi e privi di un vero governo
comune, minacciati dai giganti dell’epoca - la Francia, la
Spagna e l’umiliata Inghilterra - ma anche preoccupate per il
crescente potere popolare nei Parlamenti dei singoli Stati. Per
di più, una volta riunitisi, i membri della Convenzione si
trovarono divisi tra i contrastanti interessi dei rispettivi Stati
di provenienza e quindi coinvolti in una situazione confusa
che riuscirono a trasformare, con una sorta di judo
intellettuale, in teoria politica e in ingegneria costituzionale.
Il fulcro dell’ordine politico uscito da Filadelfia si trova in ciò
che James Madison, il più lucido tra i Padri fondatori, scrisse
ne “Il Federalista” durante la campagna per la ratifica della
Costituzione, vale a dire che per avere la libertà - scopo
ultimo della Rivoluzione americana - occorre accettare le
fazioni, perché essa è come l’aria per il fuoco e se la si vuole
non si può evitare il fuoco, appunto le fazioni. Un modo di
definire la vita politica che capovolgeva la tradizione europea
per la quale le fazioni erano il male sommo che, sostituendo il
proprio bene egoistico al bene comune, distruggevano l’unità
del corpo sociale.
L’appello alle fazioni di questi virtuosi illuministi non va letto
con gli occhi del pluralismo novecentesco; ma la loro
esperienza di rivoluzionari rendeva i Padri fondatori timorosi
del potere, che ritenevano un cancro distruttore della libertà
del popolo, e la loro esperienza di politici indicava che le
differenze di interesse erano indomabili. La loro cultura
protestante, inoltre, li portava a credere che gli uomini,
ottenebrati dal peccato, si possono affidare solo alla
coscienza individuale nel cercare la salvezza, consapevoli che
Dio perdonerà chi la cerca in coscienza ed erra. Così come
sono divisi nelle cose spirituali, in quelle mondane gli uomini
debbono farsi guidare dall’utilità, il che rende le differenze
non solo inevitabili ma legittime e spiega le fazioni. Il popolo,
insomma, non è e non può essere uno in politica perché non è
moralmente uno. Sulla base di questo collante culturale, certo
percepito in modi assai diversi, i Padri fondatori riuscirono a
risolvere i molti nodi che si trovarono ad affrontare.
Il primo riguardava la stessa sovranità popolare, perché, se il
popolo è sovrano, la sua volontà politica è a sua volta
sovrana e quindi assoluta e irresistibile, una strada che porta
alla supremazia del legislativo che lo rappresenta e che, dopo
essere stata esplorata in modo sofferto da Rousseau , sarebbe
stata messa alla prova durante la Rivoluzione francese. Essa
implica, però, che il popolo possieda una volontà unitaria e
razionale che la maggioranza dei suoi rappresentanti possa
esprimere. Per i Padri fondatori, però, le cose stavano altrimenti e la supremazia del legislativo, cozzando contro l’idea
di governo limitato volto a impedire ogni esercizio arbitrario
del potere che avevano ereditato dall’Inghilterra, portava per
loro alla tirannia della maggioranza su minoranze che
esprimevano idee e interessi altrettanto legittimi,
raggiungendo un’innaturale unità a spese della libertà.
Essi risolsero il problema affermando l’unità e l’assoluta
libertà del popolo soltanto come potere costituente: il “Noi,
popolo ( ... ) ordiniamo e stabiliamo (..)” con cui si apre la
Costituzione. Esso, quindi, si autolimita attraverso una legge
superiore alla legislazione ordinaria, la Costituzione appunto,
la quale fissa e limita le modalità di azione del Governo che il
popolo, in quanto entità politica divisa in fazioni, crea. Il
Governo, di conseguenza, guida il Paese come espressione
della volontà di maggioranze; ma lo deve fare nei modi voluti
dalla norma fondamentale, che garantisce i diritti delle
minoranze e la possibilità di ricambio al potere.
Su questi, che sono i fondamenti del costituzionalismo moderno, venne innestata l’architettura istituzionale, la quale
risolse i problemi sul tappeto attraverso una serie di
"compromessi", la maggioranza dei quali divennero capisaldi
di ingegneria costituzionale. Alla loro base vi era la spinta a
dividere e bilanciare il potere tra le istituzioni onde impedirne
l’accentramento in poche mani: un modo istituzionale,
insomma, per favorire l’alternanza e la difesa della libertà. Un
tipo di divisione del potere completamente nuovo, cioè il
federalismo, venne ad esempio intrecciato a quello già noto
tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Perché, riservando agli
Stati ogni potere non specificamente assegnato al Governo
federale, si risolveva il dilemma di dare direzione politica alla
Federazione senza sgretolare gli Stati, che erano portatori di
specifici e ben vivi interessi.
Al Presidente, eletto da tutta la Nazione, venne affidato un
potere esecutivo che, in nome della divisione dei poteri, si
affiancava e non dipendeva dal legislativo, eletto a livello
locale, ed esprimeva il bisogno di un forte centro politico del
Paese. Limitato, tuttavia, dal fatto di esercitare i soli poteri di
competenza del Governo federale e di doverlo fare in collaborazione antagonistica con il legislativo. La Costituzione
nacque, quindi, all’insegna di una visione antieuropea della
politica, in cui libertà e stabilità non sorgono da istituzioni
che esprimono un sistema di valori eterni, ma dal conflitto
degli interessi regolamentato dall’ingegneria costituzionale.
Una sorta di teoria oscillatoria, quantistica della politica che
va oltre la fisica, in quanto erige a norma il rischio dello
scontro dal quale vede sorgere l’equilibrio politico.
Per i Padri fondatori, la Costituzione era lo strumento inteso
a far coesistere, in nome del popolo, due concetti
contraddittori come la sovranità politica, necessariamente
assoluta, e il Governo limitato.
In brevissimo tempo essa
venne accettata come il modo normale per esprimere la
pluralità di voci di una Nazione complessa e moderna anche
quando era ancora marginale, tanto che la politica
statunitense può dirsi essere sempre stata politica
costituzionale, vale a dire che si è sempre svolta
sull’interpretazione da dare ai principi e agli istituti della
Costituzione. Questa funzione ha trovato la sua espressione
ultima nell’opera di interpretazione costituzionale della Corte
suprema e nel judicial review, il sindacato di costituzionalità
delle leggi da essa esercitato; un istituto vitalmente
enigmatico in cui convivono l’interpretazione giuridica della
norma base e l’attenzione al presente dei giudici, a loro volta
di nomina politica ma del tutto autonomi una volta nominati,
e nel quale si manifesta al livello tecnico più sofisticato il
ruolo della Costituzione, che è quello di consentire il
mutamento della Nazione nel tempo evitando che sia messo
in forse il sistema.
Aver accettato la scommessa di fondare la libertà e l’ordine
politico sulle fazioni è l’aspetto forse più innovativo del
costituzionalismo americano; ma la vittoria di tale scommessa
non ha potuto essere che parziale e non ha domato il "cancro
del potere" temuto dai Padri fondatori, un segno del fatto che
le istituzioni vivono in contesti che non possono interamente
dominare. Far nascere la Costituzione implicò, ad esempio,
riconoscere implicitamente la schiavitù, come volevano gli
Stati sudisti, un "compromesso" ben diverso dai molti altri
raggiunti. La liberazione dei neri, inoltre, non avvenne attraverso il gioco delle maggioranze, ma solo quando lo scontro
tra i due "noi" opposti del Nord e del Sud scatenò la Guerra
civile spezzando il “Noi, il popolo” della Costituzione; alla
cui
ombra
poterono
successivamente
prosperare
segregazione razziale e razzismo.
Altrettanto significativo è il tema della politica estera, che
solo molto parzialmente ha potuto essere politica
costituzionale. La Costituzione, infatti, che istituisce uno
Stato, si ferma ai limiti dei rapporti con gli altri Stati ove il
principio della sovranità e dell’interesse nazionale dominano
assoluti. Lo scontro delle fazioni per determinare la politica
estera si è quindi svolto fuori dei principi del
costituzionalismo, tranne che per i riflessi sulla politica
interna. La Presidenza, titolare della politica estera, pur
rafforzandosi a spese degli altri poteri dello Stato con il
crescere della potenza americana, non è mai divenuta
incontrollabile in patria; ma verso l’esterno ha agito in un
rapporto dialettico diretto con le fazioni più forti e l’opinione
pubblica che ha avuto assieme le caratteristiche dell’élitismo
e del populismo più che del costituzionalismo.
Entro questi limiti, tuttavia, la Costituzione statunitense si è
imposta come uno dei monumenti dell’età moderna.
Impossibile da adottare là dove non sussistono le condizioni
di base che la fecero nascere, come dimostrarono i tentativi
ottocenteschi di applicarla ai Paesi latino-americani, ha
mantenuto la sua promessa di consentire assieme lo scontro
delle fazioni e il Governo limitato. Ha cioè realizzato, in
modo incompleto, ma più coerente di gran parte delle altre
soluzioni istituzionali otto-novecentesche, una caratteristica
cardine della modernità: quella di esprimere la sovranità
popolare attraverso il conflitto e di istituire una società
aperta, i cui membri sono uniti dall’accettazione del rischio
della sconfitta politica, nella consapevolezza che essa non
porta alla catastrofe.
Sarebbe altrettanto folle abolire la libertà, che è essenziale
alla vita politica - sol perché essa può nutrire le fazioni quanto pensare di eliminare l’aria, che è essenziale alla
vita, solo perché essa dona al fuoco la sua energia
distruttrice. James Madison, 1787
All’infallibilità di un Pontefice, la Riforma sostituì quella
della Bibbia; al potere di un Sovrano, la Rivoluzione
americana finì per sostituire quello di un pezzo di carta.
Edward Corwin, 1928