La repubblica islamica in Iran

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POTERI
CONFLITTI
La situazione politica e religiosa in Iran
A partire dagli anni Trenta, insieme alla Turchia, l’Iran era lo Stato mediorientale più
occidentalizzato. Il nuovo shah – Muhammad Reza Pahlavi (1941-1978) – proseguì Il problema della
in modo ancora più energico tale processo, introducendo ad esempio la completa equi- identità collettiva
parazione di fronte alla legge sia delle donne sia dei cittadini non musulmani; nel corso dei secoli, invece, tutta la tradizione musulmana aveva sempre ritenuto che solo il musulmano di sesso maschile dovesse godere della pienezza dei diritti, mentre le donne, gli
ebrei e i cristiani occupavano, nella scala sociale, un posto decisamente inferiore.
Il processo di occidentalizzazione fu accompagnato dallo sforzo di costruire una nuova identità collettiva, svalutando il ruolo dell’islam. Proprio come in Egitto, negli anni
di Nasser e di Sadat, ci si richiamava allo splendore dell’epoca dei faraoni, così in Iran
si assunse come grande mito storico nazionale la più antica civiltà che in passato aveva caratterizzato il paese: lo shah, pertanto, si presentò come il successore di Ciro e
di Dario, i grandi sovrani persiani che avevano conquistato, a partire dal VI secolo, l’intera Mezzaluna fertile.
L’ISLAM NEL MONDO
Aree e Paesi musulmani
APPROFONDIMENTO C
E
UNITÀ 13
La repubblica islamica
in Iran
1
Aree e Paesi con rilevanti
minoranze musulmane
(sunnite)
Aree e Paesi musulmani
(sciiti)
ARABIA QATAR
E.A.U.
SAUDITA
NIGERIA
CAMERUN
SIERRA LIBERIA GHANA BENIN
LEONE
TOGO
COSTA
D'AVORIO
GIBUTI
ETIOPIA
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Mar
Arabico
SRI
LANKA
SOMALIA
MALAYSIA
KENYA
MOZAMBICO
MALAWI
Golfo
del Bengala
e
YEMEN
TANZANIA
OCEANO
ATLANTICO
OCEANO
PACIFICO
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SUDAN
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BANGLADESH
INDIA
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NIGER
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SIRIA
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AFGHANISTAN
IRAQ
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GIORDANIA KUWAIT
PAKISTAN
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La repubblica islamica in Iran
(sunniti)
APPROFONDIMENTO C
UNITÀ 13
MEDIO ORIENTE E MONDO ISLAMICO
2
Dittatura
e repressione
del dissenso
Sunniti e sciiti
Lo shah Reza Pahlavi
con l’imperatrice Farah
atterrati a Roma
il 3 maggio 1965 per
uno dei loro frequenti
viaggi in Europa.
Il saldo collegamento
con l’Occidente e
l’ostentata mondanità
della coppia reale
rappresentarono due
gravi colpe agli occhi
dei fondamentalisti
sciiti iraniani.
Anche l’economia del Paese subì profonde modificazioni nei tre decenni successivi alla
guerra mondiale, ma le numerose riforme agrarie finalizzate a razionalizzare il possesso
della terra e a limitare il potere dei grandi proprietari finì per produrre, nel paese, un
notevole aumento della disoccupazione nelle campagne. Poiché la maggior parte di
questi contadini disoccupati si riversò nelle città (Teheran, ad esempio, passò da 2 719 000
abitanti, nel 1966, a 4 496 000, nel 1976) i centri urbani furono investiti da una grave inflazione che rendeva sempre più alto il costo della vita. La risposta dello shah al
dilagare del malcontento fu di tipo esclusivamente repressivo; infatti, in Iran non erano ammessi sindacati diversi da quelli controllati dal governo, mentre ogni forma di
opposizione politica alla dittatura del sovrano era soppressa dall’onnipresente e feroce polizia segreta del regime.
In questo contesto esasperato, l’iniziativa politica passò gradualmente alle autorità religiose; tuttavia, dobbiamo osservare che in Persia, a partire dal XVI secolo, si era diffuso un tipo particolare di islam, detto Shi’a. Alla lettera, questo termine significa partito, gruppo al seguito di qualcuno; la corrente sciita, infatti, nacque intorno alla metà
del VII secolo, allorché esplose fra i successori di Maometto una guerra civile che vide
i sostenitori di Muàwiya (fondatore della grande dinastia omayyade, che da Damasco governò l’immenso impero arabo fino al 750) contrapposti a quelli di Ali, cugino e genero del Profeta. Mentre i seguaci di Muàwiya presero il nome di sunniti (da
sunna, tradizione, usanza) e fino ai nostri giorni sono stati la parte numericamente più
consistente della comunità musulmana, il partito di Ali ha dato origine al minoritario islam sciita.
Dopo la morte di Ali (661), la lotta fu continuata da suo figlio Husayn, che tuttavia
fu assassinato nel 680; figura centrale dell’islam sciita – che ogni anno ricorda solennemente il suo martirio – Husayn ebbe
vari successori, che vennero chiamati
imam (guide). Sebbene essi, nello scontro
coi loro avversari, siano stati temporaneamente sconfitti, quando verrà il momento stabilito da Dio il regime degli empi
usurpatori sarà comunque rovesciato definitivamente. L’islam persiano attribuisce
il compito di instaurare la giustizia definitiva al dodicesimo iman, che secondo il
credo sciita è stato nascosto e occultato
da Dio, affinché svolga alla fine dei tempi la sua eccezionale missione messianica. «Uno dei miei discendenti comparirà
– dice una massima attribuita al Profeta,
molto citata dagli sciiti – e colmerà il mondo di giustizia e di equità quanto è ora ricolmo di ingiustizia e di tirannia».
Con il passar del tempo, l’islam sciita assunse alcuni tratti tipici che lo resero particolarmente rigido, al limite del fanatismo:
obbedienza a un’autorità suprema, considerata infallibile e depositaria della vera
interpretazione del Corano; convinzione
di incarnare la fede nella sua forma più
pura e autentica, voluta dal Profeta; disponibilità al martirio, frutto di secoli di
persecuzioni da parte dell’islam sunnita
maggioritario.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO C
UNITÀ 13
Il 16 gennaio 1979, dopo che una lunga serie di imponenti manifestazioni di piazza
(spesso represse con la forza dalla polizia) avevano mostrato che il potere dello shah
era ormai privo di ogni consenso popolare, Muhammad Reza Pahlavi abbandonò il
Paese; due settimane dopo, accolto come un salvatore, ritornò in Iran l’anziano ayatollah (“segno di Dio”) Khomeini, che dal suo esilio parigino aveva diretto la rivoluzione contro l’odiato sovrano.
Sayyd Ruhollah al-Musawi al-Khomeini (1900-1989) si era opposto da tempo alle
innovazioni dello shah, che egli condannava severamente in quanto non islamiche.
Costretto all’esilio, aveva elaborato un’originale dottrina che giustificava la resistenza al potere e, nello stesso tempo, proponeva una radicale riorganizzazione dello Stato su basi nuove. La sua opposizione all’autorità si fondava sul comportamento del Il governo
Profeta alla Mecca, presentato come un ribelle che non volle scendere a compromessi del giurista islamico
con l’idolatrica società della Mecca, fu costretto all’esilio e combatté implacabile il
nemico, fino alla vittoria finale. Per quanto concerne, invece, il nuovo Stato, Khomeini amava ripetere che l’islam «è politico, o non è». A suo giudizio, l’intera società
poteva e doveva essere retta dalla legge divina, in quanto «il Corano contiene versetti
concernenti problemi sociali in misura cento volte maggiore di quelli su argomenti
di pratica religiosa».
Posta in questo modo la centralità del Corano, Khomeini arrivava a negare persino la facoltà umana di legiferare; l’uomo non deve creare la legge, bensì applicare quello che Dio, una volta per tutte, ha rivelato: «La fondamentale differenza fra
il governo islamico e le monarchie costituzionali o le repubbliche è questa: mentre i rappresentanti del popolo o il monarca si impegnano a produrre un ordina- L’ayatollah Khomeini
saluta la folla subito
mento legislativo, nell’islam il potere legislativo e la competenza ad emanare leg- dopo il suo ritorno in
gi appartiene solo a Dio. Il Sacro Legislatore è l’unico legislatore».
Iran dall’esilio parigino.
Tuttavia, negli scritti di Khomeini, la formula preferita per designare il nuovo Stato è quella di vilayat-i-faqih, governo del
giurista islamico. Secondo un’impostazione
tipicamente sciita, posta al centro la Legge di Dio l’autorità suprema risiede, all’atto
pratico, nei giuristi, negli esperti della legge coranica (o shari’a), cui spetta il compito di applicarla correttamente, nei vari
campi dell’esistenza. Pertanto, assai più di
quello saudita o di quello prospettato dai
Fratelli musulmani, sunniti, lo stato islamico di Khomeini finisce per caratterizzarsi non solo come una teocrazia (“governo di Dio”), bensì come una specie particolare di ierocrazia, di governo della casta sacerdotale e, più in generale, di coloro che svolgono un’opera di mediazione fra Dio e gli uomini.
Per chi ragiona come Khomeini, non hanno senso né la libertà di opinione, di
espressione e di associazione, né la partecipazione popolare alla vita dello Stato. In
uno Stato islamico, il popolo non può essere considerato depositario di diritti,
bensì unicamente chiamato ad assolvere
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La repubblica islamica in Iran
Lo Stato islamico di Khomeini
Rifiuto della libertà
di opinione
UNITÀ 13
APPROFONDIMENTO C
LA CONCEZIONE POLITICA DI KHOMEINI
MEDIO ORIENTE E MONDO ISLAMICO
4
Presupposto
Obiettivo
Strumento
L’islam non è
una religione “privata”
La legge islamica
investe la società
nel suo complesso
Governo del giurista
islamico, che conosce
e interpreta la legge di Dio
dei doveri, o meglio a eseguire i comandi fissati da Dio e prescritti dagli esperti giuristi che conoscono la Sua legge. La libertà di pensiero, soprattutto, non è concepibile: appena l’individuo prende posizione contro l’islam, infatti, deve essere considerato un arrogante ribelle e trattato come un apostata; per questo motivo, nel febbraio
del 1989, Khomeini condannò a morte lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, visto che il suo romanzo I versetti satanici, secondo l’ayatollah persiano, era blasfemo e
offensivo per la fede.
Analogamente, è inconcepibile l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti allo Stato; ebrei
e cristiani, in età medievale e moderna, avevano sì ampia libertà di culto e di organizzazione, ma erano nel contempo sottoposti a interdizioni di diverso tipo e al pagamento di un’imposta speciale. Per il passato, si può senz’altro dire che le società islamiche furono molto più tolleranti delle cristiane nei confronti delle minoranze religiose monoteiste. Trasferito meccanicamente nel XX secolo, tuttavia, quell’antico nobile modello di tolleranza appare, agli occhi occidentali, decisamente superato, cioè
riduttivo e lesivo del diritto di ogni cittadino a non subire discriminazioni di sorta sulla base della propria religione.
La guerra tra Iran e Iraq
Petrolio
e armamenti
La rivoluzione islamica in Iran generò il panico nei Paesi circostanti, preoccupati per
la radicalità con cui Khomeini aveva impostato il suo rifiuto dell’Occidente ed esortava a rovesciare tutti i regimi retti da musulmani apostati. I maggiori timori si manifestarono in Iraq, la cui popolazione, in larga misura, pratica l’islam nella sua versione sciita. A guida dell’Iraq, a partire dal 1968, si era imposto un regime che, pur essendo in cronica competizione con la Siria, si ispirava in larga misura all’ideologia del
partito Baath. Il nuovo regime, di fatto, era una dittatura che non tollerava il pluralismo politico. Nei primi anni Settanta, il potere si concentrò nelle mani di Saddam Hussein (1937-2006), che nel 1972 procedette a nazionalizzare le compagnie petrolifere
che operavano nel Paese. In virtù della quadruplicazione dei prezzi del 1973-1974, il
Paese vide aumentare a dismisura i propri profitti, che passarono da 584 milioni di dollari (nel 1972) a 7,5 miliardi nel 1974. Saddam Hussein impiegò la maggior parte di
questi introiti nell’acquisto di armamenti e tecnologie militari. Con uranio e assistenza francesi, l’Iraq arrivò persino a costruire, nel 1979, un reattore nucleare; tuttavia,
prima di essere completato (cioè capace di produrre bombe atomiche affini a quelle di
Hiroshima e Nagasaki), l’impianto fu distrutto dall’aviazione israeliana.
Convinto di poter facilmente sconfiggere l’avversario, nel 1980 Saddam Hussein attaccò
l’Iran, con l’obiettivo di porre sotto il controllo iraqeno anche la sponda orientale dello
Shat al-Arab, l’estuario formato dal Tigri e dall’Eufrate nel punto in cui sfociano nel Golfo
Persico. Più in generale, Saddam Hussein sperava di umiliare l’avversario, in modo da togliere ogni fascino e prestigio alla rivoluzione khomeinista presso le masse arabe.
L’Iran, invece, non crollò, con il risultato che il conflitto durò per otto anni (1980-1988),
provocando immensi danni materiali e circa un milione di morti. Da parte irachena,
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
L’invasione del Kuwait e la guerra del Golfo
La lunga durata del conflitto mise in seria difficoltà l’economia dei due paesi belligeranti: il debito estero dell’Iraq, ad esempio, ammontava nel 1989 a 70 miliardi di
dollari. Per far fronte a questa situazione, Saddam Hussein fece pressione sul Kuwait
affinché, riducendo la produzione di petrolio, si ottenesse un aumento del prezzo del
greggio. Ottenuto un rifiuto, Saddam Hussein ordinò l’invasione del piccolo emirato (2 agosto 1990) e ne proclamò solennemente l’annessione all’Iraq.
Il controllo sul petrolio kuwaitiano avrebbe dato a Saddam Hussein un potere immenso.
Pertanto, alle Nazioni Unite si formò una vasta coalizione, comprendente circa cinquanta Paesi, decisi a fermare l’espansionismo dell’Iraq in quella regione economicamente
e strategicamente così importante. A guida della coalizione si posero gli Stati Uniti e
i Paesi dell’Occidente; al loro fianco, tuttavia, si schierarono pure numerosi Paesi musulmani, come l’Arabia Saudita, la Siria, la Turchia, l’Egitto, il Pakistan e il Marocco.
Quanto all’Unione Sovietica, ormai entrata in fase di declino, mantenne una posizione quanto mai prudente e appartata, consapevole di non avere altra scelta.
Il conflitto – che prese il nome di guerra del Golfo – iniziò il 17 gennaio 1991, ventiquattro ore dopo la scadenza dell’ultimatum delle Nazioni Unite; nella sua prima fase,
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO C
UNITÀ 13
venne fatto frequente uso di armi chimiche; gli iraniani, invece, ricorsero spesso ad attacchi basati sulla tecnica della cosiddetta ondata umana: migliaia di soldati (spesso appena adolescenti) si riversavano in massa contro le difese nemiche, incuranti della morte perché convinti che essa sarebbe stata un vero e proprio martirio per la fede, ricompensato da Dio nella vita ultraterrena. Le città e le petroliere, nell’ultima fase del
conflitto, furono sottoposte a una sistematica azione di distruzione: nel febbraio 1988,
caddero 58 missili su Teheran e 26 su Baghdad; quanto alla flotta mercantile, è stato
stimato in più di 500 il numero di imbarcazioni danneggiate o distrutte nel corso della guerra.
Nel luglio 1988, infine, Iran e Iraq accettarono il cessate il fuoco dell’ONU, senza che
nessuno dei due avesse ottenuto qualche risultato veramente significativo. «Il trionfante Saddam Hussein – commenta Peter Mansfield – dichiarò che l’Iraq aveva vinto la guerra, il che era parzialmente vero, anche se non aveva raggiunto l’obiettivo originario di sovvertire la repubblica islamica. Aveva vinto perché non aveva perso, proprio come Khomeini aveva perso perché non aveva vinto».
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La repubblica islamica in Iran
Saddam Hussein,
al potere in Iraq
dal 1972 al 2003.
APPROFONDIMENTO C
Devastazione
dei pozzi in Kuwait
UNITÀ 13
Saddam sconfitto,
ma non rimosso
MEDIO ORIENTE E MONDO ISLAMICO
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Una pattuglia
di marines americani
in Kuwait, fotografia
del 1991.
lo scontro fu caratterizzato da un numero elevatissimo di incursioni aeree (15 000
missioni in otto giorni) sulle città irachene. Consapevole di non poter opporsi alla superiore tecnologia militare americana, Saddam Hussein cercò di spezzare la coalizione dei suoi nemici in varie maniere. In primo luogo, abbandonando il suo tradizionale
laicismo (tipico dell’ideologia Baath), chiamò tutti i musulmani alla guerra santa contro l’Occidente invasore. Inoltre, bombardò a più riprese, con missili a lunga gittata,
le principali città dello Stato di Israele; il suo obiettivo era di provocare una reazione
armata dello Stato ebraico, in modo da mettere in imbarazzo i Paesi arabi in guerra contro l’Iraq e obbligarli ad abbandonare la coalizione. Tenuto politicamente a freno dagli Stati Uniti, nonché munito dei più moderni sistemi di difesa antimissilistica, Israele non intervenne; Saddam Hussein intraprese allora una sistematica devastazione del
patrimonio petrolifero del Kuwait: mentre centinaia di pozzi venivano dati alle fiamme, il greggio accumulato nelle raffinerie veniva riversato nel Golfo Persico, provocando
una gravissima catastrofe ecologica. Secondo alcune stime, il costo della guerra poteva essere calcolato, a quel punto, in 500 milioni di euro al giorno.
Il 24 febbraio, iniziò l’offensiva terrestre dei 440 000 soldati (300 000 dei quali americani) della coalizione; le forze iraqene vennero completamente annientate mentre
abbandonavano il Kuwait e si ritiravano precipitosamente verso Nord. Da più parti,
in Occidente, si chiedeva che Saddam Hussein fosse processato come criminale di guerra; nonostante la sconfitta, però, il dittatore iraqeno restò al potere. La paura dei governi occidentali, infatti, era che un collasso troppo rapido dell’Iraq (e, al limite, la
sua disgregazione territoriale, provocata dallo scontro fra le diverse etnie e religioni
presenti nel Paese) provocasse una sorta di vuoto di potere, una cronica situazione di
confusione politica, pericolosissimo in una regione che invece, a causa della sua importanza economica, per rispondere veramente agli interessi occidentali dovrebbe possedere, come caratteristica fondamentale, proprio la stabilità.
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