Cass. 20 giugno 2013, n. 27207 (concorso del

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 giugno 2013, n. 27207
Bancarotta per distrazione – Concorso esterno – Fattispecie
Ritenuto in fatto
1. Il 20/12/2011 la Corte di Appello di Trieste riformava parzialmente la sentenza di condanna
emessa dal Tribunale della stessa città il 16/04/2009 nei confronti di U. R., dichiarato colpevole in
primo grado di più fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione (in relazione al fallimenti della
G&G s.r.l. e della TS C. s.r.l., rispettivamente dichiarati il 21 maggio e il 23 settembre 2005): Il R.
veniva assolto dalla Corte di appello quanto alla presunta distrazione di 40.582,00 euro, risultante
dalla contabilità della TS C. come disponibile in contanti nelle casse sociali al momento della
declaratoria di fallimento, mentre si vedeva confermare la condanna in ordine alla distrazione di
beni della G&G in favore della stessa TS C., in particolare per effetto di un contratto simulato di
affitto di azienda, concluso il 26/11/2004, dietro un corrispettivo assai modesto – tale da comportare
una perdita annua di almeno 25.000,00 euro, quand’anche versato – e che comunque le parti
avevano concordato di non pagare e non incassare.
A proposito di detto contratto, che secondo la rubrica comportava l’impossibilità per la G&G di
esercitare una qualsiasi attività economica (In virtù di quel negozio si realizzava la cessione di un
esercizio bar, con tanto di arredi, beni strumentali, avviamento ed autorizzazioni amministrative) ed
aveva pertanto lo «scopo esclusivo di trasferire i principali beni aziendali ad altro soggetto
giuridico», la Corte territoriale ribadiva le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado,
evidenziando che:
- l’operazione (concordata fra il R., socio ed amministratore di fatto della TS C., l’amministratore di
diritto della stessa ed i soci amministratori della G&G) era palesemente antieconomica per
quest’ultima, peraltro mai attivatasi per riscuotere un canone già incongruo ex se, e vedeva come
conduttore un soggetto giuridico costituito appena 15 giorni prima, evidentemente ad hoc, «l’affitto
di un’azienda commerciale ad altra società a condizioni rovinose depaupera di fatto le aspettative
del creditori della società cedente, che si vedono pregiudicata la possibilità di negoziare un’azienda
libera da vincoli, e che devono trattare – ove anche fosse possibile, ove anche non comportasse il
pagamento di penali – con un “terzo” la risoluzione di un contratto»;
- l’imputato doveva considerarsi concorrente nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione,
quale extraneus, essendo risultato egli l’ideatore dell’operazione sopra descritta, nella veste di
presunto consulente finanziario (comunque privo dei relativi titoli professionali) e di soggetto
interessato alla gestione della società affittuaria.
2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando mancanza di motivazione
della sentenza impugnata quanto al profilo essenziale dell’impugnazione avanzata avverso la
pronuncia di primo grado, afferente l’impossibilità di ascrivere valenza distrattiva ad un contratto di
locazione commerciale, per sua natura inidoneo a trasferire diritti reali e dunque a determinare un
impoverimento del patrimonio del soggetto cedente.
Secondo il ricorrente, dalla conclusione del contratto di affitto di azienda non sarebbe derivato
alcun danno per il fallimento, atteso che una distrazione avrebbe potuto configurarsi solo in
presenza di fatti impeditivi dell’utilizzo di beni della società per il soddisfacimento delle pretese dei
creditori. Al contrario, nel ricostruire le conseguenze di quell’operazione, la difesa rappresenta che
«non vi è stato alcun distacco dei beni; il patrimonio della società fallita, collazionato dal curatore
fallimentare, non è stato per nulla depauperato; i beni della società, nel caso di specie denominati
“B.M.”, non sono affatto stati sottratti, dal momento che il suddetto esercizio era ovviamente ancora
al suo posto, sia fisicamente che giuridicamente, vale a dire nella piena proprietà della “G&G”, e
questo per il semplice motivo che la proprietà del bene non è stata trasferita, poiché non di contratto
che trasferisce un diritto reale [...] si è trattato, bensì di un contratto di locazione commerciale, con
il che neppure si può parlare di bene patrimoniale sottoposto a vincoli, tanto che il curatore
fallimentare ha avuto gioco facile a includere il “B.M.” nella massa attiva e, in conclusione, detto
patrimonio non ha subito alcuna diminuzione».
Evidenzia infine il ricorrente che, qualora fosse da ritenere fondato l’impianto accusatorio, avrebbe
dovuto derivarne la contestazione al R. – quale amministratore di fatto della TS Catering s.r.l., a sua
volta dichiarata fallita -della distrazione dei beni di cui al contratto di affitto di azienda, ma ciò non
era accaduto, giacché la presunta distrazione a lui addebitata quanto alla successiva procedura
concorsuale (addebito dal quale era stato comunque assolto) aveva riguardato solo ipotetiche
giacenze di cassa. Ciò comportava la conferma, secondo la difesa, dell’assunto secondo cui quei
beni erano da ritenere rimasti nel patrimonio e nella concreta disponibilità della G&G.
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve qualificarsi inammissibile, per manifesta infondatezza del motivo di gravame.
1.1 L’assunto della mancanza di pregiudizi per la società G&G a seguito della stipula dei contratto
di affitto di azienda è infatti radicalmente insostenibile, già nei termini prospettati dalla difesa,
secondo cui avrebbe rilievo dirimente la circostanza che non si sarebbe comunque trattato di un
negozio dispositivo di diritti reali (mentre invece non vengono affatto affrontati i profili della
antieconomicità dell’operazione, sia per la modestia del canone pattuito che per l’intesa fra le parti
di non versarlo neppure). Al contrario, secondo il costante insegnamento di questa Corte, «il
distacco del bene dal patrimonio dell’Imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in
danno dei creditori), in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di
esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del
bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela. Ne consegue che
costituisce condotta idonea ad integrare un fatto distrattivo riconducibile all’area d’operatività
dell’art. 216, comma primo, n. 1, legge fall., l’affitto dei beni aziendali per un canone incongruo»
(Cass., Sez. V, n. 44891 del 09/10/2008, Quattrocchi, Rv 241830).
Ancor più di recente, altra pronuncia di questa stessa Sezione (n. 35882 del 17/06/2010, De
Angelis, Rv 248425), ribadito nella massima ufficiale che «in tema di bancarotta per distrazione, Il
mancato rinvenimento all’atto della dichiarazione di fallimento di beni o valori societari costituisce
valida presunzione della loro dolosa distrazione, a condizione che sia accertata la previa
disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori
di qualsivoglia presunzione», chiarisce in motivazione che la tesi della ravvisabilità di una
distrazione per effetto di un contratto di affitto di azienda «è corretta e conforme alla giurisprudenza
di questa Corte, la quale ha ravvisato il reato de quo, in primo luogo in casi di affitti di azienda con
canoni incongrui o addirittura in assenza del versamento del canone, evenienza [...] cristallizzata in
più sentenze che hanno rilevato, per l’appunto, la essenza della distrazione nel distacco del bene
sociale senza il dovuto corrispettivo [...]. Si è però anche affermato, da parte di altra giurisprudenza,
che pure un contratto di locazione stipulato per finalità estranee all’azienda può integrare gli estremi
della bancarotta per distrazione, quando venga stipulato in previsione del fallimento ed allo scopo di
trasferire la disponibilità di tutti o dei principali beni aziendali ad altro soggetto giuridico, è il
contratto in sé, infatti, che, nelle condizioni dette, finisce per lasciare l’impresa dissestata
nell’impossibilità di esercitare qualsiasi attività economica; inoltre esso produce effetti anche dopo
il fallimento del locatore (legge fall., art. 80), ostacola gli organi del fallimento nella liquidazione
dell’attivo (rendendo difficile la collocazione sul mercato di beni non immediatamente disponibili)
e danneggia i creditori concorsuali (determinando una drastica diminuzione del valore di mercato
del beni locati)».
1.2 Quanto al secondo profilo di doglianza, in base al quale vi sarebbe sostanziale contraddittorietà
della motivazione nella parte in cui non è stato tenuto conto che il R. doveva intendersi chiamato a
rispondere degli addebiti in rubrica quale amministratore di fatto della TS Catering, si rileva che il
ricorrente non coglie il corretto inquadramento della fattispecie, operato dai giudici di merito e di
cui viene data abbondantemente contezza nella sentenza impugnata: all’Imputato, infatti, si contesta
un concorso nella bancarotta per distrazione concernente beni della G&G quale extraneus, avendo
egli agito come presunto consulente di quella società ed ispiratore dell’operazione sottesa al
contratto di affitto, a prescindere dal rilievo empirico che lo stesso R. fosse anche amministratore
del diverso soggetto giuridico poi interessato alla gestione del beni aziendali locati. Anche a
riguardo, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che «in tema di reati fallimentari,
i consulenti commercialisti o esercenti la professione legale concorrono nei fatti di bancarotta
quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’Imprenditore o degli amministratori della società,
forniscano consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li
assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire
l’impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni,
l’altrui proposito criminoso» (Cass., Sez. V, n. 569 del 18/11/2003, Bonandrini, Rv 226973).
La Corte di appello di Trieste cita correttamente la sentenza di questa Sezione n. 10742 del
15/02/2008, Cattoli, Rv 239480, dove si trova ribadito il principio secondo cui «integra il concorso
dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, il consulente della società che,
consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore e degli amministratori della società, concorra
all’attività detrattiva posta in essere da questi ultimi progettando e portando ad esecuzione la
conclusione di contratti (nella specie affitto di azienda) privi di effettiva contropartita e preordinati
ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori». Nella motivazione di detta pronuncia si evidenzia
che «sulla base dei principi che regolano il concorso di persona nel reato (e dunque anche nel reato
proprio), non è dubbio che in materia di reati fallimentari, nell’ipotesi di fatti di bancarotta
fraudolenta per distrazione, e con riferimento alla partecipazione dell’extraneus in reato proprio
dell’amministratore di società, deve ritenersi che il soggetto esterno alla struttura sociale può
concorrere nel reato proprio, mediante condotta agevolativa di quella delI’intraneus, nella
consapevolezza della funzione di supporto alla distrazione, intesa quest’ultima come sottrazione dal
patrimonio sociale e suo depauperamento ai danni della classe creditoria, in caso di fallimento. Nel
caso in cui la distrazione venga realizzata mediante l’azione “combinata” di più soggetti, la
consapevolezza del partecipe extraneus deve abbracciare le varie condotte ed i reciproci loro nessi,
protesi al raggiungimento dell’evento conclusivo».
Aspetti, questi, esaustivamente trattati nel percorso argomentativo tracciato dalla Corte territoriale,
e che – non risultando oggetto di specifica censura in sede di gravame – rendono a fortori
inammissibile il ricorso in esame.
2. La declaratoria di inammissibilità del ricorso, al sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., Impone la
condanna dell’Imputato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili
di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla volontà del
ricorrente (v. Corte Cost, sent. n. 186 del 13/06/2000) – al pagamento In favore della Cassa delle
Ammende della somma di € 1.000,00, così equitativamente stabilita.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1.000,00 In favore della Cassa delle Ammende.