L’estetica musicale come filosofia di Elio Matassi I. Stando a quel che si legge nel Beethoven di Adorno, il fascio di appunti e di intenzioni assemblato da Rolf Tiedemann1, “filosofia” è il nome dell’unica lingua che abbiamo a disposizione per “rispondere” alla musica. Per non parlarene semplicemente, come avviene in tutti quei discorsi nei quali proliferano aggettivi o descrizioni che tentano di riprodurre qualcosa come l’”emozione” della musica. E nemmeno per comprenderla, dato che la musica non si lascia comprendere, ossia contenere entro concetti o idee. Ma appunto per incontrarla nel punto in cui le sue domande cessano di essere solo intrattenimento e diventano propriamente arte. “Quando la crediamo molto vicino a noi”, scrive Adorno, la musica “ci parla e aspetta con sguardo triste che le rispondiamo”. Per rispondere alla musica, tuttavia, dobbiamo abbandonare i luoghi comuni che la intendono come un regno della immediatezza e come una lingua universale dei sentimenti. La musica, secondo Adorno, è essenzialmente mediazione, ricerca di una forma che interviene sui contenuti d’esperienza in modo dialettico, operando per contrasti. Per questo a risponderle può essere solo la filosofia, lingua per eccellenza della mediazione, e per questo ‘filosofia della musica’ non potrà mai essere il titolo di una dottrina o di una specifica disciplina teorica, ma l’espressione che definisce la forma di un’apertura, di una disponibilità alla musica che nessun altro linguaggio è in grado di eguagliare. Se la filosofia rappresenta l’indice dell’orizzonte di senso della musica concepita come un fenomeno aperto, è da tale ‘apertura’ che è opportuno partire per ridefinire una serie di problemi che toccano, in primo luogo, il nesso tra speranza e promessa, tra elemento messianico ed attualità, in secondo, un rinnovato interesse per la ‘contingenza’, per la nudità della contingenza, da valorizzante in quell’evento-relazione che è l’ascolto, ed infine, la risposta decisiva alla crisi del logocentrismo, capovolgendo il grande paradigma che ha contrassegnato in larga misura la filosofia del Novecento, quello della svolta linguistica; un paradigma che trova ormai da ambedue i settori della ricerca filosofica internazionale (da parte ‘analitica’ come da quella ‘continentale’) zone di ampio dissenso. Sono tre grandi esempi-problemi che dimostrano come sia necessario andare al di là della consueta querelle filosofia della musica/estetica musicale (contestualismo/isolazionismo)2 per porsi un obiettivo completamente diverso: la musica e la dimensione teorica corrispondente (l’estetica musicale) rappresentano non solo ‘un’ ma il punto di riferimento privilegiato per il rinnovamento della filosofia. Per questo mi permetto, in maniera esplicitamente provocatoria, di titolare il mio intervento, “L’estetica musicale come filosofia”. 1 2 II. Il mio disegno comincia così a chiarirsi: affrontare, attraverso l’esempio-problema della musica, precisamente il nesso tra speranza e promessa, tra elemento messianico ed attualità. E’ appena il caso di ricordare i nomi di Jacques Derrida e di Giorgio Agamben per menzionare coloro che, negli ultimi anni, si sono maggiormente interrogati sulla congiunzione di messianismo e speranza: il primo con una serie di scritti concentrati nella prima metà degli anni Novanta, da Spettri di Marx (1993) a Force de loi (1994), il secondo con un percorso che va da Homo sacer (1995) al più recente Il tempo che resta (2000). Rispetto ai temi, agli argomenti e soprattutto alle fonti messe in gioco all’interno di questo dibattito, la novità della mia impostazione consiste nell’aver scelto la chiave che, sulla scia di Ernst Bloch, eviti, o quantomeno ridimensioni il bisogno di ricorrere, quando si parla di speranza, a coordinate di pensiero che derivano, da un lato, dal primato dell’ideologia, dall’altro, dal mondo concettuale della teologia e della religione. Non vi è dubbio che di ideologia, quando c’è in gioco la speranza, oggi si parli sempre meno. Teologia e religione, invece, tornano ad abitare il nostro lessico, se non addirittura a riaffermare come lo avessero sempre abitato, magari non viste, fin dall’epoca in cui la stessa secolarizzazione si presentò, più che come un fatto, come un promessa. Proprio Benjamin, adoperando l’immagine dell’automa vestito da turco, con una pipa in bocca, che vince ogni gara di scacchi perché manovrato nascostamente da un abilissimo nano gobbo, ricordava come il fantoccio da lui ribattezzato “materialismo storico”, potesse vincere solo prendendo “al suo servizio la teologia, che oggi, come è noto, è piccola e gobba, e che non deve farsi scorgere da nessuno”. A partire dall’ultimo quarto del XX secolo, forse nuove risorse dell’ingegneria genetica hanno raddrizzato la schiena al gobbo e lo hanno stirato fino a fargli raggiungere un’altezza presentabile. Oggi la teologia non si nasconde più, si è liberata dall’automa, che giace in un angolo come una vecchia maschera, e siede direttamente al tavolo da gioco. Nessuno contesta questo suo diritto, anche perché molti si sentono a disagio quando pensano di averla così a lungo maltrattata. La teologia, però, ha un vizio antico, e quando inizia a giocare pretende di dettare lei stessa le regole, dato che ne possiede un’esperienza fondamentale che non è appannaggio di nessuna filosofia. La rivelazione della verità, infatti, rimane il limite che fa della filosofia e della teologia due forme di pensiero in dialogo e non in opposizione, ma distinte. La teologia mantiene con la verità un rapporto privilegiato che non si indebolisce neppure laddove i suoi contenuti vengono limati, sfumati e ridotti fino al limite che le assicura un livello minimale di consistenza. La scommessa di farsi suggerire dalla teologia il senso di esperienze fondamentali e di rimanere vergini al contatto con le sue verità può essere forse giocata con grande abilità dai filosofi che oggi scendono direttamente sul terreno dei testi sacri e provano a decostruirne l’impalcatura dottrinaria, cercando di restituirli ad una forma di pensiero filosofico antichissima e nuova al tempo stesso. Esiste tuttavia un modo di parlare della speranza che non sia, in linea di principio, né imparentato con l’ideologia, né necessariamente tributario alla teologia? Esiste una tradizione di pensiero nella quale le esperienze della promessa e di una struttura messianica della temporalità siano state concepite in senso ‘laico’? Questa è la posta in gioco della mia prospettiva, nel tentativo di rintracciare questo filone di pensiero appunto in una ‘filosofia della musica’ che non sarebbe una via alternativa, ma parallela alla teologia. Una via forse ancora più nascosta del nano gobbo dentro al fantoccio, perché occultata nell’uomo che siede di fronte a lui. Il “contenuto umano”, ossia “l’espressione di un contenuto umano” sono, non a caso, ciò di cui E. Bloch va alla ricerca quando ricostruisce un lungo arco di storia musicale che va dal Medioevo dei giubili allelujatici a Wagner. Un contenuto umano, continua Bloch che non è limitato “al contenuto romantico, come se questo fosse tutto e senza di esso vi fosse solo una macchina sonora”. La musica, anzi, rappresenta agli occhi di Bloch precisamente quel tipo di esperienza che costringe a ripensare la costituzione del soggetto moderno che mette in questione sia l’ambizione romantica di far leva esclusivamente sulle risorse dell’interiorità, sia l’illusione positivista di poter accedere ad una verità che si concede ad un sapere che si accumula senza fine. La musica non appartiene né al regno dell’interiorità né a quello della conoscenza. La sua dimensione è piuttosto il mistero, ultimo elemento della triade che inizia con il sentimento e la commozione, così come la sua natura è quella di essere portatrice di un Rätsel der Sinnlichkeit, un enigma della sensibilità che si insinua in ogni forma di produzione del senso. Ascoltare noi stessi restando vicini all’essenza del mistero: questo è il primo passo che conduce Ernst Bloch verso quella ridefinizione del “sé” che la musica prospetta come una sorta di progressivo abbandono di ogni certezza positivistica e di ogni individualismo soggettivo. Se la musica implica una dimensione soggettiva, questa non riguarda l’io, ma il Noi, dunque quanto di più profondo appartiene all’essenza del contenuto umano di ciascuno. La musica avvia perciò una definizione del soggetto nel quale questi, perdendo caratteristiche e vincoli che lo definiscono come un individuo isolato, si ritrova immerso in un contesto di appartenenze che già significano, per lui, il primo concreto indizio della speranza. La musica, arte fondamentalmente legata alla temporalità, assume infatti un ruolo preminente laddove si tratta di interpretare non solo il mondo degli affetti in generale, ma soprattutto ed in particolare gli “affetti d’attesa”, la cui dinamica è intrecciata con tutto il vocabolario concettuale dell’utopia: promessa, rigenerazione, adempimento. L’insieme di questo vocabolario ritrova perciò nella musica una declinazione peculiare, ‘altra’ rispetto a quella della teologia e delle ideologie in genere, proprio perché riferita ad un’attualità emancipata dalle tradizionali categorie della ‘presenza’. III. – La filosofia della musica come ‘apertura di senso’ promuove dunque una interrogazione parallela a quella della teologia senza rappresentare una nuova forma di ideologia. Lo stesso impulso costruttivo coinvolge l’etica sociale, una linea su cui si è mossa con grande spregiudicatezza intellettuale Martha Nussbaum, un’etica sociale che sia in grado di rifondarsi non vincolandosi più al consueto automatismo di stampo aristotelico, l’uomo è per natura un animale sociale. Questo ‘passaggio’ diretto dalla natura umana alla dimensione istituzionale-intersoggettiva ha sempre ipotecato in una certa direzione la deduzione-fondazione della sfera politica. Non ci si è mai interrogati fino in fondo sulla complessità della natura umana, sulle sue caratteristiche, presumendo surrettiziamente un rapporto di causa-effetto radicale tra la natura umana nella sua dimensione virtuale e quella, invece, “realizzata”, espressione molto gradita a Hegel che, non casualmente, prospetta un modello fondazionale di Stato-intersoggettività, largamente costruito, sul ‘finalismo’ aristotelico. Se lo Stato è “il primo principio”, dovremo concepire tale primarietà in accezione finalistica, nel senso che le parti sono finalizzate e, dunque, meramente funzionali al tutto. Una primarietà di tipo metafisico-finalistico e non serial-cronologico. Anche Immanuel Kant in fondo, sia pure in maniera più sofisticata, non si allontana da un paradigma fondazionale dell’intersoggettività che tende a privilegiare il tutto rispetto alle parti. Penso, in primo luogo, a quanto recita il paragrafo 21 della Critica della facoltà giudizio in merito alla “comunicabilità universale”, il “senso comune”, quel minimo comun denominatore che identifica e definisce l’intersoggettività. Rispetto a queste macroversioni fondazionali dell’intersoggettivo-politico (hegeliana e kantiana), bisogna individuare una nuova e più elaborata prospettiva (Martha Nussbaum) che muova dal registro-profilo meramente pulsionale, quello che può essere definito il livello delle emozioni, delle passioni, quel livello che sta a monte della soggettività in quanto ‘contingenza’ e che tutte le macroversioni fondazionali dell’intersoggettivo tendono ad occultare se non addirittura a violentare. Bisogna arrivare ad una costruzione del politico che metta radicalmente in discussione equazioni, presuntivamente scontate, come, per esempio, quella fra antropologia e democrazia. Senza la valorizzazione della contingenza, della sua ‘nudità’ è impossibile pervenire ad aggregazioni più totalizzanti. Anche in questo caso una filosofia della musica concepita come ‘apertura’ di senso può essere di grande giovamento; se si ripercorrono le linee-percorsi teorici del capitolo musicologico di Der Geist der Utopie, della particolarissima struttura triadica della decostruzione benjaminiana delle Affinità elettive goethiane (mitico-redenzione-speranza), la cui cifra più segreta è costituita dalla musica, se si ‘incrociano’ le letture di quella sezione, dedicata all’ascolto del paragrafo 34 di Essere e tempo – (“Sul fondamento di questo poter-sentire esistenzialmente primario è possibile qualcosa come l’ascoltare, che, da parte sua, è fenomenicamente più originario di ciò che la ‘psicologia’ definisce ‘innanzi tutto’ come ‘udito’, cioè la ricezione dei suoni e la percezione dei rumori. Anche l’ascoltare ha il modo di essere del sentire comprendente. ‘Innanzi tutto’ non sentiamo mai rumori e complessi di suoni, ma il carro che cigola, la motocicletta che assorda. Si sente la colonna in marcia, il vento del Nord, il picchio che batte, il fuoco che crepita”)3 – con la prima parte delle Grundlagen des linearen Kontrapunkts di Ernst Kurth, si può arrivare alla decifrazione-delineazione dei lineamenti di una filosofia dell’ascolto e dell’ascolto in chiave comunitaria che consente una reimpostazione radicale del rapporto contingenza-comunità. L’ascolto come evento acustico-teoretico, specifico di un’identità contingente (l’ascoltante) che si rapporta ad un’altra identità contingente (il suono). L’ascolto come evento relazione fra due contingenze. Non è affatto casuale se un celebre filosofo politico come Giacomo Marramao nel suo ultimo libro, Passaggio a Occidente, quando deve definire la contingenza, scelga un vocabolo musicale, la contingenza come “interludio ontologico fra l’essere e il nulla”. Come dichiara programmaticamente uno dei maggiori musicisti contemporanei, Wolfgang Rihm, in un’importante intervista, La vertigine degli opposti in equilibrio, ogni suono ha la sua individualità, carattere, fisionomia, come una persona ha braccia, gambe, bocca. Ogni suono, ad esempio, un re bemolle, suonato da un clarinetto basso, ha la sua aura con il do centrale del clarinetto basso. Entro nello strumento per ottenere quest’aura, per comprenderla, anche quando si tratta di strumenti che non so suonare. Auspico di essere come quello che suona è quando suona. Non si può rimpiazzare un suono con un altro. La musica pertanto non contempla alcun oggetto materiale, è una pura possibilità, una proiezione. La musica non ha luogo, è sempre nunc ma non hic. ‘Ora’, ‘adesso’, è molto importante nella musica, ma questo ‘adesso’ non ha luogo. E’ questa anche particolare medialità della ‘situazione musicale’ cui si riferisce Günther Anders-Stern nel suo decisivo manoscritto del 1930, Philosophische Untersuchungen über musikalische Situationen. Non si dà dunque musica se non nell’accezione umana, musica come espressione dell’uomo secondo le indicazioni di quel grande libro di miti rappresentato dalle Metamorfosi di Ovidio. In tal modo la deriva ‘individualistica’, l’apologia di un suono fine a se stesso, viene superata in una visione antropologica. Antropologia filosofica – e filosofia della musica ritrovano un punto di congiunzione-compenetrazione nella musica considerata come identità dell’umano, come luogo della celebrazione dell’incontro con il proprio Sé più profondo, il suono come aura dell’ascoltatore che sta ritrovando se stesso. La musica quale unica dimensione ‘auratica’ della modernità, quale cifra della nostra interiorità più incontaminata. E sta appunto nell’esigenza della trasformazione del sé che Bloch, uno dei riferimenti decisivi per la mia prospettiva, riafferma proprio la coniugazione fra quanto avviene al cospetto del fenomeno musicale e quanto nella storia, nelle sue discontinuità e lacerazioni. La musica non solo non è distinta dalla storia, ma ne rappresenta il sostrato più 3 èrofondo e più autentico: è nella musica, infatti, che prende forma quel principio utopico di redenzione la cui dimensione propria è il presente, e la cui attualità acquista persino evidenza per chiunque attraversi quel cammino di trasformazione che porta l’individuo a costituirsi come sostanza etica sotto il segno del Noi, e non più sotto quello del suo isolamento monadico. proprio per questo, allora, la tipologia di fondazione che il legame comunitario ritrova nella musica non potrà essere di natura estetica, ma dovrà collocarsi su un altro piano, non solo diverso, ma addirittura – ed esplicitamente – alternativo all’estetica. L’estetica è pur sempre cosa da intenditori, da fruitori accorti che sanno decifrare gli schemi nascosti e raffinati di ogni composizione. L’ascolto, invece, come categoria comunitaria per eccellenza, non presuppone altro se non un comune riconoscimento intorno alla musica e nella musica. Il primato che Bloch assegna all’udito rispetto alla vista, il senso che fin da Aristotele rappresenta il centro delle fiolosofie orientate verso il problema della conoscenza, mostra al meglio come il senso dell’operazione consista in uno spostamento di interessi che fa della musica un catalizzatore di esperienze anche molto diverse e molto lontane fra di loro. La musica delinea pertanto un’originale fiolosofia dell’accordo intersoggettivo fondata non sul consenso, né sul contratto, ma sul principio dell’autoascolto. Dal momento in cui un esecutore suona un brano musicale, fino a quello in cui un ascoltatore ne fruisce, si stabilisce una sorta di circolarità nella quale ognuno, per così dire, presta orecchio non solo ad un fenomeno esterno, ma alle risonanze che questo produce nell’interiorità di ciascuno, nell’anima. Si tratta di un particolarissimo punto di vista ed è un’affermazione corretta sia se proiettata sullo sfondo della vicenda filosofica del Novecento, sia se considerata nell’orizzonte della possibile o impossibile estensione del princpio-musica (solo un altro nome del pricipio-speranza) quale codice di fondazione di una comunità utopica, certamente, ma non per questo astratta o irraggiungibile. L’ascolto mobilita e rende attuale un potenziale implicito in ogni soggetto e che corrisponde alla condizione utopica come tale. la scommessa etica e politica di cui la musica si fa portatrice corre, dunque, sul filo di quel ‘mistero’ per penetrare il quale occorrono orecchie per sentire ed occhi per ascoltare. Bisogna ripercorrerne le scansioni senza enfasi, preoccupandosi di mostrare i punti di incontro tra la musica ed un pensiero filosofico, quello contemporaneo, che forse oblia troppo la lezione di questa arte singolare, trascurata da alcuni autori, sopravvalutata da altri, ma raramente tenuta in conto con l’onestà e persino con l’ingenuità di cui E. Bloch rivendica il diritto. Di fronte alla musica, sembra anzi che per Bloch l’ingenuità sia l’unico atteggiamento in grado di tenere insieme le istanze della comunità e dell’anima-contingenza, della speranza e della laicità, del messianismo e della attualità. Un’ingenuità che forse la musica richiede, quando si smette di guardarla sotto la prospettiva dello specialismo e la si ricolloca piuttosto nel campo di un vero interesse collettivo. IV. – Alla luce di questo nuovo paradigma, cambia il senso stesso del termine ‘filosofia della musica’. Tradizionalmente, esso andava inteso come genitivo oggettivo: la filosofia, infatti, guardava alla musica come ad un suo oggetto specifico, un oggetto linguistico che andava notomizzato e ricondotto ad altro. In quella prospettiva, la filosofia era separata dalla musica da un fondamentale scarto assiologico: era la filosofia, infatti, e solo la filosofia, a dotare la musica di un senso che, da sola, questa non avrebbe mai potuto darsi. In questo modo, allora, la filosofia tendeva a colonizzare ed addirittura ad annettere la musica, che perdeva ogni autonomia ed ogni specificità. nella nuova prospettiva, invece, il genitivo di ‘filosofia della musica’ è un genitivo soggettivo: la musica viene infatti affrancata dall’ipoteca oggettivante della filosofia e può finalmente procedere iuxta propria principia. Forse ancora più rilevante è n’ulteriore indicazione metafilosofica di tale prospettiva. Se secondo i dettami del nuovo paradigma, la filosofia della musica si farà filosofia dell’ascolto, ma di un ascolto che non è mediato dal linguaggio verbale (e dunque non ha a che fare con gli aspetti semantici, con la rappresentazione linguistica, con il contenuto veritativo), allora in essa si possono trovare importanti indicazioni per una filosofia che sappia andare oltre la ‘svolta linguistica’ che ha segnato, in massima parte, la filosofia novecentesca (da Frege a Wittgenstein alla filosofia analitica; da Saussure e lo strutturalismo a Lacan, da Heidegger a Gadamer). Di più: la stessa tesi centrale dell’ermentutica, ovvero la centralità teoretica del testo letterario come paradigma del processo interpretativo, viene in tal modo messa radicalmente in discussione. Il suono musicale, e non la voce linguistica, è il fulcro di questa nuova filosofia, informata ad un rapporto non più subordinato con la musica. Oggi è molto comune attaccare il paradigma filosofico derivato dalla svolta linguistica. L’offensiva parte dai quartieri del naturalismo, della fenomenologia, del pragmatismo, del pensiero della differenza; ma la tenzone non è affatto conclusa, per il paradigma linguistico si è ormai aperto anche un fronte musicale. Elio Matassi