1/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca Verranno di seguito indicati e brevemente trattati i problemi e gli avvenimenti centrali della storia europea del XIX secolo. L’esame sarà sintetico, senza pretese di esaustività. a) La situazione economica e la questione sociale. Con il decollo industriale della seconda metà del secolo XVIII, l’Inghilterra, prima in Europa, aveva iniziato un processo di industrializzazione, che, insieme all’intenso sviluppo commerciale e coloniale, la condurrà nel corso del secolo XIX, in quella che viene detta età vittoriana dal nome della regina Vittoria (1837-1901), ad una posizione di predominio in ambito europeo e mondiale. Il suo esempio è seguito anche dagli altri Paesi europei ma con tempi e modi diversi ; vi sono infatti Paesi che conoscono il decollo industriale già nella prima metà del XIX secolo - è il caso della Francia e del Belgio -, altri che si industrializzano a partire dalla metà del secolo - è il caso della Germania -, altri ancora che riescono a decollare solo alla fine del secolo - è il caso dell’Italia e della Russia. Fuori d’Europa il decollo industriale interessa soprattutto, se non esclusivamente, gli Stati Uniti ed il Giappone. L’industrializzazione segna il trionfo della borghesia capitalistica, che diventa la classe egemone sostituendosi definitivamente, con tempi e modalità diverse a seconda degli stati, alla nobiltà. Gli storici distinguono due momenti diversi del processo di industrializzazione : la prima rivoluzione industriale, che va dalla seconda metà del secolo XVIII alla prima metà del secolo XIX e poco oltre, ed una seconda rivoluzione industriale, che inizia nella seconda metà del secolo XIX. La prima rivoluzione industriale è caratterizzata dal carbone e dal vapore quali fonti energetiche, dall’industria tessile e da quella metalmeccanica (legata alla diffusione della rete ferroviaria) quali settori trainanti, da complessi industriali di piccole dimensioni e dalla persistenza di forme di autofinanziamento accanto al finanziamento bancario. La seconda rivoluzione industriale è caratterizzata dal petrolio e dall’elettricità quali fonti energetiche, dalla diffusione della produzione industriale in ogni settore, da un legame organico tra industria e ricerca scientifica, da grandi concentrazioni industriali (fabbriche di grandi dimensioni ed anche accordi/fusioni tra industrie per tentare di imporre condizioni monopolistiche al mercato), dal finanziamento bancario e dalla nascita di nuove forme di finanziamento come le società per azioni. La seconda rivoluzione industriale deve essere intesa anche come un vasto processo di ristrutturazione dell’economia per far fronte ad una grave crisi strutturale - la Grande Depressione iniziata nel 1873 e finita oltre vent’anni più tardi - causata soprattutto dalla sovrapproduzione industriale, che è a sua volta una conseguenza della ristrettezza del mercato; negli anni Settanta, infatti, l’industria produce merci in quantità superiori alle capacità di assorbimento del mercato, dato il basso potere d’acquisto delle masse popolari. Con l’industrializzazione nasce e si sviluppa la classe operaia, le cui condizioni di vita sono all’inizio assai dure. Per ottenere condizioni di vita migliori fuori e dentro la fabbrica e per contare di più nel governo del Paese - il suffragio censitario lo esclude infatti dal diritto di voto -, il proletariato industriale si organizza in associazioni sindacali e, nella seconda metà del secolo, in partiti. E’ soprattutto il pensiero socialista, in particolare quello che si ispira alle opere di Karl Marx (1818-1883), come Il Manifesto del Partito Comunista (1848) ed Il capitale (primo libro, 1867), che raccoglie i maggiori consensi tra gli operai. Grazie al socialismo marxiano, che esalta l’importanza del lavoro ed i principi egualitari, gli operai acquistano coscienza della propria dignità e rivendicano una maggiore giustizia sociale. Secondo Marx, il corso della storia umana è determinato dai conflitti tra le classe sociali che hanno interessi contrapposti. Nel passato prossimo la lotta ha coinvolto la nobiltà e la borghesia capitalistica, che si è affermata come classe egemone contro la classe nemica ; ora lo scontro si è spostato e riguarda la borghesia capitalistica ed il proletariato. Quest’ultimo deve organizzarsi e combattere avendo come obiettivo quello della conquista del potere attraverso la rivoluzione, la distruzione dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato. Si parla di “dittatura” in quanto il proletariato, giunto al potere, dovrà costituire un governo forte per impedire la controffensiva della borghesia capitalistica sconfitta e per instaurare un nuovo ordine economicosociale fondato su principi egualitari. In particolare, si dovrà realizzare quell’eguaglianza economicosociale che neppure le punte più avanzate del pensiero democratico avevano ipotizzato; l’uguaglianza economica sarà possibile attraverso l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di 2/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca produzione, che è, come già Rousseau aveva notato, la fonte prima delle disuguaglianze. Si parla di gestione collettiva dei mezzi di produzione, ad esempio la fabbrica gestita dagli operai che ci lavorano o statalizzata. Una volta assolto il compito di distruggere il vecchio ordine e fondarne uno nuovo, la dittatura del proletariato non sarà più necessaria e lo stesso stato, che è pur sempre una struttura coercitiva, si dissolverà. Si entrerà così nella fase comunista propriamente detta (per la fase della dittatura del proletariato si parla invece di fase socialista). I movimenti, i sindacati ed i partiti che si ispirano, anche con significative differenze nazionali, al pensiero di Marx si sforzano di calare il pensiero marxiano nella concreta realtà in cui operano. In particolare, i partiti di ispirazione socialista che nascono soprattutto a partire dagli anni Settanta del XIX secolo - il Partito Socialista Italiano nasce ad esempio nel 1892 - si trovano a dover scegliere tra una politica che tiene fermo l’obiettivo della rivoluzione e della distruzione dell’ordine economicosociale capitalista, ed una politica che rinuncia in tutto o in parte a questo obiettivo, perseguendo piuttosto le riforme che, entro il sistema capitalista, migliorino le condizioni di vita della classe operaia (salari, orario lavorativo, sicurezza ed igiene sul posto di lavoro, pensioni di invalidità e vecchiaia, etc.) e renda i cittadini, indipendentemente dalla loro ricchezza, partecipi del governo dello Stato attraverso il pieno riconoscimento dei diritti politici (suffragio universale maschile). All’interno dello stesso partito possono sorgere varie correnti - per semplificare possiamo distinguere tra un’ala rivoluzionaria ed un’ala riformista - che tendono a contrapporsi, influenzando, a seconda del loro peso, la strategia del partito ora in una direzione ora in un’altra. Al loro nascere i movimenti, i sindacati ed i partiti di ispirazione socialista sono spesso osteggiati dai governi, che possono anche arrivare a dichiararli fuorilegge, imprigionandone i capi ed i membri. Alla fine del secolo, però, essi sono in gran parte riconosciuti, come è del pari riconosciuto il diritto di sciopero. Per volontà dello stesso Marx, inoltre, i movimenti, le associazioni ed i partiti della classe operaia dei vari stati si riuniscono in un’associazione internazionale, detta per l’appunto Prima Internazionale, per meglio coordinare la loro azione. E’ infatti convinzione di Marx che le differenze nazionali siano irrilevanti rispetto alla comune appartenenza di classe: un operaio italiano ha interessi simili a quelli di un operaio tedesco e come questo si contrappone all’imprenditore capitalista, pertanto tutti i proletari del mondo devono unirsi nella comune lotta contro l’ordine capitalista. La Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864, si dissolve a causa dei dissensi interni, poiché raccoglie movimenti ed associazioni di diversa ispirazione politica, non solo socialisti, e viene sciolta ufficialmente nel 1876. L’esperienza della Internazionale prosegue anche dopo la morte di Marx, con la fondazione nel 1889 della Seconda Internazionale, che riunisce i movimenti, i partiti, le associazioni operaie che si richiamano, questa volta più strettamente, al pensiero del filosofo; la Seconda Internazionale non regge però all’urto della prima guerra mondiale e si scioglie nel 1914, dimostrando che l’appartenenza alla stessa classe non abbatte la diversità e le rivalità nazionali. Anche le masse contadine si trovano spesso in una condizione di grave disagio sociale, soprattutto là dove le terre in affitto, con contratti spesso gravosi, o in proprietà sono minuscoli appezzamenti che non consentono alla numerosa famiglia contadina di sopravvivere dignitosamente (è ad esempio il caso dei contadini veneti e in parte emiliani o di quelli che lavorano nei latifondi dell’Italia meridionale). Con l’eccezione dei braccianti, che dimostrano in genere una maggiore capacità associativa - in Italia i braccianti della Pianura Padana si organizzano in leghe ed aderiscono al partito socialista -, le masse rurali non esercitano, anche se miserabili, una forte pressione rivendicativa ; possono esprimere il loro disagio sociale in rivolte senza chiari obiettivi - è il caso del brigantaggio meridionale - e dalla seconda meta del XIX secolo, quando la rivoluzione dei trasporti consentirà di trasferirsi più facilmente oltreoceano, scegliere spesso la via dell’emigrazione per sfuggire alla miseria. Oltre ai movimenti socialisti, il disagio sociale delle masse popolari inizia, soprattutto negli ultimi decenni del secolo, a trovare attenzione anche nel mondo cattolico e nella Chiesa. Con l’enciclica Rerum novarum (1891) il papa Leone XIII, pur rifiutando decisamente le idee socialiste del conflitto di classe e dell’abolizione della proprietà privata, invita i datori di lavoro ad un comportamento più giusto nei confronti dei loro operai, in particolare per quanto riguarda un’equa retribuzione del loro lavoro. E’ però soprattutto nel mondo dei piccoli contadini, proprietari o affittuari, che la Chiesa 3/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca mantiene la propria tradizionale influenza ed i movimenti sociali di ispirazione cattolica acquistano maggiori consensi. Dietro pressione dei movimenti e dei partiti democratici e socialisti e nel timore di un acuirsi dei conflitti sociali, gli Stati liberali europei finiranno per varare politiche sociali di vasto respiro, che miglioreranno le condizioni di vita delle masse operaie, e concederanno il suffragio universale maschile, accogliendo al proprio interno i principi democratici (Stato liberal-democratico). I compiti dello Stato, tradizionalmente limitati alla difesa, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla riscossione dei tributi e poco più, tenderanno ad aumentare e con essi gli apparati burocratici, benché ancora non si possa parlare di Stato sociale o Welfare State, che si affermerà piuttosto dopo la seconda guerra mondiale. Un importante campo di intervento risulterà ad esempio la scuola: lo Stato si impegnerà a fornire a tutti i cittadini un’istruzione di base, cercando di eliminare l’analfabetismo, che ad esempio nell’Italia postunitaria - l’Italia diventa un regno unitario nel 1861 - è un problema particolarmente grave. b) La situazione politica Con il Congresso di Vienna ed il periodo della Restaurazione le maggiori potenze europee tentano di riportare indietro l’orologio della storia, ristabilendo un ordine sociale fondato sul predominio della nobiltà ed un ordine politico fondato sulla monarchia assoluta. Si rifiutano le novità portate dall’illuminismo, dalla rivoluzione francese ed in parte anche dal regime napoleonico ; si tenta di ignorare la volontà di masse sempre più vaste di partecipare al governo della cosa pubblica ; si reprimono le aspirazioni nazionali (= la spinta a formare uno Stato nazionale, dunque una compagine statale unitaria, indipendente dallo straniero ed abitata da un popolo culturalmente abbastanza omogeneo, cioè con una storia, usi e costumi, lingua, religione comuni, in una parola: una “nazione”). Nonostante l’apparato repressivo degli stati della Restaurazione, si sviluppa presto un’opposizione da parte dei liberali, che chiede il riconoscimento dei diritti civili e la formazione di una monarchia costituzionale a suffragio censitario, e da parte dei democratici, che, insistendo sull’uguaglianza degli individui, lottano per la formazione di una repubblica a suffragio universale maschile (uguaglianza politica). Il pensiero liberale riscuote ampi consensi tra la ricca borghesia degli affari e dell’industria nascente, poiché ne interpreta gli interessi - forte insistenza sulle libertà economiche per gli imprenditori, ma rifiuto delle libertà sindacali per gli operai - e la chiusura nei confronti delle masse popolari, che vengono escluse dal governo dello Stato, in nome del principio secondo cui solo chi paga (ingenti) tasse ha il diritto di votare e di essere votato, e che sono guardate con paura per le possibili esplosioni rivoluzionarie, sovvertitrici dell’ordine sociale. Il pensiero democratico riscuote ampi consensi tra la piccola e media borghesia ed in parte tra la classe operaia, che vogliono partecipare al governo dello stato, mandando i loro rappresentanti in parlamento (come si è già detto, l’altra grande corrente politica ottocentesca è il socialismo). Sotto la spinta dell’opposizione, i governi usciti dalla Restaurazione sono costretti ad accettare progressivamente i principi liberali e successivamente quelli democratici, con la formazione dello Stato liberale o liberal-democratico in molti Paesi europei. Tra le maggiori potenze europee quelle che più contrastano tale processo sono l’impero austriaco (dal 1867 impero austro-ungarico) e l’impero russo ; in entrambi i casi il sovrano e le classi dirigenti al potere opporranno una strenua resistenza ad una trasformazione dello Stato in direzione liberal-democratica, fino al crollo finale, che per l’impero austro-ungarico è rappresentato dalla sconfitta nella prima guerra mondiale (1918) e per l’impero russo dalla rivoluzione bolscevica (1917), anch’essa innescata dal conflitto mondiale. Per gli altri stati europei, la trasformazione avviene in tempi e modi diversi, in modo graduale o con scosse rivoluzionarie, in modo completo o solo parziale. Un buon parametro per giudicare della progressiva democratizzazione dello Stato è dato dall’estensione del diritto di voto fino alla concessione del suffragio universale maschile e dal riconoscimento dei diritti sindacali - libertà di associazione e di sciopero per la classe operaia . Nel caso dell’Italia, nel momento della proclamazione del Regno (1861), il diritto di voto spetta al 2,2 % della popolazione, pari a 600.000 persone, le sole ad avere i requisiti richiesti per il fatto di essere maschi, di avere un’età superiore a 25 anni, di sapere leggere e scrivere e di pagare 40 lire di imposte dirette; nel 1882, il diritto di voto viene esteso dal 2,2 % al 6,9 % della popolazione, pari a circa 2 milioni di elettori, che hanno i requisiti richiesti per il fatto di essere 4/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca maschi, di avere un’età superiore a 21 anni, di sapere leggere e scrivere, di pagare 20 lire di imposte dirette; nel 1912, viene concesso il suffragio universale maschile, per cui il diritto di voto è concesso a tutti i cittadini maschi, di età superiore ai 21 anni alfabeti o che abbiano prestato il servizio militare e comunque a tutti coloro che, anche se analfabeti o esentati dal servizio militare, abbiano compiuto 30 anni (25,5% della popolazione, pari a 8 milioni e mezzo di persone). Con il riconoscimento del suffragio universale maschile anche i nullatenenti (e i loro interessi) possono così avere una rappresentanza parlamentare. Quanto al diritto di sciopero, esso viene riconosciuto nel 1890, con l’entrata in vigore del nuovo codice penale (Codice penale Zanardelli), ma continua ad essere di fatto negato fino all’ascesa al potere di Giovanni Giolitti (ministro dell’interno nel 1900, poi, dal 1903, presidente del consiglio), che rifiuta l’idea che lo Stato debba intervenire nelle vertenze private in appoggio agli imprenditori e lascia libero corso agli scioperi. c) La questione nazionale, con particolare riferimento all’Italia Come abbiamo già notato, dalla fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento, si fanno strada le idee nazionali, cioè la richiesta da parte di nazioni dominate dallo straniero, incluse in grandi imperi multietnici (austriaco, russo, turco) e/o frammentate in tanti stati di formare uno Stato nazionale. Elenchiamo di seguito i principali popoli che rivendicano la formazione di uno Stato nazionale: a) il popolo italiano, che si trova frammentato in tanti stati e in parte incluso nell’impero austriaco; b) il popolo tedesco, che si trova frammentato in tanti stati (Confederazione germanica); c) i popoli slavi, che sono parte dell’impero austriaco (sloveni, croati, cechi, slovacchi), dell’impero turco (slavi dei Balcani) o dell’impero russo (polacchi); d) il popolo greco, che è parte dell’impero turco. Tra le lotte per l’indipendenza non vanno dimenticate quelle che negli anni Venti si combattono nell’America centro-meridionale contro la Spagna ed il Portogallo, lotte che conducono alla fine degli imperi che si erano costituiti nel corso del XVI secolo. La formazione dei nuovi Stati nazionali in Europa avviene in tempi e modi diversi, per cui, ai due poli estremi, troviamo i greci, che conquistano l’indipendenza negli anni Venti, ed i polacchi, i croati, i cechi, gli slovacchi, una parte degli slavi dei Balcani, che dovranno attendere la dissoluzione dell’impero austro-ungarico e dell’impero russo zarista, alla fine della prima guerra mondiale, per ottenere l’indipendenza nazionale. Va precisato, inoltre, che le aspirazioni nazionali sono in genere più diffuse tra i ceti colti, borghesi e urbani piuttosto che tra le masse popolari rurali analfabete, visto che i contadini hanno spesso a che fare con problemi più urgenti di quelli dell’indipendenza e dell’unità nazionale (questo è vero, tra l’altro, per l’Italia). Il patriottismo delle origini tende talvolta, a fine Ottocento, a diventare nazionalismo, che è una sorta di patriottismo aggressivo e degenerato, fondato cioè sull’idea della superiorità della propria nazione e sull’espansione ai danni degli stati vicini e dei popoli extra-europei. L’ideologia nazionalista ispirerà i movimenti di destra, l’espansionismo coloniale e più tardi le ideologie fascista e nazista. Per quanto riguarda l’Italia, il processo di unificazione nazionale (Risorgimento, 1815-1870) si presenta come un progressivo allargamento del Regno di Sardegna attraverso: 1) le guerre di indipendenza (1848-49, 1859, 1866), combattute contro l’Austria di cui è imperatore Francesco Giuseppe; 2) le rivolte in Emilia-Romagna e Toscana (1859); 3) la spedizione dei Mille (1860); 4) la presa di Roma (1870). La prima guerra di indipendenza (1848-49) del Regno di Sardegna contro l’Austria non porta a nessun risultato. La seconda guerra di indipendenza (1859), in cui il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II è alleato con la Francia dell’imperatore Napoleone III, conduce alla sconfitta dell’Austria ed all’allargamento del Regno verso la Lombardia (la Francia ottiene in cambio del suo aiuto Nizza e la Savoia); la contemporanea ribellione dell’Emilia-Romagna e della Toscana contro i vecchi sovrani (i duchi ed il papa) si conclude anch’essa con l’allargamento del Regno di Sardegna a queste regioni. L’estensione del regno sabaudo verso Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana è legittimata da un plebiscito attraverso cui si chiede alla popolazione se vuole entrare a far parte del regno; la risposta positiva non deve però far pensare che l’intera popolazione di queste regioni sia effettivamente coinvolta nel processo: come abbiamo già detto, gran parte del popolo italiano, che è composto 5/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca soprattutto da contadini miserabili ed analfabeti, è estraneo al Risorgimento, che è voluto invece dagli intellettuali, da una parte consistente della borghesia medio-alta, da una parte delle masse popolari urbane (artigiani, operai). Il plebiscito sancirà la legittimità anche delle annessioni successive. Con la spedizione dei Mille, i volontari di Garibaldi riescono ad avere la meglio sull’esercito di Francesco II di Borbone, contando anche, in parte, sull’appoggio dei ceti borghesi locali e delle masse popolari, illuse per un momento che la vittoria garibaldina significhi l’istituzione di un ordine sociale più giusto. Mentre Garibaldi conquista l’Italia meridionale risalendo dalla Sicilia, dove era sbarcato, alla Calabria ed alla Campania, l’esercito di Vittorio Emanuele II scende da nord verso sud lungo le Marche e l’Abruzzo provocando la fine del dominio papale su questi territori. Garibaldi e Vittorio Emanuele II si incontrano a Teano, in Campania, dove Garibaldi “consegna” il sud al re; l’anno successivo (1861) nasce ufficialmente il Regno d’Italia con capitale Torino e, dal 1864, Firenze. La terza guerra di indipendenza (1866), in cui il Regno d’Italia è alleato della Prussia contro l’Austria, si conclude con la sconfitta dell’Austria soprattutto grazie alla Prussia; con la terza guerra di indipendenza il Regno d’Italia si allarga al Veneto. E’ però ancora in vita, benché ridotto al solo Lazio, lo Stato della Chiesa. Solo nel 1870, quando il protettore ufficiale del papa, Napoleone III, viene sconfitto nella guerra franco-prussiana e perde il potere, l’esercito italiano, che non deve più fare i conti con l’opposizione francese, può conquistare Roma senza grandi sforzi contro il debole esercito papale: Roma diventa capitale d’Italia. Da questo momento in avanti, però, il papa Pio IX dichiarerà una sorta di guerra allo stato italiano, che ha determinato la fine del suo potere temporale, chiedendo a tutti i cattolici di estraniarsi dalla vita politica del nuovo regno, cioè rifiutando di votare e di farsi votare. Il conflitto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica sarà destinato a durare decenni, ammorbidendosi soprattutto con il nuovo secolo e risolvendosi definitivamente solo nel 1929, in epoca fascista. Rispetto all’attuale configurazione dello Stato italiano, il Regno del 1871 non include né il Trentino-Alto Adige, né il Friuli; l’Italia conquisterà questi territori con la vittoria nella prima guerra mondiale. Il processo di unificazione nazionale, come si è visto, si realizza soprattutto grazie alle guerre, precedute da un’intensa attività diplomatica volta a garantire al Regno di Sardegna, prima, al Regno d’Italia, poi, adeguati appoggi internazionali ed alleati. Questa strategia è iniziata dal conte Camillo Benso conte di Cavour a partire dagli anni Cinquanta ed è quella prospettata dai liberali, favorevoli ad un Risorgimento diretto dall’alto - dal re, dai ministri, dai generali - e diffidenti nei confronti di un’eventuale partecipazione popolare, sentita come potenzialmente pericolosa, capace di trasformarsi in un sovvertimento sociale. L’altra strategia, quella democratica elaborata da Mazzini, fondata sull’insurrezione popolare ed avente come obiettivo la formazione di un’Italia repubblicana e democratica, è storicamente perdente. Tuttavia, va ricordato che la spedizione dei Mille, capeggiata non a caso da un mazziniano come Garibaldi, si avvicina molto alle idee di Mazzini, in quanto è una spedizione di volontari (e non di soldati appartenenti ad un esercito regolare) e cerca di ottenere l’appoggio popolare; anche i democratici, dunque, danno il loro contributo al Risorgimento, ma alla fine accettano che a prevalere sia la soluzione liberale di un’Italia sabauda, di una monarchia costituzionale a suffragio censitario assai ristretto, proprio come Garibaldi, che, dopo aver cacciato i Borboni, non fonda al sud una repubblica democratica, ma consegna il Meridione a Vittorio Emanuele II. Anche la Germania diventa uno Stato nazionale, con un processo che presenta analogie con quello risorgimentale italiano, per il fatto che ruota attorno ad uno stato, il Regno di Prussia, che, sotto il re Guglielmo I ed il primo ministro Otto von Bismarck, prende l’iniziativa di realizzare l’unificazione nazionale, attraverso una serie di guerre successive. Queste gli consentono: a) di acquistare prestigio e potere rispetto agli altri stati tedeschi, che si vedono costretti ad accettarne l’egemonia; b) di eliminare la concorrenza dell’Austria come potenza dominante all’interno della Confederazione Germanica; c) di togliere alla Francia l’Alsazia e la Lorena dopo la vittoria nella guerra francoprussiana. Proprio tale vittoria ha altre importanti conseguenze per tutta l’Europa: a) conduce alla proclamazione dello Stato nazionale tedesco (1871), il cosiddetto Secondo Reich con Guglielmo diventato, da re di Prussia, imperatore (Kaiser) di Germania; b) provoca la caduta del Secondo Impero di Napoleone III in Francia e la proclamazione della Repubblica; c) toglie al papa l’ombrello protettivo della Francia, che dopo la caduta di Napoleone non riconfermerà più il suo aiuto al 6/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca pontefice, e consente dunque all’esercito italiano di entrare a Roma senza scatenare con ciò una guerra contro la Francia. Con l’unificazione nazionale, la formazione di un esercito moderno ed efficiente ed il rapido decollo industriale, la Germania diventa una delle grandi potenze d’Europa, capace di contrastare il tradizionale predominio inglese. Per quanto riguarda il popolo greco ed i popoli slavi dei Balcani, è necessario ricordare qual è nel XIX secolo la situazione dell’impero turco, di cui la maggior parte di questi popoli (con l’eccezione di sloveni e croati che sono inclusi nell’impero austriaco) è parte. All’inizio dell’Ottocento, l’impero turco, che si era formato nel corso della dirompente espansione dei secoli XIV-XVI ed aveva rappresentato una minaccia per l’Europa fino alla fine del XVII secolo, si estende ancora nei Balcani, nel Medio Oriente e nel Nord-Africa, ma inizia ad attraversare una crisi profonda di cui approfitteranno in particolare le potenze vicine - Austria, Germania e Russia - per tentare di espandere i loro territori e per allargare la loro influenza nella regione balcanica, ed i popoli che aspirano all’indipendenza per costituire stati nazionali. L’agonia dell’impero turco è lunga e nel corso del secolo esso si disgrega a causa di guerre e rivolte appoggiate spesso dalle grandi potenze europee interessate all’espansione in quest’area, “perdendo gradualmente pezzi” che vanno a costituire stati indipendenti, approssimativamente corrispondenti agli stati attuali: la Grecia, il Montenegro e la Serbia che ottengono l’indipendenza negli anni Venti; la Romania che si costituisce in regno negli anni Sessanta per fusione di due principati già indipendenti; la Bulgaria indipendente negli anni Settanta. Nel 1908 la Bosnia-Erzegovina entra a far parte dell’impero austriaco e nel 1913, con le cosiddette guerre balcaniche, l’impero turco ha ormai perso quasi tutti i suoi territori europei nei Balcani, con l’eccezione della Tracia, una regione a ridosso degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, ma le tensioni ed i conflitti nei Balcani sono tutt’altro che spenti, tanto è vero che proprio a Sarajevo nella BosniaErzegovina, con l’assassinio dell’erede al trono dell’impero austriaco (1914), inizia la prima guerra mondiale. Con la fine della guerra scomparirà dalla scena europea anche il grande impero multietnico austro-ungarico. d) La situazione dell’Italia dopo il 1861 Con la proclamazione del Regno d’Italia, il nuovo stato deve affrontare molteplici e gravi problemi politico-istituzionali, economico-sociali, finanziari, culturali. E’ al potere - e vi rimarrà sino al 1876 - la cosiddetta Destra storica, cioè quella parte del partito liberale che si richiama alle idee di Cavour, morto poco dopo la proclamazione del regno, e costituisce approssimativamente il centro-destra di quel partito (dove il termine “partito” non va inteso nel senso moderno del termine, cioè come una formazione politica dotata di un’organizzazione stabile e con una vasta base di massa). a) Il problema politico-istituzionale: quale assetto politico si deve dare al nuovo stato? Si decide di estendere al nuovo regno la costituzione del Regno di Sardegna (Statuto Albertino concesso da Carlo Alberto nel 1848); il nuovo stato sarà dunque una monarchia costituzionale (= responsabilità del governo davanti al re e non davanti al parlamento), che nel corso del tempo tenderà a diventare parlamentare (= responsabilità del governo davanti al parlamento e non al re), con un parlamento bicamerale composto da una camera non elettiva i cui membri, che rimangono in carica a vita, sono i nobili del regno (Senato), e una camera eletta a suffragio censitario molto ristretto (Camera dei deputati). D’altra parte l’invito del papa ad estraniarsi dalla vita politica del nuovo stato induce molti cattolici a non andare a votare, per cui, benché il 2,2% degli italiani abbia diritto di voto, il numero dei votanti, già esiguo, si riduce ulteriormente, tanto che il parlamento è ben poco rappresentativo del cosiddetto “Paese reale”. Si scarta l’ipotesi di uno Stato federale nella convinzione che riconoscere ampi poteri decisionali alle realtà regionali preunitarie avrebbe potuto scardinare uno stato ancora giovane e disunito; si opta per uno stato fortemente accentrato, in cui il governo centrale controlla quello che accade nelle periferie soprattutto attraverso i prefetti, che, nominati dal ministro dell’interno e da lui dipendenti, costituiscono una sorta di prolungamento del suo potere fino a raggiungere le più lontane province. A tutta la penisola viene estesa la legislazione piemontese. b) Il completamento del processo di unificazione nazionale ed i rapporti Stato-Chiesa. Con l’annessione del Veneto e del Lazio viene completata l’unificazione nazionale ed ha termine il Risorgimento. Nello stesso tempo, però, la presa di Roma suscita l’ostilità del papa contro il Regno 7/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca d’Italia, con effetti particolarmente negativi per il nuovo Stato (v. considerazioni precedenti sulla questione nazionale). c) Il problema economico-sociale. L’Italia si trova in una condizione di grande arretratezza economica: è un Paese prevalentemente agricolo, con un’agricoltura poco produttiva e rivolta in molte zone al semplice autoconsumo - l’unica area in cui si è sviluppata un’agricoltura efficiente di tipo capitalistico è la pianura padana soprattutto lombarda e piemontese - e la presenza di grandi masse contadine abbrutite dalla fame, dalla cattiva alimentazione, dalle malattie (pellagra, malaria); è un Paese che presenta alcuni nuclei industriali, soprattutto nell’Italia settentrionale, ma che non è ancora decollato; è un Paese in cui lo sviluppo commerciale è stato frenato dai tanti confini e dogane, nonché da una rete di comunicazioni poco sviluppata. La Destra storica si preoccupa di sviluppare l’agricoltura - anche vendendo all’asta terre demaniali ed ecclesiastiche poco sfruttate - e le infrastrutture (strade, ponti, rete ferroviaria, etc.), dopo avere eliminato tutti i confini interni ed ovviamente i dazi doganali, mentre poco rilievo dà allo sviluppo industriale. Dal 1861 al 1865 deve inoltre affrontare il brigantaggio meridionale, una sorta di rivolta sociale che, motivata dalla grande miseria in cui versano le popolazioni del Sud, prende le forme del banditismo e del rifiuto dello stato sabaudo; contro i briganti viene inviato l’esercito, che in scontri armati e processi sommari spegnerà la rivolta con più morti che in tutte le guerre del Risorgimento messe insieme, ma non inciderà sulle cause del fenomeno. d) La questione meridionale. Si delinea già nell’epoca della Destra storica e poi in modo più deciso negli ultimi decenni del secolo il problema del sottosviluppo del Sud: in un’Italia nel suo complesso sottosviluppata, l’Italia settentrionale andrà verso la modernizzazione dell’agricoltura, lo sviluppo commerciale ed industriale, mentre il Sud non conoscerà un’analoga trasformazione, con il risultato che il divario tra Nord e Sud d’Italia andrà sempre più accentuandosi nel corso degli anni. L’Italia meridionale, infatti, presenta e presenterà a lungo una organizzazione fondata sul latifondo, cioè su vaste estensioni di terra di proprietà nobiliare (o borghese) date in affitto a piccoli contadini, lasciate incolte o a pascolo, solo in parte coltivate con colture specializzate per una produzione rivolta al mercato. Il latifondo significa un’agricoltura scarsamente produttiva per mancanza di investimenti, visto che il proprietario vive bene anche grazie ai semplici affitti (ed ai prestiti ad interesse che fa ai contadini) e non ha stimoli all’investimento, mentre il piccolo contadino miserabile, dal canto suo, non ha capitali da investire. L’organizzazione latifondista significa anche oppressione sociale e politica sul contadino, dal momento che il grande proprietario non è per il contadino semplicemente il possessore delle terre, è anche un’autorità indiscussa a cui deve obbedienza e rispetto, colui che gli presta a forti interessi le sementi da seminare, colui che assume le cariche politiche più importanti a livello locale e che siede in parlamento come deputato. In questo ordine economico-sociale l’inserimento del Sud nel Regno d’Italia, il passaggio dalla monarchia borbonica a quella sabauda cambia ben poco, finendo anzi per ribadire lo stato di soggezione del contadino al latifondista. e) Il problema finanziario. Il nuovo stato deve affrontare i costi connessi all’unificazione, allo sviluppo del Paese ed alle spese militari - la Destra sarà impegnata in un’altra, ultima guerra di indipendenza ed inoltre eredita i debiti degli Stati preunitari. Per far fronte a questa situazione, impone una rigida politica finanziaria ed aumenta le tasse, soprattutto quelle che gravano sui consumi popolari come la tassa sul macinato, che viene pagata da chiunque vada a far macinare il suo grano. Proprio la tassa sul macinato provocherà grande malcontento nella popolazione e causerà anche manifestazioni e disordini. f) Il problema culturale. Le masse popolari sono scarsamente alfabetizzate - nel 1871 il 69% degli italiani non sa né leggere né scrivere e nel sud si toccano anche punte superiori all’80% -; tutti gli italiani parlano dialetto e solo i ceti colti hanno qualche conoscenza della lingua italiana, che tuttavia non parlano abitualmente, e conoscono solo attraverso la letteratura dei secoli passati. Benché vi sia un patrimonio di usi, costumi, tradizioni e culti religiosi comuni, esistono tante Italie diverse tra di loro. Fattori unificanti diventano lo sviluppo delle comunicazioni, che collegano tra di loro le tante Italie e favoriscono gli scambi commerciali ma anche la conoscenza reciproca degli italiani; il servizio militare obbligatorio, che mette in contatto i soldati con realtà regionali diverse dalla loro; e la scuola, in cui si cerca di impartire i primi rudimenti della lingua italiana - che tuttavia, per lungo tempo, sarà poco 8/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca conosciuta anche dai maestri - ed in cui si viene educati a sentirsi italiani soprattutto attraverso lo studio della storia patria e della letteratura. La Destra pone le basi del servizio scolastico nazionale, ma solo successivamente, durante il governo della Sinistra storica, viene imposto l’obbligo della frequenza scolastica nei primi due anni della scuola elementare e viene effettivamente mitigata la piaga dell’analfabetismo. Perché l’italiano diventi davvero la lingua scritta e parlata da tutti (o quasi tutti) bisognerà però attendere il secondo dopoguerra, la diffusione dei mass-media (giornali, radio e soprattutto televisione) e la scolarizzazione di massa. La Destra rimane al potere, come si è detto, fino al 1876, quando subentra la Sinistra storica di Depretis. Quando si parla di Sinistra storica, si deve pensare non agli schieramenti politici attuali, ma alla sinistra in seno al Partito liberale, dove sono rappresentati coloro che, partendo dalle idee repubblicane di Mazzini, hanno finito per abbandonarle rinunciando al progetto repubblicano per accettare la monarchia sabauda ed hanno conservato qualcosa (poco) dell’originario spirito democratico, soprattutto nella richiesta dell’allargamento del suffragio, della riforma perequativa del sistema fiscale - con l’eliminazione delle tasse più inique, come quella sul macinato -, dell’introduzione dell’obbligo scolastico. Tale programma sarà solo in parte realizzato. E’ durante l’epoca della Sinistra storica che inizia quel fenomeno di degenerazione della prassi politica che va sotto il nome di trasformismo e che secondo alcuni studiosi costituisce una costante anche della vita politica italiana più recente. Con la parola trasformismo si intende alludere ad un allargamento della maggioranza che progressivamente si estende fin quasi a far scomparire l’opposizione; l’appoggio dei deputati dell’opposizione ai progetti legislativi della maggioranza è inoltre ottenuto più sulla base di favori personali (un esempio: se tu, deputato dell’opposizione appoggi il mio progetto, allora io, capo del governo, mi impegno a far costruire una strada nel tuo collegio elettorale......), che sulla base di un accordo sui programmi che vada a vantaggio dell’intero Paese. Con il trasformismo si introducono germi di corruzione nella prassi politica italiana e si viola uno dei principi-base della vita politica in uno Stato liberal-democratico, cioè l’idea che ci debba essere un costante confronto tra maggioranza ed opposizione - ed anche un’alternanza al potere - utile all’intero Paese, visto che la maggioranza, senza tale confronto e controllo dell’opposizione, può agire indisturbata e dimentica delle proprie responsabilità. E’ durante il governo della Sinistra storica, negli anni Ottanta, che inizia l’espansione coloniale italiana verso l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia, che sarà bruscamente interrotta, nel periodo in cui è al potere Crispi, dalla sconfitta dell’esercito italiano nella battaglia di Adua (1896) da parte degli etiopi. In campo economico la Sinistra decide di adottare una politica protezionistica per difendere l’agricoltura nazionale dalla concorrenza del grano russo e statunitense e per favorire lo sviluppo dell’industria, che potrà tuttavia decollare solo negli ultimi anni del secolo. La trasformazione dello stato italiano in direzione democratica è lenta e difficile ; soprattutto negli anni Novanta, durante i governi Crispi (che cade nel 1896 dopo la sconfitta di Addis Abeba) e nel cosiddetto tentativo reazionario di fine secolo, si susseguono governi autoritari e le richieste di maggior giustizia sociale provenienti dalle masse popolari vengono spesso represse, come accade nel 1898 a Milano quando il generale Bava Beccaris ordina di sparare sulla folla che protesta contro il carovita e per il pane, uccidendo parecchi dimostranti e venendo perciò insignito di una medaglia dal re Umberto I. Proprio negli ultimi due anni del secolo una politica dichiaratamente illiberale - con una drastica limitazione delle libertà individuali - viene osteggiata, dentro il parlamento con l’arma dell’ostruzionismo e fuori di esso con scioperi e dimostrazioni, dall’opposizione, tra cui vi è ormai anche il Partito Socialista Italiano fondato nel 1892. La tensione sociale nel Paese diventa insopportabile tanto che lo stesso re Umberto I viene assassinato - è l’anno 1900 - dall’anarchico Gaetano Bresci, per vendicare i morti di Milano. Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, comprende che la strada dell’autoritarismo non conduce da nessuna parte e decide di affidare la formazione del nuovo governo a Zanardelli, un liberale favorevole ad una politica di riforme a favore delle masse popolari; ministro dell’interno di Zanardelli è Giovanni Giolitti, che nel 1903 diventa presidente del consiglio ed inaugura quell’età di riforme che da lui prende nome: la cosiddetta età giolittiana (1900-1914). 9/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca e) L’Europa ed il mondo In modo più timido e parziale nella prima metà del XIX secolo, con un’accelerazione vertiginosa negli ultimi decenni, l’Europa si lancia nella conquista del mondo: la Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda che già avevano domini coloniali -, il Belgio, la Russia, la Germania e l’Italia - queste ultime in ritardo rispetto agli altri stati perché precedentemente impegnate nella costruzione dello Stato nazionale - si spartiscono i continenti (Africa, Asia, Oceania, comprese le più sperdute isole della Polinesia), tanto che alla vigilia della prima guerra mondiale ben pochi sono i territori extra-europei che sfuggono alla dominazione coloniale. Fuori d’Europa si impegnano nella gara coloniale anche gli altri due Stati che hanno conosciuto una rapida industrializzazione, cioè il Giappone e gli Stati Uniti. L’imperialismo (o colonialismo) può prendere la forma della conquista militare - come accade in Africa ed in gran parte dell’Asia -, dell’emigrazione di massa - come accade per la colonia di popolamento dell’Australia da parte inglese - oppure della dominazione indiretta esercitata attraverso il condizionamento politico ed economico su governi che conservano apparentemente la loro indipendenza - come accade nel caso dei governi dell’America centro-meridionale pesantemente influenzati dagli Stati Uniti, che la considerano un po’ come “il cortile di casa”, o nel caso della Cina, la cui vastità dissuade gli stati europei e gli Stati Uniti dalla conquista. Gli esiti della conquista coloniale sono, con qualche eccezione, scontati, visto che la superiorità economica e tecnico-scientifica assicura senz’altro la vittoria degli stati europei, nonostante una resistenza a volte accanita da parte dei popoli assoggettati e nonostante qualche sporadico successo, come quello riportato in una famosa battaglia dalle tribù africane degli zulu contro gli inglesi, che però passano presto alla controffensiva, o quello più duraturo degli etiopi contro l’esercito italiano nella battaglia di Adua (1896). La conquista è, soprattutto nel caso dell’Africa, accompagnata dalle esplorazioni - è nella seconda metà del XIX secolo che si scoprono le sorgenti del Nilo - e dall’opera dei missionari, che intendono convertire al cristianesimo le popolazioni locali. Le cause che inducono gli stati europei alla conquista sono molteplici, in particolare le colonie si presentano: a) come mercati favorevoli per le merci di un’industria che è alle prese con una crisi di sovrapproduzione; b) come ricche fonti di materie prime e di entrate fiscali; c) come occasione di investimenti di capitali; d) come valvola di sfogo per una popolazione in continuo aumento, che altrimenti dovrebbe emigrare in uno stato straniero; e) come mezzo per rafforzare la propria potenza a livello internazionale; f) come modo per accrescere il consenso delle masse all’interno, masse che si sentono anch’esse importanti e solidali con il loro governo se il Paese ha successo in campo coloniale. Le colonie sono sottoposte ad un pesante sfruttamento e subiscono anche l’imposizione della cultura europea, visto che i colonizzatori negano alle culture locali ogni dignità e sono fermamente convinti della superiorità della propria cultura, che deve essere un faro che illumina le tenebre della barbarie di popoli considerati inferiori. Le conquiste coloniali sono giustificate proprio a partire da questa presunta opera civilizzatrice, per cui nei discorsi ufficiali sembra che gli europei conquistino l’Africa e l’Asia più che per sfruttare le risorse locali - nei discorsi ufficiali lo sfruttamento e le crudeltà nei confronti delle popolazioni locali sono sempre taciute -, per portare la civiltà ed il progresso. E’ proprio di questo periodo lo sviluppo di teorie razziste. Tra di esse ricordiamo innanzi tutto le tesi di J. A. de Gobineau, contenute nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-55), in cui, accanto a posizioni antisemite, l’autore sostiene l’esistenza di una gerarchia fra le razze che sancisce la superiorità dei bianchi e, al loro interno, dei “germani”. L’opera avrà grande successo in Germania. Vi è poi il darwinismo sociale - diffuso soprattutto in Inghilterra - che trasferisce in campo sociologico la dottrina darwiniana della lotta fra gli organismi viventi per la sopravvivenza e che vede la vittoria dei più adatti che trasmettono ai discendenti i loro caratteri con un processo di selezione naturale. Se anche la società umana è regolata dalla lotta per la vita che assicura il dominio del più adatto, ne conseguono la superiorità dei bianchi sulle altre razze ed il dominio di alcune classi su altre. Quanto all’Italia, si mette sulla strada delle conquiste coloniali a partire dagli anni Ottanta e si concentra sui pochi territori africani che non sono già stati conquistati da altri stati: l’Eritrea, una parte della Somalia, l’Etiopia e, all’inizio del nuovo secolo (1911-12), la Libia (che è parte dell’impero turco). Se in Eritrea, in Somalia e contro la Turchia l’Italia vince, in Etiopia, come si è già detto, subisce una pesante sconfitta ad Adua (1896), che la porta a rinunciare per il momento ad ogni espansione in 10/10 Lineamenti generali della storia ottocentesca quell’area; l’Etiopia conserverà la sua indipendenza fino al 1936, quando, ormai in epoca fascista, l’esercito italiano riuscirà a conquistarla.