N e w s l e t t e r Gennaio 2006, Anno 3, Numero 1 Sociologia e Ricerca Sociale Scrivi alla redazione >> [email protected] Ricerca Sociale R i c e r c a 4 S o c i a l e In questo numero, lo spazio ormai consueto dedicato alle storie intellettuali dei e delle docenti della nostra Facoltà è occupato dal professor Giuseppe Bonazzi, docente di Sociologia delle Organizzazioni e Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali. Intervista a Giuseppe Bonazzi di Giulia Cavaletto D: Professor Bonazzi, potrebbe illustrarmi la sua storia “intellettuale”? Com’è nato il suo interesse per la sociologia, e come è arrivato a essere docente di sociologia delle organizzazioni? R: Premesso che proprio su come diventai sociologo, e in particolare sociologo dell’organizzazione ho scritto una mia autobiografia che uscirà tra pochi mesi dal Mulino, posso dire che il modo in cui lo sono diventato è stato abbastanza fortuito. Io sono arrivato alla carriera accademica dopo diversi anni passati lontano dall’Università. Dopo la mia laurea (in Filosofia con Abbagnano) per molti anni non ho più frequentato l’Università, lavoravo all’IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali), dove facevo ricerche di natura velatamente sociologica, ho anche passato un anno negli Stati Uniti ad approfondire le mie conoscenze soprattutto in metodologia della ricerca, ma non avevo intenzioni universitarie. Fu solo di fronte alla povertà, ai limiti intellettuali che vedevo all’IRES, che negli anni sessanta mi sono detto «devo assolutamente uscire di qua». Avevo già pubblicato il mio libro Alienazione e anomia nella grande industria, dove riportavo i risultati delle mie interviste a operai Fiat e di altre quattro fabbriche torinesi sulla loro coscienza di classe. Questo libro uscì nel 1964 e poi scrissi altre cose, così che nel 1968 potei prendere la libera docenza. Nel 1969 si aperse la Facoltà di Scienze Politiche, staccatasi da Legge, e Barbano mi offerse la scelta: «puoi insegnare sociologia del lavoro, dell’industria, oppure dell’organizzazione. Scegli tu». Io scelsi sociologia dell’organizzazione perché già allora intuivo che era la materia con maggiori potenzialità scientifiche, dato che l’organizzazione poteva essere del lavoro, della fabbrica, come delle Forze Armate, della Chiesa e così via. Il concetto di organizzazione mi consentiva uno spettro di significati, di potenzialità euristiche molto più ampio che non “sociologia del lavoro” o “sociologia industriale”. Evidentemente avevo già allora un interesse lavoristico, diciamo, che però ho sviluppato in senso organizzativo. repubblicano storico alla La Malfa. Poi sono divenuto progressivamente di sinistra e mi iscrissi al partito socialista. La mia iscrizione al partito socialista però non ha avuto alcuna influenza diretta sulla mia carriera. Io rimasi iscritto solo alcuni anni, poi quando arrivai all’Università già non ero più iscritto, anche perché il PSI aveva già avuto una scissione e io non mi ero più riconosciuto né da una parte né dall’altra. Diciamo che sono sempre stato di sinistra ma indipendente, mai più iscritto a nessun partito. È evidente però che avevo una posizione di parte, filo-operaia, per un certo periodo mi sono dichiarato marxista, sebbene molto sui generis, poi il marxismo l’ho abbandonato come dottrina conclusa in sé stessa e semmai oggi, se dovessi definirmi, mi definirei weberiano. D: Oltre all’esigenza di cambiare luogo di lavoro, uscendo dall’IRES, c’è stato qualche evento particolare che l’ha portata ad accostarsi alla sociologia nella forma che pratica oggi? Penso per esempio alle vicende delle lotte operaie… R: Io ero di sinistra, mi sono accostato al mondo della sinistra nell’ultimo anno dell’università, prima ero su posizioni sempre rigorosamente laiche ma centriste, diciamo di stampo D: Ecco, lei in quanto esperto di organizzazioni e studioso della vita di fabbrica, come ha visto e quale interpretazione ha dato, soprattutto nella realtà di Torino, del passaggio da un sistema fordista a post fordista soprattutto per come si è andato configurando negli anni più recenti nella nostra città? R: Torino è una città emblematica sotto questo aspetto, perché ha portato alle estreme conseguenze l’esperienza D: Nel suo percorso all’interno della sociologia dell’organizzazione, la sua attenzione è stata catturata prevalentemente dalle dinamiche di organizzazione del lavoro, la vita di fabbrica, oppure ha avuto innamoramenti intellettuali anche per altre branche della sociologia? R: Prevalentemente per il mondo della fabbrica, su cui sono tornato più volte. Poi negli anni settanta, nell’epoca di maggiore sbandamento sociale, di maggiore marasma soprattutto qui a Torino, di terrorismo, degli attacchi delle Brigate Rosse, mi allontanai. Non mi interessava più il mondo della fabbrica, perché si degradava, degenerava rispetto a quello che io ritenevo dovesse essere. Per un certo periodo sono stato in Francia, dove mi sono occupato della creazione politica di capri espiatori, ossia dei processi di colpevolizzazione simbolica. Condussi una ricerca comparata tra Italia e Francia, da cui poi è uscito preso il Mulino il mio libro Colpa e potere dove svolgo un’analisi di come soprattutto a livello della Pubblica Amministrazione erano stati creati dei “capri espiatori” sia in Italia sia in Francia. Ma quello è stato un periodo relativamente breve, tra il ’77 e 1980. Poi con l’81-’82 sono tornato ad occuparmi di fabbrica. Gennaio 2006, Anno 3, Numero 1 Scrivi alla redazione >> [email protected] taylor-fordista. In nessuna altra parte d’Europa si è avuta una concentrazione così ampia e così monocorde di operai, come è stata Mirafiori, vi era una concentrazione in termini assoluti paragonabile soltanto alle fabbriche di Detroit. Quando si voleva espandere, Fiat andò a scegliersi Rivalta, l’idea che potesse andare a produrre altrove, come poi è stato per Melfi o Termini Imerese, è venuta molto ma molto dopo. La visione fordista coincideva con una visione torinocentrica, con tutti i vantaggi ma soprattutto con tutti gli svantaggi di una concentrazione parossistica di operai in questa città. Poi ci fu il trapasso in un’epoca post-fordista, anche allora si può indicare un anno simbolico, il 1980, con la lotta dei trentacinque giorni, con il blocco ai cancelli e la marcia dei Quarantamila. Fu un trapasso brusco e traumatico in un’epoca che convenzionalmente possiamo definire post-fordista. Quel passaggio non poteva non esserci, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che comporta, ci fu una ridefinizione completa non solo del modo di lavorare, ma anche di organizzare la vita. Post-fordista può essere considerato non soltanto un modello produttivo, ma un’intera società… D: Post-fordista può essere in questo senso parzialmente sovrapponibile, o si interseca, con “globalizzato”? R: La globalizzazione si interseca con il post-fordismo ma non è identica. Sono due processi distinti anche se si intrecciano. Avrebbe potuto esserci anche una globalizzazione fordista. D: I suoi più recenti interessi di ricerca la vedono ancora sempre impegnato sul fronte della sociologia delle organizzazioni applicata al mondo del lavoro, oppure si sta spostando verso altri ambiti? R: Mi sto spostando… Io sono spiritualmente “andato in pensione con la Fiat”, non ho più voglia di occuparmi di fabbrica, di lavoro. Ma sempre sociologo sono e mi sto spostando verso tematiche di credenze religiose, cioè, non ha nulla a che fare con il lavoro precedente se non la continuità come sociologo. D: La scelta di questo tema, così diverso dal precedente, deriva dal fatto che si è trattato di un interesse che lei già in qualche modo coltivava, ma non aveva modo di esplicitare nel suo percorso accademico, oppure è stato un incontro fortuito, oppure ancora è stato coinvolto in qualche progetto? R: Non è un incontro fortuito, ho scelto di mia iniziativa e non sono coinvolto in nessun progetto di gruppo. Posso dire che se io non avessi fatto il sociologo, tornando indietro mi sarebbe piaciuto fare (stando dentro l’università e dovendo scegliere un’altra branca di sapere) lo storico del primo Cristianesimo, il Cristianesimo primitivo. In particolare mi sarebbe piaciuto studiare e approfondire tutta la costruzione dogmatica cristiana e cattolica in particolare. Dato che io non sono un credente, in una chiave di totale demistificazione, avrei voluto vedere attraverso quali negoziati, compromessi e strane avventure del pensiero e della politica si sono definiti e cristallizzati dei dogmi, in maniera del tutto casuale o magari N e w s l e t t e r Sociologia e Ricerca Sociale 5 secondo una logica di potere. La mia è comunque una posizione fortemente demistificatoria, mi riferisco all’opera della scuola razionalista tedesca dell’ottocento che ha demistificato tutto il costrutto del primo cristianesimo. Non potendo alla mia età diventare uno storico delle religioni, mi sto occupando dei costrutti mentali, dell’immaginario delle persone, di nuovo in una chiave che è totalmente differente dai sociologi della religione più noti, nel senso che non faccio ricerche quantitative. Io attraverso un’indagine qualitativa di analisi del discorso voglio vedere le incongruenze, le approssimazioni, le aporie che le persone hanno nel loro immaginario religioso. D: L’approccio qualitativo, che ha adottato in quest’ultima fase del suo cammino di ricerca, ha anche contraddistinto l’epoca del lavoro sulla fabbrica o allora prediligeva tecniche quantitative? R: Io ho usato tecniche di indagine quantitativa soltanto nella mia prima ricerca su alienazione e anomia, dove intervistai quasi soltanto da solo, 230 dipendenti della Fiat e un’ottantina di altre imprese. Quella è stata l’unica ricerca quantitativa che ho fatto. Poi ho sempre fatto ricerche qualitative…. no c’è stata anche Una fabbrica di motori dove io svolsi una ricerca con questionari, ma anche lì le interviste non le ho fatte io, le ho fatte fare, mi sembra 200-300 interviste… altrimenti ho sempre fatto ricerche qualitative, di osservazione, ricerca etnografica e osservazione di piccoli gruppi. D: Un’ultima cosa: da una serie di affermazione che lei ha fatto mi è sembrato di capire che c’è un filo conduttore filosofico che l’ha guidata pur nell’evoluzione dei suoi interessi. Ritiene che sia stata effettivamente la sua originaria formazione filosofica a guidarla, instradarla e mantenere vivo l’interesse per gli argomenti più recenti? In altre parole, è lì, a suo avviso, il seme della sua curiosità sociologica? R: La filosofia ha avuto certamente per me grande importanza, mi ha aiutato a darmi un’impostazione di fondo. La filosofia e in particolare il pragmatismo americano in cui mi sono trovato subito a mio agio, passando dalla filosofia alla sociologia. Quindi, perché mi sono spostato dalla filosofia alla sociologia? Perché ad un certo punto avevo l’esigenza di lasciare un mondo che percepivo come troppo astratto, volevo trovare e conoscere un mondo sociale più concreto. E infatti dall’Università io sono immediatamente passato al mondo del lavoro. Appena laureato passai un anno preso l’Ufficio studi del sindacato - erano gli anni cinquanta - per conoscere proprio il mondo della fabbrica, gli operai. La filosofia era l’ancoraggio a un mondo teorico. La sociologia è stato un po’ il punto di incontro, la congiunzione tra un’esigenza teorica e un’esigenza empirica, quindi riuscire a elaborare degli schemi di medio raggio e rendere conto di fenomeni e realtà specifiche.