CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 6 maggio 2013 n. 9 Pres. Giovannini, Est. Caringella - Cevolani (Avv. Moscioni) c. Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (Avv. Morrone) - (dichiara ammissibile il ricorso per l’ottemperanza al decreto del Presidente della Repubblica 18 maggio 2010 e lo rimette alla Sezione per l’ulteriore definizione del giudizio e per la statuizione sulle spese). 1-2. Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario al Capo dello Stato - Decreto presidenziale decisorio - A seguito delle recenti modifiche alla disciplina del ricorso straordinario - Ha ormai carattere sostanzialmente giurisdizionale. 3. Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario al Capo dello Stato - Decreto presidenziale decisorio - Ricorso per ottemperanza - Nel caso di inesecuzione dello stesso - Competenza a decidere quest'ultimo ricorso - Spetta al Consiglio di Stato (in unico grado). 1. Lo sviluppo normativo riguardante la disciplina del ricorso straordinario (v. in particolare l’art. 3, comma 44, della legge 21 luglio 2000, n. 205, il quale ha previsto che, nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili, la sospensione dell'atto impugnato; ma v. anche l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il quale prevede la possibilità di sollevare q.l.c. nell’ambito del procedimento di decisione del ricorso straordinario e l’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, il quale ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa) depone nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale; ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo (1). 2. In materia di ricorso straordinario al Capo dello Stato deve ritenersi che il decreto presidenziale che recepisce il parere del Consiglio di Stato, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente amministrativo, sia estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti (2). 3. Poichè il decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, reso in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, rientra nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112, comma 2, c.p.a., ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, c.p.a., dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta" (3). ---------------------------------(1) Nella motivazione della sentenza in rassegna si ricorda che secondo un primo, maggioritario, indirizzo, il nuovo assetto normativo avrebbe consacrato la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola, in modo da assicurare "un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile agendo giudizialmente" (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638). Invece, un secondo, minoritario, approccio ermeneutico (Con. Stato, sez. III, ordinanza 4 agosto 2011, n. 4666; sez. I, parere 7 maggio 2012, n. 2131), sposato dall’ordinanza di rimessione, anche dopo le modifiche normative in precedenza passate in rassegna il rito del ricorso straordinario continuerebbe a presentare profili di specialità rispetto al procedimento schiettamente giurisdizionale - con precipuo riferimento ai nodi essenziali del contraddittorio, dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio - tali da indurre a qualificare l’atto conclusivo della procedura come provvedimento amministrativo, solo per certi aspetti equiparato ad una sentenza. L’Adunanza Plenaria ha ritenuto, in continuità con l’avviso già espresso con la sentenza n. 18/2012 (in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm) e con l’orientamento assunto dalla Corte di legittimità (cfr. da ult. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm con nota di P. QUINTO), che meriti condivisione il primo indirizzo ermeneutico, favorevole al riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura. Secondo l’Adunanza Plenaria assume rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale. (2) Ha aggiunto l’Adunanza Plenaria che a matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio del ricorso straordinario è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Merita menzione, in particolare, l’articolo 7, comma 8, c.p.a. che, nel quadro di una disciplina dedicata alla definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa, limita la praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice amministrativo è dotato di giurisdizione. La "giurisdizione" diventa quindi presupposto generale di ammissibilità del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione. Si richiama a conforto anche la recente sentenza della Cass., sezioni unite, 19 dicembre 2012, n. 23464 (in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm), secondo cui il riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario dell’ammissibilità del sindacato della Corte di Cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla giurisdizione, non contrasta con il disposto dell’articolo 125, comma 2, Cost., in materia di istituzione in ambito regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto, anche a non considerare che la riserva elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in realtà impedire l’attribuzione ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali in unico grado" (Corte cost. n. 108 del 2009, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-04-09.htm), in ogni caso la garanzia del doppio grado di giurisdizione è pienamente assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad optare per il procedimento speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato. (3) Cfr. Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/11/cassu_2011-01-28.htm e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad. Plen,. 5 giugno 2012, n. 18, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513. Ha aggiunto la sentenza in rassegna che il riconoscimento della competenza in unico grado del Consiglio di Stato anche in sede di ottemperanza scongiura l’anomalia logica della previsione di un giudizio di esecuzione in doppio grado finalizzato all’attuazione di uno iussum iudicis perfezionatosi all’esito di un giudizio semplificato in grado unico. Non è d’altronde chi non veda come una simile aporia contraddirebbe, proprio nella nevralgica fase dell’esecuzione, le esigenze perseguite dal legislatore mediante la previsione di un rito speciale e semplificato finalizzato a consentire, nell’accordo tra le parti, una sollecita definizione della controversia. --------------------------------------Documenti correlati: CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 19-12-2012, pag. http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm (nell’affermare, dopo un ampio excursus delle più recenti modifiche della disciplina del ricorso straordinario al Capo dello Stato, che il relativo decreto di decisione ha natura giurisdizionale e non amministrativa, ammette la proponibilità avverso di esso - sia pure per le materie per le quali sussiste la giurisdizione del G.A. - di un ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. per motivi di giurisdizione), con nota di P. QUINTO. CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, sentenza 5-6-2012, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm (sull’ammissibilità del ricorso per ottemperanza proposto per l'esecuzione di un decreto di decisione di un ricorso straordinario e sulla base di calcolo alla quale fare riferimento per il computo degli interessi e della rivalutazione monetaria dovuti per crediti retributivi dei dipendenti pubblici) GIOVANNI VIRGA, Il paradosso del ricorso straordinario, in LexItalia.it n. 3/2011, pag. http://blog.lexitalia.it/?p=625 N. 00009/2013REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6 di A.P. del 2013, proposto da: Franco Cevolani, rappresentato e difeso dall'avv. Anna Rita Moscioni, con domicilio eletto presso Biagio Marinelli in Roma, via Acquedotto Paolo, 22; contro Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, Generale, rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Morrone, domiciliato in Roma, alla via Cesare Beccaria, n. 29; per l’ottemperanza al decreto del Presidente della Repubblica 18 maggio 2010, reso tra le parti, concernente rimborso di contributo versato ai sensi dell’art. 11 della legge 8 aprile 1952, n. 212; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’INPS; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2013 il Cons. Francesco Caringella e udito l’avv. Pancari per delega di Morrone.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ricorso per ottemperanza n. 4813 – notificato il 15.6.2012 e depositato il 27.6.2012 – il colonnello Franco Cevolani chiedeva l’esecuzione del giudicato formatosi sul decreto presidenziale in data 18.5.2010, emesso in conformità al parere del Consiglio di Stato, sez. III, n. 663 del 22.2.2010, di accoglimento del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica con il quale il Cevolani aveva contestato il mancato rimborso, da parte dell’INPDAP, del contributo dello 0,50% di cui all’art. 11 della legge 8.4.1952, n. 212, all’atto della cessazione del periodo di ausiliaria. Con il ricorso n. 4813/2012 il Cevolani proponeva ricorso per ottemperanza con il quale lamentava la mancata esecuzione del decisum. Si costituiva nell’ambito di tale giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), quale successore ex legedell’INPDAP, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito in legge 22.12.2011, n. 214. La Sezione rimettente ha sottoposto il ricorso alla cognizione dell’Adunanza Plenaria, ex art. 99 del codice del processo amministrativo, ai fini della soluzione delle questioni di diritto, di particolare importanza e fonti di contrasti giurisprudenziali, relative alla natura giuridica della decisione resa a seguito di ricorso straordinario e del giudice competente a pronunciarsi sul ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 113 del codice del processo amministrativo. Alla camera di consiglio del 25 marzo 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO 1.La Sezione rimettente sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria le questioni di diritto relative alla natura giuridica della decisione resa a seguito di ricorso straordinario e del giudice competente a pronunciarsi sul ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 113 del codice del processo amministrativo. 2. Prima di passare all’esame delle questioni di diritto rimesse al vaglio dell’Adunanza, occorre passare sinteticamente in rassegna le recenti novità normative che hanno inciso in modo significativo sulla disciplina e sulla configurazione dell’istituto. In prima battuta l’art. 3, comma 44, della legge 21 luglio 2000, n. 205, recante "disposizioni in materia di giustizia amministrativa", ha previsto, che, nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili, la sospensione dell'atto impugnato, disposta con atto motivato del Ministero competente ai sensi dell’ art. 8, del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, su "conforme parere" del Consiglio di Stato. L’articolo 245, comma 2, del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, ha poi sancito l'applicazione degli strumenti di esecuzione di cui agli art. 33 e 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 con riguardo ai decreti di accoglimento di ricorsi straordinari aventi ad oggetto atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici e atti dell'Autorità di vigilanza sugli stessi. Di portata più generale sono gli interventi attuati con l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante "disposizioni per lo sviluppo economico, la competitività nonché in materia di processo civile". Il primo comma ha introdotto, sotto forma di periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma a tenore della quale il Consiglio di Stato, "se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87". Il secondo comma dell’art. 69 cit. ha disposto l'aggiunta al primo periodo del primo comma dell'art. 14 del medesimo d.P.R. n. 1199/1971 delle parole "conforme al parere del Consiglio di Stato" e la soppressione del secondo periodo del primo comma dello stesso articolo, nonché l'abrogazione del secondo comma, in tal guisa eliminando la possibilità, originariamente contemplata, che il Ministero ratione materiae competente, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato previa sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei Ministri. L’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 ha, dal canto suo, stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (cfr., nel senso dell’inapplicabilità di detto jus superveniens ai ricorsi proposti in un torno di tempo anteriore all’entrata in vigore del codice, Cons. Stato, Ad gen., parere 22 febbraio 2011, n. 4520). L'art. 48 cod. proc. amm. ha poi specificato, in termini di maggior rigore e di accentuato parallelismo, la regola dell'alternatività tra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso ordinario al giudice amministrativo, riconoscendo la facoltà di opposizione di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 1199/1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario. 3. Tanto premesso in ordine alle più pregnanti emergenze normative, le opzioni ermeneutiche emerse nel dibattito giurisprudenziale sviluppatosi in subiecta materia sono riassumibili come segue. 3.1.Ad avviso di un primo, maggioritario, indirizzo, il nuovo assetto normativo avrebbe consacrato la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola, in modo da assicurare "un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile agendo giudizialmente" (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638). Dalla premessa della qualificazione del decreto decisorio che definisce la procedura innescata dalla proposizione del ricorso straordinario come decisione di giustizia avente natura sostanzialmente giurisdizionale, si trae il duplice corollario dell’ammissibilità del ricorso per ottemperanza al fine di assicurare l’ esecuzione del decreto presidenziale e del radicamento della competenza in unico grado del Consiglio di Stato alla stregua del combinato disposto dell’art. 112, comma 2, lettera b), e 113, comma 1 , del codice del processo amministrativo (conf. Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18; negli stessi termini, ex multis, Cass., sez. unite, 28 gennaio 2011, n. 2065;10 marzo 2011, n. 5684; 28 aprile 2011, n. 9447; 19 luglio 2011, n. 15765; 13 ottobre 2011, n. 21056; 22 dicembre 2011, n. 28345; 28 dicembre 2011, n. 29099; 15 marzo 2012, n. 2129, n. 2818). 3.2. Ad avviso di un secondo, minoritario, approccio ermeneutico (Con. Stato, sez. III, Ordinanza 4 agosto 2011, n. 4666; sez. I, parere 7 maggio 2012, n. 2131), sposato dall’ordinanza di rimessione, anche dopo le modifiche normative in precedenza passate in rassegna il rito del ricorso straordinario continuerebbe a presentare profili di specialità rispetto al procedimento schiettamente giurisdizionale - con precipuo riferimento ai nodi essenziali del contraddittorio, dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio - tali da indurre a qualificare l’atto conclusivo della procedura come provvedimento amministrativo, solo per certi aspetti equiparato ad una sentenza. Tale indirizzo, pur ribadendo l’esperibilità del giudizio di ottemperanza per la piena esecuzione del "decisum" conseguente a ricorso straordinario, ritiene che il decreto decisorio non costituisca un provvedimento esecutivo del giudice amministrativo ex art. 112, comma 1, lettera b, c.p.a., ma debba essere sussunto nel novero dei provvedimenti equiparati alle sentenze ai sensi della successiva lettera d. Da siffatta premessa qualificatoria si trae il corollario dell’individuazione quale giudice competente, in forza del secondo comma del successivo art. 113, del "tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza", ossia del TAR del Lazio, nella cui circoscrizione operano il Presidente della Repubblica, il Ministro proponente ed il Consiglio di Stato in sede consultiva. A quest’ultimo riguardo si ritiene che il termine "giudice" sia utilizzato dall’art. 113 cit in senso ampio e necessariamente atecnico, come dimostrato dal fatto che l’art. 112, comma 1, lettera e), annovera nella categoria anche gli arbitri. 4. Questa Adunanza reputa, in continuità con l’avviso già espresso con la citata sentenza n. 18/2012 e con l’orientamento assunto dalla Corte di legittimità, che meriti condivisione il primo indirizzo ermeneutico, favorevole al riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura. Lo sviluppo normativo di cui si è dato conto depone, infatti, nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale. Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo. 4.1. Assume rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale. Una volta acquisito che la paternità effettiva della decisione è da ricondurre all’apporto consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il provvedimento finale è meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l’atto finale della procedura è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato (così Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464). In definitiva il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti. 4.1.1. La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Merita menzione, in particolare, l’articolo 7, comma 8, che, nel quadro di una disciplina dedicata alla definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa, limita la praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice amministrativo è dotato di giurisdizione. La "giurisdizione" diventa quindi presupposto generale di ammissibilità del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione. La rimozione della possibilità che il ricorso straordinario sia promosso in materie in cui il giudice amministrativo è privo di giurisdizione, rafforza, poi, il connotato dell’alternatività del rimedio, cancellando l’ipotesi di un ricorso straordinario concorrente, nelle materie estranee alla giurisdizione amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando l’ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della sostanziale giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela. 4.1.2. Sullo stesso solco si pone anche la disciplina recata dall’articolo 48 del codice del processo amministrativo, che, al comma 1, contempla la facoltà di opposizione, ex art. 10 d.P.R. n. 1199/1971, in favore di qualsiasi "parte nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario". La generalizzazione della facoltà di opposizione, testimoniata dall’uso di una formula che comprende anche lo Stato, oltre alle altre pubbliche amministrazioni, ai controinteressati e ai cointeressati, garantisce il pieno rispetto del contraddittorio e, soprattutto, assicura la compatibilità del nuovo assetto con la garanzia dell’effettività della di tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e con il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost) in quanto l’unicità del grado e la caratterizzazione semplificata dell’istruttoria trovano fondamento nell’accordo sostanziale tra le parti secondo uno schema consensuale non dissimile da quello che permea il ricorso per saltum ex art. 360, comma 2, c.p.c. 4.1.3. Va poi rimarcato che il successivo comma 3 dell’art. 48, laddove prevede che il tribunale amministrativo regionale che dichiari l’inammissibilità dell’opposizione deve disporre la restituzione del fascicolo per la "prosecuzione del giudizio in sede straordinaria", dà luogo ad una speciale formatranslatio iudicii che, anche sul versante schiettamente terminologico, mostra di considerare il ricorso straordinario come la continuazione del medesimo giudizio incardinato con il ricorso al giudice amministrativo. Il giudizio che prosegue in sede straordinaria registra, quindi, il mutamento del rito ma non vede modificata la sua natura sostanzialmente giurisdizionale. 4.2. Va inoltre osservato che proprio la valorizzazione delle coordinate normative fin qui esaminate ha di recente indotto la Corte di Legittimità ad assegnare al decreto che definisce il ricorso straordinario la valenza di decisione costituente esercizio della giurisdizione riferibile, nel contenuto recato dal parere vincolante, al Consiglio di Stato, naturaliter sottoposta al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione ex artt. 111, comma 8, Cost., 362, comma 1, c.p.c. e 110 c.p.a. (Cass., sezioni unite, 19 dicembre 2012, n. 23464). La Corte di Cassazione ha nell’occasione osservato che il riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario dell’ammissibilità del sindacato della Corte di Cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla giurisdizione, non contrasta con il disposto dell’articolo 125, comma 2, Cost., in materia di istituzione in ambito regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto, anche a non considerare che la riserva elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in realtà impedire l’attribuzione ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali in unico grado" (Corte cost. n. 108 del 2009), in ogni caso la garanzia del doppio grado di giurisdizione è pienamente assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad optare per il procedimento speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato. La circostanza ipotetica che il decreto presidenziale possa essere affetto da vizi propri del procedimento successivo all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del ricorso straordinario e radicata nelle origini storiche dell'istituto, non inficia né indebolisce l’essenza giurisdizionale della decisione che ha come unico sostrato motivazionale il parere vincolante reso dal Consiglio di Stato. Si deve per completezza osservare che, secondo il condivisibile orientamento interpretativo assunto dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, siffatta costruzione ermeneutica è compatibile con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali sancito dall’articolo 102, comma 2, Cost. A sostegno dell’assunto depone la decisiva considerazione che, anche prima delle riforme che ne hanno messo in risalto la caratterizzazione giurisdizionale, la decisione sul ricorso straordinario esibiva, nel suo nucleo essenziale, la connotazione di decisione di giustizia pur se per vari aspetti non poteva parlarsi di "funzione giurisdizionale" nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. Si deve allora convenire che, una volta depurato il procedimento, per il tramite della revisione operata dal legislatore ordinario, dagli aspetti non compatibili con il riconoscimento della "funzione giurisdizionale", la decisione del ricorso straordinario, nella parte in cui assume come unico sostrato motivazionale il parere del Consiglio di Stato, rientra a pieno titolo nella garanzia costituzionale dell'art. 103 Cost., comma 1, che fa salvi, come giudici speciali, il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa. Per le stesse ragioni non si pone un problema di compatibilità, rispetto alla riserva di legge costituzionale relativa alla disciplina di condizioni, forme e termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale (art. 137 Cost., comma 1), della ricordata previsione che legittima il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere sul ricorso straordinario, a sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale, dal momento che non è precluso al legislatore ordinario - nel rispetto del divieto di istituzione di nuovi giudici speciali - di riconoscere o confermare la natura giurisdizionale di una sede in cui una controversia è dibattuta tra le parti in contraddittorio ed è decisa da un giudice terzo ed imparziale ai sensi dell’art. 1 della L cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 23. Va soggiunto che tale "revisione" è stata esplicitata dal legislatore con la normativa recata in materia di contributo unificato dall’art. 37, comma 6, del d.l. 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, che, in sede di modifica dell’art. 113, comma 6 bis, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, ha dettato la disciplina del contributo unificato per il ricorso straordinario, inserendo l’istituto de quo all’interno del complessivo sistema giudiziario. 4.3. Non ostano alle conclusioni fin qui esposte le considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione in merito alle persistenti peculiarità che il rimedio in esame presenterebbe rispetto all’ordinario processo amministrativo, con precipuo riferimento al perimetro delle azioni esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, alle modalità di svolgimento dell’istruttoria e al novero dei mezzi di prova acquisibili. Siffatte peculiarità, lungi dall’implicare il riconoscimento della natura amministrativa della procedura e dell’atto che la definisce, sono pienamente coerenti con la volontà legislativa di enucleare un rimedio giurisdizionale semplificato, in unico grado, imperniato sul sostanziale assenso delle parti. In questo quadro spetta all’azione interpretativa della giurisprudenza e all’eventuale percorso riformatore del legislatore individuare il punto di equilibrio tra l’esigenza di attuazione dei canoni costituzionali ed europei (art. 1 c.p.a.), in materia di effettività della tutela, di garanzia del pieno contraddittorio, di diritto alla prova e di diritto ad un processo equo (art. 6 CEDU), e la preservazione dei profili di specialità che connotano, sul piano ontologico e teleologico, un rito semplificato consensualmente accettato come strumento semplificato di definizione della res litigiosa. 5. Tanto osservato in merito alla natura giuridica del rimedio, si può ora passare all’esame del quesito specifico relativo all’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sul ricorso per ottemperanza. 5.1. La questione dell’ ammissibilità del ricorso per ottemperanza dei decreti di accoglimento di ricorsi straordinari al Capo dello Stato, adottati a seguito del parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, è stata già risolta in senso positivo sia dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (per tutte SS.UU. n. 2065 del 28 gennaio 2011) sia dalla successiva giurisprudenza amministrativa recepita da questa Adunanza (vedi sentenza n. 18/2012 cit), che hanno fatto leva sul rammentato riconoscimento della natura intrinsecamente giurisdizionale di una procedura culminante in una decisione caratterizzata, nel regime generale di alternatività, dalla stabilità tipica del giudicato e, quindi, bisognosa di una tutela esecutiva pienamente satisfattoria. Tale indirizzo ha condivisibilmente affermato che il decreto presidenziale, divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo e, quindi, è suscettibile di ottemperanza sulla scorta dei lineamenti normativi enucleati dagli articoli 112 e seguenti del codice del processo amministrativo. 5.2. Quanto alla questione di competenza, l’articolo 112 del codice del processo amministrativo, nel dettare le "disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza", dispone, al comma 2, che l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato (lett. a), delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (lett. b), delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (lett. c), delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza (lett. d) nonché dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili (lett. e). In maniera corrispondente, il successivo art. 113, nell'individuare il giudice competente in sede di ottemperanza, dispone che il ricorso si propone, nel caso di cui all'art. 112, comma 2, lettere a) e b), al giudice che ha emesso il "provvedimento" della cui ottemperanza si tratta (essendo competente il tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione del tutto conforme) (comma 1), mentre nei casi di cui all'art. 112, comma 2, lettere c), d) ed e), il ricorso va proposto al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l'ottemperanza (comma 2). Si delinea così una netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri provvedimenti del giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e b), per i quali è prevista la competenza del giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il provvedimento, e quella che interessa le sentenze passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario o di altri giudici, nonché i lodi arbitrali divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed e)), per i quali è competente il tribunale amministrativo regionale secondo il criterio di collegamento previsto dall'art. 113, comma 2. 5.2.1. Ebbene, le considerazioni fin qui formulate in merito alla qualificazione della decisione su ricorso straordinario come decisione di giustizia inquadrabile nel sistema della giurisdizione amministrativa conducono al precipitato indefettibile della collocazione del decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112, comma 2. Ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta" (conf. per tutte, Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065 e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad. Plen,. 5 giugno 2012, n. 18; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513). 5.2.2. L’assunto è corroborato, sul piano teleologico, dal rilievo che la disciplina della competenza territoriale fissata dall’art. 113, comma 1, del codice del processo amministrativo si connota per l’ attribuzione al Tribunale amministrativo regionale della competenza a conoscere dell’attuazione delle proprie sentenza integralmente confermate, anche sul piano motivazionale, in appello e per la speculare assegnazione al Consiglio di Stato della cognizione delle domande finalizzate all’esecuzione delle proprie decisioni che modifichino il contenuto dispositivo o conformativo della sentenza gravata. Il criterio di regolazione della competenza è così ispirato al principio secondo cui il giudice che ha emesso la sentenza è naturaliter il più idoneo ad assicurare l’ interpretazione della portata effettiva e la conseguente esecuzione satisfattoria del decisum. Ne consegue che la locuzione "altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo", contenuta nell’art. 112, comma 2, lettera b), del codice del processo amministrativo, va interpretata attribuendo rilevanza poziore non al profilo nominalistico dell’imputazione formale dell’atto ma al dato sostanziale della paternità ideologica della decisione. Va quindi qualificato come provvedimento esecutivo del giudice amministrativo, ai fini della soluzione del problema di competenza, la decisione su ricorso straordinario che, nonostante la veste formale, abbia come unica motivazione il rinvio al contenuto della decisione giurisdizionale resa dal Consiglio di Stato mediante l’applicazione del diritto obiettivo in posizione di terzietà e di indipendenza. 5.3. Si deve poi osservare che alla praticabilità della diversa opzione ricostruttiva volta a qualificare il decreto che definisce il ricorso straordinario come provvedimento amministrativo equiparato, ai limitati fini dell’esecuzione ex art. 112, comma 2, lettera c, ad una decisione giurisdizionale, si oppongono argomenti di carattere letterale e sistematico. Sul piano letterale, l’articolo 113, in sede di fissazione delle regole della competenza, si riferisce al giudice che ha emesso la sentenza o il provvedimento, così presupponendo la natura giurisdizionale della decisione da eseguire. Il rimedio dell’ottemperanza è, quindi, expressis verbisfinalizzato all’attuazione di statuizioni costituenti esercizio di giurisdizione, pubblica o privata, mentre esulano dal raggio della sua azione iniziative finalizzate all’attuazione di determinazioni amministrative. Si deve soggiungere, sul versante sistematico, che la lettera d) del comma 2 dell’articolo 112, è con evidenza riferita, in via residuale, alle sentenze ed ai provvedimenti equiparati imputabili a giudici diversi dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario ai quali si riferiscono le lettere precedenti dello stesso comma. Risulta pertanto confermata, anche sotto questa angolazione, l’estraneità al perimetro del giudizio di ottemperanza dell’attività di esecuzione di provvedimenti amministrativi equiparati, solo a limitati fini, a decisioni giurisdizionali. 5.4. Giova rinviare alle considerazioni svolte in precedenza (par. 4.1.2.) al fine di escludere che l’affermazione della competenza, in executivis, del Consiglio di Stato si ponga in contrasto con il principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione. Si deve solo aggiungere il riconoscimento della competenza in unico grado del Consiglio di Stato anche in sede di ottemperanza scongiura l’anomalia logica della previsione di un giudizio di esecuzione in doppio grado finalizzato all’attuazione di uno iussum iudicis perfezionatosi all’esito di un giudizio semplificato in grado unico. Non è d’altronde chi non veda come una simile aporia contraddirebbe, proprio nella nevralgica fase dell’esecuzione, le esigenze perseguite dal legislatore mediante la previsione di un rito speciale e semplificato finalizzato a consentire, nell’accordo tra le parti, una sollecita definizione della controversia. 6. Alla luce delle considerazioni deve essere dichiarata l’ammissibilità del ricorso per ottemperanza proposto innanzi al Consiglio di Stato. Il ricorso va quindi rimesso alla Sezione per l'ulteriore definizione del giudizio e per la statuizione sulle spese. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) dichiara il ricorso ammissibile e lo rimette alla Sezione per l’ulteriore definizione del giudizio e per la statuizione sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati: Giorgio Giovannini, Presidente Riccardo Virgilio, Presidente Pier Giorgio Lignani, Presidente Stefano Baccarini, Presidente Alessandro Pajno, Presidente Marzio Branca, Consigliere Aldo Scola, Consigliere Francesco Caringella, Consigliere, Estensore Carlo Saltelli, Consigliere Maurizio Meschino, Consigliere Salvatore Cacace, Consigliere Sergio De Felice, Consigliere Angelica Dell'Utri, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 06/05/2013. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 28 gennaio 2011 n. 2065 Pres. Vittoria, Rel. Morcavallo - Comune di Palermo c. C.G. - (rigetta il ricorso). Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario - Decisione del ricorso Esecuzione - Applicabilità della disciplina prevista per il giudizio di ottemperanza - Sussiste - Applicabilità del principio non solo alle decisioni dei ricorsi al Capo dello Stato, ma anche alle decisioni sui ricorsi al Presidente della Regione Siciliana. L'evoluzione del sistema normativo, specie a seguito della nuova disciplina del giudizio d'ottemperanza prevista dal nuovo "Codice del processo amministrativo", contenuto nell'allegato 1) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, porta a configurare la decisione sul ricorso straordinario come un provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza; tale principio è applicabile non solo alle decisioni del Presidente della Repubblica, ma anche a quelle dei ricorsi straordinari al Presidente della Regione Siciliana, la cui disciplina è modellata sulla disciplina dettata per il ricorso straordinario al Capo dello Stato (dovendosi dunque riconoscere carattere vincolante anche al parere espresso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa e dovendosi ammettere il potere di tale organismo di sollevare questioni di legittimità costituzionale rilevanti ai fini dell'espressione del parere; al riguardo, la dottrina parla di abrogazione tacita indiretta delle disposizioni del d.lgs. n. 373 del 2003 che contrastino con le previsioni introdotte dell'art. 69 della legge n. 69 del 2009). Da ciò discende l'applicazione della regula juris secondo cui il giudizio di ottemperanza è ben ammissibile anche in relazione al decreto del Presidente della Regione, che abbia accolto un ricorso straordinario. ------------------------------------------Documenti correlati: CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 21-7-2004, pag. http://www.lexitalia.it/p/corte/ccost_2004-07-21.htm (sulla natura amministrativa e non giurisdizionale del ricorso straordinario al Capo dello Stato e sulla impossibilità per il CdS di sollevare q.l.c. in sede di emissione del prescritto parere). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 4-6-2009, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/cds4_2009-06-04.htm (sull’inammissibilità del ricorso per ottemperanza proposto al fine di ottenere l’esecuzione del decreto che ha deciso un ricorso straordinario). CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 23-9-2009, pag. http://www.lexitalia.it/p/92/cga_2009-09-23-1.htm (ritiene ammissibile un ricorso per ottemperanza proposto per ottenere l’esecuzione di un decreto di decisione di un ricorso straordinario). CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 18-5-2009, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/cga_2009-05-18.htm (in contrasto con il prevalente orientamento della Cassazione e della giurisprudenza amministrativa, afferma che è ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto al fine di ottenere l’esecuzione della decisione di un ricorso straordinario). CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 28-4-2008, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cga_2008-04-28-3.htm (ritiene ammissibile un ricorso per ottemperanza proposto per ottenere l’esecuzione di un decreto del Presidente della Regione siciliana reso in sede di decisione del ricorso straordinario). CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, sentenza 29-8-2006, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/cds5_2006-08-29.htm (sulla ammissibilità o meno della proposizione di un ricorso per ottemperanza al fine di ottenere l’esecuzione di una decisione di un ricorso straordinario e sui rimedi all’uopo apprestati dall’ordinamento). CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 19-10-2005, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cga_2005-10-19-7.htm (ribaltando l’orientamento tradizionale, afferma che il giudizio di ottemperanza è esperibile anche per assicurare la esecuzione del decreto di decisione di un ricorso straordinario; afferma anche che l’amministrazione, in sede di ottemperanza, può tenere conto dei fatti od atti sopravvenuti, negando in particolare la rinnovazione di un concorso per sopravvenute ragioni finanziarie ed organizzative). CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 7-11-2002, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cga_2002-11-07.htm (sui mezzi di reazione esperibili nei casi di mancata ottemperanza al decreto che ha deciso un ricorso straordinario e sull’infondatezza della q.l.c. delle norme sul giudizio di ottemperanza nella parte in cui non prevedono l’esperibilità di tale rimedio per l'esecuzione delle decisioni dei ricorsi straordinari). RITENUTO IN FATTO 1. Con la decisione indicata in epigrafe il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, adito per l'ottemperanza del decreto del Presidente della Regione che aveva riconosciuto il diritto dell'odierna intimata, C.G. , dipendente del Comune di Palermo, ad ottenere l'inquadramento ai sensi dell'art. 20 della legge regionale n. 20 del 1993 nella qualifica corrispondente al proprio titolo di studio professionale (qualifica unica dirigenziale, profilo professionale di avvocato), accoglieva il ricorso, ritenendone preliminarmente l'ammissibilità, e per l'effetto nominava il Segretario Generale del Comune di Palermo per lo svolgimento degli incombenti relativi all'esecuzione del predetto decreto. 1.1. In particolare, la decisione qui impugnata riteneva ammissibile il giudizio di ottemperanza, rilevando che la disciplina del ricorso straordinario al Presidente della Regione, modellato su quella prevista per il ricorso straordinario al Capo dello Stato, si differenzia per aspetti rilevanti da quella dettata per gli altri ricorsi amministrativi; sottolineava, al riguardo, che la garanzia del contraddittorio è assicurata in modo più puntuale, essendo previsto, a carico del ricorrente, l'obbligo di notificare il ricorso nei modi e nelle forme prescritti per i ricorsi giurisdizionali ad almeno uno dei controinteressati, ed essendo a questi ultimi assegnato un termine per presentare deduzioni e documenti ed eventualmente per proporre ricorso incidentale; né minore rilievo riveste la circostanza che la decisione del ricorso sia preceduta da un parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa, che costituisce espressione di un'attività di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo (come riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia in relazione al parere espresso dal Consiglio di Stato nell'ambito della disciplina generale del ricorso straordinario al Capo dello Stato), così come peculiare è, infine, la disciplina dei rapporti con la tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo, regolata secondo il principio di alternatività; principio che comporta l'inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo proposto contro il medesimo atto impugnato in via straordinaria, sia per il ricorrente che per i controinteressati che non si siano avvalsi della facoltà di chiedere la decisione del ricorso in sede giurisdizionale, e ha significativi riflessi sull'impugnazione in sede giurisdizionale della decisione del ricorso straordinario, ammessa solo per vizi di forma o di procedimento, salvo che per i controinteressati che non siano stati posti nelle condizioni di chiedere la trasposizione del ricorso in sede giurisdizionale. 2. La cassazione di tale decisione viene domandata, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., dal Comune di Palermo. 3. L'intimata resiste con controricorso, precisato con successiva memoria. 4. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso si articola in due motivi. 1.1. Con il primo motivo di ricorso si sostiene il difetto assoluto di giurisdizione, dal quale sarebbe affetta la decisione impugnata. La carenza assoluta di potestas judicandi si radica, secondo i ricorrenti, nel fatto che l'atto del quale è stata chiesta e ottenuta l'ottemperanza, cioè il decreto del Presidente della Regione Siciliana emesso su ricorso straordinario, ha natura amministrativa, e non giurisdizionale, ed è quindi sottratto alla speciale forma di cognizione, quale il giudizio di ottemperanza, attribuita al giudice amministrativo. 1.2, Con il secondo motivo si domanda "se il C.G.A. ha emesso la sentenza impugnata...in violazione della propria giurisdizione, atteso che l'oggetto del giudizio, riguardante istanza di riconoscimento di diverso inquadramento di dipendente di pubblica amministrazione, rispetto a quello rivestito, è sottratto alla propria giurisdizione e rientra tra le materie ricondotte alla giurisdizione del Tribunale sez. Lavoro ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. 165/2001". 2. Il primo motivo non può essere accolto, se pure la decisione impugnata deve essere corretta e integrata nella sua motivazione. 2.1. Secondo l'art. 23, quarto comma, del r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, recante l'approvazione dello Statuto della Regione Siciliana, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, gli atti amministrativi di quella Regione sono soggetti al ricorso straordinario al Presidente della Regione. La norma statutaria ha trovato attuazione, da ultimo, mediante il d.lgs. 24 dicembre 2003, n. 373 (art. 9, commi 3, 4, 5 e 6). Il ricorso è ammesso in relazione ad atti regionali, che provengano, cioè, da organi dell'amministrazione regionale e siano espressivi della potestà amministrativa riservata alla Regione. La disciplina del procedimento decisorio è modellata su quella per il ricorso straordinario al Capo dello Stato, salvo la diversa posizione del Presidente della Regione che è capo responsabile del governo regionale. In particolare, il ricorso va depositato presso l'assessorato regionale competente; il parere, obbligatorio, è reso dalle sezioni riunite del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana; la decisione sul ricorso viene adottata dal Presidente della Regione mediante decreto. 2.2. L'analogia del procedimento sottende una identità di natura e di funzione rispetto al ricorso straordinario al Capo dello Stato, più volte sottolineata da queste Sezioni unite in relazione alle problematiche connesse alla impugnabilità ex art. 111 Cost. (cfr. Cass., sez. un., n. 3660 del 2003; id., n. 15652 del 2002). Ciò ha comportato, sul piano sistematico, ma anche su quello delle concrete ricadute in termini di tutela giurisdizionale, la rilevanza delle medesime incertezze e dei medesimi dubbi che hanno investito il ricorso straordinario al Capo dello Stato, disciplinato dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (art. 8-15), in attuazione della delega di cui all'art. 6 della legge 28 ottobre 1970, n. 775 (modificativa della precedente legge 18 marzo 1968, n. 249). 2.3. A quest'ultimo istituto è stato tradizionalmente attribuito, in relazione al provvedimento che conclude il relativo procedimento, un connotato di antinomia, tra forma - di atto amministrativo - e sostanza - di atto di decisione -, insito nelle stesse definizioni comunemente utilizzate per la sua collocazione sistematica (provvedimento decisorio; atto dichiarativo di un giudizio). Come la dottrina non ha mancato di rilevare, la "ambivalenza" del ricorso straordinario deriva, storicamente, dalla diversa funzione che esso ha via via svolto, quella originaria di strumento di "tutela ritenuta", e comunque di tutela amministrativa, e quella di rimedio giustiziale tendente alla giurisdizionalità, anticipatorio della giurisdizione amministrativa e quindi concorrente con essa, in termini di alternatività (art. 8 del d.P.R. 1199/1971; art. 20, comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034), a seguito della creazione e del consolidamento della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo. 2.4. La funzione propriamente decisoria del provvedimento emesso sul ricorso straordinario è venuta in rilievo, specificamente, in relazione alla eventualità dell'inadempimento della pubblica amministrazione, che interessa nella controversia in esame, siccome per la esecuzione coattiva di decisioni di giustizia l'ordinamento ha previsto strumenti e modalità diverse. Il giudizio di ottemperanza, di cui all'art. 27, n. 4, del r.d. n. 1054 del 1924, integrava lo strumento esecutivo per assicurare l'effettività e la satisfattività della giurisdizione amministrativa, connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, come tale costituzionalmente necessario alla completa attuazione del diritto di difesa (cfr. Corte cost. n. 419 e 435 del 1995). 2.5. Essendo stata collegata, in via esclusiva, alla giurisdizione, l'esperibilità del giudizio d'ottemperanza è stata esclusa dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al decreto su ricorso straordinario, del quale si è sottolineata la natura di atto amministrativo, con la conseguenza che l'eventuale comportamento inerte della pubblica amministrazione renderebbe ammissibile solo il giudizio nei riguardi del silenzio-inadempimento (giudizio suscettibile, secondo la giurisprudenza amministrativa, di concludersi con l'ordine alla p.a. di dare esecuzione al decreto presidenziale; la relativa decisione ordinatoria di adempimento sarebbe, a sua volta, suscettibile di esecuzione coattiva mediante giudizio di ottemperanza, salva in ogni caso la esperibilità dell'azione risarcitoria autonoma per i danni causati dal comportamento omissivo della p.a.). 2.6. Già con la sentenza n. 3141 del 1953 le Sezioni unite, cassando per difetto di giurisdizione la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato l'ammissibilità del giudizio di ottemperanza in relazione a decreti di accoglimento di ricorsi straordinari, rimasti inadempiuti, hanno ritenuto, a conferma dell'"insegnamento tradizionale", ostativa alla esperibilità di quel giudizio la natura amministrativa del provvedimento e, pur senza escludere l'obbligo della p.a. di uniformarsi ad esso, ne hanno inferito che un tale obbligo non abbia il carattere assoluto e vincolante proprio del giudicato, connaturato con le caratteristiche proprie dell'attività giurisdizionale, discendendo invece dalla posizione di preminenza o di supremazia che spetta al Capo dello Stato, sì che la sua efficacia è circoscritta nell'ambito della stessa sfera dell'amministrazione, senza avere rilevanza esterna e senza dare luogo a quella forma tipica di coercizione in via eteronoma che è costituita dall'esecuzione in via giurisdizionale. 2.7. La questione si è nuovamente proposta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia 16 ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96, che ha dato ingresso alle questioni di interpretazione di norme comunitarie, sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato, riconoscendo natura di giudice nazionale a detto organo anche in tale sede; ma le Sezioni unite, con sentenza n. 15978 del 2001, hanno ribadito il precedente orientamento escludendo che i decreti con i quali sono decisi i ricorsi straordinari abbiano natura giurisdizionale e possano essere assimilati alle sentenze passate in giudicato, le uniche passibili di esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza. In particolare, tale conclusione è stata motivata con le seguenti considerazioni: a) il procedimento promosso con il ricorso straordinario ha per protagonista un'autorità amministrativa, che non è neppure vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato, potendo anche risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto, così venendo a mancare i requisiti indefettibili dei procedimenti giurisdizionali, cioè il loro celebrarsi dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, oltre che soggetto esclusivamente al diritto vigente (art. 111, comma 2, e 101, comma 2, Cost.); b) il meccanismo dell'alternatività, che regola il rapporto fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, non comporta la natura giurisdizionale del primo rimedio, poiché la portata del principio di alternatività è notevolmente attenuata dalla preferenza espressa dal Legislatore per il rimedio giurisdizionale, con la previsione che i controinteressati possano far venire meno la procedibilità del ricorso straordinario notificando al ricorrente e all'autorità che ha emanato l'atto impugnato la richiesta di trasporlo in sede giurisdizionale (art. 10, comma 1, del d.P.R. 1199/1971); c) non significativa è la previsione della revocabilità del decreto (art. 15 del medesimo d.P.R.), poiché la revocazione è comunemente ammessa anche per i ricorsi amministrativi ordinari, mentre, in particolare, la revocazione per l'ipotesi prevista dall'art. 395, n. 5, c.p.c. (richiamato dal predetto art. 15) deve intendersi come riferita al contrasto con una precedente decisione di ricorso straordinario, dal momento che, invece, la sentenza passata in giudicato prevale comunque sulla difforme decisione del ricorso straordinario. Per quanto riguarda la citata sentenza della Corte di Giustizia, le Sezioni unite hanno osservato che la nozione di giurisdizione nazionale, in quanto prevista dall'art. 234 del Trattato CE e modellata in via interpretativa ai soli fini della ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, interpretativi e di validità, non rileva quando si tratta di interpretare disposizioni di diritto processuale nazionale al differente fine di ammettere, o meno, il giudizio di ottemperanza nei confronti di decisioni su ricorsi straordinari rimaste ineseguite dalla p.a.; questa non necessaria coincidenza fra le due nozioni di giurisdizione è un aspetto erroneamente non considerato nelle ordinanze di sezioni consultive del Consiglio di Stato che hanno ritenuto di poter fondare sulla richiamata sentenza della Corte di Giustizia la legittimazione del Consiglio di Stato, in sede di parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, a sollevare questioni di legittimità costituzionale. 2.8. Questa ultima considerazione è stata confermata dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 254 del 2004, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 87 del 1994 (nella parte in cui non prevede che il termine per la domanda di riliquidazione dell'indennità di fine rapporto dei dipendenti pubblici decorre dalla comunicazione dell'onere di presentare domanda), sollevata dal Consiglio di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato: ciò sul presupposto che la questione era stata sollevata da un organo non giurisdizionale, la cui natura amministrativa era evidenziata dal fatto che l'art. 14, primo comma, del d.P.R. 1199/1971 prevede che, ove il ministro competente intenda proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre la questione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri (provvedimento, quest'ultimo, evidentemente non giurisdizionale, per la natura dell'organo da cui promana), mentre non rileva il riconoscimento di tale natura (giurisdizionale) da parte della Corte di Giustizia, perché operato ad altri fini e sulla base di norme diverse da quelle che vengono in rilievo nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale. 2.9. Successivamente alla sentenza delle Sezioni unite del 2001 e all'ordinanza della Corte costituzionale del 2004, la materia in esame è stata oggetto di vari interventi del Legislatore, che incidono in modo profondo sulle principali considerazioni poste a fondamento di quelle decisioni. 2.10. A parte l'art. 245, comma 2, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che - con riguardo ai decreti di accoglimento di ricorsi straordinari aventi ad oggetto atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici ed atti dell'Autorità di vigilanza sugli stessi - ha previsto l'applicazione degli strumenti di esecuzione di cui agli art. 33 e 37 della legge 1034/1971, interventi normativi di portata più generale, ai fini che qui interessano, sono principalmente quelli attuati dall'art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (recante disposizioni per lo sviluppo economico, la competitività nonché in materia di processo civile). Il primo comma introduce, sotto forma di periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma che espressamente prevede che la sezione del Consiglio di Stato, chiamata ad esprimere il parere sul ricorso straordinario, ne sospende l'espressione ed attiva l'incidente di costituzionalità "ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87" se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata; il secondo comma dispone l'aggiunta al primo periodo del primo comma dell'art. 14 del medesimo d.P.R. delle parole "conforme al parere del Consiglio di Stato" e la soppressione del secondo periodo del primo comma, secondo periodo, dello stesso articolo, nonché l'abrogazione del secondo comma, così eliminando la possibilità ~ originariamente prevista che il Ministero, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato, previa sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei Ministri. 2.11, Neh"esaminare tali sopravvenute disposizioni con riguardo agli effetti che possono conseguirne nella questione in esame, queste Sezioni unite osservano che le modifiche apportate dall'art. 69 della legge n. 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale, quali erano state rimarcate nella richiamata sentenza n. 15978 del 2001, particolarmente in ordine alla qualificazione e ai poteri dell'organo decidente. Mette conto osservare, infatti, che l'art. 23 della legge 87/1953 di disciplina del giudizio incidentale di legittimità costituzionale richiede che la questione di legittimità sia sollevata, a pena di inammissibilità, da un'autorità giurisdizionale nell'ambito di un giudizio, sì che la nuova norma pare implicitamente presupporre il riconoscimento di una condizione, comunque, sostanzialmente equivalente alla "giurisdizionalità" (secondo l'accezione propria anche dell'ordinamento interno, e non solo ai fini della richiesta di interpretazione preventiva della Corte di Giustizia); peraltro, la eliminazione del potere della p.a. di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato conferma che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio: che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in un atto giurisdizionale (in ragione, essenzialmente, della natura dell'organo emittente e della forma dell'atto), lo assimila a questo nei contenuti, e tale assimilazione si riflette sull'individuazione degli strumenti di tutela, sotto il profilo della effettività, che una tutela esecutiva, piena e diretta, non è assicurata dal meccanismo, altrimenti utilizzabile, del ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-inadempimento della p.a., ovvero avverso il comportamento violativo, o elusivo, del dictum del decreto presidenziale, sì che l'obbligatorio ricorso a tale complesso meccanismo si risolve in una disciplina che rende eccessivamente difficile l'esercizio della tutela e finisce per non garantire un rimedio adeguato contro l'inadempimento della p.a.. 2.11.1. Il significativo mutamento, nei termini così precisati, trova conferma nella nuova disciplina del giudizio d'ottemperanza prevista dal nuovo "codice del processo amministrativo", contenuto nell'allegato 1) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, emanato in attuazione della delega per il riordino del processo amministrativo disposta dall'art. 44 della stessa legge n. 69 del 2009. L'art. 112, nel dettare le "disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza", dispone, al comma 2, che l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato (lett. a) e, altresì, delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (lett. b), oltre che delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (lett. c), nonché delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza (lett. d) e dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili (lett. e). In maniera corrispondente, il successivo art. 113, nell'individuare il giudice dell'ottemperanza, dispone che il ricorso si propone, nel caso di cui all'art. 112, comma 2, lettere a) e b), al giudice che ha emesso il "provvedimento" della cui ottemperanza si tratta (essendo competente il tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione del tutto conforme) (comma 1), mentre nei casi di cui all'art. 112, comma 2, lettere c), d) ed e), il ricorso si propone al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l'ottemperanza (comma 2), secondo un sistema fondato sulla netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri provvedimenti del giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e 6)), per i quali è prevista la competenza del giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il provvedimento, e quella di sentenze passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario o di altri giudici, nonché di lodi arbitrali divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed e)), per i quali è competente il tribunale amministrativo regionale secondo il criterio di collegamento previsto dall'art. 113, comma 2. Nel sistema così delineato la decisione su ricorso straordinario al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, si colloca nella ipotesi prevista alla lettera b) dell'art. 112, comma 2, e il ricorso per l'ottemperanza si propone, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta". 2.11.2. Il senso di una disciplina tesa a garantire la effettività di tutela anche al ricorso straordinario viene rivelato dall'esame dei lavori parlamentari che hanno condotto al definitivo testo della norma: per cogliere la incisività di quest'ultimo, occorre sottolineare che il testo originario è stato oggetto di successivi emendamenti in sede di commissioni parlamentari, in relazione alla necessità di dare attuazione ai principi enunciati dalla CEDU, nonché alle raccomandazioni comunitarie - intese a sollecitare gli Stati membri a prevedere senza eccezioni l'azione esecutiva per l'effettività delle tutele - che erano rimaste inevase dacché un precedente disegno di legge, che prevedeva l'ottemperanza per le decisioni su ricorsi straordinari, era decaduto per fine legislatura; infine, il parere della commissione del Senato circa la specifica necessità di inserire anche le decisioni straordinarie del Capo dello Stato è stato recepito nella relazione governativa, con la formulazione della norma nei termini sopra richiamati, sì che, in definitiva, deve concludersi che è conforme a tale intentio legis annoverare fra i "provvedimenti" del giudice amministrativo, passibili di ottemperanza, la decisione sul ricorso straordinario. 2.12. Come la dottrina ha puntualmente osservato, alla estensione del giudizio di ottemperanza a provvedimenti che non siano sentenze, o comunque provvedimenti non formalmente giurisdizionali, non si frappongono ostacoli di ordine costituzionale, sì che è ben configurabile la previsione normativa di un tale giudizio per le decisioni, rimaste ineseguite, del Capo dello Stato, trattandosi di una scelta del Legislatore che - nel rispetto dei principi costituzionali tende a rendere effettiva la tutela dei diritti mediante il giudizio di ottemperanza (che, appunto, svolge nell'ordinamento una funzione di "tutela": cfr. Cass., sez. un., n. 30254 del 2008). Occorre ricordare, sul punto, che il ricorso straordinario non è espressamente previsto dalla Costituzione (né può ritenersene la costituzionalizzazione implicita: cfr. Corte cost. n. 298 del 1986), ma, non di meno, il Giudice delle leggi con diversi interventi, intesi anche a conformarne la disciplina, ne ha confermato la compatibilità con il dettato costituzionale, in relazione all'art. 113 Cost. (cfr. Corte cost. n. 1 del 1964; n. 78 del 1966; n. 31 del 1975; n. 298 del 1986; n. 56 del 2001; n. 301 del 2001), sottolineando anche come la disciplina posta dal d.P.R. 1199/1971 non solo aveva ribadito la natura del tutto atipica che il ricorso straordinario aveva assunto sin dall'epoca della monarchia costituzionale, adeguando la disciplina della alternatività al ricorso giurisdizionale al principio della "trasferibilità" in sede giurisdizionale, ma, in attuazione del criterio della economicità posto dalla legge di delegazione, ne aveva confermato il carattere di rimedio straordinario contro eventuali illegittimità di atti amministrativi definitivi, che i singoli interessati possono utilizzare con modica spesa, senza il bisogno di assistenza tecnico-legale e con il beneficio di termini di presentazione del ricorso particolarmente ampi (cfr. Corte cost. nn. 56 e 301/2001, cit.); infine, riconoscendo che le concrete modalità di coordinamento con il rimedio giurisdizionale potrebbero essere plurime e rispondere a finalità divergenti, lo stesso Giudice delle leggi ha rilevato come il Legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, può dettare una disciplina che può spingersi sino ad una completa rivisitazione del ricorso straordinario e dei suoi rapporti con il rimedio giurisdizionale (cfr. Corte cost. n. 432 del 2006). Con questi presupposti, la nuova regolamentazione normativa intesa alla "assimilazione" del rimedio straordinario a quello giurisdizionale, pur nella diversità formale del procedimento e dell'atto conclusivo, non può non assicurare una tutela effettiva del tutto simile, poiché, come queste Sezioni unite hanno precisato in materia di "autodichia", una volta che si riconoscano poteri decisori, su determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a quelli della giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea alla tutela effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell'art. 2 Cost., comma 1, e art. 3 Cost., a creare una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010). 2.13. Ma la verifica di tale coerenza deve essere condotta bensì scrutinando i risultati dell'esercizio del potere decisorio, quali previsti dalla complessiva regolamentazione, anche rammentando che i criteri costituzionali sono integrati dalle norme della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo (art. 6 e 13), come interpretate dalla Corte di Strasburgo, secondo il procedimento di ingresso nell'ordinamento nazionale precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007. Ebbene, secondo la giurisprudenza della CEDU, da un lato sono intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un'autorità che non fa parte dell'ordine giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall'altro in ogni ordinamento nazionale si deve ammettere l'azione di esecuzione in relazione a una decisione di giustizia, quale indefettibile seconda fase della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina). 2.14. I profili di novità tratti dalla legislazione, che sono stati anche oggetto di discussione all'odierna udienza pubblica, sono di immediata operatività a prescindere dall'epoca di proposizione del ricorso straordinario, ovvero di instaurazione del giudizio di ottemperanza. 2.14.1. Come queste Sezioni unite hanno precisato con la sentenza n. 30254 del 2008, nel campo della giurisdizione di merito proprio il caso dei ricorsi per l'ottemperanza dimostra che una questione di giurisdizione si presenta anche quando non è in discussione che la giurisdizione spetti al giudice cui ci si è rivolti, perché è solo quel giudice che secondo l'ordinamento la può esercitare, ma si deve invece stabilire se ricorrono - in base alla norma che attribuisce giurisdizione -le condizioni perché il giudice abbia il dovere di esercitarla: così, in rapporto al decreto di accoglimento di ricorso straordinario, il configurarsi come giudicato può essere discusso in questa sede come questione di giurisdizione ai sensi dell'art. 362 c.p.c.. 2.14.2. Ponendosi, dunque, una questione di giurisdizione, torna applicabile il consolidato principio secondo cui "l'art. 5 c.p.c., nella parte in cui dispone che la giurisdizione si determina in base alla legge del tempo della proposizione della domanda e resta insensibile a successivi mutamenti del quadro normativo, persegue in realtà l'obiettivo di conservare la giurisdizione del giudice correttamente adito in base a detta legge del tempo, sottraendola a successive diverse scelte legislative, senza peraltro incidere sul più generale principio dell'immediata operatività, in materia processuale, della legge sopravvenuta (pure con riguardo alla giurisdizione), quando valga invece a radicare la giurisdizione presso il giudice dinanzi al quale sia stato comunque già promosso il giudizio" (cfr. Cass., sez. un., n. 3877 del 2004; id., n. 20322 del 2006). 2.15. L'evoluzione del sistema, che porta dunque a configurare la decisione su ricorso straordinario come provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza, deve trovare applicazione, in guisa di corollario, per la analoga decisione resa dal Presidente della Regione Siciliana ai sensi della sopra richiamata normativa regionale, modellata - come s'è visto - sulla disciplina dettata per il ricorso straordinario al Capo dello Stato (dovendosi dunque riconoscere carattere vincolante anche al parere espresso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa e dovendosi ammettere il potere di tale organismo di sollevare questioni di legittimità costituzionale rilevanti ai fini dell'espressione del parere; al riguardo, la dottrina parla di abrogazione tacita indiretta delle disposizioni del d.lgs. n. 373 del 2003 che contrastino con le previsioni introdotte dell'art. 69 della legge n. 69 del 2009). 3. Da ciò discende l'applicazione, nella controversia in esame, della regula juris secondo cui il giudizio di ottemperanza è ben ammissibile in relazione al decreto del Presidente della Regione, che abbia accolto il ricorso straordinario. In base a tale regola il motivo è dunque rigettato. 4. Con riguardo al secondo motivo, deve preliminarmente esaminarsi la questione relativa alla sua ammissibilità, concernente la ritualità del quesito di diritto formulato, essendo già stato affermato (cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., n. 7433 del 2009) che l'art. 366 bis c.p.c. introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, il quale prescrive che ogni motivo di ricorso si concluda con la formulazione di un esplicito quesito di diritto, si applica anche al ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali. Nella specie, soggetta ratione temporis a tale disciplina, il quesito sopra riportato non corrisponde alle prescrizioni di legge, in quanto la sua formulazione, con riguardo alla questione di giurisdizione, prescinde del tutto dalla fattispecie concreta posta all'esame della Corte, non facendosi menzione della specifica questione di inquadramento dedotta in giudizio, né della ratio della decisione impugnata, né dei vizi di giurisdizione che, in relazione alla fattispecie, fondano l'impugnazione ai sensi dell'art. 362, n. 1, c.p.c.; né, peraltro, tali indicazioni potrebbero essere integrate dalle argomentazioni sviluppate nel motivo, stante la autonomia del quesito di diritto (cfr. Cass., sez. un., n. 2658 del 2008; n. 27347 del 2008). 5. In conclusione, il ricorso è respinto.6. I profili di novità della questione esaminata inducono il Collegio a compensare le spese del giudizio. P.Q.M. La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio. Così deciso in Roma, alla c.c. dell’11 gennaio 2011. Depositata in cancelleri il 28 gennaio 2011. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 19 giugno 2012 n. 3569 - Pres. Giovannini, Est. Lopilato - Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (Avv. Stato Guida) c. Assagaime-Associazioni tra Agenzie D’Affari in mediazioni turistiche e di viaggi di Rosolina ed altri (Avv.ti Ceruti e Petretti), Regione Veneto (Avv.ti Ligabue, Mio, Zanon e Manzi), Enel Produzione s.p.a. (Avv.ti De Vergottini e Caturani) ed Enel s.p.a. (n.c.) - (fornisce, ai sensi dell’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm., i chiarimenti in ordine all’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3107). 1. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e norma sopravvenuta - Necessità di tener conto della tipologia di azione proposta e del contenuto precettivo dello ius superveniens - Sussiste. 2. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e norma sopravvenuta - Nel caso in cui sia stata proposta una domanda di cognizione che conduce alla formazione di un giudicato idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività della P.A. Prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta - Applicabilità. 3. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e norma sopravvenuta - Nel caso in cui il sindacato del giudice amministrativo non possa estendersi all’intero rapporto controverso (come nel caso di annullamento per difetto di motivazione) - Prevalenza della normativa sopravvenuta - Limiti Individuazione. 1. Il rapporto tra giudicato e normativa sopravvenuta non è ricostruibile secondo un unico modello predefinito, essendo lo stesso strettamente correlato all’oggetto del sindacato giurisdizionale che dipende dalla tipologia di azione proposta e di potere pubblico esercitato e dal contenuto precettivo dello ius superveniens. In particolare, occorre distinguere, da un lato, le fattispecie che consentono al giudice amministrativo, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, di svolgere, nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità, un sindacato pieno sul rapporto dedotto nel processo, dall’altro, quelle che non permettono che il sindacato abbia una tale estensione. 2. Nei casi in cui sia stata proposta una domanda di cognizione che conduce alla formazione di un giudicato idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività dell’amministrazione ovvero a fare sorgere l’obbligo di pagamento della somma risarcitoria [come nei casi in cui sia stata proposta: a) un’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo avente un contenuto vincolato; b) un’azione di adempimento, contestualmente alla prima, con cui si chiede la condanna dell’amministrazione all’adozione del provvedimento richiesto; c) un’azione avverso il silenzio, in presenza di una attività vincolata o che non presenti ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere computi dall’amministrazione; d) un’azione di condanna al risarcimento del danno che presuppone anch’essa, a prescindere dalla natura del potere esercitato, l’accertamento pieno del rapporto], l’eventuale giudizio di ottemperanza ha natura di sola esecuzione, in quanto il giudice deve esclusivamente verificare se l’amministrazione abbia correttamente posto in essere l’azione che la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi contenuti. In tali ipotesi, quindi, il principio generale – derogabile in ragione della peculiarità di singole fattispecie e dei valori ad esse sottese – è quello della prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta. 3. Nel caso di fattispecie in relazione alle quali il sindacato del giudice amministrativo non può estendersi all’intero rapporto controverso dovendo, in ossequio al principio costituzionale di separazione dei poteri, rispettare le sfere di valutazione di esclusiva spettanza della pubblica amministrazione (come nei casi in cui sia stata proposta: a) un’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo discrezionale; b) un’azione avverso il silenzio avente ad oggetto una attività caratterizzata da discrezionalità non ancora esercitata dall’amministrazione), l’azione di cognizione conduce alla formazione di un giudicato che contiene una regola incompleta lasciando priva di vincoli la futura attività amministrativa che non è stata oggetto di sindacato giurisdizionale. In tali ipotesi, la normativa successiva, potendo occupare gli spazi lasciati liberi dal giudicato, realizza normalmente una successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico. La prevalenza del giudicato si ha soltanto nel caso in cui la predetta normativa sovrapponga, in relazione a quello specifico tratto della vicenda amministrativa vincolato dalla sentenza, la propria regola giuridica a quella giudiziale al fine esclusivo di correggere l’esercizio delle funzioni del giudice (1). ----------------------------------(1) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che, la predetta evenienza si verifica soprattutto in presenza di leggi provvedimento che si caratterizzano per avere un contenuto particolare e concreto incidendo su un numero limitato e determinato di destinatari (Corte cost. n. 137 e n. 94 del 2009, in LexItalia.it, rispettivamente alla pag. http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-05-08.htm ed alla pag. http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-04-02-1.htm). In tale ambito si collocano le cosiddette leggi di sanatoria che perseguono lo scopo, contrario a Costituzione, di stabilizzare gli effetti di un determinato provvedimento amministrativo eliminando, in via normativa, il vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo (cfr. Corte cost. n. 14 del 1999 e n. 211 del 1998). E’ stato pertanto conclusivamente ritenuto che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità della normativa sopravvenuta, senza che rilevi, è bene puntualizzare, il momento della notificazione della sentenza. Nei casi in cui il giudicato accerti pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato da parte del solo giudice dell’ottemperanza. Nei casi, invece, in cui il giudicato non accerti pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato nel giudizio di ottemperanza soltanto se la stessa si colloca in un ambito coperto dal giudicato stesso. L’attività è, invece, oggetto di sindacato nel giudizio di cognizione qualora la stessa occupi un ambito lasciato libero dal giudicato e disciplinato dalla legge, anche sopravvenuta, che diventa il parametro per valutare la sua eventuale illegittimità (si veda Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 5 aprile 2012, n. 2024, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cds_2012-04-05o.htm). N. 03569/2012REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10216 del 2010, proposto da: Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Ministero per i beni e le attività culturali, Ministero dello sviluppo economico, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro Assagaime-Associazioni tra Agenzie D’Affari in mediazioni turistiche e di viaggi di Rosolina, Cob-Consorzio Operatori Balneari, Villaggio Turistico Rosapineta Sud, Villaggi Club s.r.l., Greenpeace Onlus, Associazione Italiana per il World Wide Fund For Nature (Wwf) OngOnlus, Italia Nostra-Onlus, Comitato Cittadini Liberi Porto Tolle, Consorzio Delta Nord Società Coop a.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Matteo Ceruti e Alessio Petretti, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via degli Scipioni, 268; nei confronti di Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, rappresentata e difesa dagli avvocati Cecilia Ligabue, Emanuele Mio, Ezio Zanon, Andrea Manzi, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri, 5; Enel Produzione s.p.a. e Enel s.p.a, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Giuseppe De Vergottini e Cesare Caturani, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via A. Bertoloni, 44; Enel s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore; per chiarimenti in ordine all’ottemperanza della sentenza 23 maggio 2011, n. 3107 del Consiglio di Stato, Sezione sesta. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio e le memorie difensive; visti tutti gli atti della causa; relatore nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2012 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti dell’avvocato dello Stato Guida, gli avvocati Ceruti, Manzi, Zanon e De Vergottini. FATTO 1.– Le odierne parti resistenti, indicate in epigrafe, hanno impugnato – innanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Roma – gli atti del procedimento nonché il decreto del 24 luglio 2009, n. 873 con cui il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, ha espresso giudizio positivo di compatibilità ambientale sul progetto per la realizzazione di una centrale termoelettrica da 1980 Mw, alimentata a carbone e biomasse vergini nella misura massima del 5% su due gruppi, ubicata nel Comune di Porto Tolle (RO), da realizzare in luogo dell’esistente centrale ad olio combustibile. 2.– Il Tar adito, con sentenza 14 ottobre 2010, n. 32824, ha rigettato il ricorso. 3.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello avverso la predetta sentenza. 4.– Il Consiglio di Stato, Sezione sesta, con sentenza 23 maggio 2011, n. 3107, ha accolto due motivi di appello, dichiarando gli altri infondati e inammissibili. 4.1.– Il primo motivo, ritenuto fondato, è quello con il quale era stato dedotto il vizio di omessa esplicitazione delle ragioni sottese alla valutazione di pari o inferiore impatto ambientale della centrale a carbone rispetto alle possibili fonti alternative di progetto, quali, in particolare, il gas metano. Il Collegio ha rilevato che l’art. 30 della legge della Regione Veneto 8 settembre 1997, n. 36 (Norme per l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po) – prevedendo che «gli impianti di produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale» – ha espresso «una sicura opzione legislativa di preferibilità per gli impianti (…) alimentati a gas metano, ammettendo una differente alimentazione solo a condizione che siano utilizzate "fonti alternative di pari o minore impatto ambientale"». Questa disposizione regionale, si è sottolineato, non può ritenersi derogata dall’art. 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattiero-caseario), introdotto dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33, il quale dispone che «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale, purché la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». Il riferimento, infatti, ai «limiti di localizzazione territoriale» riguarda, si è sottolineato nella sentenza, esclusivamente un divieto di localizzazione tale da determinare l’impossibilità dell’insediamento e non permettere, nel contempo, una localizzazione alternativa. Applicando, pertanto, alla fattispecie in esame, l’art. 30 della legge regionale n. 36 del 1997, il Collegio ha così statuito: «non può sostenersi che nel corso del procedimento amministrativo contestato in primo grado, ed in specie negli atti con cui lo stesso è stato concluso (parere della Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale VIA-VAS e decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, recante parere positivo di compatibilità ambientale), sia stata svolta la dovuta comparazione analitica e motivata tra l’impatto ambientale potenzialmente proprio della centrale a carbone che si intende realizzare e quello correlato alla realizzazione e al funzionamento di centrale a gas metano». 4.2.– Il secondo motivo, ritenuto fondato, è stato quello relativo «all’assunta violazione del principio di precauzione conseguente allo scostamento tra le prescrizioni imposte all’ENEL per quel che attiene a taluni inquinanti (in specie il monossido di carbonio) e le BAT, ossia le linee guida comunitarie relative ai grandi impianti di combustione». In particolare, il Collegio ha ritenuto che i valori medi di emissione contenuti nei documenti BREF elaborati in sede europea al fine di indicare agli Stati membri e agli operatori del settore l’individuazione delle predette linee guida, pur non essendo immediatamente vincolanti, non possono considerarsi privi di alcuna rilevanza «dovendo esserne viceversa motivatamente giustificato lo scostamento». Nel caso di specie, si afferma, l’autorità competente non ha indicato le ragioni che giustificano tale scostamento. Per le ragioni, sin qui sinteticamente riportate, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello. 5.– La Regione Veneto ha proposto, avverso la predetta sentenza, ricorso per revocazione. 5.1.– Questa Sezione, con sentenza del 20 aprile 2012, n. 2353, ha dichiarato inammissibile il predetto ricorso. 6.– Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero per i beni e le attività culturali hanno chiesto, ai sensi dell’art. 115, comma 5, cod. proc. amm., chiarimenti in ordine alle modalità di esecuzione della citata sentenza n. 3107 del 2011 di questo Consiglio. Il ricorso per chiarimenti – si sottolinea – è stato reso necessario in ragione del fatto che, successivamente all’adozione della predetta decisione, sono sopravvenute nuove leggi, di natura sia statale che regionale. L’art. 5-bis del decreto-legge n. 5 del 2009 è stato modificato dall’art. 35, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale prevede che si può procedere alla riconversione anche in deroga alle leggi statali e regionali «che condizionano o limitino la suddetta riconversione, obbligando alla comparazione, sotto il profilo dell’impatto ambientale, fra combustibili diversi o imponendo specifici vincoli all’utilizzo dei combustibili», sempre che la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui al d.lgs. n. 152 del 2006. L’art. 30 della legge della Regione Veneto n. 36 del 1997 è stato modificato dalla legge 5 agosto 2011, n. 14 (Modifiche all’articolo 30 della legge regionale 8 settembre 1997, n. 36 «Norme per l’istituzione del Parco regionale del delta del Po») che ha aggiunto al predetto art. 30, comma 1, la lettera a-bis, la quale dispone che «nel caso di impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile di potenza superiore a 300 MW termici già esistenti alla data di entrata in vigore della legge istitutiva del Parco regionale delta del Po, per i quali sia stata richiesta o venga richiesta la conversione a carbone o altro combustibile solido ai sensi della normativa statale, la conversione deve assicurare l’abbattimento delle emissioni di almeno il cinquanta per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione» di cui al d.lgs. n. 152 del 2006. La norma ha specificato che, quando ricorrono questi presupposti, «non trovano applicazione le disposizioni di cui alla lettera a» dello stesso comma 1 dell’art. 30 della legge n. 36 del 1997, il quale, come già sottolineato, disponeva che, nell’ambito dell’intero territorio dei comuni interessati dal Parco del Delta del Po, gli impianti di produzione di energia elettrica «dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale». Nel ricorso si afferma che occorre verificare se le modifiche normative intervenute consentano di procedere in modo diverso da quanto indicato nella sentenza n. 3107 del 2011. A tale proposito, si richiamano le tesi prospettate in relazione al rapporti fra giudicato e iussuperveniens che, giungendo a soluzioni diverse, ritengono che la norma applicabile debba essere quella vigente al momento dell’esecuzione, dell’emanazione ovvero della notificazione della sentenza. A tale ultimo proposito, si sottolinea che «la decisione definitiva non è stata notificata all’amministrazione, la quale è venuta semplicemente a conoscenza della sentenza del Consiglio di Stato n. 3107 del 2011 in quanto trasmessa con nota dell’Avvocatura generale dello Stato prot. n. 184803 in data 1° giugno 2011» e acquisita al protocollo dell’amministrazione in data 8 giugno 2011. Nel ricorso è richiamata, inoltre, la giurisprudenza che ha affermato il principio secondo cui in presenza di situazioni giuridiche non istantanee ma di durata la normativa sopravvenuta si applica al tratto delle relazioni giuridiche successivo al giudicato. Si rileva che ciò varrebbe anche per il caso in esame in cui il giudicato comporta la riapertura di un procedimento amministrativo ed ha quindi ad oggetto una situazione giuridica di durata. In conclusione, si afferma che, a parere dell’Amministrazione, per l’esecuzione della sentenza n. 3107 del 2011 si deve: rinnovare il procedimento a partire dalla fase in cui si sono riscontrati i vizi censurati dal giudice amministrativo; non eseguire la valutazione comparativa sul «pari o inferiore impatto ambientale» né riguardo alle polveri sottili, all’impatto sulla salute e all’incidenza dell’impianto sulle aree di insediamento; verificare l’abbattimento delle emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti di legge; esplicitare le ragioni dello scostamento dalle BAT riguardo a taluni inquinanti; rinnovare il parere della Commissione VIA-VAS, il decreto della Giunta regionale ed il parere della Commissione regionale Veneta VIA, in quanto atti presupposti annullati, per inadeguata motivazione, insieme con l’impugnato decreto del 24 luglio 2009, n. 873. Precisato che l’amministrazione ha riavviato le attività secondo quanto ora indicato, si afferma che si è comunque proposto il ricorso previsto dall’art. 112, comma 5, cod. proc. amm., per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di esecuzione della sentenza n. 3107 del 2011, «affinché l’amministrazione possa correttamente conformare la propria attività alle statuizioni in essa contenute». 6.1.– Hanno depositato memorie difensive le parti resistenti rilevando che la giurisprudenza amministrativa ha più volte affermato che il principio generale è quello dell’intangibilità del giudicato che non può essere inciso dalla legge sopravvenuta retroattiva. La prevalenza di quest’ultima si avrebbe soltanto nei casi, non ricorrenti nella specie, in cui lo ius superveniens sia più favorevole per l’interessato ovvero disciplini situazioni giuridiche durevoli per le quali «la legge sopravvenuta incide nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato» (si cita Cons. Stato, Ad. plen., 11 maggio 1998, n. 2). Le parti deducono, inoltre, che la questione posta non potrebbe essere risolta ritenendo che si applichi la normativa esistente al momento della notificazione della sentenza, in quanto tale regola sarebbe stata elaborata dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al solo settore della pianificazione urbanistica. In via subordinata, si deduce che, anche ammesso che si applichi la nuova disciplina statale e regionale, «non per questo la procedura di VIA del progetto in esame potrebbe legittimamente sfuggire alla valutazione delle alternative sotto il profilo degli impatti ambientali giacché le nuove norme non risultano affatto derogatorie dell’odierna legislazione statale in materia di VIA laddove impone l’obbligo della comparazione tra il progetto presentato e le possibili soluzioni alternative praticabili» (si cita l’art. 22, comma 3, lettera d), del d.lgs. n. 152 del 2006, nonché il punto 2 dell’allegato VII alla parte seconda del medesimo decreto). Inoltre, la nuova normativa sarebbe in contrasto con la direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985, la quale imporrebbe che la valutazione delle possibili alternative di progetto costituisca uno dei contenuti necessari della procedura di valutazione d impatto ambientale. Si aggiunge nella memoria che qualora non si condividesse questo aspetto, sarebbe necessario disporre il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. In via ulteriormente subordinata si assume che lo ius superveniens sarebbe incostituzionale per contrasto: a) con il principio di indipendenza dei giudici di cui all’art. 101 Cost.; b) con il «diritto all’equo processo» di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 6.2.– Hanno presentato memorie la Regione Veneto e l’Enel produzione s.p.a., contestando le deduzioni delle parti resistenti e chiedendo che vengano forniti chiarimenti secondo la prospettazione contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio. 6.3.– I ricorrenti hanno depositato una memoria, del 10 aprile 2012, con la quale hanno dedotto che le parti resistenti, con atto di diffida del 25 ottobre 2011, hanno chiesto che in sede di rinnovazione della procedura di VIA si tenga conto di una serie di documentazione allegata alla diffida stessa. 6.4.– Con ordinanza del 20 aprile 2012, n. 2352, questa Sezione, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalle parti appellate, ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Enel s.p.a., rinviando la trattazione della causa alla camera di consiglio del 22 maggio 2012. 6.5.– I ricorrenti, con atto del 24 aprile 2012, n. 2352, hanno provveduto ad eseguire quanto disposto con la predetta ordinanza. 6.6.– In vista della nuova camera di consiglio le parti hanno depositato ulteriori memorie. In particolare, le parti resistenti hanno rilevato che, con nota ministeriale del 29 marzo 2012, prot. n. 7779, il Ministero ha sospeso la procedura anche in ragione della circostanza che «la società proponente non ha compreso il progetto di riconversione della centrale termoelettrica di Porto Tolle nel piano Enel 2012-2016». Enel s.p.a. ha depositato anch’essa una memoria con la quale, in particolare, ha fatto presente che, con lettera del 6 aprile 2012, Enel Produzione ha confermato il proprio impegno «al progetto di riconversione della Centrale di Porto Tolle e precisato che lo stesso è incluso nel piano industriale pluriennale». 7.– All’esito della discussione nella camera di consiglio del 22 maggio 2012 il Collegio ha deciso il ricorso. DIRITTO 1.– La questione posta all’esame di questa Sezione attiene alla vicenda relativa alla riconversione della centrale termoelettrica, situata nel Comune di Porto Tolle, al fine di consentirne il passaggio dall’alimentazione ad olio combustibile a quella a carbone. Il Consiglio di Stato, con sentenza 23 maggio 2011, n. 3107, ha annullato il decreto 24 luglio 2009, n 873 del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, che aveva espresso parere positivo di compatibilità ambientale rilevando che, sulla base delle leggi all’epoca vigenti, fosse necessario indicare le ragioni per le quali la riconversione da olio combustibile a carbone fosse di pari o minore impatto ambientale rispetto al gas metano. Nella fase di esecuzione della predetta sentenza, passata in giudicato, sono state modificate le norme di disciplina della materia (si veda punto 4.1. della parte in fatto). Le amministrazioni statali, indicate in epigrafe – al fine di avere indicazioni in ordine alla disciplina applicabile – hanno proposto l’azione prevista dall’art. 112, comma 5, cod. proc. amm. Tale norma prevede che il ricorso di ottemperanza «può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza»: lo scopo perseguito è quello di consentire, in attuazione del principio di celerità nella definizione delle controversie, alla parte che deve eseguire la sentenza di ottenere le indicazioni necessarie ad evitare di porre in essere attività di violazione o elusione del giudicato. 2.– La risposta al quesito presuppone – prima di esaminare la fattispecie concreta – che venga analizzato, in assenza di una disciplina della materia, il rapporto tra giudicato e normativa sopravvenuta. Tale rapporto non è ricostruibile secondo un unico modello predefinito, essendo lo stesso strettamente correlato all’oggetto del sindacato giurisdizionale, che dipende dalla tipologia di azione proposta e di potere pubblico esercitato, e al contenuto precettivo dello ius superveniens. In particolare, occorre distinguere, da un lato, le fattispecie che consentono al giudice amministrativo, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, di svolgere, nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità, un sindacato pieno sul rapporto dedotto nel processo, dall’altro, quelle che non permettono che il sindacato abbia una tale estensione. 3.– La prima evenienza si verifica quando viene, ad esempio, proposta: i) un’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo avente un contenuto vincolato; ii) un’azione di adempimento, contestualmente alla prima, con cui si chiede la condanna dell’amministrazione all’adozione del provvedimento richiesto; iii) un’azione avverso il silenzio, in presenza di una attività vincolata o che non presenti ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere computi dall’amministrazione; iv) un’azione di condanna al risarcimento del danno che presuppone anch’essa, a prescindere dalla natura del potere esercitato, l’accertamento pieno del rapporto. In questi casi la domanda di cognizione proposta conduce alla formazione di un giudicato idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività dell’amministrazione ovvero a fare sorgere l’obbligo di pagamento della somma risarcitoria. L’eventuale giudizio di ottemperanza ha natura di sola esecuzione, in quanto il giudice deve esclusivamente verificare se l’amministrazione abbia correttamente posto in essere l’azione che la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi contenuti. 3.1.– In presenza di azioni che, per le ragioni indicate, sono idonee a condurre alla formazione di un giudicato che accerta pienamente il rapporto, il principio generale – derogabile in ragione della peculiarità di singole fattispecie e dei valori ad esse sottese – è quello della prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta. In questi casi, nonostante manchi una norma costituzionale che riconosca espressamente l’intangibilità del giudicato, la legge sopravvenuta, come affermato più volte dalla Corte costituzionale, non può incidere – in ossequio al principio di divisione dei poteri giurisdizionali e normativi (artt. 101, 102 e 104 Cost.) e alla garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi (artt. 24 e 113 Cost.) – su «questioni coperte dal giudicato» ledendo l’affidamento di chi abbia ottenuto «il riconoscimento giudiziale definitivo» (Corte cost. n. 374 del 2000; si veda anche Corte cost. n. 267 del 2007). La Consulta ha chiarito che la funzione giurisdizionale non è, invece, violata nel caso in cui il legislatore si muova «sul piano generale ed astratto delle fonti» e costruisca «il modello normativo cui la decisione giudiziale deve riferirsi» (Corte cost. n. 432 del 1997 e n. 397 del 1994). La Corte europea dei diritti dell’uomo ha anch’essa sancito il divieto di ingerenza, a sensi dell’art. 6 § 1 della Convenzione, del legislatore nell’amministrazione della giustizia «allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia» (ex multis, sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed altri c. Italia). Il Consiglio di Stato ha condiviso questi principi rilevando – con riferimento ad un caso in cui si trattava di stabilire se una legge sopravvenuta potesse incidere negativamente su un giudicato che aveva riconosciuto la sussistenza di un rapporto contrattuale di fatto, con obbligo dell’amministrazione di provvedere al pagamento di tutte le prestazioni retributive e previdenziali – che «l’immutabilità del giudicato non può cedere di fronte a norme sopravvenute aventi efficacia retroattiva». Ciò in quanto «il Parlamento non può sovrapporsi alla Magistratura modificando "ex post" singole situazioni già definite dal giudice e coperte dall’autorità del giudicato» (Cons. Stato, Ad. plen., 21 febbraio 1994, n. 4). Lo stesso Consiglio di Stato ha, però, puntualizzato – con riferimento all’accertamento del dovere di corrispondere da parte della pubblica amministrazione prestazioni periodiche – che in presenza di «situazioni giuridiche durevoli» la legge sopravvenuta, pur non potendo incidere, per le ragioni indicate, sul rapporto pregresso accertato con il giudicato, può disciplinare diversamente il «tratto dell’interesse che si svolge successivamente» ad esso, «determinando non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica» (Cons. Stato, Ad. plen., 11 maggio 1998, n. 2; da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2010, n. 1876). In definitiva, quando ricorrono le condizioni sin qui esposte, la legge successiva che, con efficacia retroattiva, interferisse con l’accertamento giudiziale dotato della crisma della definitività e della pienezza sarebbe contraria agli evocati principi costituzionali. 4.– La seconda evenienza si realizza con riguardo a fattispecie in relazione alle quali il sindacato del giudice amministrativo non può estendersi all’intero rapporto controverso dovendo, in ossequio al principio costituzionale di separazione dei poteri, rispettare le sfere di valutazione di esclusiva spettanza della pubblica amministrazione. In particolare, ciò si verifica quando viene, ad esempio, proposta: i) un’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo discrezionale; ii) un’azione avverso il silenzio avente ad oggetto una attività caratterizzata da discrezionalità non ancora esercitata dall’amministrazione. In questi casi l’azione di cognizione conduce alla formazione di un giudicato che contiene una regola incompleta lasciando priva di vincoli la futura attività amministrativa che non è stata oggetto di sindacato giurisdizionale. La valutazione circa l’effettiva estensione del giudicato e i consequenziali margini liberi dell’azione amministrativa sono strettamente dipendenti dalla tipologia del vizio riscontrato. L’eventuale giudizio di ottemperanza ha, pertanto, secondo l’impostazione tradizionale, natura mista di cognizione e di esecuzione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3871): il giudice, infatti, concorre alla definizione della regola del caso concreto dando luogo a quella che viene definita formazione progressiva del giudicato (Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3871). 4.1.– In presenza di azioni che, per le ragioni indicate, non sono idonee a condurre alla formazione di un giudicato che accerti pienamente il rapporto controverso, la relazione tra legge successiva e giudicato assume connotati diversi. La normativa successiva, potendo occupare gli spazi lasciati liberi dal giudicato, realizza normalmente una successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico. La prevalenza del giudicato sia ha soltanto nel caso in cui la predetta normativa sovrappone, in relazione a quello specifico tratto della vicenda amministrativa vincolato dalla sentenza, la propria regola giuridica a quella giudiziale al fine esclusivo di correggere l’esercizio delle funzioni del giudice. Questa evenienza si verifica soprattutto in presenza di leggi provvedimento che si caratterizzano per avere un contenuto particolare e concreto incidendo su un numero limitato e determinato di destinatari (Corte cost. n. 137 e n. 94 del 2009). In tale ambito si collocano le cosiddette leggi di sanatoria che perseguono lo scopo, contrario a Costituzione, di stabilizzare gli effetti di un determinato provvedimento amministrativo eliminando, in via normativa, il vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo (cfr. Corte cost. n. 14 del 1999 e n. 211 del 1998). 5.– In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, deve ritenersi che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità della normativa sopravvenuta, senza che rilevi, è bene puntualizzare, il momento della notificazione della sentenza. L’orientamento giurisprudenziale, richiamato dalle parti, che risolve la questione relativa al rapporto tra giudicato e normativa sopravvenuta ritenendo che si applica la legge esistente al momento della notificazione della sentenza (Cons. Stato, Ad. plen. 8 gennaio 1986, n. 1; da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2012, n. 36) non è, a prescindere dall’esigenza di una sua eventuale rivisitazione, suscettibile di estensione generalizzata. Lo stesso, infatti, si è formato con riguardo ad azioni proposte a tutela di interessi legittimi pretensivi nel settore specifico della pianificazione urbanistica che vede, in alcuni casi, quando a cambiare è il piano regolatore, una sostanziale coincidenza tra l’autore dell’atto impugnato e il soggetto che introduce le nuove regole di disciplina. 6.– Occorre adesso accertare quali siano le conseguenze che l’applicazione di questi principi determinano in relazione alla fattispecie all’esame di questo Collegio, avendo riguardo: i) alla natura dell’accertamento giudiziale svolto nell’ipotesi in cui venga proposta, come è avvenuto nel caso in esame, un’azione di annullamento, a tutela un interessi legittimi oppositivi, da parte di terzi che si ritengono lesi da un provvedimento favorevole rilasciato dall’amministrazione; ii) al contenuto delle leggi sopravvenute. 6.1.– L’accertamento pieno del rapporto, in presenza della suddetta posizione soggettiva, presuppone che il giudice amministrativo svolga un sindacato sull’assetto sostanziale degli interessi che verifichi l’esistenza di una preclusione al riesercizio del potere ovvero particolari condizioni che impediscano la successiva modificazione della realtà materiale incisa dall’atto amministrativo poi annullato. L’accertamento non pieno del rapporto, in ragione dell’esistenza di margini di discrezionalità, consente all’amministrazione, in coerenza con la natura dinamica del potere amministrativo, di riesercitare il potere stesso mediante l’avvio di un nuovo procedimento al quale si applicherà, salvo quanto si dirà tra breve, la normativa esistente in quel determinato momento ancorché la stessa sia diversa da quella in vigore quando è stata emanata la sentenza. Nel caso in esame il Consiglio di Stato, per quanto interessa in questa sede, ha ritenuto fondato il motivo di ricorso con il quale è stato fatto valere il vizio di motivazione del provvedimento finale di compatibilità ambientale. In particolare, ha rilevato che l’art. 30 della legge della Regione Veneto 8 settembre 1997, n. 36 (Norme per l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po) – prevedendo che «gli impianti di produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale» – ha espresso «una sicura opzione legislativa di preferibilità per gli impianti (…) alimentati a gas metano, ammettendo una differente alimentazione solo a condizione che siano utilizzate fonti alternative di pari o minore impatto ambientale». Questa disposizione regionale, si è sottolineato, non può ritenersi derogata dall’art. 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattiero-caseario), introdotto dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33, il quale prevede che «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale (…)». Il riferimento, infatti, ai «limiti di localizzazione territoriale» riguarda, si è sottolineato, esclusivamente un divieto di localizzazione tale da determinare l’impossibilità dell’insediamento e non permettere, nel contempo, una localizzazione alternativa. Con tale sentenza questa Sezione non ha, pertanto, effettuato un accertamento pieno del rapporto nel senso sopra indicato. L’illegittimità degli atti impugnati è stata, infatti, come detto, dichiarata per la presenza di un vizio formale senza che il sindacato giudiziale abbia coinvolto l’assetto sostanziale degli interessi verificando la presenza di preclusioni alla successiva modificazione della realtà materiale e dunque al riesercizio del potere. Non si è, dunque, realizzato in capo ai terzi ricorrenti alcun affidamento alla stabilità della situazione fattuale oggetto del sindacato giurisdizionale. 6.2.– Chiarito ciò, occorre adesso passare a valutare il contenuto precettivo delle nuove disposizioni. L’art. 35, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 ha modificato il riportato art. 5-bis, prevedendo che si può procedere alla riconversione anche in deroga alle leggi statali e regionali «che condizionano o limitino la suddetta riconversione, obbligando alla comparazione, sotto il profilo dell’impatto ambientale, fra combustibili diversi o imponendo specifici vincoli all’utilizzo dei combustibili», purché si garantisca sempre l’«abbattimento delle emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». Nell’ultima si afferma che «la presente disposizione si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». La legge della Regione Veneto 5 agosto 2011, n. 14 (Modifiche all’articolo 30 della legge regionale 8 settembre 1997, n. 36 «Norme per l’istituzione del Parco regionale del delta del Po») ha aggiunto all’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 36 del 1997 la lettera a-bis, la quale prevede che «nel caso di impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile di potenza superiore a 300 MW termici già esistenti alla data di entrata in vigore della legge istitutiva del Parco regionale delta del Po, per i quali sia stata richiesta o venga richiesta la conversione a carbone o altro combustibile solido ai sensi della normativa statale, la conversione deve assicurare l’abbattimento delle emissioni di almeno il cinquanta per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione» di cui al d.lgs. n. 152 del 2006. La norma ha specificato che quando ricorrono questi presupposti «non trovano applicazione le disposizioni di cui alla lettera a» dello stesso comma 1 dell’art. 30 della legge n. 36 del 1997, il quale, come già sottolineato, disponeva che, nell’ambito dell’intero territorio dei comuni interessati dal Parco del Delta del Po, gli impianti di produzione di energia elettrica «dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale». In definitiva, alla luce della normativa statale e regionale sopra riportata non è necessario – contrariamente a quanto affermato dalle parti resistenti – effettuare la valutazione comparativa circa il pari o minore impatto ambientale nella fase di riconversione dei predetti impianti. Tale normativa non persegue lo scopo di interferire, in contrasto con la Costituzione, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. La stessa, infatti, non ha un contenuto provvedimentale ponendo una regola giuridica che si sovrappone alla regola giudiziale. Né persegue un fine di sanatoria. Il legislatore, infatti, non è intervenuto sul tratto della vicenda amministrativa oggetto di sindacato giurisdizionale ritenendo, senza modificare la legge attributiva del potere, che gli atti impugnati non necessitano di motivazione e pertanto devono ritenersi legittimi. La nuova normativa pone regole generali e astratte di disciplina della riconversione delle centrali termoelettriche non limitando l’intervento ad un singolo caso ma a tutti quelli, attuali o futuri, rientranti nel suo ambito applicativo. Le leggi sopravvenute, del resto, regolano la vicenda in esame non in virtù della loro valenza retroattiva ma in quanto vigenti al momento di avvio del nuovo procedimento amministrativo. Quanto esposto è confermato dall’analisi dei lavori preparatori, in particolare, del decretolegge n. 98 del 2011 da cui risulta che la modifica sia stata introdotta per evitare che disposizioni di leggi regionali possano prevedere come «vincolo per la riconversione anche quello di una previa comparazione in termini di impatto ambientale tra diverse modalità/combustibili di alimentazione». In altri termini, si chiarisce che la regola generale deve essere quella che consente la riconversione degli impianti alimentanti ad olio combustibile senza necessità di adempiere ad «obblighi di comparazione, sotto il profilo dell’impatto ambientale, tra combustibili diversi» (scheda di lettura, Camera dei deputati, n. 522/1, parte II, 7 ottobre 2011; in data 25 febbraio 2012 è stata presentata una proposta di legge di iniziativa parlamentare, assegnata alle commissioni riunite 8° e 10° in sede referente il 14 maggio 2012; tale proposta prevede la modifica del vigente art. 5-bis del decreto-legge n. 5 del 2009, mediante una previsione che consentirebbe, tra l’altro, la riconversione di impianti di produzione di energia elettrica in esercizio purché vengano rispettati, «su base regionale», gli obiettivi «di riduzione del 20 per cento delle emissioni di sostanze produttive di alterazioni del clima rispetto alle emissioni del 1990»). 7.– Alla luce di quanto sin qui esposto, rispondendo al quesito posto, deve ritenersi che – in ragione della natura del giudicato e del contenuto delle leggi successive – si sia realizzata una legittima successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico. L’amministrazione statale competente, nel porre in essere gli atti del nuovo procedimento amministrativo volto alla verifica della compatibilità ambientale della centrale termoelettrica, dovrà, pertanto, applicare la nuova normativa statale e regionale, salvo il potere, ove ne ricorrano i presupposti, di fare propri gli accertamenti già svolti e non intaccati dalle diverse regole giuridiche introdotte. 8.– L’analisi sin qui effettuata ha valutato soltanto gli aspetti relativi all’applicabilità, sul piano procedimentale, dello ius superveniens. Si tratta adesso di prendere in esame i rilievi svolti dalle parti appellate con cui si assume, in particolare, che tale normativa sarebbe, sul piano sostanziale, irrilevante in quanto in contrasto con normativa comunitaria e, in particolare, con la direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985, la quale imporrebbe che la valutazione delle possibili alternative di progetto costituisca una dei contenuti necessari della procedura di valutazione di impatto ambientale. Qualora non si condividesse questo aspetto, si aggiunge, sarebbe necessario disporre il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. 8.1.– Tali rilievi non possono essere esaminati in questa sede. La collocazione sistematica e la finalità perseguita dall’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm. segnano il perimetro di operatività dello stesso: non si possono fornire chiarimenti in ordine a modalità di azione che non siano di esecuzione del giudicato. Occorre, pertanto, stabilire se quanto richiesto dalle parti resistenti esuli dall’ambito del giudizio di ottemperanza. Nei casi in cui il giudicato accerta pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato da parte del solo giudice dell’ottemperanza. Nei casi, invece, in cui – ed è quanto accade nella specie – il giudicato non accerta pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato nel giudizio di ottemperanza soltanto se la stessa si colloca in un ambito coperto dal giudicato stesso. L’attività è, invece, oggetto di sindacato nel giudizio di cognizione qualora la stessa occupi un ambito lasciato libero dal giudicato e disciplinato dalla legge, anche sopravvenuta, che diventa il parametro per valutare la sua eventuale illegittimità (si veda Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 5 aprile 2012, n. 2024). Ne consegue che, una volta rilevato che l’amministrazione statale, per l’aspetto relativo alla valutazione comparativa di impatto ambientale, è tenuta ad applicare la normativa sopravvenuta il potere conseguentemente esercitato sarà posto in essere non in attuazione del giudicato ma delle nuovi leggi. L’eventuale sindacato giurisdizionale spetterà, pertanto, al giudice della cognizione che dovrà valutare anche la conformità sostanziale di tali leggi alla normativa europea evocata. Qualora questo giudice svolgesse valutazioni inerenti a questo aspetto violerebbe i limiti posti alla sua giurisdizione incorrendo in un eccesso di potere giurisdizionale e incidendo sul diritto delle parti al rispetto del principio del doppio grado di giurisdizione. Quanto sin qui esposto rende, altresì, priva di rilevanza la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. 8.2.– E’ bene, infine, rilevare come, allo stesso modo, esulano dall’ambito del presente giudizio, come delimitato dal ricorso introduttivo, anche le altre questioni, indicate in dettaglio nella parte in fatto, relative alla persistenza dell’interesse dell’Enel alla rinnovazione del procedimento, nonché alle modalità di valutazione del materiale istruttorio allegato alla diffida che le parti interessate hanno notificato alle ricorrenti. 10.– La particolare natura della questione giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto: a) fornisce, ai sensi dell’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm., i chiarimenti indicati nella parte motiva; b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2012 con l'intervento dei magistrati: Giorgio Giovannini, Presidente Maurizio Meschino, Consigliere Gabriella De Michele, Consigliere Roberta Vigotti, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 19/06/2012 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 25 ottobre 2012 n. 5469 - Pres. Giovannini, Est. De Nictolis - Autorità per l’energia elettrica e il gas (Avv.ra Stato) c. Bg Italia Power s.p.a. (Avv.ti Capria e Lirosi) e Sarlux s.r.l. (n.c.) e Termica Celano s.p.a. (Avv.ti Molè e Bruti Liberati) e Edison s.p.a. (Avv.ti Travi e Lorenzoni) e Gestore dei Servizi Energetici s.p.a., Termica Cologno s.r.l., Termica Milazzo s.r.l., Jesi Energia s.p.a. (n.c.) - (dichiara il ricorso inammissibile). 1. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Diviso in "fatto" e in "diritto" - Motivi di censura - Devono essere contenuti nella parte "in diritto" Inclusione di essi nella parte "in fatto" - Inammissibilità. 2. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Ex art. 112 , comma 5°, c.p.a. - Tendente ad ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza di una sentenza del Consiglio di Stato - Nel caso in cui con il ricorso venga sottoposto al G.A. un quesito generale sulla estensione soggettiva degli effetti del giudicato - Inammissibilità - Ragioni. 1. Nel caso in cui il ricorso giurisdizionale venga diviso in "fatto" e "diritto", i motivi di censura debbono essere contenuti nella parte in diritto e sono per l’effetto da ritenere inammissibili i motivi intrusi, contenuti invece nella parte in "fatto" (1). 2. E’ inammissibile un ricorso ex art. 112 comma 5°, c.p.a., tendente ad ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza del giudicato costituito da una sentenza del Consiglio di Stato, nel caso in cui, con il medesimo ricorso, non sia stato sollecitato il potere del G.A. di "interpretazione autentica" del giudicato, bensì un potere di mera consulenza nei confronti delle parti, ovvero siano state sottoposte al giudice dell’ottemperanza non già questioni specifiche di interpretazione del singolo giudicato, bensì questioni di carattere generale sull’esecuzione di un qualsivoglia giudicato. ----------------------------(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 giugno 2010 n. 4016. Ha osservato la Sez. VI con la sentenza in rassegna che il principio affermato è stato recentemente codificato dal secondo d.lgs. correttivo del cod. proc. amm., in sede di novella dell’art. 40 cod. proc. amm. N. 05469/2012REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4678 del 2012, proposto dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; contro Bg Italia Power s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Antonella Capria, Antonio Lirosi, con domicilio eletto presso studio Gianni, Origoni & Partners, in Roma, via Quattro Fontane, n. 20; Sarlux s.r.l.; nei confronti di Termica Celano s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Marcello Molè, Eugenio Bruti Liberati, con domicilio eletto presso Marcello Molè in Roma, via Nicolò Porpora, n. 16; Edison s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Aldo Travi, Fabio Lorenzoni, con domicilio eletto presso Fabio Lorenzoni in Roma, via del Viminale, n. 43; Gestore dei Servizi Energetici s.p.a., Termica Cologno s.r.l., Termica Milazzo s.r.l., Jesi Energia s.p.a.; per ottenere chiarimenti per l’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 6026/2011, resa tra le parti, concernente aggiornamento prezzo medio combustibile convenzionale Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Bg Italia Power s.p.a., Termica Celano s.p.a., Edison s.p.a.; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2012 il Cons. Rosanna De Nictolis e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Sica, gli avvocati Capria, Lirosi, Bruti Liberati, Travi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso in epigrafe l’AEEG agisce ai sensi dell’art. 112, comma 5, c.p.a. al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato resa dalla sez. VI, 15 novembre 2011 n. 6026, che ha accolto in parte l’appello annullando la delibera dell’AEEG n. 154/2008. Da pag. a 3 a pag. 26 il ricorso reca il "fatto", mentre i motivi sono concentrati nella parte intitolata "diritto" da pag. 27 a pag. 49. Le prime due richieste di chiarimento attengono al capo di sentenza di cui ai parr. 9.5. e 9.6. in cui si afferma, testualmente: "Si deve infatti ritenere che il criterio del costo evitato di carburante, letto alla luce dell’art. 2, comma 141, l. n. 244/2007, a tenore del quale l’AEEG deve determinare il valore medio del prezzo del metano ai fini dell’aggiornamento del CEC tenendo conto dell’effettiva struttura dei costi nel mercato del gas naturale, implichi che: a) occorre stabilire qual è il mercato del gas naturale rilevante; b) occorre tener conto della struttura effettiva dei costi di approvvigionamento per un operatore economico virtuoso. In relazione al punto a), il mercato rilevante va identificato con il mercato in cui si incontrano la domanda di gas naturale da parte delle centrali termoelettriche e l’offerta di gas naturale da parte dei relativi produttori-distributori; In relazione al punto b): 1) occorre tener conto dell’effettiva struttura dei costi che incontra una centrale termoelettrica per approvvigionarsi di gas naturale; 2) occorre avere riguardo non ad una qualsivoglia centrale termoelettrica, ma ad un modello di operatore virtuoso, come riconosciuto dalla stessa appellante, che agisce in modo da conseguire il più conveniente prezzo del gas naturale; 3) il criterio dell’operatore virtuoso risponde ad elementari esigenze di evitare manovre speculative e di incoraggiare l’efficienza economica, evitando che il rimborso del CEC si traduca in una rendita speculativa o in un finanziamento a perdere in favore di operatori inefficienti; 4) occorre pertanto che siano stabiliti parametri oggettivi e ragionevoli volti a stabilire quale sarebbe il costo di carburante che incontrerebbe il Gestore dei servizi elettrici se si approvvigionasse direttamente seguendo il modello dell’operatore virtuoso, e dunque quale è il CEC. 9.6. Sulla base di tali premesse, si deve ritenere che essendo il mercato rilevante quello del gas naturale fornito alle centrali termoelettriche, l’AEEG doveva individuare il costo medio del gas naturale su tale mercato e tanto poteva e doveva fare prendendo in considerazione anzitutto tutti i contratti di fornitura del gas naturale alle centrali termoelettriche. Tali contratti sono, normativamente, nella sua disponibilità, ed è dall’insieme di tali contratti, secondo un criterio di media, che si desume la struttura effettiva dei costi sul mercato rilevante. Contrariamente a quanto sostenuto dal Tar, non si tratta di considerare i singoli contratti dei singoli operatori, che possono essere effettivamente legati a circostanze contingenti e a diversi rapporti di forza contrattuale, ma di considerare tutti i contratti del relativo mercato. Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali contratti costituisce per l’AEEG l’unico criterio. Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale, sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili. Si tratta, comunque, di valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non competono al giudice amministrativo. In questa sede va solo stigmatizzata la mancata utilizzazione di elementi di fatto essenziali per la determinazione del prezzo di mercato, vale a dire i contratti che tale mercato concorrono a costituire". 2. Le prime due richieste di chiarimenti attengono all’affermazione della sentenza secondo cui "Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali contratti costituisce per l’AEEG l’unico criterio. Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale, sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili". L’AEEG chiede: "see in che misura possa risultare conforme al diritto dell’Unione europea (e segnatamente alla direttiva 2009/73/CE, con particolare riferimento all’art. 37, che richiama l’art. 18 della precedente direttiva 1998/30/CE) come interpretato dalla Corte di giustizia e dalla Commissione europea, l’imposizione di correttivi volti ad incidere sui fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili da applicarsi ai soggetti che forniscono gas ai clienti industriali termoelettrici chiarendo altresì sulla base di quale principio o previsione normativa o altra base giuridica – e di conseguenza entro quali limiti – tale potere potrebbe essere correttamente esercitato dall’Autorità intestata nell’ordinamento interno e nell’osservanza dell’ordinamento sovranazionale". 2.1. Il secondo quesito è subordinato al primo e attiene al corretto dispiegarsi temporale dell’imposizione per l’anno 2008 dei suddetti correttivi. 2.2. Il terzo quesito attiene all’ambito soggettivo del giudicato e in particolare se esso riguardi: a) la sola ricorrente BGI; b) tutti e solo i beneficiari del regime di cui al provvedimento Cip-6 che producono energia elettrica tramite la combustione del gas e che per l’anno 2008 hanno effettivamente sostenuto la presunta maggiore spesa per l’acquisto del gas (27 centrali su 336); c) tutti i produttori Cip-6 compresi i 309 impianti che non utilizzano gas per produrre l’energia elettrica. 2.3. Le controparti costituite e/o intervenienti hanno eccepito la inammissibilità del ricorso e comunque la sua infondatezza. 3. Il ricorso è inammissibile, sia nella sua parte in fatto, sia nella sua parte in diritto. 3.1. Quanto alla parte in "fatto" del ricorso, la giurisprudenza di questo Consesso ha già chiarito che se il ricorso viene diviso in "fatto" e "diritto" i motivi di censura devono essere contenuti nella parte in diritto, e sono per l’effetto inammissibili i motivi intrusi, contenuti invece nella parte in fatto "(Cons. St., sez. VI, 24 giugno 2010 n. 4016). Tale principio è stato in prosieguo codificato dal secondo d.lgs. correttivo del cod. proc. amm. in sede di novella dell’art. 40 cod. proc. amm. Nel caso di specie non può pertanto essere esaminata la parte in fatto del ricorso, da pag. 3 a pag. 26, che peraltro non sottopone al Collegio questioni di interpretazione del giudicato, ma lagnanze e critiche contro il giudicato. 4. Quanto ai primi due quesiti interpretativi contenuti nella parte in diritto, essi sono inammissibili perché esulano dalla portata dei chiarimenti inerenti le modalità di ottemperanza. 4.1 I quesiti interpretativi da sottoporre al giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 112 comma 5 c.p.a. devono attenere alle modalità dell’ottemperanza, e devono pertanto avere i requisiti della concretezza e della rilevanza. Non si possono sottoporre al giudice dell’ottemperanza questioni astratte di interpretazione del giudicato, ma questioni specifiche che siano effettivamente insorte durante la fase dell’esecuzione del giudicato. Tale esegesi dell’art. 112 comma 5 discende dai principi generali da un lato in tema di interesse ad agire, dall’altro lato in tema di divisione dei poteri tra giudice e pubblica amministrazione. Sotto il primo profilo, atteso che l’interesse ad agire deve essere concreto e attuale, a sorreggere il ricorso dell’art. 112, comma 5, c.p.a. deve esserci un interesse concreto e attuale a ottenere il chiarimento. Sotto il secondo profilo, essendo l’ottemperanza in primis una forma di esercizio del potere pubblico amministrativo, essa compete, in primis, alla pubblica amministrazione, specie se il giudicato, come nella specie, lasci a quest’ultima "spazi in bianco". Il potere "di merito" del giudice amministrativo, di sostituirsi all’amministrazione, subentra solo in caso di acclarata inottemperanza dell’amministrazione stessa, laddove l’ordinamento preclude al giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2, c.p.a.). Sicché, l’amministrazione non può ex ante rinunciare all’esercizio del potere-dovere di ottemperanza, chiedendo al giudice di sostituirsi ad essa. 4.2. Nel caso specifico difettano i requisiti della concretezza e della rilevanza dei quesiti. Invero, se da un lato il giudicato ha affermato un principio in diritto, quello di determinazione del CEC sulla base dei costi di mercato, da desumersi dal mercato del gas naturale fornito alle centrali termoelettriche, dall’altro lato ha espressamente lasciato ampia discrezionalità all’AEEG quanto alle modalità concrete dell’ottemperanza, affermando che si tratta "di valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non competono al giudice amministrativo". Il giudicato si è limitato a fornire criteri meramente esemplificativi, e il criterio oggetto del quesito interpretativo appare chiaramente come un criterio estremo e affatto residuale, ancorato a precisi presupposti di fatto, e rimesso comunque alla valutazione discrezionale dell’AEEG. Infatti il giudicato afferma testualmente "Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali contratti costituisce per l’AEEG l’unico criterio. Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale, sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili". Sicché il criterio base è quello del prezzo medio contrattuale, e solo ove esso risulti "iniquo, irreale, sbilanciato" (evenienza che dovrebbe risultare del tutto eccezionale e che comunque deve essere dimostrata) l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi, rimessi al suo apprezzamento discrezionale, come si evince dalla frase subito successiva "Si tratta, comunque, di valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non competono al giudice amministrativo". Nel caso di specie non risulta dimostrata e neppure dedotta la rilevanza del quesito interpretativo, atteso che non risulta che l’Autorità abbia avviato l’ottemperanza mediante l’analisi dei contratti, che abbia determinato il prezzo medio, e che tale prezzo sia risultato iniquo, irreale o sbilanciato. Sebbene il ricorso per chiarimenti sia stato presentato a distanza di oltre sette mesi dalla pubblicazione della sentenza da ottemperare, l’Autorità non ha indicato se e in che modo si sia attivata per dare esecuzione al giudicato, e in particolare non ha riferito di aver acquisito i contratti di fornitura del gas e averne desunto il costo medio, sì da poter pervenire alla conclusione di trovarsi di fronte ad un prezzo iniquo, irreale, sbilanciato. Resta fermo, poi, che il giudicato, laddove rimette l’introduzione di correttivi al potere discrezionale dell’AEEG, ne esclude per ciò solo la doverosità atteso che il criterio è meramente esemplificativo, e ovviamente non impone all’AEEG di agire contra legem, ma solo nei limiti dei propri poteri. 5. Quanto al terzo quesito, relativo all’ambito soggettivo del giudicato, lo stesso è inammissibile perché l’art. 112, comma 5, c.p.a. configura un potere di "interpretazione autentica" del giudicato, in capo al giudice amministrativo, ma non un potere di consulenza nei confronti delle parti, e segnatamente nei confronti della parte pubblica. Questo, in ossequio ai principi di parità delle parti e di divisione tra il potere giudiziario e il potere amministrativo. Il giudice dell’ottemperanza può intervenire solo in caso di dedotta inottemperanza della p.a., ovvero per interpretare il giudicato al fine di rendere più celere l’ottemperanza, ma pur sempre nei limiti del principio della domanda e di una controversia in atto o quanto meno potenziale tra le parti del giudicato. Pertanto, con il rimedio citato, possono essere sottoposte al giudice dell’ottemperanza questioni specifiche di interpretazione del singolo giudicato, e non questioni di carattere generale sull’esecuzione di un qualsivoglia giudicato. Nel caso di specie non viene sottoposto un quesito di interpretazione del giudicato (che è stato reso tra parti ben specifiche e che pertanto vale tra le parti), ma un quesito generale sulla estensione soggettiva degli effetti del giudicato, che esula dalla sua interpretazione, e attiene all’esercizio dei poteri amministrativi di estensione soggettiva degli effetti del giudicato. Difetta pertanto sia il presupposto dell’inottemperanza, sia il presupposto di una lite anche solo potenziale tra le parti del giudicato, disputandosi di estendere il giudicato a parti ad esso estranee, il che postulerebbe quanto meno una istanza delle parti terze. La questione va pertanto rivolta, se del caso, all’Avvocatura dello Stato quale naturale consulente della parte pubblica. 4. In conclusione il ricorso è inammissibile. La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati: Giorgio Giovannini, Presidente Rosanna De Nictolis, Consigliere, Estensore Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere Roberta Vigotti, Consigliere Silvia La Guardia, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 25/10/2012 CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 9 novembre 2011 n. 23302 - Pres. ff. Vittoria, Rel. Rordorf - Consiglio Superiore della Magistratura (Avv. Vaccarella) c. P.G. (Avv. Luciani), S.A. (Avv. Sanino), C.C.R. e Ministero della Giustizia (n.c.) (accoglie il terzo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri; cassa la sentenza del Cons. Stato, 27 novembre 2010 n. 8252). Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - In materia di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile - Poteri del giudice dell’ottemperanza - Limiti - Individuazione. Una sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su di un ricorso per l'ottemperanza ad un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni, a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, ordina alla competente Amministrazione di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento ("ora per allora"), al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra Amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al Giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione in punto di giurisdizione (1). ----------------------------------------(1) In applicazione del principio nella specie le S.U. della Cassazione hanno cassato la sentenza del Cons. Stato, 27 novembre 2010 n. 8252, relativa all’esecuzione di un giudicato formatosi su di una sentenza in materia di procedura concorsuale per l'incarico di Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione. Hanno osservato in particolare le Sez. Unite che non è possibile ricostruire, in sede di ottemperanza, un procedimento concorsuale "ora per allora", al solo ipotetico fine del riconoscimento di un determinato trattamento di quiescenza del candidato che risulti vincitore. Tale operazione, infatti, sposta radicalmente l'asse tanto dell'azione amministrativa quanto della tutela giurisdizionale ad essa relativa, perchè un procedimento siffatto non potrebbe evidentemente in alcun modo condurre all'effettivo conferimento dell'incarico di cui in precedenza si era discusso e che aveva costituito la ragione prima dell'atto amministrativo annullato. Nè le conseguenze del giudicato di annullamento, in termini di ottemperanza, quando non si tratti soltanto di ricostruire la carriera di un pubblico dipendente facendo retroagire a determinati fini gli effetti di un atto che lo riguardi, bensì di ipotizzare il compimento ad opera dell'amministrazione di attività che non hanno più rispondenza nello scopo di pubblico interesse che è loro proprio, possono spingersi sino a tal segno, sino, cioè, ad implicare la necessità di svolgere un concorso virtuale, ormai sganciato dalla finalità del conferimento dell'incarico pubblico ed ipoteticamente destinato solo ad assicurare al vincitore un miglior trattamento di quiescenza. Ciò trasformerebbe l'oggetto medesimo del giudizio di ottemperanza, indirizzato così ad un accertamento destinato a riflettersi su un diverso rapporto (in ipotesi, quello previdenziale), e ne determinerebbe il sostanziale snaturamento, dovendo esso invece essere prioritariamente preordinato alla realizzazione della causa tipica del provvedimento amministrativo cui la pubblica amministrazione sia vincolata dal precedente giudicato - o tutt'al più al risarcimento del danno, previsto dell'art. 112 cod. proc. Amm. Commi 4 e 5 (domanda che non è stata però proposta nel presente caso) - e non ridursi allo scopo di porre le premesse perché il ricorrente possa eventualmente conseguire le utilità economiche connesse ad un superiore (ma affatto virtuale, perché ormai non più effettivamente conseguibile) inquadramento in organico. ESPOSIZIONE DEL FATTO Con Delib. 18 ottobre 2007 il Consiglio superiore della Magistratura conferì al dott. P.G. l'incarico di Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione. I dottori S.A., R.C. C. e V. E., i quali avevano concorso per il conferimento del medesimo incarico, ricorsero al Tribunale amministrativo regionale del Lazio ed, a seguito di decisione ad essi sfavorevole, proposero appello al Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, con sentenza del 1 luglio 2008, n. 3513, accolse gli appelli ed annullò la citata deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura, poichè la ritenne viziata da un eccesso di potere, evidenziato dall'illogicità del giudizio di comparazione tra i candidati. Stabilì perciò che il medesimo Consiglio superiore provvedesse a rinnovare il procedimento valutativo, con esito libero, condizionato solo dalle prescrizioni conformative contenute nel giudicato. Il Consiglio superiore della Magistratura, dopo un'ulteriore comparazione tra gli aspiranti, il 5 febbraio 2009 adottò una nuova deliberazione conferendo ancora al dott. P. l'incarico di Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione. I dottori S. e C. (non anche il dott. E., nel frattempo nominato Procuratore Generale presso la stessa Corte di Cassazione) proposero ricorsi per ottemperanza al Consiglio di Stato, che li accolse, con sentenza del 31 dicembre 2009, n. 9296, reputando che la nuova deliberazione fosse elusiva del giudicato derivante dall'annullamento della precedente. Il Consiglio superiore della Magistratura procedette allora ad assumere una terza deliberazione, in data 11 febbraio 2010, nella quale reiterò il giudizio di prevalenza del dott. P. rispetto agli altri aspiranti. Il dott. C. propose ancora un ricorso per ottemperanza e il dott. S. intervenne nel giudizio, che si concluse con la sentenza del Consiglio di Stato del 6 luglio 2010, n. 4326, la quale, essendo stata adottata la delibera impugnata in assenza di un valido concerto da parte del Ministro della giustizia, dispose la nomina di un commissario ad acta per il caso di ulteriore inadempimento. Il 15 settembre 2010 il Consiglio superiore della Magistratura, acquisito il nuovo concerto ministeriale, adottò una deliberazione sostitutiva della precedente, riformulando il giudizio comparativo con esito ancora favorevole al dott. P.. Il dott. S. propose un ulteriore ricorso per ottemperanza, chiedendo la declaratoria di nullità della deliberazione da ultimo menzionata, a norma della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, comma 2. Il ricorso fu accolto, con la sentenza del 27 novembre 2010, n. 8252, del Consiglio di Stato, che, avendo nuovamente ravvisato gli estremi dell'elusione del giudicato, ordinò al Consiglio superiore della Magistratura di prestare esatta ottemperanza a quanto statuito dalla precedente sentenza n. 3513 del 2008, nominò un commissario ad acta ed, in caso di mancato rispetto dei termini a quest'ultimo assegnati, si riservò di provvedere direttamente all'adozione dei necessari provvedimenti. La predetta sentenza del Consiglio di Stato è stata impugnata dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione dal Consiglio superiore della Magistratura, per tre motivi nei quali si denuncia il superamento da parte del giudice amministrativo dei limiti esterni della propria giurisdizione. A seguito di ciò, con ordinanza depositata l'11 maggio 2011, il Consiglio di Stato ha sospeso l'esecuzione della sentenza impugnata. Il dott. P. ha depositato un controricorso di contenuto adesivo. Una posizione antagonista è stata invece assunta dall'altro controricorrente, dott. S., mentre nessuna difesa hanno svolto in questa sede il dott. C. ed il Ministro della Giustizia. Tanto il ricorrente quanto i controricorrenti hanno depositato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Come si è già accennato, il ricorso consta di tre motivi. 1.1. Nel primo si deduce la violazione dei limiti esterni della giurisdizione con riferimento all'art. 24 Cost., all'art. 103 Cost. e all'art. 111 Cost., comma 1. A parere del Consiglio superiore, il giudice amministrativo, utilizzando indebitamente ex post lo strumento dell'interpretazione del giudicato come parametro della legittimità ovvero dell'elusività del provvedimento consiliare, si è arrogato la facoltà di scegliere il tipo di potere giurisdizionale da esercitare in concreto, ed ha optato per quello a cognizione sommaria, proprio della giurisdizione di ottemperanza, senza che ne ricorressero davvero i presupposti, come il confronto tra le motivazioni poste a base del primo provvedimento annullato e di quelli adottati successivamente dall'organo di autogoverno della magistratura varrebbe a dimostrare. Donde la violazione dei limiti tassativi entro i quali al Consiglio di Stato è consentito esercitare una giurisdizione di merito, in luogo dell'ordinario sindacato di legittimità articolato in due gradi di giudizio, oltre che del principio dettato dall'art. 111 Cost., comma 1, a tenore del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. 1.2. L'addebito mosso alla sentenza impugnata nel secondo motivo di ricorso è di avere invaso il merito delle prerogative riservate al Consiglio superiore della Magistratura dalla Costituzione e dalla legge. Il ricorrente sostiene che il Consiglio di Stato avrebbe attribuito alla propria precedente sentenza n. 3513 del 2008 - la quale non aveva affatto affermato che il dott. P. non avrebbe potuto vincere il concorso, ma si era limitata a riscontrare vizi motivazionali che rendevano necessaria una nuova valutazione comparativa - una portata diversa e ben più ampia di quella effettiva, quasi che l'esito del concorso fosse ormai predeterminato. L'ingiustificata dilatazione del concetto di elusione del giudicato avrebbe perciò condotto il giudice amministrativo a sostituire indebitamente il proprio giudizio a quello dell'organo di autogoverno dei magistrati. 1.3. L'ultimo motivo di ricorso, nel denunciare un eccesso di potere giurisdizionale ad opera del Consiglio di Stato, lamenta in particolare la violazione dell'art. 105 Cost., dipendente dal fatto che, quando l'impugnata sentenza di ottemperanza è stata pronunciata, tutti i magistrati che avevano partecipato al contestato concorso per il conferimento dell'incarico di Procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione avevano ormai cessato di appartenere all'ordine giudiziario per sopraggiunti limiti d'età. Non avrebbe perciò potuto essere ordinata una nuova comparazione, "ora per allora", tra candidati nessuno dei quali era ormai più in condizioni di ricoprire l'incarico conteso, ed il provvedimento che si vorrebbe fosse emanato dal Consiglio superiore della Magistratura non potrebbe produrre gli effetti suoi propri, nè quindi rispondere all'interesse pubblico al quale la sua emanazione dovrebbe esser preordinata, mirando invece solo a soddisfare l'interesse privato di un candidato, in relazione alle conseguenze di natura economica dell'incarico non conseguito; interesse che, però, deve essere fatto valere in sede risarcitoria e la cui tutela è del tutto estranea al giudizio di ottemperanza. 2. Prima di entrare nel merito delle censure mosse all'impugnata sentenza, occorre farsi carico di un'eccezione preliminare d'inammissibilità del ricorso, sollevata dalla difesa del dott. S.. E' stato già sopra ricordato che la Delib. Consiglio superiore della Magistratura 15 settembre 2010, la quale ha formato oggetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 8252 del 2010, qui impugnata, era stata preceduta da altra deliberazione del medesimo organo di autogoverno della magistratura, in data 11 febbraio 2010, annullata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4326 del 2010. Il controricorrente dott. S. ora osserva che la sentenza da ultimo menzionata, oltre a rilevare il difetto del prescritto concerto ministeriale, aveva espressamente affermato che la citata deliberazione consiliare del febbraio 2010 conteneva le stesse erronee valutazioni di quelle già in precedenza annullate. Ma detta sentenza n. 4326 non è stata impugnata ed è passata in giudicato: il che, per un verso, renderebbe inammissibili le considerazioni critiche che l'attuale ricorso ad essa riserva e, per altro verso, implicherebbe che anche le censure rivolte alla successiva sentenza n. 8252 del 2010 sarebbero precluse dal giudicato, attesa la sostanziale identità delle deliberazioni consiliari esaminate dalle due indicate pronunce. 2.1. L'eccezione, nella misura in cui tende a far dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione nella sua interezza, non appare fondata. Non v'è dubbio che detto ricorso abbia ad oggetto unicamente l'ultima, in ordine di tempo, delle sentenze del Consiglio di Stato dianzi ricordate - la sentenza n. 8252 del 2010 - e che tale decisione è riferita alla Delib. consiliare 15 settembre 2010 (sostitutiva della precedente deliberazione del febbraio dello stesso anno), avendo ravvisato in essa un'ulteriore elusione del giudicato formatosi a seguito della decisione n. 3515 del 2008, con cui era stato annullato l'originario conferimento al dott. P. dell'incarico di cui si discute. Se, però, può certamente condividersi il rilievo per cui non possono trovare spazio in questa sede censure rivolte ad una sentenza diversa da quella specificamente qui impugnata, altrettanto non è a dirsi per le censure che colpiscono direttamente quest'ultima sentenza. La circostanza che alcuni dei vizi oggi imputati alla sentenza impugnata avrebbero potuto, eventualmente, essere riscontrati anche nella precedente non comporta preclusione alcuna, stante comunque la diversità dell'oggetto dei due giudizi che con quelle sentenze si sono conclusi: che non vien meno per la mera sovrapponibilità (peraltro neppure integrale, come si desume dal tenore della sentenza impugnata) delle due distinte e successive deliberazioni consiliari e dei comportamenti dell'amministrazione che in esse si sono estrinsecati, in quanto l'efficacia oggettiva del giudicato non può mai investire singole questioni di fatto o di diritto se queste non attengano, in guisa di presupposti o premesse logiche, al medesimo rapporto. 3. Sempre al fine di verificare l'ammissibilità del proposto ricorso, non è superfluo ricordare che, per giurisprudenza costante, il controllo della Corte di Cassazione sulle pronunce giurisdizionali del Consiglio di Stato è limitato all'accertamento dell'eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte del massimo organo della giustizia amministrativa, cui non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata alla pubblica amministrazione attraverso l'esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, con conseguente trapasso da una giurisdizione di legittimità a quella di merito, come può accadere, ad esempio, quando il giudice amministrativo compia atti di valutazione della mera opportunità dell'atto impugnato, sostituendo propri criteri di valutazione a quelli discrezionali della pubblica amministrazione, o adotti decisioni finali interamente sostitutive delle determinazioni spettanti all'amministrazione medesima (si veda in tal senso, tra le altre, Sez. un. 15 marzo 1999, n. 137). Si è perciò affermato che l'eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, è configurabile solo quando l'indagine svolta dal giudice amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione, procedendo ad un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia che abbia il contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa (cfr., ex aliis, Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19664). La speciale giurisdizione di ottemperanza affidata al giudice amministrativo presenta però, com'è noto, caratteri affatto peculiari, in virtù dei quali l'ingerenza del giudice nel merito dell'agire della pubblica amministrazione è pienamente ammissibile. Ed, infatti, al medesimo giudice amministrativo è in tal caso espressamente attribuito un potere di giurisdizione anche di merito (artt. 7cod. proc. amm., comma 6, e art. 134 cod. proc. amm.), con possibilità sia di procedere alla "determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo" ed alla "emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione" (art. 114 cod. proc. Amm., comma 4, lett. a), sia di "sostituirsi all'amministrazione" (art. 7 cod. proc. amm., comma 6) nominando, ove occorra, un commissario ad acta (art. 114 cod. proc. amm., comma 4, lett. d). Un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, per invasione della sfera riservata al potere discrezionale della pubblica amministrazione, non potrebbe perciò essere certamente ravvisato nel fatto in sè che il giudice dell'ottemperanza, rilevata la violazione od elusione del giudicato amministrativo, abbia adottato (o ordinato di adottare) quei provvedimenti che l'amministrazione inadempiente avrebbe dovuto già essa stessa attuare. Proprio in questo sta infatti la funzione de giudizio di ottemperanza che, in ossequio al principio dell'effettività della tutela giuridica e per soddisfare pienamente l'interesse sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od elusivi del contenuto della decisione del giudice amministrativo (cfr. Sez. un. 19 agosto 2009, n. 18375; e 24 novembre 2009, n. 24673). Nè a ciè è di ostacolo la circostanza che l'amministrazione cui viene imputata la violazione o delusione del giudicato sia, come nel caso del Consiglio superiore della Magistratura, un organo di rilevanza costituzionale (si veda Corte cost. 15 settembre 1995, n. 435). Ma, se lo sconfinamento nel merito del giudice amministrativo oltre i limiti della sua naturale giurisdizione di legittimità è sindacabile ad opera della Cassazione, nei termini già dianzi ricordati, appare del tutto ragionevole dedurne che un analogo sindacato sia esercitabile anche nel caso in cui, essendo invece un potere di giurisdizione di merito espressamente conferito dalla legge al medesimo giudice amministrativo, venga addebitato al Consiglio di Stato di avere ecceduto il limite entro il quale quel potere gli compete: di avere, cioè, esercitato una giurisdizione di merito in presenza di situazioni che avrebbero potuto dare adito solo alla normale giurisdizione di legittimità, e quindi all'esercizio di poteri cognitivi e non anche esecutivi (cfr. Sez. un. 31 ottobre 2008, n. 26302; 19 luglio 2006, n. 16469; e 9 giugno 2006, n. 13431), o che comunque non avrebbero potuto dare ingresso all'anzidetta giurisdizione di merito. Si ripropone, in siffatti casi, l'identica tematica dell'invasione non consentita, ad opera del giudice, della sfera di attribuzioni riservata alla pubblica amministrazione; nè, inoltre, il potere integrativo del giudice dell'ottemperanza può sottrarsi ai limiti esterni della giurisdizione propria del giudice amministrativo quando la cognizione della questione controversa, la cui soluzione sia necessaria ai fini della verifica dell'esatto adempimento dell'amministrazione obbligata, risulti devoluta ad altro giudice in modo che soltanto questi possa provvedere al riguardo (si vedano Sez. un. 20 novembre 2003, n. 17633; e 19 luglio 2006, n. 16469). Anche in termini più generali, del resto, queste sezioni unite hanno già avuto occasione in passato di affermare come debba ormai essere considerata norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che da contenuto a quel potere, stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca; con la conseguenza che rientra nello schema logico del sindacato per violazione di legge per motivi inerenti alla giurisdizione, spettante alla Corte di Cassazione, l'operazione consistente nell'interpretare la norma attributiva di tutela e nel verificare se il giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8 la abbia correttamente applicata (Sez. un. 23 dicembre 2008, n. 30254). Naturalmente questo non significa che il sindacato della Suprema corte possa estendersi a qualsiasi eventuale error in iudicando o in procedendo imputato al giudice amministrativo nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme che disciplinano il giudizio di ottemperanza. Per scriminare le fattispecie in cui il sindacato sui limiti di tale giurisdizione è consentito da quelli in cui esso risulta invece inammissibile, dovendosi aver riguardo al cosiddetto petitum sostanziale ed all'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio (cfr., ex multis, Sez. un., 25 giugno 2010, n. 15323), risulta decisivo stabilire se quel che viene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione, oppure il fatto stesso che, in una situazione del genere di quella considerata, un tal potere, con la particolare estensione che lo caratterizza, a detto giudice non spettava. Si potrà allora convenire che, quando l'ottemperanza sia stata invocata denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell'individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell'amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli obblighi dal giudicato derivanti. Si tratta, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza. E ciò appunto si verifica - come già detto - ogni qual volta sia denunciato l'esercizio indebito ad opera del Consiglio di Stato della speciale giurisdizione d'ottemperanza, con i conseguenti riflessi sul merito amministrativo, in fattispecie suscettibili invece soltanto di essere trattate dal giudice amministrativo nell'ambito della normale giurisdizione di legittimità (o eventualmente nell'ambito della sua giurisdizione esclusiva), così come in qualsiasi altra situazione in cui il giudizio di ottemperanza, estrinsecandosi nell'emanazione di un ordine di fare (o di non fare) rivolto dal giudice all'amministrazione, si sia esplicato al di fuori dei casi nei quali un siffatto ordine poteva essere impartito. 3.1. Nel caso di specie il terzo motivo del ricorso - che, come si vedrà, risulta assorbente rispetto agli altri due e che quindi, per ragioni di economia processuale, conviene esaminare per primo - investe appunto l'esistenza stessa dei presupposti in presenza dei quali sussiste il potere del giudice amministrativo di emettere un provvedimento di ottemperanza. Il sindacato della Suprema corte su tale questione è, dunque, certamente ammissibile. 4. La circostanza che il giudizio di ottemperanza sia stato instaurato quando il ricorrente dott. S. era già stato collocato a riposo per limiti di età e che la sentenza sia stata poi pronunciata quando erano usciti definitivamente dall'ordine giudiziario tutti i magistrati che avevano partecipato al concorso conclusosi con la vittoria del dott. P., sicchè l'incarico a quest'ultimo assegnato non poteva ormai che essere oggetto di un concorso del tutto nuovo, destinato a svolgersi tra aspiranti completamente diversi, appare tale da incidere profondamente sulla portata e sul contenuto effettivo del menzionato giudizio di ottemperanza. Nell'impugnata sentenza del Consiglio di Stato si sostiene - richiamando alcuni precedenti del medesimo giudice amministrativo - che il collocamento a riposo dei ricorrente per ottemperanza non fa venir meno il suo interesse "alla rideterminazione della propria posizione originaria ai fini giuridici (ora per allora), laddove egli risulti vincitore all'esito del rinnovo della procedura, con ogni conseguenza in ordine anche al trattamento di quiescenza". Ma la questione è un'altra: non riguarda l'interesse ad agire, bensì l'oggetto e lo scopo del giudizio di ottemperanza, e perciò i limiti entro i quali è esercitabile la relativa potestà giurisdizionale del giudice amministrativo. Si tratta di stabilire se le surriferite circostanze abbiano fatto venir meno la possibilità stessa per il Consiglio superiore della Magistratura di dar corso ad una nuova valutazione comparativa tra i suddetti candidati, difettando perciò, in tale ipotesi, i presupposti stessi per un giudizio di ottemperanza. La giurisdizione di ottemperanza, infatti, è il mezzo attraverso il quale deve essere assicurato, grazie all'intervento del giudice, il pieno compimento di quell'attività che la pubblica amministrazione avrebbe dovuto svolgere conformandosi al precedente giudicato, ed è intuitivo che essa non possa spingersi sino ad esiti che neppure all'agire spontaneo della medesima pubblica amministrazione sarebbero più ormai consentiti. 4.1. Occorre a tal riguardo considerare che, come già è stato sottolineato da attenti studiosi della materia, il giudicato amministrativo non può essere considerato separatamente dalla fattispecie su cui incide. Una cosa è il giudicato che tocca vicende chiuse, delle quali cioè l'intervento del giudice è destinato a segnare la conclusione, altra cosa è la sentenza che, viceversa, riapre una situazione che il provvedimento annullato aveva inteso definire, dischiudendo nuove prospettive per il futuro. A questa diversa tipologia di situazioni corrisponde una diversità di effetti del giudicato amministrativo. Se si tratta di situazioni orientate al passato, che il provvedimento annullato aveva definito, il giudicato pone termine alla vicenda; ma se, viceversa, si tratta di situazioni orientate al futuro, il giudicato accerta fatti e rapporti con riferimento alla data di adozione del provvedimento, e ciò pone il problema di stabilire se, o fino a qual punto, l'amministrazione debba tener conto di eventuali nuovi elementi di fatto e di diritto che la sentenza non aveva avuto nè titolo nè modo per considerare. Va rimarcato che sovente tali nuovi elementi non incidono sul giudicato in quanto tale, ossia sulla situazione che la sentenza ha accertato ormai intangibilmente, bensì sugli effetti ulteriori riferibili al giudicato medesimo e ad esso successivi (effetti che il vincitore vorrebbe trarre dal giudicato, ma che non ne derivano ex lege). Se la fattispecie si è esaurita, l'assetto dato è insensibile a qualunque modifica successiva al giudicato, ma se, invece, essa presuppone ulteriori sviluppi, è ben possibile che un fattore esterno, del tutto indipendente dal giudicato, la modifichi. Quando, allora, si predica l'irrilevanza delle sopravvenienze di diritto o di fatto posteriori al giudicato (a differenza di quelle intervenute nelle more della definizione dei giudizio), che non possono ormai più incidere sull'assetto degli interessi cui il giudicato medesimo ha posto capo, e si sottolinea come il decorso del tempo non possa andare a scapito della parte incolpevole, occorre aggiungere che, ogni qual volta, tuttavia, siano intervenute in seguito circostanze per le quali non risulti ormai più possibile fare quel che alla data del ricorso per ottemperanza si sarebbe eventualmente potuto fare, o viceversa, tali circostanze saranno comunque immancabilmente destinate a riflettersi anche sugli effetti e sulla concreta attuabilità del precedente giudicato. Anche e proprio per questa ragione, del resto, il legislatore ha ampliato l'area del possibile risarcimento del danno (che può, all'occorrenza, assumere i connotati del danno da perdita di chance), espressamente ricollegandolo all'ipotesi della violazione o dell'elusione del giudicato. Ne consegue che il giudicato amministrativo formatosi su un provvedimento col quale l'amministrazione abbia proceduto al conferimento di un incarico pubblico ha l'effetto d'imporre alla medesima amministrazione di provvedere al rinnovo della relativa procedura, volta al conferimento di quell'incarico, ma solo se e fino a quando l'incarico sia ancora conferibile e la procedura sia ancora espletabile. Venuta meno tale condizione, cessa per ciò stesso non solo l'obbligo, ma la possibilità stessa per l'amministrazione di provvedere in tal senso, fermo l'eventuale diritto al risarcimento per chi abbia visto indebitamente frustrate le proprie legittime aspirazioni. La possibilità di dar corso ad un procedimento concorsuale "ora per allora", al solo ipotetico fine del riconoscimento di un determinato trattamento di quiescenza del candidato che risulti vincitore, sposta radicalmente l'asse tanto dell'azione amministrativa quanto della tutela giurisdizionale ad essa relativa, perchè un procedimento siffatto non potrebbe evidentemente in alcun modo condurre all'effettivo conferimento dell'incarico di cui in precedenza si era discusso e che aveva costituito la ragione prima dell'atto amministrativo annullato. Nè le conseguenze del giudicato di annullamento, in termini di ottemperanza, quando non si tratti soltanto di ricostruire la carriera di un pubblico dipendente facendo retroagire a determinati fini gli effetti di un atto che lo riguardi, bensì di ipotizzare il compimento ad opera dell'amministrazione di attività che non hanno più rispondenza nello scopo di pubblico interesse che è loro proprio, possono spingersi sino a tal segno: sino, cioè, ad implicare la necessità di svolgere un concorso virtuale, ormai sganciato dalla finalità del conferimento dell'incarico pubblico ed ipoteticamente destinato solo ad assicurare al vincitore un miglior trattamento di quiescenza. Ciò trasformerebbe l'oggetto medesimo del giudizio di ottemperanza, indirizzato così ad un accertamento destinato a riflettersi su un diverso rapporto (in ipotesi, quello previdenziale), e ne determinerebbe il sostanziale snaturamento, dovendo esso invece essere prioritariamente preordinato alla realizzazione della causa tipica del provvedimento amministrativo cui la pubblica amministrazione sia vincolata dal precedente giudicato - o tutt'al più al risarcimento del danno, previsto dell'art. 112 cod. proc. Amm. Commi 4 e 5 (domanda che non è stata però proposta nel presente caso) - e non ridursi allo scopo di porre le premesse perchè il ricorrente possa eventualmente conseguire le utilità economiche connesse ad un superiore (ma affatto virtuale, perchè ormai non più effettivamente conseguibile) inquadramento in organico. 4.2. Nella fattispecie in esame, come s'è visto, non solo quando è stata pronunciata l'impugnata sentenza del Consiglio di Stato, la contestata procedura concorsuale conclusasi in favore del dott. P. appariva non più utilmente ripetibile, dovendo ormai necessariamente essere indetto un nuovo e diverso concorso (come in effetti è accaduto) a causa del sopravvenuto pensionamento dello stesso dott. P. e di tutti gli altri originari concorrenti a quell'incarico, ma già al momento della proposizione del ricorso da parte del dott. S. quest'ultimo aveva cessato di far parte dell'ordine giudiziario per superamento dei limiti di età. Non vi era quindi più spazio per un provvedimento giurisdizionaie di ottemperanza, volto ad imporre il compimento di un'attività amministrativa della quale non sussistevano più gli indispensabili presupposti, potendo invece la tutela del dott. S. esplicarsi nel naturale solco di una pretesa risarcitoria. Nè la circostanza che il Consiglio superiore della Magistratura, intendendo adeguarsi ad un precedente del Consiglio di Stato, abbia tuttavia ritenuto di potere emettere un provvedimento "ora per allora" costituisce, da solo, argomento sufficiente a far dubitare di quanto appena osservato. Come si è sopra notato, la formula "ora per allora" esprime una mera fictio iuris, implicando che, in realtà, l'oggetto della pronuncia non era, nè avrebbe più potuto essere, l'espletamento di un nuovo concorso volto all'effettivo conferimento dell'incarico di Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, bensì il mero accertamento di una situazione soggettiva eventualmente azionabile in altra sede dall'interessato. Donde l'esorbitanza del provvedimento di ottemperanza dai limiti del relativo potere giurisdizionale - esercitato in una situazione che non lo avrebbe consentito e per finalità ad esso estranee - in quanto volto al conseguimento di un risultato meramente cognitorio, riferibile ad un eventuale rapporto giuridico da far valere in un diverso contesto giurisdizionale e dinanzi ad un giudice diverso. 5. Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto. La sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza ad un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, ordina alla competente amministrazione di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento ("ora per allora"), al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetto, pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione in punto di giurisdizione. 6. Alla stregua del principio ora enunciato, il terzo motivo di ricorso risulta meritevole di accoglimento, con conseguente cassazione dell'impugnata sentenza del Consiglio di Stato, restando in ciò assorbite le questioni sollevate negli altri due motivi di ricorso. 7. La particolarità della vicenda e l'assenza di precedenti giurisprudenziali in termini suggeriscono di compensare tra le parti le spese dell'intero giudizio. P.Q.M. La corte accoglie il terzo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri, cassa l'impugnata sentenza e compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio. Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2011. Depositata in Cancelleria il 9 novembre 2011. CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 15 gennaio 2013 n. 2 Pres. Coraggio, Est. Botto - Loperfido (Avv.ti Prosperetti e Tomassetti) c. Università degli Studi di Bari (Avv.ti Prudente e Carbonara) e Favale (Avv.ti Caputi Jambrenghi, Mastroviti e Sanino) - (riforma T.A.R. Puglia - Bari, Sez. III, n. 1832/2009 e T.A.R. Puglia - Bari, Sez. II, n. 447/2011, dichiarando ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto). 1-2. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Disciplina prevista dal c.p.a. - Attuale polisemicità del "giudizio" e dell’"azione di ottemperanza" Azioni esperibili mediante il giudizio di ottemperanza - Individuazione. 3. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Ricorso ex art. 112, comma 5, c.p.a. - Proposto al fine di "ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza" - Natura giuridica - Individuazione - Annoverabilità di esso tra le azioni di ottemperanza - Esclusione - Ragioni. 4. Giustizia amministrativa - Procedimento giurisdizionale - Riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione - Ex art. 70 c.p.a. - Casi in cui può essere disposta Individuazione. 5. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Proposizione contemporanea di un ricorso ordinario volto all’annullamento degli atti esecutivi e di un ricorso per ottemperanza per la dichiarazione di nullità degli atti stessi, in quanto violativi del giudicato - Trattazione congiunta - Necessità. 6-7. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Conversione ex art. 32, comma 2, c.p.a. - Presupposti e condizioni - Individuazione. 8. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Poteri della P.A. a seguito di un giudicato - Potere di rivalutazione della situazione - Possibilità Potere di rimettere in discussione i fatti accertati - Impossibilità. 9. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - A seguito del passaggio in giudicato di una sentenza (riguardante una procedura comparativa per professori universitari) - Azione con la quale si deduce che la mancata soddisfazione della pretesa sia imputabile ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa - Va qualificata come azione per l’ottemperanza. 1. La disciplina del giudizio di ottemperanza non è sussumibile in una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, ma presenta profili affatto diversi, non solo quanto al "presupposto" (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere: a) "l’attuazione" delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo "per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza" (art. 112, comma 2, c.p.a.); b) la condanna "al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza" (art. 112, comma 3); c) il "risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato" (art. 112, comma 3); d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4). 2. L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, comma 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del "giudizio" e dell’ "azione di ottemperanza", dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, altre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 c.p.a., deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto. 3. Il ricorso, ex art. 112, comma 5, c.p.a. proposto al fine di "ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza", non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’"azione di ottemperanza" ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è "il ricorso" introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio). 4. Nel giudizio amministrativo, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione (ex art. 70 c.p.a.), può essere disposta in riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i ricorsi pendano nel medesimo "grado". Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di procedura civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio: art. 39, comma 1, c.p.a.), anche dalle norme dello stesso Codice del processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di "pluralità delle domande e conversione delle azioni", prevede che "è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse". 5. Nel caso in cui, a seguito di una sentenza passata in giudicato, siano stati proposti due ricorsi (uno, ordinario, diretto all’annullamento degli atti esecutivi adottati in sede di ottemperanza, e l’altro, per l’esecuzione del giudicato, diretto ad ottenere la declaratoria di nullità degli atti violativi del giudicato), entrambi i giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbono essere trattati in modo unitario, atteso che, in tal caso, ciò che viene richiesto al giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili); in tal caso, il giudice stesso non può che essere chiamato ad un esame complessivo della vicenda (1). 6. L’art. 32, comma 2, primo periodo, c.p.a. (in base al quale "il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali", e la conversione dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – "sussistendone i presupposti"), presuppone che l' azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, comma 1, cui rinvia l’art. 31, comma 4, c.p.a.), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 c.p.a.: il rispetto del termine decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei "presupposti" (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato dall’art. 32, comma 2, c.p.a. 7. La conversione dell’azione ex art. 32, comma 2, primo periodo, c.p.a. può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli artt. 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, comma 4, lett. b), c.p.a., è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti. 8. Anche se non può escludersi in via generale che, in sede di esecuzione del giudicato, la P.A. possa effettuare una rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice, va tuttavia ritenuto che la riedizione del potere debba essere assoggettata a precisi limiti e vincoli, dato che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa. Si deve infatti ritenere - in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (2) - che l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non possa rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale. 9. E’ sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie devolute alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, un ricorso con il quale il ricorrente dopo il passaggio in giudicato di una sentenza (nella specie riguardante una procedura comparativa per la copertura di posti di professore universitario), ha dedotto che la mancata soddisfazione della propria pretesa sia imputabile ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale portato all’esame del giudice. In tal caso è evidente è il fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova fondamento e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la decisione giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa successiva alla decisione viene prospettata come disallineata rispetto al contenuto del giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non in base alla mera qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi intrinseca della natura dei vizi dedotti. ------------------------------------(1) Ha osservato la sentenza in rassegna che l’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza. In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità. Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione. (2) Cfr., in questo senso, CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia. N. 00002/2013REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 18 di A.P. del 2012, proposto da: Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Tomassetti, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina,19; contro Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5; Ministero universita' e ricerca; nei confronti di Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Vincenzo Caputi Jambrenghi, Fulvio Mastroviti e Mario Sanino, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180; sul ricorso numero di registro generale 19 di A.P. del 2012, proposto da: Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Vincenzo Caputi Jambrenghi e Fulvio Mastroviti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, viale Parioli, 180; contro Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Marco Prosperetti e Domenico Tomassetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 19; nei confronti di Università degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; sul ricorso numero di registro generale 20 di A.P. del 2012, proposto da: Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava C/O Uff. Legale Univ.La Sapienza in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5; contro Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Domenico Tomassetti e Marco Prosperetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via G. Pierluigi Da Palestrina, 19; nei confronti di Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, rappresentato e difeso dall'Avvocatura, generale dello Stato e domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; Stefano Favale; per la riforma quanto al ricorso n. 18 del 2012: della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione III n. 1832/2009, resa tra le parti, concernente PROCEDURA DI VALUTAZIONE COMPARATIVA PER UN POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO - ESEC.GIUD.TAR quanto ai ricorsi nn. 19-20 del 2012: della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione II n. 447/2011, resa tra le parti, concernente APPROVAZIONE GRADUATORIA CONCORSO PER LA COPERTURA DI N.1 POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Universita' degli Studi di Bari e di Stefano Favale e di Università degli Studi di Bari e di Francesco Loperfido e di Francesco Loperfido e di Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 giugno 2012 il Cons. Alessandro Botto e uditi per le parti gli avvocati Tomassetti, Prudente, e Caputi Jambrenghi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ordinanza collegiale n. 2024/12 del 5 aprile 2012 la VI Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’esame dell’adunanza plenaria le questioni prospettate nei ricorsi indicati in epigrafe, previa riunione degli stessi per evidenti ragioni di connessione processuale. 2. La complessa vicenda portata all’attenzione dell’adunanza plenaria necessita di una preliminare ricostruzione (in fatto e in diritto). 2.1. Con decreto del Rettore dell’Università degli Studi di Bari n. 5453 del 24 giugno 2002 veniva indetta una procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di professore ordinario presso la Facoltà di medicina e chirurgia, settore scientifico disciplinare MED/11-malattie dell’apparato cardio-vascolare. La commissione, nella riunione dell’11 dicembre 2004, dopo avere richiamato i criteri di valutazione individuati dal d.P.R. 19 ottobre 1998 n. 390 e dal d.P.R. 23 marzo 2000, n. 117, definiva ulteriormente i criteri stessi e quindi procedeva alla valutazione comparativa dei titoli, dei curricula e delle pubblicazioni dei candidati ammessi alla procedura e ciò si traduceva nella espressione di giudizi individuali sintetici da parte di ciascun componente e in un giudizio collegiale. Ebbene, il giudizio riportato dal candidato Favale è risultato il seguente: "La ricerca scientifica, dedicata prevalentemente alla aritmologia, è svolta con continuità e rigore metodologico e risulta di pregevole livello. Il riconoscimento dell’apporto individuale è ben definibile. L’attività assistenziale è consona alla posizione del candidato. L’attività didattica si è svolta nel Corso di laurea in Medicina. Il giudizio complessivo sul candidato è molto buono." Il giudizio, invece, espresso sul candidato Loperfido è stato il seguente: "L’attività scientifica del candidato presenta spunti di originalità e di innovatività con apporto individuale ben riconoscibile. L’attività didattica è ottimamente documentata. L’attività in campo clinico risulta essere ampia e continuativa, da tempo concretizzatasi con responsabilità primaziale. Il giudizio complessivo sul candidato è molto buono". Sulla base di tali giudizi, la commissione il 7 giugno 2005 procedeva quindi alla votazione, a seguito della quale il candidato Marino (estraneo alla presente controversia) riportava cinque voti favorevoli, il candidato Favale ne riportava tre e il candidato Loperfido due (mentre i restanti candidati non prendevano alcun voto). La commissione, pertanto, dichiarava idonei i candidati Marino e Favale. 2.2. Il successivo 25 agosto 2005 si riuniva peraltro una commissione consultiva straordinaria, incaricata dal Rettore di svolgere un esame in ordine alla regolarità degli atti della procedura seguita. Tale commissione esprimeva perplessità in merito alle ragioni che avevano condotto la commissione esaminatrice ad esprimere analoghi giudizi collegiali per i due candidati e sollecitava il Rettore a rimettere gli atti alla commissione esaminatrice per un riesame del giudizio finale. 2.3. Il Rettore accoglieva l’invito e, con provvedimento del 2 settembre 2005, rimetteva nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice per la "rinnovazione della votazione relativa alla seconda idoneità". La commissione si riuniva, a tale scopo, il 25 ottobre 2005 e, dopo avere proceduto ad una riponderazione delle valutazioni dei candidati in lizza, confermava la votazione già espressa, evidenziando peraltro come nella votazione finale non si possa prescindere da una certa libertà dei votanti rispetto agli apprezzamenti precedentemente effettuati, con la conseguenza che possono aversi dei risultati non perfettamente aderenti all’ordine delle preferenze enucleabile dai giudizi espressi sui candidati stessi. 2.4. In merito interveniva nuovamente la commissione consultiva, che osservava come la commissione di concorso avesse omesso la valutazione specifica dei titoli didattici e di servizio dei candidati, traducendosi la nuova determinazione in una "tautologica e generica conferma delle determinazioni in precedenza assunte". Di conseguenza, la commissione esprimeva il parere che gli atti della commissione esaminatrice potessero essere approvati limitatamente al concorrente prof. Paolo Marino, cha aveva riscosso l’unanimità dei voti e il Rettore, con decreto del 7 febbraio 2006, procedeva alla declaratoria di idoneità del solo candidato Marino, rimettendo nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice quanto alla seconda idoneità. 2.5. Si riuniva nuovamente la commissione esaminatrice in data 22 marzo 2006, la quale confermava la precedente votazione ed affermava che "sebbene il prof. Loperfido presenti titoli assistenziali più consistenti, l’attività didattica viene valutata pariteticamente (cfr. il risultato della prova didattica del candidato Favale), mentre nell’attività scientifica emergono chiare differenze qualitative a vantaggio del dott. Favale, come si appalesa dai giudizi collegiali formulati nella IV riunione della commissione (a fronte della indicazione di "spunti di originalità ed innovatività" segnalati per il prof. Loperfido, l’attività scientifica del dott. Favale è definita "pregevole e caratterizzata da continuità e rigore metodologico"). In definitiva, le diversità sopra segnalate si sono riverberate sull’esito finale, che ha visto il dott. Favale prevalere con tre voti favorevoli contro due del prof. Loperfido ecc.". A seguito di tale giudizio, il rettore, con decreto del 31 marzo 2006, dichiarava idoneo il dott. Favale. 3. Su ricorso del prof. Loperfido, il TAR Puglia, sezione di Bari, con sentenza n. 47/2007, annullava tale dichiarazione di idoneità del dott. Favale. Infatti, il Tribunale riteneva che fosse debole la ricostruzione in termini di parità dell’attività didattica svolta dai candidati Loperfido e Favale, tanto che la commissione esaminatrice aveva dovuto dare forte peso alla prova pratica cui il dott. Favale era stato sottoposto, prova che, peraltro, la stessa commissione non aveva giudicato in termini entusiastici. Inoltre, la valutazione della produzione scientifica del prof. Loperfido non sarebbe ispirata ad un criterio logico e non avrebbe potuto essere presa in considerazione una pubblicazione del dott. Favale, poiché ancora in corso di stampa al momento di presentazione della domanda. La sentenza di primo grado veniva poi confermata in appello dal Cons. Stato,VI, n. 1039/2008, rilevando come fosse incomprensibile che la valutazione della prova pratica svolta dal dott. Favale avesse consentito a questi di prevalere sotto il profilo della capacità ed esperienza didattica e ciò a causa: a) dell’iniziale giudizio collegiale espresso dalla commissione esaminatrice, più favorevole al prof. Loperfido (allegato 2 al verbale n. 4 del 9 maggio 2005); b) della non dimostrata equivalenza dell’attività di docenza svolta dal dott. Favale rispetto a quella del prof. Loperfido, ben più lunga (quest’ultima) nell’ambito di un corso di laurea inerente il medesimo settore scientifico-disciplinare oggetto della procedura concorsuale di cui è causa; c) dell’incomprensibilità del giudizio (di parità) fondato solo sulle risultanze della prova didattica a cui si era sottoposto il dott. Favale. 4. A seguito di tale pronuncia del Consiglio di Stato, il Rettore, con decreto 30 aprile 2008, disponeva che la commissione esaminatrice procedesse alla rinnovazione parziale della valutazione comparativa delle pubblicazioni, tenendo conto di tutte e venti le pubblicazioni del prof. Loperfido e di diciannove pubblicazioni prodotte dal dott. Favale, nonché alla rivalutazione comparativa dell’attività didattica dei due candidati. La commissione, riaperto il procedimento, concludeva nel senso che il dott. "Favale prevale con sufficiente chiarezza nella comparazione con l’attività didattica del prof. Loperfido per la maggiore intensità dell’impegno e della responsabilità didattica ascrivibile al primo anziché al secondo (Corso di laurea a fronte di Scuole di specializzazione) nonostante la differenza di sette anni di età di laurea. L’attività scientifica vede prevalere il dott. Favale per sistematicità e originalità, rigore metodologico e continuità, dote quest’ultima soprattutto venuta a mancare all’attività scientifica del prof. Loperfido negli ultimi due-tre anni antecedenti la scadenza del termine concorsuale, come ha confermato e meglio dimostrato la rilettura delle sue venti pubblicazioni effettuata dai commissari". Pertanto, veniva confermata la dichiarazione di idoneità del dott. Favale. Il Rettore, con decreto del 13 ottobre 2008 n. 12312, ha poi fatto propria tale determinazione, recependola formalmente. 5. Contro tale decreto, nonché avverso gli atti presupposti, il prof Loperfido ha proposto sia ricorso per ottemperanza sia autonomo ricorso ordinario. Con il ricorso per ottemperanza egli deduce la nullità degli atti impugnati per violazione/elusione del giudicato formatosi sulla sentenza di questo Consiglio, VI, n. 1039/2008 e chiede la nomina di un commissario ad acta estraneo all’Università di Bari. Il TAR adito, con sentenza del 13 luglio 2009 n. 1832, ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che la sentenza passata in giudicato sia stata formalmente eseguita e che ogni eventuale doglianza in merito avrebbe dovuto essere proposta nell’ambito di un ordinario giudizio di cognizione. Avverso tale pronuncia il prof. Loperfido ha proposto appello (rubricato al n. 7506/2010), con cui censura la statuizione del giudice di primo grado, in quanto l’Università di Bari sarebbe incorsa nel vizio di elusione di giudicato, avendo utilizzato criteri diversi da quelli contemplati nel giudicato stesso. Aggiunge l’appellante che la commissione esaminatrice avrebbe dovuto essere sostituita. Lo stesso TAR, con sentenza 22 marzo 2011, n. 447, ha invece accolto il ricorso ordinario pure proposto dal prof. Loperfido, ritenendo fondato il secondo motivo di censura dedotto, in quanto il nuovo giudizio non avrebbe dovuto essere formulato dalla medesima commissione, bensì da una nuova commissione esaminatrice. Avverso tale ultima sentenza sono stati proposti due appelli: uno (rubricato al n. 4159/2011) da parte del prof. Favale e l’altro (n. 4289/2011) da parte dell’Università di Bari, con cui si lamenta che il vizio relativo alla mancata sostituzione della commissione avrebbe dovuto essere dichiarato tardivo e che, comunque, il giudicato non avrebbe imposto la sostituzione della commissione. Inoltre, il giudice avrebbe ecceduto nell’esercizio del potere giurisdizionale, operando un non consentito sindacato di merito con il quale si sarebbe sostituito alla stessa Università. 6. Con la citata ordinanza collegiale di rimessione della presente controversia all’esame dell’adunanza plenaria, previa riunione degli appelli sopra richiamati, la VI Sezione ha evidenziato l’opportunità di un esame in questa sede della questione processuale di massima circa il corretto uso degli strumenti di tutela giudiziaria ove l’amministrazione, come nel caso di specie, reiteri con uguale risultato gli atti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo. In sostanza, il collegio rimettente ritiene necessario affrontare il tema, di ordine generale, dell’oggetto, dei contenuti e dei limiti del giudizio di ottemperanza e della necessità di evitare duplicazioni di giudizi, in virtù del principio del ne bis in idem e delle esigenze di economia processuale. Osserva altresì come spesso (ciò che è avvenuto nel caso di specie) vengano affiancati due giudizi, uno ordinario e uno per ottemperanza, a fronte del rinnovo dell’attività amministrativa successivamente alla formazione di un giudicato, con conseguente aggravamento della tutela giudiziaria ed inevitabile produzione di incoerenze e di incertezze nella risposta giurisdizionale. 6.1. Il collegio rimettente rappresenta poi alcuni elementi interpretativi utili alla soluzione della questione prospettata (rectius: delle questioni prospettate). Innanzitutto evidenzia che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta sia l’inerzia della p.a. (ossia il non facere) sia il comportamento (id est: facere) che realizzi un’ottemperanza parziale o una vera e propria violazione/elusione del giudicato. Infatti, anche un’attuazione parziale o inesatta o elusiva deve essere annoverata nella nozione di inottemperanza, al pari dell’inerzia (cfr. C.d.S., VI, 12 dicembre 2011 n. 6501). Ciò, oltretutto, appare ormai recepito nel Codice del processo amministrativo (art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6). Tale assunto, evidenzia il collegio rimettente, appare in linea con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo, nel cui ambito va iscritto il diritto di ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre che in tempi rapidi, senza la necessità di dover attivare un ulteriore giudizio di cognizione. Al riguardo viene ricordato l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto al processo (di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il diritto all’esecuzione del giudicato ("diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia"). Il diritto al giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove non vi fossero strumenti utili per dare esecuzione al giudicato, esecuzione che non può essere indebitamente ritardata. Ciò premesso, il collegio rimettente si chiede se la scelta della sede cui fare ricorso per la verifica della corretta esecuzione del giudicato possa essere rimessa alla scelta della parte vittoriosa in sede di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce all’azione della p.a. successiva al giudicato (violazione/elusione del giudicato o autonoma violazione) o se occorra dare prevalenza all’esigenza di frustrare i comportamenti formalmente rinnovatori, ma in realtà meramente reiterativi della precedente determinazione in relazione alla quale si è formato il giudicato. Comunque sia, rileva il collegio rimettente che occorre previamente individuare l’esatta portata oggettiva del giudicato, tenuto conto che l’efficacia del medesimo va ricondotta al principio generale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è aderente ai limiti oggettivi e soggettivi della controversia, da identificare nella correlazione tra petitum e causa petendi in rapporto alla dedotta lesione dell’interesse vantato e, dunque, in relazione, ai vizi dedotti. A tale riguardo viene richiamato il parametro concettuale delle azioni costitutive del processo civile e viene rammentato che l’individuazione concreta del perimetro del giudicato è rimessa all’applicazione di un elastico criterio integrativo di origine giurisprudenziale, costituente ormai diritto vivente: trattasi del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla decisione. Tale assunto, nella peculiarità della judicial review dell’esercizio della funzione pubblica, si sostanzia nei seguenti corollari: a) il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ossia non solo le questioni (di fatto e di diritto) fatte valere in via di azione o di eccezione e comunque esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni che, seppure non dedotte, costituiscono un presupposto logico indefettibile della decisione; il giudicato, quindi, preclude la proposizione di domande contemplate dalla intervenuta risposta giurisdizionale, ma non la prospettazione di domande completamente nuove, che anzi assumano il giudicato quale presupposto logico; b) la peculiarità del giudizio amministrativo, peraltro, impedisce la piena espansione del principio di cui al capo a), poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso; c) la sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non integrano l’ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza; d) la domanda risarcitoria sulla quale il giudice non si sia pronunciato dovrà, quindi, essere proposta in autonomo giudizio di cognizione; e) gli effetti del giudicato di rigetto si estendono anche a tutte le questioni inerenti l’esistenza e la validità del rapporto dedotto in giudizio che siano state vagliate, anche implicitamente, nella sentenza. 6.2. Quanto alla natura del giudicato amministrativo, evidenzia il collegio rimettente che esso ha un contenuto complesso, non limitato agli effetti demolitori e ripristinatori della situazione quo ante, ma ricomprendente anche effetti conformativi rivolti al futuro, che si traducono in vincoli imposti alla p.a. in sede di riedizione del potere amministrativo successivamente al decisum giurisdizionale. Tale assetto ricostruttivo va poi coniugato con i principi di effettività della tutela giurisdizionale, nonché con i principi di celerità della risposta giurisdizionale e di lealtà processuale (che a loro volta sono espressione del più generale principio di buona fede): ciò comporta che occorre interpretare il giudicato secondo un complessivo canone di buona fede al fine di consentire l’espansione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. 6.3. Afferma in particolare il collegio rimettente che il cpa. sembra mostrare un favor per la concentrazione nell’alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione. Peraltro, e qui sta il cuore della rimessione all’adunanza plenaria, tale favor non pare che possa spingersi fino al punto di poter affermare che qualsiasi provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice dell’ottemperanza. Infatti, ove il nuovo atto successivo al giudicato non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma autonomamente lesivo, poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato, l’azione corretta, afferma il collegio rimettente, è quella del ricorso ordinario di cognizione (cfr, in questo senso, anche la prima giurisprudenza formatasi dopo l’entrata in vigore del cpa: C.d.S., VI, 15 novembre 2010 n. 8053). Il discrimen tra violazione/elusione del giudicato e nuova autonoma violazione può essere compiuto con esemplificazione casistica per categorie generali relative ai tipi di vizi dell’azione amministrativa su cui incide il giudicato. In sostanza, si tratta di stabilire quali sono i limiti che derivano dal giudicato al rinnovo dell’azione amministrativa e quali sono, invece, gli spazi bianchi lasciati ad un’autonoma e nuova valutazione. In attuazione di tale ricostruzione consegue che, ove il giudicato comporti l’annullamento del provvedimento solo per vizi formali, è indubbio che residui spazio pieno per il rinnovo della valutazione dell’amministrazione: in questa ipotesi, ove la p.a. elimini i vizi formali, ma ciononostante adotti un provvedimento non satisfattivo della pretesa, è pacifico che si determini non una violazione/elusione del giudicato, ma una eventuale nuova autonoma illegittimità. Ad analoghe conclusioni, afferma sempre il collegio rimettente, si deve pervenire ove il giudicato si formi in relazione al silenzio-inadempimento e si limiti ad affermare l’obbligo di provvedere: anche in questo caso il provvedimento espresso successivo al giudicato potrà essere eventualmente impugnato per vizi autonomi, da dedurre in sede di ricorso ordinario di cognizione. Evidenzia in proposito il collegio rimettente che una parte della giurisprudenza afferma che, dopo la formazione del giudicato, la p.a. possa individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola; aggiunge, peraltro, che tale tesi, se può essere condivisa a fronte di un potere discrezionale, non sembra invece condivisibile nel caso di reiterazione di un’attività vincolata o nel caso di attività caratterizzata da cosiddetta discrezionalità tecnica. In questi casi, infatti, la p.a. (al di fuori dell’autotutela o dell’enucleazione di cause ostative legali) non può utilizzare in danno del vincitore elementi del tutto incontroversi e mai messi in discussione. Alla luce di ciò, conclude il collegio rimettente, si dovrebbe ritenere che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, dia luogo a violazione/elusione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione. 7. All’odierna udienza, sentiti i difensori di cui al verbale, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO .1. Vengono poste all’esame dell’adunanza plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo luogo, all’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo e, al contempo, alla necessità, da un lato, di contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale e, dall’altro, di evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale stessa. Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di specie appare emblematico nell’evidenziare le difficoltà per gli interessati di individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente, vincitore in sede cognitoria, ha difatti attivato due ricorsi, uno in sede di ottemperanza (dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di cognizione (accolto per un motivo formale) e tale modus operandi è di frequente utilizzo in presenza di un giudicato, a dimostrazione delle incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia. Sul piano sostanziale, poi, il problema portato all’attenzione di questo consesso risiede nella individuazione di un equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo, assetto che peraltro non può che essere delineato sul piano dei principi, poiché il concreto atteggiarsi del singolo giudicato nei confronti del sopravvenuto esercizio della funzione amministrativa non può che essere rimesso all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P., 22 dicembre 1982 n. 19). 2. Il caso oggetto dei presenti giudizi, l’uno di ottemperanza e l’altro di cognizione e portati unitariamente all’esame dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine preliminare di verificare la correttezza della riunione, che sia delineata l’attuale configurazione del giudizio di ottemperanza, quale essa risulta, non solo dalle acquisizioni giurisprudenziali, ma anche e soprattutto alla luce del codice del processo amministrativo. Ebbene, ciò che risulta evidente dall’esame della disciplina codicistica è che il giudizio di ottemperanza (cui sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale). Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al "presupposto" (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere: a) "l’attuazione" delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo "per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza" (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione; b) la condanna "al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza" (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato); c) il "risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. ." (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ "attuazione" di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza; d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno. Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ "attuazione" richiesta ad una "esecuzione" della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo. A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di "ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza": anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale lungi dall’affermare che è l’ "azione di ottemperanza" ad essere utilizzabile in questi casi afferma che è "il ricorso" introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio). In conclusione, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del "giudizio" e dell’ "azione di ottemperanza", dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto. 3. E’ in questo quadro normativo che occorre, dunque, procedere preliminarmente all’esame dell’ammissibilità della riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente. Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria che tale riunione sia possibile, tenuto conto dell’esigenza di simultaneus processus che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai ricorrenti. E’ noto che, in via generale, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può essere disposta in riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i ricorsi pendano nel medesimo "grado". Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di procedura civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio: art. 39, comma 1, cpa), anche dalle norme dello stesso Codice del processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di "pluralità delle domande e conversione delle azioni", prevede che "è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse". Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbano essere trattati in modo unitario. Ed infatti, proprio perché ciò che viene richiesto al giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili), il giudice stesso non può che essere chiamato ad un esame complessivo della vicenda. L’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza. Fermi, dunque, i principi generali in tema di riunione sopra individuati, in questo caso provvisto di una sua evidente specificità - la riunione dei ricorsi appare coerente con il principio di effettività (completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente unitaria. In attuazione di quanto esposto, occorre quindi ritenere corretto che nel caso di specie si sia proceduto alla riunione dei due appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza e dal giudizio di cognizione. 4. Quanto ora affermato sulla correttezza della riunione dei due appelli sollecita a questa adunanza plenaria una ulteriore riflessione. Ed infatti, le medesime ragioni – che il Collegio ha qui evidenziato per così dire ex post, a giustificazione della riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure nei termini e limiti di seguito esposti, sostenere l’ammissibilità di un solo ricorso, in luogo dei due che la parte è spesso, per ovvie ragioni di "cautela processuale", necessitata ad esperire avverso i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di proprio precedente provvedimento. In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità. Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione. Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale "il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali", e la conversione dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – "sussistendone i presupposti". Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei "presupposti" (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato dall’art. 32, co. 2, cpa. Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti. 5. Ciò premesso e venendo al caso in esame, è ben noto come sia jus receptum l’assunto che il giudicato amministrativo si presenti in modo poliforme, a seconda delle situazioni giuridiche coinvolte e delle censure dedotte. Infatti, il ricorrente può far valere mere censure formali nei confronti dell’azione amministrativa, ovvero vizi più pregnanti, che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per ottenere il bene della vita; la sua domanda poi, può tendere ad opporsi ad un’azione della p.a, (in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che comunque consentono di sterilizzare l’iniziativa della p.a.) , ovvero può prospettare una pretesa (e in questo caso contemplerà usualmente censure di carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza della pretesa stessa). E dunque è altrettanto pacifico che la sentenza del giudice amministrativo si atteggia in modo differente a seconda che abbia ad oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria pretesa nonchè a seconda del vizio accolto. E’ in questo quadro variegato che va posta e risolta la questione dell’annoverabilità nell’ambito del giudicato non solo del "dedotto" (ossia di ciò che espressamente è stato oggetto di contestazione ed esame), ma anche del "deducibile" (id est: ciò che, pur non espressamente trattato, si pone come presupposto/corollario indefettibile del thema decidendum). Va premesso peraltro che la questione si può porre solo nei riguardi dell’attività oggetto di esame giudiziale, in quanto tale anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza. La questione si pone invece ove la riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice. In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice. E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi da tempo avanzate che, facendo leva sul principio di effettività della giustizia amministrativa, prospettano la necessità di pervenire all’affermazione del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato sfavorevole, ma non ritiene di poter aderire a tale indirizzo che appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali possiamo vantare un sistema di esecuzione del giudicato amministrativo – l’ottemperanza appunto – sicuramente più avanzato. Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli. 5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3). In questo modo, oltretutto, si recupera un lontano indirizzo giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al modello giuridico idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro ordinamento, secondo il quale si riteneva possibile un immediato e diretto accesso al fatto nei casi in cui la pretesa al bene della vita non dovesse essere filtrata da una valutazione discrezionale, rimessa alla esclusiva competenza della p.a.: cfr. C.d.S., IV, 13 giugno 1902, De Paulis contro Provincia di Aquila, con nota adesiva della migliore dottrina dell’epoca). Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa (di recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n. 3569 ha affermato che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta): tale assetto appare, oltretutto, coerente con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa in precedenza richiamata e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia) . 5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in esame, in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece la loro valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti incombe l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale). Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale, poiché l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione giurisdizionale amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione interpretativa della materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima aspettativa con comportamenti elusivi. Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del giudicato. Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede. Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il riesame sia effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio. 6. Occorre ora fare applicazione dei principi testé enunciati al caso di specie: il prof. Loperfido, ricorrente vittorioso in sede cognitoria (C.d.S., VI, 11 marzo 2008 n. 1039), ha proposto azione di ottemperanza con cui ha dedotto la nullità degli atti in cui si è sostanziato, con la rinnovata valutazione dei candidati, il riesercizio della funzione amministrativa. Egli, infatti, ha denunciato la violazione, elusione del giudicato formatosi, ritenendo che la commissione esaminatrice abbia in sostanza disatteso la statuizione del giudice amministrativo, avendo operato la nuova valutazione sulla base di criteri completamente diversi da quelli che erano stati utilizzati in precedenza nella procedura valutativa in esame. In concreto, il ricorrente vittorioso ha quindi dedotto che la mancata soddisfazione della propria pretesa fosse imputabile proprio ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale portato all’esame del giudice. Ciò in evidente violazione, altresì, del principio di buona fede, avendo in pratica la p.a. frustrato la pretesa del ricorrente mediante l’utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che tendeva a confermare il precedente risultato mediante l’utilizzo di un percorso logico differente da quello in precedenza utilizzato. Ebbene, tale situazione, in base a quanto sopra affermato, appare sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie devolute alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, poiché evidente è il fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova fondamento e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la decisione giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa successiva alla decisione viene prospettata come disallineata rispetto al contenuto del giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non in base alla mera qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi intrinseca della natura dei vizi dedotti. La domanda proposta dal ricorrente in sede di ottemperanza mirava dunque ad evidenziare che l’accertamento giurisdizionale aveva avuto ad oggetto determinati presupposti della pretesa sostanziale dedotta in sede cognitoria, in relazione ai quali si doveva ritenere esteso l’effetto del giudicato, con conseguente esistenza in proposito di un vero e proprio vincolo per la riedizione dell’azione amministrativa. E tale vincolo sarebbe stato infranto dalla susseguente attività amministrativa della commissione esaminatrice, che avrebbe in pratica eluso il decisum mediante un artificio logico consistente nell’adozione di un differente percorso logico motivazionale. Il ricorso per ottemperanza proposto dal prof. Loperfido, pertanto, non avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile ed ha quindi errato il giudice di primo grado nel qualificarlo come tale. 7. Diversa questione, invece, è quella della fondatezza o meno del ricorso medesimo, alla luce dei principi fin qui enunciati, ai quali deve attenersi l’azione dell’amministrazione in sede di riedizione del potere dopo la pronuncia del giudice. Questa valutazione viene peraltro rimessa all’esame della Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 4, cpa. 8. Quanto al secondo giudizio relativo agli appelli proposti dal prof. Favale e dall’Università di Bari avverso la sentenza del giudice di primo grado, emessa in sede di giudizio di cognizione, che ha invece accolto (per un motivo formale) il ricorso pure proposto dal prof. Loperfido, esso va rimesso alla sezione per le valutazioni sia di ordine pregiudiziale, si è visto infatti che la permanenza dell’interesse dipende dalla decisione dell’altra domanda, che di merito. La decisione in ordine alle spese viene rinviata alla decisione finale P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe, riuniti, così provvede: 1. accoglie l’appello proposto da Francesco Loperfido (n. 18/2012 A.P.) e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto dal ricorrente; 2. restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente. Spese al definitivo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 18 giugno 2012 e 19 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Coraggio, Presidente Giorgio Giovannini, Presidente Gaetano Trotta, Presidente Pier Giorgio Lignani, Presidente Stefano Baccarini, Presidente Alessandro Botto, Consigliere, Estensore Rosanna De Nictolis, Consigliere Marzio Branca, Consigliere Francesco Caringella, Consigliere Anna Leoni, Consigliere Maurizio Meschino, Consigliere Angelica Dell'Utri, Consigliere Diego Sabatino, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 15/01/2013 . 00462/2014REG.PROV.COLL. N. 05327/2013 REG.RIC. N. 05542/2013 REG.RIC. N. 05582/2013 REG.RIC. N. 05584/2013 REG.RIC. N. 05586/2013 REG.RIC. N. 05807/2013 REG.RIC. N. 05809/2013 REG.RIC. N. 05818/2013 REG.RIC. N. 05821/2013 REG.RIC. N. 07082/2013 REG.RIC. N. 07083/2013 REG.RIC. R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA Sui seguenti ricorsi in appello: 1) nr. 5327 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro la signora Elsa VERELLI, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 2) nr. 5542 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Nettuno MORRA, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 3) nr. 5582 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro la signora Caterina USAI MIRRA, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 4) nr. 5584 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro l’avvocato Giunio MASSA, rappresentato e difeso da sé medesimo, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 5) nr. 5586 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro la signora Gigliola DI PALERMO, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 6) nr. 5807 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Maurizio NAPOLI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 7) nr. 5809 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Michele CORONELLA, non costituito; 8) nr. 5818 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Luigi PAGANO, non costituito; 9) nr. 5821 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro la signora Concetta TROTA, non costituita; 10) nr. 7082 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Vittorio RICCARDI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 11) nr. 7083 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro il signor Mario MENICAGLI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; per l’annullamento quanto al ricorso nr. 5327 del 2013: della sentenza nr. 83/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma, depositata il 7 gennaio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione nr. 23821/11 del 20 ottobre 2011; quanto al ricorso nr. 5542 del 2013: della sentenza nr. 5338/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 22 maggio 2013, depositata il 28 maggio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 9262/2012, depositata il 7 giugno 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo; quanto al ricorso nr. 5582 del 2013: della sentenza nr. 4231/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 10 aprile 2013, depositata il 29 aprile 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 6174/2012, depositata il 19 aprile 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo; quanto al ricorso nr. 5584 del 2013: della sentenza nr. 5749/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 22 maggio 2013, depositata il 7 giugno 2013, sul ricorso per l’esecuzione (limitatamente alle spese oggetto di distrazione) del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 6173/2012, depositata il 19 aprile 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo; quanto al ricorso nr. 5586 del 2013: della sentenza nr. 4019/2013 resa dal T.A.R. del Lazio, Sezione Prima, il 10 aprile 2013, depositata il 22 aprile 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 2357/2012, depositata il 16 febbraio 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo; quanto al ricorso nr. 5807 del 2013: della sentenza nr. 6202/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma, depositata il 20 giugno 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione nr. 6169/2012 depositata in data 19 aprile 2012; quanto al ricorso nr. 5809 del 2013: della sentenza nr. 4718/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma, depositata il 10 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54711/07, depositato in data 21 giugno 2010; quanto al ricorso nr. 5818 del 2013: della sentenza nr. 4739/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma, depositata il 13 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54711/07 depositato in data 21 giugno 2010; quanto al ricorso nr. 5821 del 2013: della sentenza nr. 4738/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma, depositata il 13 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54702/07, depositato in data 22 giugno 2010; quanto al ricorso nr. 7082 del 2013: della sentenza nr. 6891/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 3 luglio 2013, depositata l’11 luglio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 3345/2012, depositata il 2 marzo 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo; quanto al ricorso nr. 7083 del 2013: della sentenza nr. 6889/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 3 luglio 2013, depositata l’11 luglio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 3343/2012, depositata il 2 marzo 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati in epigrafe indicati; Viste le memorie prodotte dagli appellati costituiti a sostegno delle proprie difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, alla camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014, il Consigliere Raffaele Greco; Udita l’avv. dello Stato Gabriella D’Avanzo per l’Amministrazione appellante; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO I – Il Ministero della Giustizia ha appellato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla signora Elsa Verelli per l’ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato la detta Amministrazione al pagamento di un equo indennizzo, pari a complessivi € 9.250,00, per eccessiva durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, nr. 89, oltre alle spese e agli accessori di legge. L’appello è affidato ai seguenti motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), dell’art. 117 Cost., degli artt. 2 e 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001 (in relazione all’avere il primo giudice disapplicato la disposizione interna di cui al comma 7 dell’art. 3 della citata legge nr. 89/2001, per supposto contrasto con la CEDU); 2) violazione e falsa applicazione dell’art. 114, comma 4, cod. proc. amm. (non essendo applicabile la penalità di mora contemplata da detta disposizione ai casi di inottemperanza di sentenze dai quali discendano obblighi di carattere pecuniario). Si è costituita l’appellata, signora Elsa Verelli, la quale si è argomentatamente opposta all’accoglimento del gravame, concludendo per la conferma della sentenza impugnata. II – Un secondo appello di analogo tenore il Ministero della Giustizia ha proposto avverso altra sentenza del T.A.R. capitolino, relativa all’ottemperanza alla sentenza della Corte di Cassazione recante condanna al pagamento della somma complessiva di € 9.750,00 (oltre spese e accessori) in favore del signor Nettuno Morra, sempre a titolo di equo indennizzo ex legge nr. 89/2001. L’appello si fonda su motivi sostanzialmente sovrapponibili a quelli del ricorso indicato al precedente punto I, investendo unicamente la parte della decisione gravata con la quale all’Amministrazione è stata comminata la penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. Si è costituito l’appellato, signor Nettuno Morra, opponendosi all’accoglimento dell’appello e chiedendo la conferma della sentenza impugnata. III – Con ulteriore appello, il Ministero della Giustizia ha gravato altra sentenza del T.A.R. del Lazio, di tenore identico a quello delle sentenze già impugnate, recante ottemperanza alla condanna al pagamento della somma complessiva di € 10.000,00 (oltre spese e accessori) in favore della signora Caterina Usai Mirra; i motivi sono identici a quelli dell’appello di cui al precedente punto II. Si è costituita l’appellata, anche in questo caso assumendo l’infondatezza dell’impugnazione e chiedendone la reiezione. IV – Con un quarto appello, fondato su identici motivi, l’Amministrazione ha censurato un’ulteriore sentenza del T.A.R. capitolino, recante ottemperanza alla condanna al pagamento della somma € 10.600,00 per equo indennizzo in favore del signor Franco Bonomo, limitatamente alle spese di lite da distrarsi in favore dell’avvocato Giunio Massa, pari a complessivi € 2105,00 oltre a spese e accessori. Anche in questo giudizio l’appellato, ritualmente costituitosi, ha argomentato a sostegno dell’infondatezza del gravame e della conferma della sentenza impugnata. V – Ancora un altro appello è stato proposto dal Ministero della Giustizia, sulla scorta di motivi identici a quelli posti a sostegno dei precedenti ricorso, avverso un’ulteriore sentenza del T.A.R. del Lazio, identica alle altre, relativa all’ottemperanza della sentenza di condanna in Cassazione alla somma complessiva di € 10.250,00 (oltre a spese e accessori) in favore della signora Gigliola Palermo. La appellata si è a sua volta costituita, chiedendo la reiezione del gravame. VI – Identico iter si è avuto in relazione a un sesto appello, col quale il Ministero della Giustizia ha chiesto la riforma della sentenza del T.A.R. laziale relativa a ottemperanza alla condanna al pagamento della somma di € 9.650,00 (oltre spese e accessori) in favore del signor Maurizio Napoli, costituitosi in resistenza. VII – Con un settimo appello, l’Amministrazione della Giustizia ha impugnato un’altra sentenza del T.A.R. capitolino, di tenore identico alle precedenti, con cui è stata ordinata l’ottemperanza di un decreto della Corte d’Appello di Roma recante condanna al pagamento della somma € 16.000,00 in favore del signor Michele Coronella, sempre per equo indennizzo da eccessiva durata del processo; i motivi di gravame sono identici a quelli degli altri appelli. In questo giudizio, la parte appellata non si è costituita. VIII – Con ulteriore appello di identico tenore, è stata poi gravata la sentenza relativa all’ottemperanza ad altro decreto della Corte d’Appello romana, recante condanna alla somma complessiva di € 16.000,00 in favore del signor Luigi Pagano, sempre a titolo di equo indennizzo. Anche in questo caso, l’appellato è rimasto contumace. IX – Sempre i medesimi motivi di gravame sono alla base del nono appello in epigrafe, proposto dal Ministero della Giustizia avverso un’ulteriore sentenza del T.A.R. del Lazio, afferente all’ottemperanza del decreto della Corte d’Appello di Roma recante condanna al pagamento di € 16.000,00 in favore della signora Concetta Trota. L’appellata si è costituita, opponendosi con diffuse argomentazioni all’accoglimento del gravame. X – Analogo iter si è avuto quanto ad ulteriore appello proposto dalla stessa Amministrazione, sempre sulla base degli stessi motivi in diritto, avverso altra sentenza del T.A.R. del Lazio relativa all’ottemperanza della sentenza della Corte di Cassazione recante la condanna al pagamento della somma di € 9.750,00, oltre spese e accessori, in favore del signor Vittorio Ricciardi. Anche in questo caso, l’appellato si è costituito opponendosi all’accoglimento dell’appello. XI – L’ultimo degli appelli in epigrafe, proposto dal Ministero della Giustizia sulla base di identici motivi, investe la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha ordinato l’ottemperanza di altra sentenza della Corte di Cassazione, recante condanna al pagamento della somma di € 9.250,00 in favore del signor Mario Menicagli. Anche in questo caso, l’appellato si è ritualmente costituito ed ha chiesto la conferma della sentenza impugnata. XII – Tutti gli appelli suindicati, chiamati alla camera di consiglio del 9 gennaio 2014, sono stati in tale circostanza spediti in decisione. DIRITTO 1. Preliminarmente, appare opportuno disporre la riunione degli appelli in epigrafe, ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., essendo gli stessi fondati su questioni identiche. 2. Sono appellate, invero, undici sentenze del T.A.R. del Lazio emesse in altrettanti giudizi di ottemperanza relativi a sentenze della Corte di Cassazione ovvero a decreti della Corte di Appello di Roma, con cui il Ministero della Giustizia è stato condannato al pagamento di somme di varia entità a titolo di equo indennizzo per eccessiva durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, nr. 89. 2.1. Il Ministero della Giustizia ha appellato le suddette sentenze limitatamente alla parte in cui il primo giudice, oltre a ordinare l’esecuzione della sentenza ottemperanda e a nominare un Commissario ad acta per l’eventuale adempimento in sostituzione dell’Amministrazione, ha condannato quest’ultima anche al pagamento di ulteriori somme a titolo di penalità di mora (c.d. astreinte), ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. in ragione dell’ingiustificato ritardo nell’esecuzione rispetto al momento in cui sulle sentenze o sui decreti di condanna all’equo indennizzo si era formato in giudicato. Questo, in estrema sintesi, il percorso argomentativo del giudice di prime cure: - la legge nr. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) è stata adottata dallo Stato italiano al dichiarato scopo di predisporre un rimedio per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), per la cui violazione l’Italia risultava aver subito molteplici condanne dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; - la Corte, pur riconoscendo l’adeguatezza del rimedio indennitario, si è posta il problema della reazione da prevedere per l’ipotesi in cui le Autorità nazionali omettano di ottemperare ai provvedimenti giudiziari che riconoscono l’equo indennizzo; - per questo, la giurisprudenza CEDU ha precisato che l’esecuzione della condanna de qua deve considerarsi parte integrante del termine complessivo del processo, e pertanto rileva ai fini del rispetto del citato art. 1, par. 6, della Convenzione (al riguardo, sono state citate le sentenze della Grande Camera, 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia, e della Sez. II, 21 dicembre 2010, Gaglione c. Italia); - negli arresti testé richiamati, la Corte ha ritenuto ragionevole ammettere un termine di “tolleranza” per l’esecuzione delle sentenze in subiecta materia, termine che è stato equitativamente fissato in sei mesi, decorsi i quali il ritardo non è più giustificabile; - inoltre, la Corte ha precisato che la mancanza di risorse finanziarie non può costituire idonea giustificazione all’inadempimento degli obblighi indennitari discendenti da condanne giurisdizionali per violazione della ragionevole durata del processo; - tale quadro normativo e giurisprudenziale impone, secondo il primo giudice, “un’interpretazione restrittiva (sostanzialmente, la disapplicazione)” dell’art. 3, comma 7, della precitata legge nr. 89 del 2001, secondo cui, in caso di condanna all’equo indennizzo: “...L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”; - ciò premesso, decidendo sulla domanda delle parti ricorrenti di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da ritardo mediante applicazione della penalità di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., il T.A.R. ha ritenuto di aderire all’orientamento secondo cui tale istituto, a differenza di quello similare disciplinato nel processo civile dall’art. 614-bis cod. proc. amm., è applicabile anche alle ipotesi in cui gli obblighi incombenti alla p.a. in esecuzione del giudicato abbiano carattere pecuniario; - conseguentemente il primo giudice ha ritenuto, da un lato, di non ritenere giustificabile – in applicazione della richiamata giurisprudenza EDU – il perdurante ritardo nell’erogazione delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo sulla base dell’affermata carenza di risorse finanziarie, e, pertanto, di dover condannare il Ministero della Giustizia al pagamento di somme ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. con decorrenza dallo scadere dell’anzi detto termine semestrale dalla data in cui ciascuna sentenza o decreto da ottemperare erano passati in giudicato (tanto, sempre in ossequio alla giurisprudenza europea innanzi richiamata); - con riguardo alla quantificazione dell’astreinte, il T.A.R. ha infine ritenuto di aderire all’indirizzo per cui questa va equitativamente commisurata in € 100,00 per ogni mese di ritardo (cfr. sent. Cocchiarella, cit.). 2.2. A fronte delle statuizioni così riassunte, l’Amministrazione ha affidato i propri appelli a due motivi fondamentali: a) da un lato, contestando l’applicabilità dell’istituto introdotto nel processo amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. anche all’esecuzione di condanne al pagamento di somme di denaro; b) dall’altro, tacciando di erroneità la disapplicazione dell’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001, per ritenuto contrasto con l’art. 6, par. 1, come interpretato dalla Corte, non essendo tale operazione consentita al giudice a cagione della non diretta applicabilità delle norme CEDU nell’ordinamento italiano. 3. Tutto ciò premesso, la Sezione reputa che – indipendentemente dall’ordine in cui sono articolati i due mezzi suindicati, che è differenziato nei diversi appelli qui esaminati – vada accordata priorità logica al primo dei detti motivi, essendo evidente che la sua eventuale fondatezza, comportando in radice l’inammissibilità della domanda di condanna all’astreinte, esonererebbe dall’esame del secondo mezzo. 4. La doglianza è però infondata, dovendo condividersi le conclusioni del primo giudice. 4.1. Al riguardo, la Sezione non ritiene di doversi discostare dall’ormai consolidato indirizzo di questo Consesso, che è concorde nel senso dell’applicabilità dell’istituto della penalità di mora per ritardo nell’esecuzione del giudicato, introdotto nel processo amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., non solo ai casi di ottemperanza a sentenze comportanti per la p.a. obblighi di fare o non fare, ma anche alle condanne al pagamento di somme di denaro (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, nr. 3781; Cons. Stato, sez. III, 30 maggio 2013, nr. 2933; C.g.a.r.s., 30 aprile 2013, nr. 424; Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2012, nr. 3272; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2012, nr. 2744). Non ignora il Collegio che è ancora diffuso in primo grado un orientamento opposto, basato su non irragionevoli argomenti che sono stati puntualmente richiamati dal Ministero della Giustizia negli odierni appelli, e segnatamente: - sulla Relazione di accompagnamento al codice del processo amministrativo, nella quale si assume che l’introduzione dell’astreinte obbedirebbe alla ratio di dotare anche il processo amministrativo di uno strumento analogo a quello introdotto nel processo civile dall’art. 614-bis cod. proc. civ. (laddove, come è noto, la possibilità di condanna a penalità di mora da parte del giudice dell’esecuzione è limitata ai soli casi di inadempimento di giudicati da cui discendano obblighi di fare o di non fare); - sull’esigenza di evitare “asimmetrie” sotto tale profilo tra giudizio civile e giudizio amministrativo; - sulla circostanza che tali asimmetrie potrebbero tradursi in vere e proprie discriminazioni proprio con riguardo all’esecuzione delle condanne pecuniarie emesse dal giudice ordinario nei confronti delle amministrazioni pubbliche, laddove – come è noto – sopravvive nell’attuale sistema la facoltà della parte vittoriosa di ricorrere, alternativamente o anche cumulativamente, sia al giudizio di esecuzione in sede civile sia al giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo. Tuttavia, questi argomenti appaiono recessivi a fronte del chiaro tenore letterale della disposizione de qua, laddove, a differenza che nel citato art. 614-bis cod. proc. civ., non viene posta alcuna distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna dell’amministrazione inadempiente al pagamento della penalità di mora. Inoltre, sono note le peculiarità del giudizio di ottemperanza disciplinato nell’ambito del processo amministrativo, tali da escluderne la piena assimilabilità ad un mero giudizio di esecuzione e, pertanto, anche da giustificarne un diverso regime normativo sotto lo specifico profilo qui considerato. In particolare, la giurisprudenza più sopra richiamata sottolinea la peculiare natura giuridica dell’astreinte ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che integra non già un mero meccanismo risarcitorio per il ritardo nell’inadempimento del giudicato, ma anche uno strumento sanzionatorio e di pressione nei confronti della p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti dal decisum giudiziale. 5. Alla luce dei rilievi che precedono, va respinta la doglianza di violazione o falsa applicazione dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. articolata in tutti gli appelli qui riuniti. 6. Con riferimento al motivo di cui sub b) al precedente punto 2.2, la sua decisione va differita all’esito delle definizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001, che viene sollevata dalla Sezione con separata ordinanza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), riuniti gli appelli in epigrafe, parzialmente pronunciando su di essi, li respinge in parte, come meglio precisato in motivazione. Riserva al definitivo ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014 con l’intervento dei magistrati: Marzio Branca, Presidente FF Raffaele Greco, Consigliere, Estensore Fabio Taormina, Consigliere Andrea Migliozzi, Consigliere Umberto Realfonzo, Consigliere L'ESTENSORE IL PRESIDENTE DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 29/01/2014 IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.) N. 00260/2014REG.PROV.COLL. N. 00247/2010 REG.RIC. R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nominato nel ricorso in ottemperanza n. 247 del 2010, proposto da Giuseppe Ianniruberto, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Verde, ed elettivamente domiciliato presso lo studio Farsetti – Amoroso in Roma, via Tarvisio n. 2, come da nuova istana per l’ottemperanza del 26 aprile 2013; contro Ministero della giustizia, in persona del ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la stessa domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n.12; Consiglio superiore della Magistratura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, lungotevere Raffaello Sanzio n. 9, come da mandato a margine della memoria del 25 ottobre 2013; nei confronti di Torquato Gemelli, non costituito in giudizio; per l’esecuzione della decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 4839 del 31 luglio 2009; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consiglio superiore della Magistratura e del Ministero della giustizia; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale d’udienza ; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con atto denominato “nuova istanza per l’ottemperanza”, Giuseppe Ianniruberto, depositato il 15 maggio 2013, chiede a questa Sezione di pronunciarsi nuovamente in merito all’esecuzione della sentenza n. 4839 del 31 luglio 2009, di fronte alla situazione determinatasi a seguito del provvedimento del nominato commissario ad acta, depositato agli atti del giudizio in data 25 febbraio 2013. La vicenda su cui la Sezione deve pronunciarsi si pone alla fine di una diatriba giudiziaria complessa, che ha interessato sia la fase di cognizione sia quella di esecuzione. Quest’ultima è quella qui rilevante ed anche quella in cui si rinvengono i profili di maggior complessità, per cui pare necessario riassumerne sinteticamente la scansione cronologica. Con ricorso iscritto al n. 247 del 2010, depositato il 14 gennaio 2010, Giuseppe Ianniruberto proponeva giudizio per l’ottemperanza alla decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 4839 del 31 luglio 2009. La sentenza aveva accolto il ricorso proposto contro il Ministero della giustizia ed il Consiglio superiore della magistratura per l’annullamento della sentenza del Tar Lazio, sezione I, n. 00925/2009, resa tra le parti e concernente la nomina a presidente aggiunto della Corte di cassazione. In motivazione, la Sezione aveva ritenuto fondate le censure dedotte dal ricorrente, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per errore di fatto e travisamento, avverso i giudizi formulati dal Consiglio superiore della magistratura nei confronti delle esperienze professionali maturate, rispettivamente, dai due magistrati controinteressati al giudizio. Proponendo il ricorso per mancata esecuzione del giudicato, iscritto al n. 247 del 2010, il ricorrente lamentava l’ulteriore inadempimento del Consiglio superiore della magistratura in merito all’obbligo di rideterminarsi a seguito della decisione di questa Sezione. Il ricorso veniva accolto, con la decisione n. 1715 del 24 marzo 2010, dalla quale emergeva l’obbligo dell’organo di autogoverno di procedere all’esecuzione della sentenza di accoglimento nel merito, evidenziando come le ragioni dedotte a sostegno della propria inadempienza, e soprattutto attinenti all’intervenuto collocamento a riposo del dott. Ianniruberto, non avessero alcuna efficacia esimente della mancata ottemperanza. In esecuzione della decisione n. 1715 del 2010, il Consiglio superiore della magistratura adottava, nella seduta del giorno 8 luglio 2010, una ulteriore delibera con la quale veniva sostanzialmente confermato il giudizio espresso nei confronti del dott. Ianniruberto. Tale decisione veniva gravata, nell’ambito dello stesso procedimento, con atto per motivi aggiunti depositato il 16 luglio 2010, evidenziando come la delibera avesse sostanzialmente eluso il giudicato intervenuto tra le parti. Con ordinanza n. 397 del 2010, la Sezione esperiva accertamenti istruttori, al fine di acquisire la delibera gravata e, successivamente, all’udienza in camera di consiglio del 18 gennaio 2011, assumeva il ricorso in decisione, depositando, in data 4 marzo 2011, la sentenza n. 1415. In questa sentenza, la Sezione osservava come il Consiglio superiore della magistratura avesse sostanzialmente ribaltato i canoni utilizzati nella prima valutazione, già annullata, utilizzando un metro diverso, ed opposto a quello previsto nelle delibere vigenti per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi ai magistrati ordinari, per poi giungere alle stesse conclusioni in fatto, confermando l’esclusione del ricorrente Ianniruberto. Sulla scorta della riconosciuta irragionevolezza del comportamento del Consiglio superiore della magistratura, pur in presenza di una sentenza favorevole al ricorrente, questa Sezione si pronunciava nei sensi di ritenere “che nella fattispecie sussistano fondati elementi per qualificare come elusive del giudicato le ulteriori determinazioni adottate a seguito della decisione n. 4839 del 2009, e segnatamente la delibera consiliare del giorno 8 luglio 2010 con la quale si è nuovamente proceduto a designare il dottor Gemelli per l’incarico direttivo di Presidente aggiunto presso la Corte di cassazione”. Disponeva inoltre che “In considerazione della reiterata inottemperanza dell’Amministrazione al giudicato, la Sezione reputa altresì di dover nominare fin d’ora un Commissario ad acta nella persona del Vice Presidente pro tempore del Consiglio Superiore della Magistratura: all’Amministrazione è pertanto assegnato per l’adempimento un termine di trenta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, dopo di che, perdurando l’inottemperanza, il Commissario ad acta avrà un ulteriore termine di trenta giorni, decorrente dall’inutile scadenza del periodo precedente, per provvedere a quanto di competenza. In caso di infruttuoso decorso anche di tale ulteriore termine, la Sezione si riserva di provvedere direttamente, su istanza di parte, sostituendosi provvedimenti”. all’Amministrazione per l’adozione dei necessari La pronuncia n. 1415 del 2011, così sintetizzata nei suoi aspetti centrali, veniva gravata, con ricorso datato 12 maggio 2011, davanti alla Corte suprema di cassazione, con ricorso ai sensi dell’art. 111, comma 8, della Costituzione, dell’art. 110 del codice del processo amministrativo e dell’art. 362 del codice di procedura civile, con difesa affidata ad un professionista del libero foro e non all’Avvocatura dello Stato, dove si sosteneva il superamento da parte di questa Sezione dei limiti esterni della propria giurisdizione. La proposizione del ricorso determinava la Sezione, a seguito di esplicito incidente proposto dalla difesa del Consiglio superiore della magistratura, a sospendere l’esecutività della propria sentenza, con ordinanza n. 2543 del 14 giugno 2011. La decisione del ricorso proposto contro la sentenza qui ottemperanda era data con sentenza delle sezioni unite n. 736 del 19 gennaio 2012. La Corte di cassazione, sottolineato come il caso in scrutinio si presentasse “in certa misura analogo a quello su cui la Corte è di recente intervenuta con la sentenza 23302 del 2011 di queste sezioni unite”, evidenziava continuità e differenze rispetto all’orientamento espresso poco più di due mesi prima e, conclusivamente, respingeva il ricorso proposto dal Consiglio superiore della magistratura con ricorso ai sensi dell’art. 111, comma 8, della Costituzione, dell’art. 110 del codice del processo amministrativo e dell’art. 362 del codice di procedura civile, consolidando così il decisum della sentenza di questa Sezione, n. 1415 del 4 marzo 2011. Con ricorso in riassunzione e prosecuzione del giudizio di ottemperanza con istanza risarcitoria, Giuseppe Ianniruberto chiedeva a questa Sezione di dare corso al procedimento iscritto al n. 247 del 2010, all’esito del quale è stata emessa la sentenza n. 1415 del 4 marzo 2011, contro la quale è stato proposto dal Consiglio superiore della magistratura ricorso ex art. 111 ultimo comma della Costituzione, ricorso respinto dalla Suprema corte con sentenza n. 736 del 19 gennaio 2012. In concreto, poiché a seguito della proposizione del ricorso davanti alla Suprema corte, questa Sezione, con ordinanza n. 2543 del 14 giugno 2011, aveva sospeso l’esecutività della sentenza impugnata, il ricorrente Ianniruberto chiedeva ora di dare corso al decisum, dettando i provvedimenti necessari al conseguimento dell’utilità domandata. La Sezione emetteva pertanto la sentenza n. 6286 del 10 dicembre 2012, dove accoglieva l’istanza proposta da Giuseppe Ianniruberto e disponeva procedersi all’attuazione della sentenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 1415 del 4 marzo 2011 nei sensi indicati nella stessa sentenza, provvedendo altresì alla sostituzione del commissario ad acta, ora nominato nella persona del segretario generale del Consiglio superiore della magistratura, contestualmente revocando la precedente nomina in favore del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. La stessa sentenza provvedeva a respingere la domanda risarcitoria proposta dal ricorrente Ianniruberto. Il commissario ad acta depositava, in data 25 febbraio 2013, il provvedimento del 22 febbraio 2013 con cui, in ottemperanza alla sentenza n. 6286 del 10 dicembre 2012, disponeva l’inserimento nel fascicolo personale del ricorrente della sentenza del Consiglio di Stato n. 1415 del 4 marzo 2011 e del provvedimento del commissario ad acta che aveva disposto in tal senso nonché l’inserimento, nella scheda anagrafica che ricostruisce la carriera del magistrato, della seguente annotazione: “Vincitore del contenzioso per la nomina dell’incarico di Presidente aggiunto della Corte di Cassazione”. Avverso tale provvedimento, ritenuto non satisfattivo, insorge ora Giuseppe Ianniruberto con l’atto denominato “nuova istanza per l’ottemperanza”, depositato il 15 maggio 2013, evidenziando la sostanziale elesione del giudicato formatosi e chiedendo alla Sezione di fargli conseguire direttamente il bene della vita richiesto, ossia la qualifica di Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, con conseguente attribuzione del trattamento di fine rapporto spettante, oltre interessi, rivalutazione e risarcimento dei danni subiti in conseguenza del comportamento dell’amministrazione. Nel giudizio, si è costituito il Consiglio superiore della Magistratura, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso. All’udienza in camera di consiglio del 12 novembre 2013, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione. DIRITTO 1. - In via preliminare, ritiene la Sezione di dover correttamente qualificare la domanda proposta da Giuseppe Ianniruberto con l’atto denominato “nuova istanza per l’ottemperanza”, depositato il 15 maggio 2013, anche al fine di determinare la disciplina applicabile. Va in primis rimarcato come l’ipotesi di un’ulteriore decisione sull’ottemperanza possa scaturire, a norma dell’art. 112 del codice del processo amministrativo, nei casi in cui l’amministrazione non abbia dato attuazione alla sentenza, vuoi per il silenzio serbato di fronte alla richiesta del privato, vuoi per la sostanziale elusività del suo comportamento. Tuttavia, nelle evenienze globalmente contemplate dalla norma, il comportamento omissivo o commissivo censurabile è sempre imputabile all’amministrazione, come soggetto primariamente responsabile dell’ottemperanza, a norma del comma 1 del citato art. 112. Qualora invece, come in questo caso, il giudice abbia provveduto alla nomina, giusta l’art. 21 del codice del processo amministrativo, di un commissario ad acta, non vi è spazio giuridico per dolersi dell’azione o dell’omissione dell’amministrazione, in quanto la stessa è stata sostituita nell’ottemperanza e vi è un soggetto diverso incaricato dell’esecuzione. Peraltro, l’attività del commissario ad acta non è senza controllo, atteso che l’art. 114 comma 5 del codice prevede una particolare azione avverso gli atti, esercitabile da chiunque ne abbia interesse, con modalità diverse, in quanto le stesse parti possono agire dinanzi al giudice dell'ottemperanza con reclamo nel termine di sessanta giorni, mentre i terzi estranei al giudicato possono impugnarli con il rito ordinario. Dagli elementi appena ricordati, è evidente che la “nuova istanza per l’ottemperanza”, depositata da Giuseppe Ianniruberto in data 15 maggio 2013, non può essere intesa come tesa a censurare l’azione o l’omissione del Consiglio superiore della magistratura, atteso che questo era stato sostituito nell’attuazione dalla nomina del commissario ad acta, nella persona del segretario generale dell’organo di autogoverno. A tale constatazione si aggiunge quella che la “nuova istanza per l’ottemperanza” si rivolge espressamente contro il provvedimento del commissario ad acta, censurandone i contenuti e facendo di tale atto l’oggetto delle doglianze. Appare quindi del tutto corretto qualificare la “nuova istanza per l’ottemperanza” come atto di reclamo proposto dalle parti contro l’operato del commissario ad acta, a norma dell’art. 114 comma 5 del codice del processo amministrativo, in ragione della sua collocazione nell’iter processuale e del suo contenuto. 2. - Ancora in via preliminare occorre dare conto dell’eccezione di tardività proposta dalla difesa del Consiglio superiore della Magistratura nella sua memoria del 25 ottobre 2013. Nella difesa si rileva come, a fronte di un provvedimento adottato in data 22 febbraio 2013 e depositato in data 25 febbraio 2013, il reclamo sia stato notificato solo in data 6 maggio 2013 con deposito in data 15 maggio 2013, e quindi dopo la maturazione del termine di decadenza di cui all’art. 114, comma 6, del codice del processo amministrativo. 2.1. - L’eccezione è fondata e va accolta. Occorre evidenziare come sia consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui “il Commissario ad acta esplica sempre attività di carattere giurisdizionale ed è organo del giudice dell'ottemperanza, per cui i suoi atti non sono riconducibili al regime delle impugnazioni bensì all'immanente controllo del predetto giudice” (così Consiglio di Stato, sez. V, 21 gennaio 2011 n. 443, peraltro espressosi in relazione ad una fattispecie antecedente all’entrata in vigore; argomento ripreso poi da Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2013 n. 635). L’entrata in vigore del codice del processo amministrativo ha provveduto ad precisare gli strumenti di controllo giudiziale sul commissario ad acta, articolando due diversi meccanismi processuali: il primo riservato alle sole parti del giudizio e costruito nella forma del reclamo al giudice dell’ottemperanza; il secondo, valevole per tutti i terzi e quindi per tutti gli estranei al giudicato formatosi, che ha invece la forma del giudizio ordinario. È evidente come il diverso regime sia collegato alla sostanziale diversità di situazioni giuridiche, collegate all’essere o meno evocati in giudizio. Infatti, mentre le parti partecipano, o sono messe in condizione di partecipare, al giudizio con le garanzie previste dall’ordinamento, ed essere così a conoscenza del progressivo avanzamento dell’iter processuale, i terzi, che sono stati estranei al giudizio di cognizione come pure, conseguentemente, al giudizio di ottemperanza, subiscono gli atti del commissario ad acta come una inaspettata intrusione nella loro sfera giuridica. Ecco perché a questi ultimi, e solo a questi ultimi, il codice del processo amministrativo riserva le garanzie del giudizio ordinario, ossia li equipara a qualsiasi altro soggetto inciso dall’azione ab externo dall’azione amministrativa. La detta diversità ha un riflesso nella scansione dell’incidente processuale. Infatti, mentre parlando dei terzi, l’art. 114 comma 6 del codice del processo amministrativo fa semplicemente rinvio al giudizio ordinario (e quindi dinamicamente richiama tutta la disciplina vigente in merito ai termini e alle modalità di instaurazione del giudizio), in relazione alle parti provvede autonomamente a regolare il procedimento utilizzabile, stabilendo che “le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, reclamo, che e' depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni”. Tuttavia, la disciplina non dice nulla in merito al momento iniziale di decorrenza del termine di sessanta giorni per il deposito del reclamo. Mentre nei riguardi di terzi il mero rinvio alla disciplina del giudizio ordinario fa supporre che sia applicabile il criterio generale della conoscenza dell’atto, nulla dice il codice in merito al criterio valevole nel caso di reclamo proponibile dalle parti. In particolare, nonostante che il commissario ad acta sia disciplinato nello stesso capo V del libro I relativo agli ausiliari del giudice, ai suoi atti non può essere applicata la stessa disciplina valevole per le altre figure di ausiliari, ossia il verificatore e il consulente tecnico, sia in relazione alla partecipazione alle operazioni, sia soprattutto in merito alla comunicazione, ex art. 68 comma 4, dell’avviso che l'istruttoria disposta e' stata eseguita e che i relativi atti sono presso la segreteria. E ciò in considerazione che, mentre gli altri ausiliari agiscono nella fase istruttoria fornendo un mero supporto conoscitivo, il commissario ad acta opera al posto del giudice, con atti che, quando correttamente esplicati, sono imputati alla funzione giurisdizionale stessa. L’individuazione del momento di decorrenza del termine per il deposito del reclamo deve quindi essere individuato tenendo presente i rapporti processuali e i poteri dei soggetti coinvolti. E, infatti, in primo luogo, le parti non possano vantare la pretesa alla comunicazione individuale del deposito degli atti del commissario ad acta, vicenda applicabile agli altri ausiliari; in secondo luogo, neppure possono fruire della posizione di attesa dei terzi, che sono legittimati ad agire all’esito dell’effettiva conoscenza del provvedimento lesivo; in terzo luogo, non possono neppure protrarre ad libitum la pendenza del termine, visto che il provvedimento del commissario viene comunque ad incidere sulle posizioni corrispettive delle controparti del giudizio. La comparazione delle posizioni e delle rispettive posizioni di forza processuale permette quindi di ritenere che, come sostenuto dalla difesa del Consiglio superiore della Magistratura, il termine decadenziale di sessanta giorni debba effettivamente decorrere dalla data del deposito del provvedimento, ossia dal momento della conoscibilità dell’avvenuto adempimento da parte del commissario ad acta. La conoscibilità (e non l’effettiva conoscenza che invece giova ai terzi esterni) appare un criterio di equa ripartizione dei doveri di diligenza processuale in capo ai soggetti coinvolti. Infatti, in tale modo si esce dall’impasse di assimilare ingiustamente la parte ai terzi o il commissario agli altri ausiliari o ancora di consentire il protrarsi sine die di una situazione irrisolta. Per altro verso, la detta conoscibilità non si risolve in un onere gravoso in capo alla parte, sia per il termine oggettivamente lungo per la presentazione del reclamo, sia perché la conoscenza dell’avvenuto deposito ben può avvenire tramite la mera consultazione del sito informatico della giustizia amministrativa, dal quale risultava in tempo reale l’avvenuto deposito da parte del C.S.M. in data 25 febbraio 2013. Conclusivamente, dovendosi fare decorrere il termine per la presentazione del reclamo di cui all’art. 114 comma 6 del codice del processo amministrativo dal momento del deposito agli atti del processo del provvedimento emesso del commissario ad acta, ne deriva la tardività della presentazione della “nuova istanza per l’ottemperanza”, depositata in data 15 maggio 2013 rispetto al deposito dell’atto reclamato, avutosi in data 25 febbraio 2013. 3. - Il reclamo va quindi dichiarato irricevibile. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla novità della questione decisa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede: 1. Dichiara irricevibile il reclamo proposto contro gli atti del commissario ad acta nominato nell’ambito del ricorso n. 247 del 2010; 2. Compensa integralmente tra le parti le spese della presente fase di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta - con la partecipazione dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente Nicola Russo, Consigliere Diego Sabatino, Consigliere, Estensore Raffaele Potenza, Consigliere Andrea Migliozzi, Consigliere L'ESTENSORE IL PRESIDENTE DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 20/01/2014 IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)