CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 6 maggio 2013 n. 9 Pres. Giovannini, Est. Caringella - Cevolani (Avv. Moscioni) c. Istituto Nazionale di Previdenza
Sociale (Avv. Morrone) - (dichiara ammissibile il ricorso per l’ottemperanza al decreto del
Presidente della Repubblica 18 maggio 2010 e lo rimette alla Sezione per l’ulteriore definizione
del giudizio e per la statuizione sulle spese).
1-2. Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario al Capo dello Stato - Decreto
presidenziale decisorio - A seguito delle recenti modifiche alla disciplina del
ricorso straordinario - Ha ormai carattere sostanzialmente giurisdizionale.
3. Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario al Capo dello Stato - Decreto
presidenziale decisorio - Ricorso per ottemperanza - Nel caso di inesecuzione
dello stesso - Competenza a decidere quest'ultimo ricorso - Spetta al Consiglio di
Stato (in unico grado).
1. Lo sviluppo normativo riguardante la disciplina del ricorso straordinario (v. in
particolare l’art. 3, comma 44, della legge 21 luglio 2000, n. 205, il quale ha
previsto che, nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati
danni gravi e irreparabili, la sospensione dell'atto impugnato; ma v. anche l’art.
69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il quale prevede la possibilità di sollevare
q.l.c. nell’ambito del procedimento di decisione del ricorso straordinario e l’art.
7, comma 8, del codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010,
n. 104, il quale ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente
per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa) depone nel senso
dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del
Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di
un carattere sostanzialmente giurisdizionale; ne deriva il superamento della
linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura
amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di
specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo
(1).
2. In materia di ricorso straordinario al Capo dello Stato deve ritenersi che il
decreto presidenziale che recepisce il parere del Consiglio di Stato, pur non
essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto
formalmente e soggettivamente amministrativo, sia estrinsecazione sostanziale
di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal
crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico
grado incardinata sulla base del consenso delle parti (2).
3. Poichè il decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, reso in base al
parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, rientra nel novero dei
provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112,
comma 2, c.p.a., ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere
proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, c.p.a., dinanzi allo stesso Consiglio di
Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui
ottemperanza si tratta" (3).
---------------------------------(1) Nella motivazione della sentenza in rassegna si ricorda che secondo un primo,
maggioritario, indirizzo, il nuovo assetto normativo avrebbe consacrato la natura
sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola, in modo da assicurare "un grado di
tutela non inferiore a quello conseguibile agendo giudizialmente" (cfr., ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638).
Invece, un secondo, minoritario, approccio ermeneutico (Con. Stato, sez. III, ordinanza 4
agosto 2011, n. 4666; sez. I, parere 7 maggio 2012, n. 2131), sposato dall’ordinanza di
rimessione, anche dopo le modifiche normative in precedenza passate in rassegna il rito del
ricorso straordinario continuerebbe a presentare profili di specialità rispetto al procedimento
schiettamente giurisdizionale - con precipuo riferimento ai nodi essenziali del contraddittorio,
dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio - tali da indurre a qualificare l’atto
conclusivo della procedura come provvedimento amministrativo, solo per certi aspetti
equiparato ad una sentenza.
L’Adunanza Plenaria ha ritenuto, in continuità con l’avviso già espresso con la sentenza n.
18/2012 (in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm) e con
l’orientamento assunto dalla Corte di legittimità (cfr. da ult. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2012,
n. 23464, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm con nota
di P. QUINTO), che meriti condivisione il primo indirizzo ermeneutico, favorevole al
riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto
terminale della relativa procedura.
Secondo l’Adunanza Plenaria assume rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito
carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della
legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità
costituzionale.
(2) Ha aggiunto l’Adunanza Plenaria che a matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio
del ricorso straordinario è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo
amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104.
Merita menzione, in particolare, l’articolo 7, comma 8, c.p.a. che, nel quadro di una disciplina
dedicata alla definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa,
limita la praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione
del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della
posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice
amministrativo è dotato di giurisdizione.
La "giurisdizione" diventa quindi presupposto generale di ammissibilità del ricorso
straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice
amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso straordinario nel sistema della
giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione.
Si richiama a conforto anche la recente sentenza della Cass., sezioni unite, 19 dicembre 2012,
n. 23464 (in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm), secondo
cui il riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario
dell’ammissibilità del sindacato della Corte di Cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla
giurisdizione, non contrasta con il disposto dell’articolo 125, comma 2, Cost., in materia di
istituzione in ambito regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto,
anche a non considerare che la riserva elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in
realtà impedire l’attribuzione ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali
in unico grado" (Corte cost. n. 108 del 2009, in LexItalia.it, pag.
http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-04-09.htm), in ogni caso la garanzia del doppio
grado di giurisdizione è pienamente assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad
optare per il procedimento speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato.
(3) Cfr. Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065, in LexItalia.it, pag.
http://www.lexitalia.it/p/11/cassu_2011-01-28.htm e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad.
Plen,. 5 giugno 2012, n. 18, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm; sez.
IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513.
Ha aggiunto la sentenza in rassegna che il riconoscimento della competenza in unico grado del
Consiglio di Stato anche in sede di ottemperanza scongiura l’anomalia logica della previsione
di un giudizio di esecuzione in doppio grado finalizzato all’attuazione di uno iussum
iudicis perfezionatosi all’esito di un giudizio semplificato in grado unico. Non è d’altronde chi
non veda come una simile aporia contraddirebbe, proprio nella nevralgica fase dell’esecuzione,
le esigenze perseguite dal legislatore mediante la previsione di un rito speciale e semplificato
finalizzato a consentire, nell’accordo tra le parti, una sollecita definizione della controversia.
--------------------------------------Documenti correlati:
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 19-12-2012, pag.
http://www.lexitalia.it/p/13/cassu_2012-12-19-1.htm (nell’affermare, dopo un ampio excursus
delle più recenti modifiche della disciplina del ricorso straordinario al Capo dello Stato, che il
relativo decreto di decisione ha natura giurisdizionale e non amministrativa, ammette la
proponibilità avverso di esso - sia pure per le materie per le quali sussiste la giurisdizione del
G.A. - di un ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. per motivi di giurisdizione), con nota di P.
QUINTO.
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, sentenza 5-6-2012, pag.
http://www.lexitalia.it/p/12/cdsap_2012-06-05.htm (sull’ammissibilità del ricorso per
ottemperanza proposto per l'esecuzione di un decreto di decisione di un ricorso straordinario e
sulla base di calcolo alla quale fare riferimento per il computo degli interessi e della
rivalutazione monetaria dovuti per crediti retributivi dei dipendenti pubblici)
GIOVANNI VIRGA, Il paradosso del ricorso straordinario, in LexItalia.it n. 3/2011, pag.
http://blog.lexitalia.it/?p=625
N. 00009/2013REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6 di A.P. del 2013, proposto da:
Franco Cevolani, rappresentato e difeso dall'avv. Anna Rita Moscioni, con domicilio eletto
presso Biagio Marinelli in Roma, via Acquedotto Paolo, 22;
contro
Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro
tempore, Generale, rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Morrone, domiciliato in Roma, alla
via Cesare Beccaria, n. 29;
per l’ottemperanza
al decreto del Presidente della Repubblica 18 maggio 2010, reso tra le parti, concernente
rimborso di contributo versato ai sensi dell’art. 11 della legge 8 aprile 1952, n. 212;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’INPS;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2013 il Cons. Francesco Caringella e
udito l’avv. Pancari per delega di Morrone.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso per ottemperanza n. 4813 – notificato il 15.6.2012 e depositato il 27.6.2012 – il
colonnello Franco Cevolani chiedeva l’esecuzione del giudicato formatosi sul decreto
presidenziale in data 18.5.2010, emesso in conformità al parere del Consiglio di Stato, sez. III,
n. 663 del 22.2.2010, di accoglimento del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
con il quale il Cevolani aveva contestato il mancato rimborso, da parte dell’INPDAP, del
contributo dello 0,50% di cui all’art. 11 della legge 8.4.1952, n. 212, all’atto della cessazione del
periodo di ausiliaria.
Con il ricorso n. 4813/2012 il Cevolani proponeva ricorso per ottemperanza con il quale
lamentava la mancata esecuzione del decisum.
Si costituiva nell’ambito di tale giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso, l’Istituto Nazionale
della Previdenza Sociale (INPS), quale successore ex legedell’INPDAP, ai sensi dell’art. 21,
comma 1, del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito in legge 22.12.2011, n. 214.
La Sezione rimettente ha sottoposto il ricorso alla cognizione dell’Adunanza Plenaria, ex art. 99
del codice del processo amministrativo, ai fini della soluzione delle questioni di diritto, di
particolare importanza e fonti di contrasti giurisprudenziali, relative alla natura giuridica della
decisione resa a seguito di ricorso straordinario e del giudice competente a pronunciarsi sul
ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 113 del codice del processo amministrativo.
Alla camera di consiglio del 25 marzo 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.La Sezione rimettente sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria le questioni di diritto
relative alla natura giuridica della decisione resa a seguito di ricorso straordinario e del giudice
competente a pronunciarsi sul ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 113 del codice del
processo amministrativo.
2. Prima di passare all’esame delle questioni di diritto rimesse al vaglio dell’Adunanza, occorre
passare sinteticamente in rassegna le recenti novità normative che hanno inciso in modo
significativo sulla disciplina e sulla configurazione dell’istituto.
In prima battuta l’art. 3, comma 44, della legge 21 luglio 2000, n. 205, recante "disposizioni in
materia di giustizia amministrativa", ha previsto, che, nell'ambito del ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica, può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati
danni gravi e irreparabili, la sospensione dell'atto impugnato, disposta con atto motivato del
Ministero competente ai sensi dell’ art. 8, del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, su "conforme
parere" del Consiglio di Stato.
L’articolo 245, comma 2, del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163,
ha poi sancito l'applicazione degli strumenti di esecuzione di cui agli art. 33 e 37 della legge 6
dicembre 1971, n. 1034 con riguardo ai decreti di accoglimento di ricorsi straordinari aventi ad
oggetto atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici e atti dell'Autorità di vigilanza
sugli stessi.
Di portata più generale sono gli interventi attuati con l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante "disposizioni per lo sviluppo economico, la competitività nonché in materia di
processo civile".
Il primo comma ha introdotto, sotto forma di periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo
comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma a tenore della quale il Consiglio di Stato, "se
ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una
questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende
l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui
agli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87".
Il secondo comma dell’art. 69 cit. ha disposto l'aggiunta al primo periodo del primo comma
dell'art. 14 del medesimo d.P.R. n. 1199/1971 delle parole "conforme al parere del Consiglio di
Stato" e la soppressione del secondo periodo del primo comma dello stesso articolo, nonché
l'abrogazione del secondo comma, in tal guisa eliminando la possibilità, originariamente
contemplata, che il Ministero ratione materiae competente, nel formulare la proposta di
decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato previa
sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei Ministri.
L’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104
ha, dal canto suo, stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le
controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (cfr., nel senso dell’inapplicabilità di
detto jus superveniens ai ricorsi proposti in un torno di tempo anteriore all’entrata in vigore
del codice, Cons. Stato, Ad gen., parere 22 febbraio 2011, n. 4520).
L'art. 48 cod. proc. amm. ha poi specificato, in termini di maggior rigore e di accentuato
parallelismo, la regola dell'alternatività tra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
e ricorso ordinario al giudice amministrativo, riconoscendo la facoltà di opposizione di cui
all’art. 10 del D.P.R. n. 1199/1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il
ricorso straordinario.
3. Tanto premesso in ordine alle più pregnanti emergenze normative, le opzioni ermeneutiche
emerse nel dibattito giurisprudenziale sviluppatosi in subiecta materia sono riassumibili come
segue.
3.1.Ad avviso di un primo, maggioritario, indirizzo, il nuovo assetto normativo avrebbe
consacrato la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola, in modo da
assicurare "un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile agendo giudizialmente"
(cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513; sez. IV, 29 agosto 2012, n.
4638).
Dalla premessa della qualificazione del decreto decisorio che definisce la procedura innescata
dalla proposizione del ricorso straordinario come decisione di giustizia avente natura
sostanzialmente giurisdizionale, si trae il duplice corollario dell’ammissibilità del ricorso per
ottemperanza al fine di assicurare l’ esecuzione del decreto presidenziale e del radicamento
della competenza in unico grado del Consiglio di Stato alla stregua del combinato disposto
dell’art. 112, comma 2, lettera b), e 113, comma 1 , del codice del processo amministrativo
(conf. Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18; negli stessi termini, ex multis, Cass., sez.
unite, 28 gennaio 2011, n. 2065;10 marzo 2011, n. 5684; 28 aprile 2011, n. 9447; 19 luglio 2011,
n. 15765; 13 ottobre 2011, n. 21056; 22 dicembre 2011, n. 28345; 28 dicembre 2011, n. 29099;
15 marzo 2012, n. 2129, n. 2818).
3.2. Ad avviso di un secondo, minoritario, approccio ermeneutico (Con. Stato, sez. III,
Ordinanza 4 agosto 2011, n. 4666; sez. I, parere 7 maggio 2012, n. 2131), sposato
dall’ordinanza di rimessione, anche dopo le modifiche normative in precedenza passate in
rassegna il rito del ricorso straordinario continuerebbe a presentare profili di specialità
rispetto al procedimento schiettamente giurisdizionale - con precipuo riferimento ai nodi
essenziali del contraddittorio, dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio - tali da
indurre a qualificare l’atto conclusivo della procedura come provvedimento amministrativo,
solo per certi aspetti equiparato ad una sentenza.
Tale indirizzo, pur ribadendo l’esperibilità del giudizio di ottemperanza per la piena esecuzione
del "decisum" conseguente a ricorso straordinario, ritiene che il decreto decisorio non
costituisca un provvedimento esecutivo del giudice amministrativo ex art. 112, comma 1, lettera
b, c.p.a., ma debba essere sussunto nel novero dei provvedimenti equiparati alle sentenze ai
sensi della successiva lettera d. Da siffatta premessa qualificatoria si trae il corollario
dell’individuazione quale giudice competente, in forza del secondo comma del successivo art.
113, del "tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha
emesso la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza", ossia del TAR del Lazio, nella cui
circoscrizione operano il Presidente della Repubblica, il Ministro proponente ed il Consiglio di
Stato in sede consultiva. A quest’ultimo riguardo si ritiene che il termine "giudice" sia utilizzato
dall’art. 113 cit in senso ampio e necessariamente atecnico, come dimostrato dal fatto che l’art.
112, comma 1, lettera e), annovera nella categoria anche gli arbitri.
4. Questa Adunanza reputa, in continuità con l’avviso già espresso con la citata sentenza n.
18/2012 e con l’orientamento assunto dalla Corte di legittimità, che meriti condivisione il
primo indirizzo ermeneutico, favorevole al riconoscimento della natura sostanzialmente
giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura.
Lo sviluppo normativo di cui si è dato conto depone, infatti, nel senso dell’assegnazione al
decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura
sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale.
Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della
natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità
tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo.
4.1. Assume rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere
del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso
Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale.
Una volta acquisito che la paternità effettiva della decisione è da ricondurre all’apporto
consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il
provvedimento finale è meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo
giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l’atto finale della
procedura è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di
Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del
contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato (così Cass., Sez. Un., 19
dicembre 2012, n. 23464).
In definitiva il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della
natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente
giurisdizionale, è estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una
decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una
procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti.
4.1.1. La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni
ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Merita
menzione, in particolare, l’articolo 7, comma 8, che, nel quadro di una disciplina dedicata alla
definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa, limita la
praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del
giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della
posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice
amministrativo è dotato di giurisdizione. La "giurisdizione" diventa quindi presupposto
generale di ammissibilità del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il
ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso
straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e
semplificata di esplicazione.
La rimozione della possibilità che il ricorso straordinario sia promosso in materie in cui il
giudice amministrativo è privo di giurisdizione, rafforza, poi, il connotato dell’alternatività del
rimedio, cancellando l’ipotesi di un ricorso straordinario concorrente, nelle materie estranee
alla giurisdizione amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando
l’ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della sostanziale
giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela.
4.1.2. Sullo stesso solco si pone anche la disciplina recata dall’articolo 48 del codice del
processo amministrativo, che, al comma 1, contempla la facoltà di opposizione, ex art. 10
d.P.R. n. 1199/1971, in favore di qualsiasi "parte nei cui confronti sia stato proposto il ricorso
straordinario".
La generalizzazione della facoltà di opposizione, testimoniata dall’uso di una formula che
comprende anche lo Stato, oltre alle altre pubbliche amministrazioni, ai controinteressati e ai
cointeressati, garantisce il pieno rispetto del contraddittorio e, soprattutto, assicura la
compatibilità del nuovo assetto con la garanzia dell’effettività della di tutela giurisdizionale
(art. 24 Cost.) e con il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost) in quanto l’unicità
del grado e la caratterizzazione semplificata dell’istruttoria trovano fondamento nell’accordo
sostanziale tra le parti secondo uno schema consensuale non dissimile da quello che permea il
ricorso per saltum ex art. 360, comma 2, c.p.c.
4.1.3. Va poi rimarcato che il successivo comma 3 dell’art. 48, laddove prevede che il tribunale
amministrativo regionale che dichiari l’inammissibilità dell’opposizione deve disporre la
restituzione del fascicolo per la "prosecuzione del giudizio in sede straordinaria", dà luogo ad
una speciale formatranslatio iudicii che, anche sul versante schiettamente terminologico,
mostra di considerare il ricorso straordinario come la continuazione del medesimo giudizio
incardinato con il ricorso al giudice amministrativo. Il giudizio che prosegue in sede
straordinaria registra, quindi, il mutamento del rito ma non vede modificata la sua natura
sostanzialmente giurisdizionale.
4.2. Va inoltre osservato che proprio la valorizzazione delle coordinate normative fin qui
esaminate ha di recente indotto la Corte di Legittimità ad assegnare al decreto che definisce il
ricorso straordinario la valenza di decisione costituente esercizio della giurisdizione riferibile,
nel contenuto recato dal parere vincolante, al Consiglio di Stato, naturaliter sottoposta al
sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per soli motivi inerenti alla
giurisdizione ex artt. 111, comma 8, Cost., 362, comma 1, c.p.c. e 110 c.p.a. (Cass., sezioni unite,
19 dicembre 2012, n. 23464).
La Corte di Cassazione ha nell’occasione osservato che il riconoscimento della natura
sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario dell’ammissibilità del sindacato
della Corte di Cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla giurisdizione, non contrasta con il
disposto dell’articolo 125, comma 2, Cost., in materia di istituzione in ambito regionale di
organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto, anche a non considerare che la
riserva elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in realtà impedire l’attribuzione
ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali in unico grado" (Corte cost. n.
108 del 2009), in ogni caso la garanzia del doppio grado di giurisdizione è pienamente
assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad optare per il procedimento speciale che
consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato.
La circostanza ipotetica che il decreto presidenziale possa essere affetto da vizi propri del
procedimento successivo all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del
ricorso straordinario e radicata nelle origini storiche dell'istituto, non inficia né indebolisce
l’essenza giurisdizionale della decisione che ha come unico sostrato motivazionale il parere
vincolante reso dal Consiglio di Stato.
Si deve per completezza osservare che, secondo il condivisibile orientamento interpretativo
assunto dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, siffatta costruzione ermeneutica è
compatibile con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali sancito dall’articolo 102,
comma 2, Cost. A sostegno dell’assunto depone la decisiva considerazione che, anche prima
delle riforme che ne hanno messo in risalto la caratterizzazione giurisdizionale, la decisione sul
ricorso straordinario esibiva, nel suo nucleo essenziale, la connotazione di decisione di
giustizia pur se per vari aspetti non poteva parlarsi di "funzione giurisdizionale" nel significato
pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. Si deve allora convenire che,
una volta depurato il procedimento, per il tramite della revisione operata dal legislatore
ordinario, dagli aspetti non compatibili con il riconoscimento della "funzione giurisdizionale",
la decisione del ricorso straordinario, nella parte in cui assume come unico sostrato
motivazionale il parere del Consiglio di Stato, rientra a pieno titolo nella garanzia
costituzionale dell'art. 103 Cost., comma 1, che fa salvi, come giudici speciali, il Consiglio di
Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa.
Per le stesse ragioni non si pone un problema di compatibilità, rispetto alla riserva di legge
costituzionale relativa alla disciplina di condizioni, forme e termini di proponibilità dei giudizi
di legittimità costituzionale (art. 137 Cost., comma 1), della ricordata previsione che legittima il
Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere sul ricorso straordinario, a sollevare la
questione incidentale di legittimità costituzionale, dal momento che non è precluso al
legislatore ordinario - nel rispetto del divieto di istituzione di nuovi giudici speciali - di
riconoscere o confermare la natura giurisdizionale di una sede in cui una controversia è
dibattuta tra le parti in contraddittorio ed è decisa da un giudice terzo ed imparziale ai sensi
dell’art. 1 della L cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, art.
23.
Va soggiunto che tale "revisione" è stata esplicitata dal legislatore con la normativa recata in
materia di contributo unificato dall’art. 37, comma 6, del d.l. 6 luglio 2011 n. 98, convertito,
con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, che, in sede di modifica dell’art. 113, comma
6 bis, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese giustizia
di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, ha dettato la
disciplina del contributo unificato per il ricorso straordinario, inserendo l’istituto de
quo all’interno del complessivo sistema giudiziario.
4.3. Non ostano alle conclusioni fin qui esposte le considerazioni svolte nell’ordinanza di
rimessione in merito alle persistenti peculiarità che il rimedio in esame presenterebbe rispetto
all’ordinario processo amministrativo, con precipuo riferimento al perimetro delle azioni
esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, alle modalità di svolgimento
dell’istruttoria e al novero dei mezzi di prova acquisibili.
Siffatte peculiarità, lungi dall’implicare il riconoscimento della natura amministrativa della
procedura e dell’atto che la definisce, sono pienamente coerenti con la volontà legislativa di
enucleare un rimedio giurisdizionale semplificato, in unico grado, imperniato sul sostanziale
assenso delle parti.
In questo quadro spetta all’azione interpretativa della giurisprudenza e all’eventuale percorso
riformatore del legislatore individuare il punto di equilibrio tra l’esigenza di attuazione dei
canoni costituzionali ed europei (art. 1 c.p.a.), in materia di effettività della tutela, di garanzia
del pieno contraddittorio, di diritto alla prova e di diritto ad un processo equo (art. 6 CEDU), e
la preservazione dei profili di specialità che connotano, sul piano ontologico e teleologico, un
rito semplificato consensualmente accettato come strumento semplificato di definizione
della res litigiosa.
5. Tanto osservato in merito alla natura giuridica del rimedio, si può ora passare all’esame del
quesito specifico relativo all’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sul ricorso
per ottemperanza.
5.1. La questione dell’ ammissibilità del ricorso per ottemperanza dei decreti di accoglimento di
ricorsi straordinari al Capo dello Stato, adottati a seguito del parere obbligatorio e vincolante
del Consiglio di Stato, è stata già risolta in senso positivo sia dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione (per tutte SS.UU. n. 2065 del 28 gennaio 2011) sia dalla successiva giurisprudenza
amministrativa recepita da questa Adunanza (vedi sentenza n. 18/2012 cit), che hanno fatto
leva sul rammentato riconoscimento della natura intrinsecamente giurisdizionale di una
procedura culminante in una decisione caratterizzata, nel regime generale di alternatività,
dalla stabilità tipica del giudicato e, quindi, bisognosa di una tutela esecutiva pienamente
satisfattoria.
Tale indirizzo ha condivisibilmente affermato che il decreto presidenziale, divenuto definitivo,
è assimilabile al giudicato amministrativo e, quindi, è suscettibile di ottemperanza sulla scorta
dei lineamenti normativi enucleati dagli articoli 112 e seguenti del codice del processo
amministrativo.
5.2. Quanto alla questione di competenza, l’articolo 112 del codice del processo amministrativo,
nel dettare le "disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza", dispone, al comma 2, che
l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione delle sentenze del
giudice amministrativo passate in giudicato (lett. a), delle sentenze esecutive e degli altri
provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (lett. b), delle sentenze passate in giudicato
e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (lett. c), delle sentenze
passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il
rimedio dell'ottemperanza (lett. d) nonché dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili
(lett. e).
In maniera corrispondente, il successivo art. 113, nell'individuare il giudice competente in sede
di ottemperanza, dispone che il ricorso si propone, nel caso di cui all'art. 112, comma 2, lettere
a) e b), al giudice che ha emesso il "provvedimento" della cui ottemperanza si tratta (essendo
competente il tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in
appello con motivazione del tutto conforme) (comma 1), mentre nei casi di cui all'art. 112,
comma 2, lettere c), d) ed e), il ricorso va proposto al tribunale amministrativo regionale nella
cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l'ottemperanza
(comma 2).
Si delinea così una netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri provvedimenti del
giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e b), per i quali è prevista la competenza del
giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il provvedimento, e quella che interessa le
sentenze passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario o
di altri giudici, nonché i lodi arbitrali divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed
e)), per i quali è competente il tribunale amministrativo regionale secondo il criterio di
collegamento previsto dall'art. 113, comma 2.
5.2.1. Ebbene, le considerazioni fin qui formulate in merito alla qualificazione della decisione
su ricorso straordinario come decisione di giustizia inquadrabile nel sistema della giurisdizione
amministrativa conducono al precipitato indefettibile della collocazione del decreto che
definisce il ricorso al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del
Consiglio di Stato, nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera
b) dell'art. 112, comma 2. Ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto,
ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il
giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta" (conf. per tutte,
Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065 e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad. Plen,. 5
giugno 2012, n. 18; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513).
5.2.2. L’assunto è corroborato, sul piano teleologico, dal rilievo che la disciplina della
competenza territoriale fissata dall’art. 113, comma 1, del codice del processo amministrativo si
connota per l’ attribuzione al Tribunale amministrativo regionale della competenza a
conoscere dell’attuazione delle proprie sentenza integralmente confermate, anche sul piano
motivazionale, in appello e per la speculare assegnazione al Consiglio di Stato della cognizione
delle domande finalizzate all’esecuzione delle proprie decisioni che modifichino il contenuto
dispositivo o conformativo della sentenza gravata. Il criterio di regolazione della competenza è
così ispirato al principio secondo cui il giudice che ha emesso la sentenza è naturaliter il più
idoneo ad assicurare l’ interpretazione della portata effettiva e la conseguente esecuzione
satisfattoria del decisum. Ne consegue che la locuzione "altri provvedimenti esecutivi del
giudice amministrativo", contenuta nell’art. 112, comma 2, lettera b), del codice del processo
amministrativo, va interpretata attribuendo rilevanza poziore non al profilo nominalistico
dell’imputazione formale dell’atto ma al dato sostanziale della paternità ideologica della
decisione. Va quindi qualificato come provvedimento esecutivo del giudice amministrativo, ai
fini della soluzione del problema di competenza, la decisione su ricorso straordinario che,
nonostante la veste formale, abbia come unica motivazione il rinvio al contenuto della
decisione giurisdizionale resa dal Consiglio di Stato mediante l’applicazione del diritto
obiettivo in posizione di terzietà e di indipendenza.
5.3. Si deve poi osservare che alla praticabilità della diversa opzione ricostruttiva volta a
qualificare il decreto che definisce il ricorso straordinario come provvedimento amministrativo
equiparato, ai limitati fini dell’esecuzione ex art. 112, comma 2, lettera c, ad una decisione
giurisdizionale, si oppongono argomenti di carattere letterale e sistematico.
Sul piano letterale, l’articolo 113, in sede di fissazione delle regole della competenza, si riferisce
al giudice che ha emesso la sentenza o il provvedimento, così presupponendo la natura
giurisdizionale della decisione da eseguire. Il rimedio dell’ottemperanza è, quindi, expressis
verbisfinalizzato all’attuazione di statuizioni costituenti esercizio di giurisdizione, pubblica o
privata, mentre esulano dal raggio della sua azione iniziative finalizzate all’attuazione di
determinazioni amministrative.
Si deve soggiungere, sul versante sistematico, che la lettera d) del comma 2 dell’articolo 112, è
con evidenza riferita, in via residuale, alle sentenze ed ai provvedimenti equiparati imputabili a
giudici diversi dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario ai quali si riferiscono le
lettere precedenti dello stesso comma.
Risulta pertanto confermata, anche sotto questa angolazione, l’estraneità al perimetro del
giudizio di ottemperanza dell’attività di esecuzione di provvedimenti amministrativi
equiparati, solo a limitati fini, a decisioni giurisdizionali.
5.4. Giova rinviare alle considerazioni svolte in precedenza (par. 4.1.2.) al fine di escludere che
l’affermazione della competenza, in executivis, del Consiglio di Stato si ponga in contrasto con
il principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione.
Si deve solo aggiungere il riconoscimento della competenza in unico grado del Consiglio di
Stato anche in sede di ottemperanza scongiura l’anomalia logica della previsione di un giudizio
di esecuzione in doppio grado finalizzato all’attuazione di uno iussum iudicis perfezionatosi
all’esito di un giudizio semplificato in grado unico. Non è d’altronde chi non veda come una
simile aporia contraddirebbe, proprio nella nevralgica fase dell’esecuzione, le esigenze
perseguite dal legislatore mediante la previsione di un rito speciale e semplificato finalizzato a
consentire, nell’accordo tra le parti, una sollecita definizione della controversia.
6. Alla luce delle considerazioni deve essere dichiarata l’ammissibilità del ricorso per
ottemperanza proposto innanzi al Consiglio di Stato.
Il ricorso va quindi rimesso alla Sezione per l'ulteriore definizione del giudizio e per la
statuizione sulle spese.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
dichiara il ricorso ammissibile e lo rimette alla Sezione per l’ulteriore definizione del giudizio e
per la statuizione sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2013 con l'intervento dei
magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere, Estensore
Carlo Saltelli, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 06/05/2013.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 28 gennaio 2011 n. 2065 Pres. Vittoria, Rel. Morcavallo - Comune di Palermo c. C.G. - (rigetta il ricorso).
Giustizia amministrativa - Ricorso straordinario - Decisione del ricorso Esecuzione - Applicabilità della disciplina prevista per il giudizio di ottemperanza
- Sussiste - Applicabilità del principio non solo alle decisioni dei ricorsi al Capo
dello Stato, ma anche alle decisioni sui ricorsi al Presidente della Regione
Siciliana.
L'evoluzione del sistema normativo, specie a seguito della nuova disciplina del
giudizio d'ottemperanza prevista dal nuovo "Codice del processo
amministrativo", contenuto nell'allegato 1) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, porta a
configurare la decisione sul ricorso straordinario come un provvedimento che,
pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela
mediante il giudizio d'ottemperanza; tale principio è applicabile non solo alle
decisioni del Presidente della Repubblica, ma anche a quelle dei ricorsi
straordinari al Presidente della Regione Siciliana, la cui disciplina è modellata
sulla disciplina dettata per il ricorso straordinario al Capo dello Stato (dovendosi
dunque riconoscere carattere vincolante anche al parere espresso dal Consiglio
di Giustizia Amministrativa e dovendosi ammettere il potere di tale organismo di
sollevare questioni di legittimità costituzionale rilevanti ai fini dell'espressione
del parere; al riguardo, la dottrina parla di abrogazione tacita indiretta delle
disposizioni del d.lgs. n. 373 del 2003 che contrastino con le previsioni introdotte
dell'art. 69 della legge n. 69 del 2009). Da ciò discende l'applicazione della regula
juris secondo cui il giudizio di ottemperanza è ben ammissibile anche in
relazione al decreto del Presidente della Regione, che abbia accolto un ricorso
straordinario.
------------------------------------------Documenti correlati:
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 21-7-2004, pag.
http://www.lexitalia.it/p/corte/ccost_2004-07-21.htm (sulla natura amministrativa e non
giurisdizionale del ricorso straordinario al Capo dello Stato e sulla impossibilità per il CdS di
sollevare q.l.c. in sede di emissione del prescritto parere).
CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 4-6-2009, pag.
http://www.lexitalia.it/p/91/cds4_2009-06-04.htm (sull’inammissibilità del ricorso per
ottemperanza proposto al fine di ottenere l’esecuzione del decreto che ha deciso un ricorso
straordinario).
CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 23-9-2009, pag.
http://www.lexitalia.it/p/92/cga_2009-09-23-1.htm (ritiene ammissibile un ricorso per
ottemperanza proposto per ottenere l’esecuzione di un decreto di decisione di un ricorso
straordinario).
CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 18-5-2009, pag.
http://www.lexitalia.it/p/91/cga_2009-05-18.htm (in contrasto con il prevalente
orientamento della Cassazione e della giurisprudenza amministrativa, afferma che è
ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto al fine di ottenere l’esecuzione della
decisione di un ricorso straordinario).
CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 28-4-2008, pag.
http://www.lexitalia.it/p/81/cga_2008-04-28-3.htm (ritiene ammissibile un ricorso per
ottemperanza proposto per ottenere l’esecuzione di un decreto del Presidente della Regione
siciliana reso in sede di decisione del ricorso straordinario).
CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, sentenza 29-8-2006, pag.
http://www.lexitalia.it/p/62/cds5_2006-08-29.htm (sulla ammissibilità o meno della
proposizione di un ricorso per ottemperanza al fine di ottenere l’esecuzione di una decisione di
un ricorso straordinario e sui rimedi all’uopo apprestati dall’ordinamento).
CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 19-10-2005, pag.
http://www.lexitalia.it/p/52/cga_2005-10-19-7.htm (ribaltando l’orientamento tradizionale,
afferma che il giudizio di ottemperanza è esperibile anche per assicurare la esecuzione del
decreto di decisione di un ricorso straordinario; afferma anche che l’amministrazione, in sede
di ottemperanza, può tenere conto dei fatti od atti sopravvenuti, negando in particolare la
rinnovazione di un concorso per sopravvenute ragioni finanziarie ed organizzative).
CGA - SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 7-11-2002, pag.
http://www.lexitalia.it/private/cds/cga_2002-11-07.htm (sui mezzi di reazione esperibili nei
casi di mancata ottemperanza al decreto che ha deciso un ricorso straordinario e
sull’infondatezza della q.l.c. delle norme sul giudizio di ottemperanza nella parte in cui non
prevedono l’esperibilità di tale rimedio per l'esecuzione delle decisioni dei ricorsi straordinari).
RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione indicata in epigrafe il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, adito per l'ottemperanza del decreto del Presidente della Regione che aveva
riconosciuto il diritto dell'odierna intimata, C.G. , dipendente del Comune di Palermo, ad
ottenere l'inquadramento ai sensi dell'art. 20 della legge regionale n. 20 del 1993 nella
qualifica corrispondente al proprio titolo di studio professionale (qualifica unica dirigenziale,
profilo professionale di avvocato), accoglieva il ricorso, ritenendone preliminarmente
l'ammissibilità, e per l'effetto nominava il Segretario Generale del Comune di Palermo per lo
svolgimento degli incombenti relativi all'esecuzione del predetto decreto.
1.1. In particolare, la decisione qui impugnata riteneva ammissibile il giudizio di ottemperanza,
rilevando che la disciplina del ricorso straordinario al Presidente della Regione, modellato su
quella prevista per il ricorso straordinario al Capo dello Stato, si differenzia per aspetti
rilevanti da quella dettata per gli altri ricorsi amministrativi; sottolineava, al riguardo, che la
garanzia del contraddittorio è assicurata in modo più puntuale, essendo previsto, a carico del
ricorrente, l'obbligo di notificare il ricorso nei modi e nelle forme prescritti per i ricorsi
giurisdizionali ad almeno uno dei controinteressati, ed essendo a questi ultimi assegnato un
termine per presentare deduzioni e documenti ed eventualmente per proporre ricorso
incidentale; né minore rilievo riveste la circostanza che la decisione del ricorso sia preceduta
da un parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa, che costituisce espressione di
un'attività di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo (come riconosciuto anche dalla
Corte di Giustizia in relazione al parere espresso dal Consiglio di Stato nell'ambito della
disciplina generale del ricorso straordinario al Capo dello Stato), così come peculiare è, infine,
la disciplina dei rapporti con la tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo,
regolata secondo il principio di alternatività; principio che comporta l'inammissibilità del
ricorso al giudice amministrativo proposto contro il medesimo atto impugnato in via
straordinaria, sia per il ricorrente che per i controinteressati che non si siano avvalsi della
facoltà di chiedere la decisione del ricorso in sede giurisdizionale, e ha significativi riflessi
sull'impugnazione in sede giurisdizionale della decisione del ricorso straordinario, ammessa
solo per vizi di forma o di procedimento, salvo che per i controinteressati che non siano stati
posti nelle condizioni di chiedere la trasposizione del ricorso in sede giurisdizionale.
2. La cassazione di tale decisione viene domandata, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., dal Comune di
Palermo.
3. L'intimata resiste con controricorso, precisato con successiva memoria.
4. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso si articola in due motivi.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si sostiene il difetto assoluto di giurisdizione, dal quale
sarebbe affetta la decisione impugnata. La carenza assoluta di potestas judicandi si radica,
secondo i ricorrenti, nel fatto che l'atto del quale è stata chiesta e ottenuta l'ottemperanza, cioè
il decreto del Presidente della Regione Siciliana emesso su ricorso straordinario, ha natura
amministrativa, e non giurisdizionale, ed è quindi sottratto alla speciale forma di cognizione,
quale il giudizio di ottemperanza, attribuita al giudice amministrativo.
1.2, Con il secondo motivo si domanda "se il C.G.A. ha emesso la sentenza impugnata...in
violazione della propria giurisdizione, atteso che l'oggetto del giudizio, riguardante istanza di
riconoscimento di diverso inquadramento di dipendente di pubblica amministrazione, rispetto
a quello rivestito, è sottratto alla propria giurisdizione e rientra tra le materie ricondotte alla
giurisdizione del Tribunale sez. Lavoro ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. 165/2001".
2. Il primo motivo non può essere accolto, se pure la decisione impugnata deve essere corretta
e integrata nella sua motivazione.
2.1. Secondo l'art. 23, quarto comma, del r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, recante
l'approvazione dello Statuto della Regione Siciliana, convertito in legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 2, gli atti amministrativi di quella Regione sono soggetti al ricorso
straordinario al Presidente della Regione.
La norma statutaria ha trovato attuazione, da ultimo, mediante il d.lgs. 24 dicembre 2003, n.
373 (art. 9, commi 3, 4, 5 e 6).
Il ricorso è ammesso in relazione ad atti regionali, che provengano, cioè, da organi
dell'amministrazione regionale e siano espressivi della potestà amministrativa riservata alla
Regione.
La disciplina del procedimento decisorio è modellata su quella per il ricorso straordinario al
Capo dello Stato, salvo la diversa posizione del Presidente della Regione che è capo
responsabile del governo regionale.
In particolare, il ricorso va depositato presso l'assessorato regionale competente; il parere,
obbligatorio, è reso dalle sezioni riunite del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
Regione Siciliana; la decisione sul ricorso viene adottata dal Presidente della Regione mediante
decreto.
2.2. L'analogia del procedimento sottende una identità di natura e di funzione rispetto al
ricorso straordinario al Capo dello Stato, più volte sottolineata da queste Sezioni unite in
relazione alle problematiche connesse alla impugnabilità ex art. 111 Cost. (cfr. Cass., sez. un., n.
3660 del 2003; id., n. 15652 del 2002). Ciò ha comportato, sul piano sistematico, ma anche su
quello delle concrete ricadute in termini di tutela giurisdizionale, la rilevanza delle medesime
incertezze e dei medesimi dubbi che hanno investito il ricorso straordinario al Capo dello
Stato, disciplinato dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (art. 8-15), in attuazione della delega di
cui all'art. 6 della legge 28 ottobre 1970, n. 775 (modificativa della precedente legge 18 marzo
1968, n. 249).
2.3. A quest'ultimo istituto è stato tradizionalmente attribuito, in relazione al provvedimento
che conclude il relativo procedimento, un connotato di antinomia, tra forma - di atto
amministrativo - e sostanza - di atto di decisione -, insito nelle stesse definizioni comunemente
utilizzate per la sua collocazione sistematica (provvedimento decisorio; atto dichiarativo di un
giudizio).
Come la dottrina non ha mancato di rilevare, la "ambivalenza" del ricorso straordinario deriva,
storicamente, dalla diversa funzione che esso ha via via svolto, quella originaria di strumento
di "tutela ritenuta", e comunque di tutela amministrativa, e quella di rimedio giustiziale
tendente alla giurisdizionalità, anticipatorio della giurisdizione amministrativa e quindi
concorrente con essa, in termini di alternatività (art. 8 del d.P.R. 1199/1971; art. 20, comma 3,
della legge 6 dicembre 1971, n. 1034), a seguito della creazione e del consolidamento della
funzione giurisdizionale del giudice amministrativo.
2.4. La funzione propriamente decisoria del provvedimento emesso sul ricorso straordinario è
venuta in rilievo, specificamente, in relazione alla eventualità dell'inadempimento della
pubblica amministrazione, che interessa nella controversia in esame, siccome per la esecuzione
coattiva di decisioni di giustizia l'ordinamento ha previsto strumenti e modalità diverse. Il
giudizio di ottemperanza, di cui all'art. 27, n. 4, del r.d. n. 1054 del 1924, integrava lo
strumento esecutivo per assicurare l'effettività e la satisfattività della giurisdizione
amministrativa, connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, come
tale costituzionalmente necessario alla completa attuazione del diritto di difesa (cfr. Corte cost.
n. 419 e 435 del 1995).
2.5. Essendo stata collegata, in via esclusiva, alla giurisdizione, l'esperibilità del giudizio
d'ottemperanza è stata esclusa dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al decreto su
ricorso straordinario, del quale si è sottolineata la natura di atto amministrativo, con la
conseguenza che l'eventuale comportamento inerte della pubblica amministrazione
renderebbe ammissibile solo il giudizio nei riguardi del silenzio-inadempimento (giudizio
suscettibile, secondo la giurisprudenza amministrativa, di concludersi con l'ordine alla p.a. di
dare esecuzione al decreto presidenziale; la relativa decisione ordinatoria di adempimento
sarebbe, a sua volta, suscettibile di esecuzione coattiva mediante giudizio di ottemperanza,
salva in ogni caso la esperibilità dell'azione risarcitoria autonoma per i danni causati dal
comportamento omissivo della p.a.).
2.6. Già con la sentenza n. 3141 del 1953 le Sezioni unite, cassando per difetto di giurisdizione
la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato l'ammissibilità del giudizio di
ottemperanza in relazione a decreti di accoglimento di ricorsi straordinari, rimasti
inadempiuti, hanno ritenuto, a conferma dell'"insegnamento tradizionale", ostativa alla
esperibilità di quel giudizio la natura amministrativa del provvedimento e, pur senza escludere
l'obbligo della p.a. di uniformarsi ad esso, ne hanno inferito che un tale obbligo non abbia il
carattere assoluto e vincolante proprio del giudicato, connaturato con le caratteristiche proprie
dell'attività giurisdizionale, discendendo invece dalla posizione di preminenza o di supremazia
che spetta al Capo dello Stato, sì che la sua efficacia è circoscritta nell'ambito della stessa sfera
dell'amministrazione, senza avere rilevanza esterna e senza dare luogo a quella forma tipica di
coercizione in via eteronoma che è costituita dall'esecuzione in via giurisdizionale.
2.7. La questione si è nuovamente proposta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia 16
ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96, che ha dato ingresso alle questioni di
interpretazione di norme comunitarie, sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere su
ricorso straordinario al Capo dello Stato, riconoscendo natura di giudice nazionale a detto
organo anche in tale sede; ma le Sezioni unite, con sentenza n. 15978 del 2001, hanno ribadito
il precedente orientamento escludendo che i decreti con i quali sono decisi i ricorsi straordinari
abbiano natura giurisdizionale e possano essere assimilati alle sentenze passate in giudicato, le
uniche passibili di esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza. In particolare, tale
conclusione è stata motivata con le seguenti considerazioni: a) il procedimento promosso con il
ricorso straordinario ha per protagonista un'autorità amministrativa, che non è neppure
vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato, potendo anche risolvere
la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione
delle norme di diritto, così venendo a mancare i requisiti indefettibili dei procedimenti
giurisdizionali, cioè il loro celebrarsi dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, oltre che
soggetto esclusivamente al diritto vigente (art. 111, comma 2, e 101, comma 2, Cost.); b) il
meccanismo dell'alternatività, che regola il rapporto fra ricorso straordinario e ricorso
giurisdizionale, non comporta la natura giurisdizionale del primo rimedio, poiché la portata
del principio di alternatività è notevolmente attenuata dalla preferenza espressa dal Legislatore
per il rimedio giurisdizionale, con la previsione che i controinteressati possano far venire meno
la procedibilità del ricorso straordinario notificando al ricorrente e all'autorità che ha emanato
l'atto impugnato la richiesta di trasporlo in sede giurisdizionale (art. 10, comma 1, del d.P.R.
1199/1971); c) non significativa è la previsione della revocabilità del decreto (art. 15 del
medesimo d.P.R.), poiché la revocazione è comunemente ammessa anche per i ricorsi
amministrativi ordinari, mentre, in particolare, la revocazione per l'ipotesi prevista dall'art.
395, n. 5, c.p.c. (richiamato dal predetto art. 15) deve intendersi come riferita al contrasto con
una precedente decisione di ricorso straordinario, dal momento che, invece, la sentenza
passata in giudicato prevale comunque sulla difforme decisione del ricorso straordinario. Per
quanto riguarda la citata sentenza della Corte di Giustizia, le Sezioni unite hanno osservato che
la nozione di giurisdizione nazionale, in quanto prevista dall'art. 234 del Trattato CE e
modellata in via interpretativa ai soli fini della ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, interpretativi
e di validità, non rileva quando si tratta di interpretare disposizioni di diritto processuale
nazionale al differente fine di ammettere, o meno, il giudizio di ottemperanza nei confronti di
decisioni su ricorsi straordinari rimaste ineseguite dalla p.a.; questa non necessaria
coincidenza fra le due nozioni di giurisdizione è un aspetto erroneamente non considerato
nelle ordinanze di sezioni consultive del Consiglio di Stato che hanno ritenuto di poter fondare
sulla richiamata sentenza della Corte di Giustizia la legittimazione del Consiglio di Stato, in
sede di parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, a sollevare questioni di legittimità
costituzionale.
2.8. Questa ultima considerazione è stata confermata dalla Corte costituzionale, che, con la
sentenza n. 254 del 2004, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3 della legge n. 87 del 1994 (nella parte in cui non prevede che il termine per la
domanda di riliquidazione dell'indennità di fine rapporto dei dipendenti pubblici decorre dalla
comunicazione dell'onere di presentare domanda), sollevata dal Consiglio di Stato in sede di
parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato: ciò sul presupposto che la questione era
stata sollevata da un organo non giurisdizionale, la cui natura amministrativa era evidenziata
dal fatto che l'art. 14, primo comma, del d.P.R. 1199/1971 prevede che, ove il ministro
competente intenda proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve
sottoporre la questione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri (provvedimento,
quest'ultimo, evidentemente non giurisdizionale, per la natura dell'organo da cui promana),
mentre non rileva il riconoscimento di tale natura (giurisdizionale) da parte della Corte di
Giustizia, perché operato ad altri fini e sulla base di norme diverse da quelle che vengono in
rilievo nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
2.9. Successivamente alla sentenza delle Sezioni unite del 2001 e all'ordinanza della Corte
costituzionale del 2004, la materia in esame è stata oggetto di vari interventi del Legislatore,
che incidono in modo profondo sulle principali considerazioni poste a fondamento di quelle
decisioni.
2.10. A parte l'art. 245, comma 2, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che - con riguardo ai decreti
di accoglimento di ricorsi straordinari aventi ad oggetto atti delle procedure di affidamento di
contratti pubblici ed atti dell'Autorità di vigilanza sugli stessi - ha previsto l'applicazione degli
strumenti di esecuzione di cui agli art. 33 e 37 della legge 1034/1971, interventi normativi di
portata più generale, ai fini che qui interessano, sono principalmente quelli attuati dall'art. 69
della legge 18 giugno 2009, n. 69 (recante disposizioni per lo sviluppo economico, la
competitività nonché in materia di processo civile). Il primo comma introduce, sotto forma di
periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma
che espressamente prevede che la sezione del Consiglio di Stato, chiamata ad esprimere il
parere sul ricorso straordinario, ne sospende l'espressione ed attiva l'incidente di
costituzionalità "ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953,
n. 87" se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di
una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata; il
secondo comma dispone l'aggiunta al primo periodo del primo comma dell'art. 14 del
medesimo d.P.R. delle parole "conforme al parere del Consiglio di Stato" e la soppressione del
secondo periodo del primo comma, secondo periodo, dello stesso articolo, nonché
l'abrogazione del secondo comma, così eliminando la possibilità ~ originariamente prevista che il Ministero, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, si discosti dal parere
espresso dal Consiglio di Stato, previa sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei
Ministri. 2.11, Neh"esaminare tali sopravvenute disposizioni con riguardo agli effetti che
possono conseguirne nella questione in esame, queste Sezioni unite osservano che le modifiche
apportate dall'art. 69 della legge n. 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti
differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale, quali
erano state rimarcate nella richiamata sentenza n. 15978 del 2001, particolarmente in ordine
alla qualificazione e ai poteri dell'organo decidente. Mette conto osservare, infatti, che l'art. 23
della legge 87/1953 di disciplina del giudizio incidentale di legittimità costituzionale richiede
che la questione di legittimità sia sollevata, a pena di inammissibilità, da un'autorità
giurisdizionale nell'ambito di un giudizio, sì che la nuova norma pare implicitamente
presupporre il riconoscimento di una condizione, comunque, sostanzialmente equivalente alla
"giurisdizionalità" (secondo l'accezione propria anche dell'ordinamento interno, e non solo ai
fini della richiesta di interpretazione preventiva della Corte di Giustizia); peraltro, la
eliminazione del potere della p.a. di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato conferma che
il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un
giudizio: che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in un atto
giurisdizionale (in ragione, essenzialmente, della natura dell'organo emittente e della forma
dell'atto), lo assimila a questo nei contenuti, e tale assimilazione si riflette sull'individuazione
degli strumenti di tutela, sotto il profilo della effettività, che una tutela esecutiva, piena e
diretta, non è assicurata dal meccanismo, altrimenti utilizzabile, del ricorso giurisdizionale
avverso il silenzio-inadempimento della p.a., ovvero avverso il comportamento violativo, o
elusivo, del dictum del decreto presidenziale, sì che l'obbligatorio ricorso a tale complesso
meccanismo si risolve in una disciplina che rende eccessivamente difficile l'esercizio della
tutela e finisce per non garantire un rimedio adeguato contro l'inadempimento della p.a..
2.11.1. Il significativo mutamento, nei termini così precisati, trova conferma nella nuova
disciplina del giudizio d'ottemperanza prevista dal nuovo "codice del processo
amministrativo", contenuto nell'allegato 1) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, emanato in
attuazione della delega per il riordino del processo amministrativo disposta dall'art. 44 della
stessa legge n. 69 del 2009. L'art. 112, nel dettare le "disposizioni generali sul giudizio di
ottemperanza", dispone, al comma 2, che l'azione di ottemperanza può essere proposta per
conseguire l'attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato (lett. a)
e, altresì, delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice
amministrativo (lett. b), oltre che delle sentenze passate in giudicato e degli altri
provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (lett. c), nonché delle sentenze passate
in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio
dell'ottemperanza (lett. d) e dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili (lett. e). In
maniera corrispondente, il successivo art. 113, nell'individuare il giudice dell'ottemperanza,
dispone che il ricorso si propone, nel caso di cui all'art. 112, comma 2, lettere a) e b), al giudice
che ha emesso il "provvedimento" della cui ottemperanza si tratta (essendo competente il
tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con
motivazione del tutto conforme) (comma 1), mentre nei casi di cui all'art. 112, comma 2, lettere
c), d) ed e), il ricorso si propone al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione
ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l'ottemperanza (comma 2),
secondo un sistema fondato sulla netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri
provvedimenti del giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e 6)), per i quali è
prevista la competenza del giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il
provvedimento, e quella di sentenze passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse
equiparati, del giudice ordinario o di altri giudici, nonché di lodi arbitrali divenuti
inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed e)), per i quali è competente il tribunale
amministrativo regionale secondo il criterio di collegamento previsto dall'art. 113, comma 2.
Nel sistema così delineato la decisione su ricorso straordinario al Capo dello Stato, resa in base
al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, si colloca nella ipotesi prevista alla
lettera b) dell'art. 112, comma 2, e il ricorso per l'ottemperanza si propone, ai sensi dell'art. 113,
comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso
il provvedimento della cui ottemperanza si tratta".
2.11.2. Il senso di una disciplina tesa a garantire la effettività di tutela anche al ricorso
straordinario viene rivelato dall'esame dei lavori parlamentari che hanno condotto al definitivo
testo della norma: per cogliere la incisività di quest'ultimo, occorre sottolineare che il testo
originario è stato oggetto di successivi emendamenti in sede di commissioni parlamentari, in
relazione alla necessità di dare attuazione ai principi enunciati dalla CEDU, nonché alle
raccomandazioni comunitarie - intese a sollecitare gli Stati membri a prevedere senza eccezioni
l'azione esecutiva per l'effettività delle tutele - che erano rimaste inevase dacché un precedente
disegno di legge, che prevedeva l'ottemperanza per le decisioni su ricorsi straordinari, era
decaduto per fine legislatura; infine, il parere della commissione del Senato circa la specifica
necessità di inserire anche le decisioni straordinarie del Capo dello Stato è stato recepito nella
relazione governativa, con la formulazione della norma nei termini sopra richiamati, sì che, in
definitiva, deve concludersi che è conforme a tale intentio legis annoverare fra i
"provvedimenti" del giudice amministrativo, passibili di ottemperanza, la decisione sul ricorso
straordinario.
2.12. Come la dottrina ha puntualmente osservato, alla estensione del giudizio di ottemperanza
a provvedimenti che non siano sentenze, o comunque provvedimenti non formalmente
giurisdizionali, non si frappongono ostacoli di ordine costituzionale, sì che è ben configurabile
la previsione normativa di un tale giudizio per le decisioni, rimaste ineseguite, del Capo dello
Stato, trattandosi di una scelta del Legislatore che - nel rispetto dei principi costituzionali tende a rendere effettiva la tutela dei diritti mediante il giudizio di ottemperanza (che,
appunto, svolge nell'ordinamento una funzione di "tutela": cfr. Cass., sez. un., n. 30254 del
2008). Occorre ricordare, sul punto, che il ricorso straordinario non è espressamente previsto
dalla Costituzione (né può ritenersene la costituzionalizzazione implicita: cfr. Corte cost. n.
298 del 1986), ma, non di meno, il Giudice delle leggi con diversi interventi, intesi anche a
conformarne la disciplina, ne ha confermato la compatibilità con il dettato costituzionale, in
relazione all'art. 113 Cost. (cfr. Corte cost. n. 1 del 1964; n. 78 del 1966; n. 31 del 1975; n. 298
del 1986; n. 56 del 2001; n. 301 del 2001), sottolineando anche come la disciplina posta dal
d.P.R. 1199/1971 non solo aveva ribadito la natura del tutto atipica che il ricorso straordinario
aveva assunto sin dall'epoca della monarchia costituzionale, adeguando la disciplina della
alternatività al ricorso giurisdizionale al principio della "trasferibilità" in sede giurisdizionale,
ma, in attuazione del criterio della economicità posto dalla legge di delegazione, ne aveva
confermato il carattere di rimedio straordinario contro eventuali illegittimità di atti
amministrativi definitivi, che i singoli interessati possono utilizzare con modica spesa, senza il
bisogno di assistenza tecnico-legale e con il beneficio di termini di presentazione del ricorso
particolarmente ampi (cfr. Corte cost. nn. 56 e 301/2001, cit.); infine, riconoscendo che le
concrete modalità di coordinamento con il rimedio giurisdizionale potrebbero essere plurime e
rispondere a finalità divergenti, lo stesso Giudice delle leggi ha rilevato come il Legislatore,
nell'esercizio della sua discrezionalità, può dettare una disciplina che può spingersi sino ad una
completa rivisitazione del ricorso straordinario e dei suoi rapporti con il rimedio
giurisdizionale (cfr. Corte cost. n. 432 del 2006). Con questi presupposti, la nuova
regolamentazione normativa intesa alla "assimilazione" del rimedio straordinario a quello
giurisdizionale, pur nella diversità formale del procedimento e dell'atto conclusivo, non può
non assicurare una tutela effettiva del tutto simile, poiché, come queste Sezioni unite hanno
precisato in materia di "autodichia", una volta che si riconoscano poteri decisori, su
determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a quelli della
giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea
alla tutela effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell'art. 2 Cost., comma 1,
e art. 3 Cost., a creare una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010).
2.13. Ma la verifica di tale coerenza deve essere condotta bensì scrutinando i risultati
dell'esercizio del potere decisorio, quali previsti dalla complessiva regolamentazione, anche
rammentando che i criteri costituzionali sono integrati dalle norme della Convenzione Europea
per i diritti dell'uomo (art. 6 e 13), come interpretate dalla Corte di Strasburgo, secondo il
procedimento di ingresso nell'ordinamento nazionale precisato dalla Corte Costituzionale nella
sentenza n. 348 del 2007. Ebbene, secondo la giurisprudenza della CEDU, da un lato sono
intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un'autorità che non fa parte dell'ordine
giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall'altro in ogni
ordinamento nazionale si deve ammettere l'azione di esecuzione in relazione a una decisione di
giustizia, quale indefettibile seconda fase della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006,
Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina).
2.14. I profili di novità tratti dalla legislazione, che sono stati anche oggetto di discussione
all'odierna udienza pubblica, sono di immediata operatività a prescindere dall'epoca di
proposizione del ricorso straordinario, ovvero di instaurazione del giudizio di ottemperanza.
2.14.1. Come queste Sezioni unite hanno precisato con la sentenza n. 30254 del 2008, nel
campo della giurisdizione di merito proprio il caso dei ricorsi per l'ottemperanza dimostra che
una questione di giurisdizione si presenta anche quando non è in discussione che la
giurisdizione spetti al giudice cui ci si è rivolti, perché è solo quel giudice che secondo
l'ordinamento la può esercitare, ma si deve invece stabilire se ricorrono - in base alla norma
che attribuisce giurisdizione -le condizioni perché il giudice abbia il dovere di esercitarla: così,
in rapporto al decreto di accoglimento di ricorso straordinario, il configurarsi come giudicato
può essere discusso in questa sede come questione di giurisdizione ai sensi dell'art. 362 c.p.c..
2.14.2. Ponendosi, dunque, una questione di giurisdizione, torna applicabile il consolidato
principio secondo cui "l'art. 5 c.p.c., nella parte in cui dispone che la giurisdizione si determina
in base alla legge del tempo della proposizione della domanda e resta insensibile a successivi
mutamenti del quadro normativo, persegue in realtà l'obiettivo di conservare la giurisdizione
del giudice correttamente adito in base a detta legge del tempo, sottraendola a successive
diverse scelte legislative, senza peraltro incidere sul più generale principio dell'immediata
operatività, in materia processuale, della legge sopravvenuta (pure con riguardo alla
giurisdizione), quando valga invece a radicare la giurisdizione presso il giudice dinanzi al quale
sia stato comunque già promosso il giudizio" (cfr. Cass., sez. un., n. 3877 del 2004; id., n.
20322 del 2006).
2.15. L'evoluzione del sistema, che porta dunque a configurare la decisione su ricorso
straordinario come provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è
tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza, deve trovare applicazione, in
guisa di corollario, per la analoga decisione resa dal Presidente della Regione Siciliana ai sensi
della sopra richiamata normativa regionale, modellata - come s'è visto - sulla disciplina dettata
per il ricorso straordinario al Capo dello Stato (dovendosi dunque riconoscere carattere
vincolante anche al parere espresso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa e dovendosi
ammettere il potere di tale organismo di sollevare questioni di legittimità costituzionale
rilevanti ai fini dell'espressione del parere; al riguardo, la dottrina parla di abrogazione tacita
indiretta delle disposizioni del d.lgs. n. 373 del 2003 che contrastino con le previsioni
introdotte dell'art. 69 della legge n. 69 del 2009).
3. Da ciò discende l'applicazione, nella controversia in esame, della regula juris secondo cui il
giudizio di ottemperanza è ben ammissibile in relazione al decreto del Presidente della
Regione, che abbia accolto il ricorso straordinario. In base a tale regola il motivo è dunque
rigettato.
4. Con riguardo al secondo motivo, deve preliminarmente esaminarsi la questione relativa alla
sua ammissibilità, concernente la ritualità del quesito di diritto formulato, essendo già stato
affermato (cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., n. 7433 del 2009) che l'art. 366 bis c.p.c. introdotto
dal D.Lgs. n. 40 del 2006, il quale prescrive che ogni motivo di ricorso si concluda con la
formulazione di un esplicito quesito di diritto, si applica anche al ricorso per cassazione per
motivi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali. Nella specie, soggetta
ratione temporis a tale disciplina, il quesito sopra riportato non corrisponde alle prescrizioni
di legge, in quanto la sua formulazione, con riguardo alla questione di giurisdizione, prescinde
del tutto dalla fattispecie concreta posta all'esame della Corte, non facendosi menzione della
specifica questione di inquadramento dedotta in giudizio, né della ratio della decisione
impugnata, né dei vizi di giurisdizione che, in relazione alla fattispecie, fondano
l'impugnazione ai sensi dell'art. 362, n. 1, c.p.c.; né, peraltro, tali indicazioni potrebbero essere
integrate dalle argomentazioni sviluppate nel motivo, stante la autonomia del quesito di diritto
(cfr. Cass., sez. un., n. 2658 del 2008; n. 27347 del 2008).
5. In conclusione, il ricorso è respinto.6. I profili di novità della questione esaminata inducono
il Collegio a compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, alla c.c. dell’11 gennaio 2011.
Depositata in cancelleri il 28 gennaio 2011.
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 19 giugno 2012 n. 3569 - Pres. Giovannini,
Est. Lopilato - Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (Avv. Stato
Guida) c. Assagaime-Associazioni tra Agenzie D’Affari in mediazioni turistiche e di viaggi di
Rosolina ed altri (Avv.ti Ceruti e Petretti), Regione Veneto (Avv.ti Ligabue, Mio, Zanon e
Manzi), Enel Produzione s.p.a. (Avv.ti De Vergottini e Caturani) ed Enel s.p.a. (n.c.) - (fornisce,
ai sensi dell’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm., i chiarimenti in ordine all’ottemperanza
della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3107).
1. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e
norma sopravvenuta - Necessità di tener conto della tipologia di azione proposta
e del contenuto precettivo dello ius superveniens - Sussiste.
2. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e
norma sopravvenuta - Nel caso in cui sia stata proposta una domanda di
cognizione che conduce alla formazione di un giudicato idoneo a produrre un
vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività della P.A. Prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta - Applicabilità.
3. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Rapporti tra giudicato e
norma sopravvenuta - Nel caso in cui il sindacato del giudice amministrativo non
possa estendersi all’intero rapporto controverso (come nel caso di annullamento
per difetto di motivazione) - Prevalenza della normativa sopravvenuta - Limiti Individuazione.
1. Il rapporto tra giudicato e normativa sopravvenuta non è ricostruibile secondo
un unico modello predefinito, essendo lo stesso strettamente correlato all’oggetto
del sindacato giurisdizionale che dipende dalla tipologia di azione proposta e di
potere pubblico esercitato e dal contenuto precettivo dello ius superveniens. In
particolare, occorre distinguere, da un lato, le fattispecie che consentono al
giudice amministrativo, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, di
svolgere, nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità, un sindacato pieno sul
rapporto dedotto nel processo, dall’altro, quelle che non permettono che il
sindacato abbia una tale estensione.
2. Nei casi in cui sia stata proposta una domanda di cognizione che conduce alla
formazione di un giudicato idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno
sull’esercizio della successiva attività dell’amministrazione ovvero a fare sorgere
l’obbligo di pagamento della somma risarcitoria [come nei casi in cui sia stata
proposta: a) un’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo
avente un contenuto vincolato; b) un’azione di adempimento, contestualmente
alla prima, con cui si chiede la condanna dell’amministrazione all’adozione del
provvedimento richiesto; c) un’azione avverso il silenzio, in presenza di una
attività vincolata o che non presenti ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere
computi dall’amministrazione; d) un’azione di condanna al risarcimento del
danno che presuppone anch’essa, a prescindere dalla natura del potere
esercitato, l’accertamento pieno del rapporto], l’eventuale giudizio di
ottemperanza ha natura di sola esecuzione, in quanto il giudice deve
esclusivamente verificare se l’amministrazione abbia correttamente posto in
essere l’azione che la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi
contenuti. In tali ipotesi, quindi, il principio generale – derogabile in ragione
della peculiarità di singole fattispecie e dei valori ad esse sottese – è quello della
prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta.
3. Nel caso di fattispecie in relazione alle quali il sindacato del giudice
amministrativo non può estendersi all’intero rapporto controverso dovendo, in
ossequio al principio costituzionale di separazione dei poteri, rispettare le sfere
di valutazione di esclusiva spettanza della pubblica amministrazione (come nei
casi in cui sia stata proposta: a) un’azione di annullamento di un provvedimento
amministrativo discrezionale; b) un’azione avverso il silenzio avente ad oggetto
una attività caratterizzata da discrezionalità non ancora esercitata
dall’amministrazione), l’azione di cognizione conduce alla formazione di un
giudicato che contiene una regola incompleta lasciando priva di vincoli la futura
attività amministrativa che non è stata oggetto di sindacato giurisdizionale. In
tali ipotesi, la normativa successiva, potendo occupare gli spazi lasciati liberi dal
giudicato, realizza normalmente una successione cronologica di regole di
disciplina del potere pubblico. La prevalenza del giudicato si ha soltanto nel caso
in cui la predetta normativa sovrapponga, in relazione a quello specifico tratto
della vicenda amministrativa vincolato dalla sentenza, la propria regola giuridica
a quella giudiziale al fine esclusivo di correggere l’esercizio delle funzioni del
giudice (1).
----------------------------------(1) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che, la predetta evenienza si verifica soprattutto in
presenza di leggi provvedimento che si caratterizzano per avere un contenuto particolare e
concreto incidendo su un numero limitato e determinato di destinatari (Corte cost. n. 137 e n.
94 del 2009, in LexItalia.it, rispettivamente alla pag.
http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-05-08.htm ed alla
pag. http://www.lexitalia.it/p/91/ccost_2009-04-02-1.htm). In tale ambito si collocano le
cosiddette leggi di sanatoria che perseguono lo scopo, contrario a Costituzione, di stabilizzare
gli effetti di un determinato provvedimento amministrativo eliminando, in via normativa, il
vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo (cfr. Corte cost. n. 14 del 1999 e n. 211
del 1998).
E’ stato pertanto conclusivamente ritenuto che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale
contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità della
normativa sopravvenuta, senza che rilevi, è bene puntualizzare, il momento della notificazione
della sentenza.
Nei casi in cui il giudicato accerti pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere
dall’amministrazione è oggetto di sindacato da parte del solo giudice dell’ottemperanza.
Nei casi, invece, in cui il giudicato non accerti pienamente il rapporto l’attività successiva posta
in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato nel giudizio di ottemperanza soltanto se
la stessa si colloca in un ambito coperto dal giudicato stesso. L’attività è, invece, oggetto di
sindacato nel giudizio di cognizione qualora la stessa occupi un ambito lasciato libero dal
giudicato e disciplinato dalla legge, anche sopravvenuta, che diventa il parametro per valutare
la sua eventuale illegittimità (si veda Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 5 aprile 2012, n. 2024, in
LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/12/cds_2012-04-05o.htm).
N. 03569/2012REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10216 del 2010, proposto da:
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Ministero per i beni e le attività
culturali, Ministero dello sviluppo economico, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale
dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Assagaime-Associazioni tra Agenzie D’Affari in mediazioni turistiche e di viaggi di Rosolina,
Cob-Consorzio Operatori Balneari, Villaggio Turistico Rosapineta Sud, Villaggi Club s.r.l.,
Greenpeace Onlus, Associazione Italiana per il World Wide Fund For Nature (Wwf) OngOnlus, Italia Nostra-Onlus, Comitato Cittadini Liberi Porto Tolle, Consorzio Delta Nord
Società Coop a.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e
difesi dagli avvocati Matteo Ceruti e Alessio Petretti, con domicilio eletto presso quest’ultimo
in Roma, via degli Scipioni, 268;
nei confronti di
Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, rappresentata e
difesa dagli avvocati Cecilia Ligabue, Emanuele Mio, Ezio Zanon, Andrea Manzi, con domicilio
eletto presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri, 5;
Enel Produzione s.p.a. e Enel s.p.a, in persona dei legali rappresentanti pro tempore,
rappresentate e difese dagli avvocati Giuseppe De Vergottini e Cesare Caturani, con domicilio
eletto presso quest’ultimo in Roma, via A. Bertoloni, 44;
Enel s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore;
per chiarimenti
in ordine all’ottemperanza della sentenza 23 maggio 2011, n. 3107 del Consiglio di Stato,
Sezione sesta.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio e le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2012 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi
per le parti dell’avvocato dello Stato Guida, gli avvocati Ceruti, Manzi, Zanon e De Vergottini.
FATTO
1.– Le odierne parti resistenti, indicate in epigrafe, hanno impugnato – innanzi al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, Roma – gli atti del procedimento nonché il decreto del 24
luglio 2009, n. 873 con cui il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di
concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, ha espresso giudizio positivo di
compatibilità ambientale sul progetto per la realizzazione di una centrale termoelettrica da
1980 Mw, alimentata a carbone e biomasse vergini nella misura massima del 5% su due
gruppi, ubicata nel Comune di Porto Tolle (RO), da realizzare in luogo dell’esistente centrale
ad olio combustibile.
2.– Il Tar adito, con sentenza 14 ottobre 2010, n. 32824, ha rigettato il ricorso.
3.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello avverso la predetta sentenza.
4.– Il Consiglio di Stato, Sezione sesta, con sentenza 23 maggio 2011, n. 3107, ha accolto due
motivi di appello, dichiarando gli altri infondati e inammissibili.
4.1.– Il primo motivo, ritenuto fondato, è quello con il quale era stato dedotto il vizio di omessa
esplicitazione delle ragioni sottese alla valutazione di pari o inferiore impatto ambientale della
centrale a carbone rispetto alle possibili fonti alternative di progetto, quali, in particolare, il gas
metano.
Il Collegio ha rilevato che l’art. 30 della legge della Regione Veneto 8 settembre 1997, n. 36
(Norme per l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po) – prevedendo che «gli impianti di
produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti
alternative di pari o minore impatto ambientale» – ha espresso «una sicura opzione legislativa
di preferibilità per gli impianti (…) alimentati a gas metano, ammettendo una differente
alimentazione solo a condizione che siano utilizzate "fonti alternative di pari o minore impatto
ambientale"».
Questa disposizione regionale, si è sottolineato, non può ritenersi derogata dall’art. 5-bis del
decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi,
nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore
lattiero-caseario), introdotto dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33, il quale dispone
che «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio
combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede
in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di
localizzazione territoriale, purché la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni
di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui
alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152». Il riferimento, infatti, ai «limiti di localizzazione territoriale» riguarda, si è
sottolineato nella sentenza, esclusivamente un divieto di localizzazione tale da determinare
l’impossibilità dell’insediamento e non permettere, nel contempo, una localizzazione
alternativa.
Applicando, pertanto, alla fattispecie in esame, l’art. 30 della legge regionale n. 36 del 1997, il
Collegio ha così statuito: «non può sostenersi che nel corso del procedimento amministrativo
contestato in primo grado, ed in specie negli atti con cui lo stesso è stato concluso (parere della
Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale VIA-VAS e decreto del Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, recante parere positivo di compatibilità
ambientale), sia stata svolta la dovuta comparazione analitica e motivata tra l’impatto
ambientale potenzialmente proprio della centrale a carbone che si intende realizzare e quello
correlato alla realizzazione e al funzionamento di centrale a gas metano».
4.2.– Il secondo motivo, ritenuto fondato, è stato quello relativo «all’assunta violazione del
principio di precauzione conseguente allo scostamento tra le prescrizioni imposte all’ENEL per
quel che attiene a taluni inquinanti (in specie il monossido di carbonio) e le BAT, ossia le linee
guida comunitarie relative ai grandi impianti di combustione».
In particolare, il Collegio ha ritenuto che i valori medi di emissione contenuti nei documenti
BREF elaborati in sede europea al fine di indicare agli Stati membri e agli operatori del settore
l’individuazione delle predette linee guida, pur non essendo immediatamente vincolanti, non
possono considerarsi privi di alcuna rilevanza «dovendo esserne viceversa motivatamente
giustificato lo scostamento». Nel caso di specie, si afferma, l’autorità competente non ha
indicato le ragioni che giustificano tale scostamento.
Per le ragioni, sin qui sinteticamente riportate, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello.
5.– La Regione Veneto ha proposto, avverso la predetta sentenza, ricorso per revocazione.
5.1.– Questa Sezione, con sentenza del 20 aprile 2012, n. 2353, ha dichiarato inammissibile il
predetto ricorso.
6.– Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dello sviluppo
economico, il Ministero per i beni e le attività culturali hanno chiesto, ai sensi dell’art. 115,
comma 5, cod. proc. amm., chiarimenti in ordine alle modalità di esecuzione della citata
sentenza n. 3107 del 2011 di questo Consiglio.
Il ricorso per chiarimenti – si sottolinea – è stato reso necessario in ragione del fatto che,
successivamente all’adozione della predetta decisione, sono sopravvenute nuove leggi, di
natura sia statale che regionale.
L’art. 5-bis del decreto-legge n. 5 del 2009 è stato modificato dall’art. 35, comma 8, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale prevede che si può
procedere alla riconversione anche in deroga alle leggi statali e regionali «che condizionano o
limitino la suddetta riconversione, obbligando alla comparazione, sotto il profilo dell’impatto
ambientale, fra combustibili diversi o imponendo specifici vincoli all’utilizzo dei combustibili»,
sempre che la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni di almeno il 50 per
cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui al d.lgs. n. 152 del
2006.
L’art. 30 della legge della Regione Veneto n. 36 del 1997 è stato modificato dalla legge 5 agosto
2011, n. 14 (Modifiche all’articolo 30 della legge regionale 8 settembre 1997, n. 36 «Norme per
l’istituzione del Parco regionale del delta del Po») che ha aggiunto al predetto art. 30, comma 1,
la lettera a-bis, la quale dispone che «nel caso di impianti di produzione di energia elettrica
alimentati ad olio combustibile di potenza superiore a 300 MW termici già esistenti alla data di
entrata in vigore della legge istitutiva del Parco regionale delta del Po, per i quali sia stata
richiesta o venga richiesta la conversione a carbone o altro combustibile solido ai sensi della
normativa statale, la conversione deve assicurare l’abbattimento delle emissioni di almeno il
cinquanta per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione» di cui al
d.lgs. n. 152 del 2006. La norma ha specificato che, quando ricorrono questi presupposti, «non
trovano applicazione le disposizioni di cui alla lettera a» dello stesso comma 1 dell’art. 30 della
legge n. 36 del 1997, il quale, come già sottolineato, disponeva che, nell’ambito dell’intero
territorio dei comuni interessati dal Parco del Delta del Po, gli impianti di produzione di
energia elettrica «dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o
minore impatto ambientale».
Nel ricorso si afferma che occorre verificare se le modifiche normative intervenute consentano
di procedere in modo diverso da quanto indicato nella sentenza n. 3107 del 2011.
A tale proposito, si richiamano le tesi prospettate in relazione al rapporti fra giudicato e
iussuperveniens che, giungendo a soluzioni diverse, ritengono che la norma applicabile debba
essere quella vigente al momento dell’esecuzione, dell’emanazione ovvero della notificazione
della sentenza. A tale ultimo proposito, si sottolinea che «la decisione definitiva non è stata
notificata all’amministrazione, la quale è venuta semplicemente a conoscenza della sentenza
del Consiglio di Stato n. 3107 del 2011 in quanto trasmessa con nota dell’Avvocatura generale
dello Stato prot. n. 184803 in data 1° giugno 2011» e acquisita al protocollo
dell’amministrazione in data 8 giugno 2011.
Nel ricorso è richiamata, inoltre, la giurisprudenza che ha affermato il principio secondo cui in
presenza di situazioni giuridiche non istantanee ma di durata la normativa sopravvenuta si
applica al tratto delle relazioni giuridiche successivo al giudicato. Si rileva che ciò varrebbe
anche per il caso in esame in cui il giudicato comporta la riapertura di un procedimento
amministrativo ed ha quindi ad oggetto una situazione giuridica di durata. In conclusione, si
afferma che, a parere dell’Amministrazione, per l’esecuzione della sentenza n. 3107 del 2011 si
deve: rinnovare il procedimento a partire dalla fase in cui si sono riscontrati i vizi censurati dal
giudice amministrativo; non eseguire la valutazione comparativa sul «pari o inferiore impatto
ambientale» né riguardo alle polveri sottili, all’impatto sulla salute e all’incidenza dell’impianto
sulle aree di insediamento; verificare l’abbattimento delle emissioni di almeno il 50 per cento
rispetto ai limiti di legge; esplicitare le ragioni dello scostamento dalle BAT riguardo a taluni
inquinanti; rinnovare il parere della Commissione VIA-VAS, il decreto della Giunta regionale
ed il parere della Commissione regionale Veneta VIA, in quanto atti presupposti annullati, per
inadeguata motivazione, insieme con l’impugnato decreto del 24 luglio 2009, n. 873.
Precisato che l’amministrazione ha riavviato le attività secondo quanto ora indicato, si afferma
che si è comunque proposto il ricorso previsto dall’art. 112, comma 5, cod. proc. amm., per
ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di esecuzione della sentenza n. 3107 del 2011,
«affinché l’amministrazione possa correttamente conformare la propria attività alle statuizioni
in essa contenute».
6.1.– Hanno depositato memorie difensive le parti resistenti rilevando che la giurisprudenza
amministrativa ha più volte affermato che il principio generale è quello dell’intangibilità del
giudicato che non può essere inciso dalla legge sopravvenuta retroattiva.
La prevalenza di quest’ultima si avrebbe soltanto nei casi, non ricorrenti nella specie, in cui lo
ius superveniens sia più favorevole per l’interessato ovvero disciplini situazioni giuridiche
durevoli per le quali «la legge sopravvenuta incide nel solo tratto dell’interesse che si svolge
successivamente al giudicato» (si cita Cons. Stato, Ad. plen., 11 maggio 1998, n. 2).
Le parti deducono, inoltre, che la questione posta non potrebbe essere risolta ritenendo che si
applichi la normativa esistente al momento della notificazione della sentenza, in quanto tale
regola sarebbe stata elaborata dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al solo
settore della pianificazione urbanistica.
In via subordinata, si deduce che, anche ammesso che si applichi la nuova disciplina statale e
regionale, «non per questo la procedura di VIA del progetto in esame potrebbe legittimamente
sfuggire alla valutazione delle alternative sotto il profilo degli impatti ambientali giacché le
nuove norme non risultano affatto derogatorie dell’odierna legislazione statale in materia di
VIA laddove impone l’obbligo della comparazione tra il progetto presentato e le possibili
soluzioni alternative praticabili» (si cita l’art. 22, comma 3, lettera d), del d.lgs. n. 152 del
2006, nonché il punto 2 dell’allegato VII alla parte seconda del medesimo decreto). Inoltre, la
nuova normativa sarebbe in contrasto con la direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985, la quale
imporrebbe che la valutazione delle possibili alternative di progetto costituisca uno dei
contenuti necessari della procedura di valutazione d impatto ambientale. Si aggiunge nella
memoria che qualora non si condividesse questo aspetto, sarebbe necessario disporre il rinvio
alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
In via ulteriormente subordinata si assume che lo ius superveniens sarebbe incostituzionale
per contrasto: a) con il principio di indipendenza dei giudici di cui all’art. 101 Cost.; b) con il
«diritto all’equo processo» di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
6.2.– Hanno presentato memorie la Regione Veneto e l’Enel produzione s.p.a., contestando le
deduzioni delle parti resistenti e chiedendo che vengano forniti chiarimenti secondo la
prospettazione contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio.
6.3.– I ricorrenti hanno depositato una memoria, del 10 aprile 2012, con la quale hanno
dedotto che le parti resistenti, con atto di diffida del 25 ottobre 2011, hanno chiesto che in sede
di rinnovazione della procedura di VIA si tenga conto di una serie di documentazione allegata
alla diffida stessa.
6.4.– Con ordinanza del 20 aprile 2012, n. 2352, questa Sezione, in accoglimento dell’eccezione
sollevata dalle parti appellate, ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti di
Enel s.p.a., rinviando la trattazione della causa alla camera di consiglio del 22 maggio 2012.
6.5.– I ricorrenti, con atto del 24 aprile 2012, n. 2352, hanno provveduto ad eseguire quanto
disposto con la predetta ordinanza.
6.6.– In vista della nuova camera di consiglio le parti hanno depositato ulteriori memorie.
In particolare, le parti resistenti hanno rilevato che, con nota ministeriale del 29 marzo 2012,
prot. n. 7779, il Ministero ha sospeso la procedura anche in ragione della circostanza che «la
società proponente non ha compreso il progetto di riconversione della centrale termoelettrica
di Porto Tolle nel piano Enel 2012-2016».
Enel s.p.a. ha depositato anch’essa una memoria con la quale, in particolare, ha fatto presente
che, con lettera del 6 aprile 2012, Enel Produzione ha confermato il proprio impegno «al
progetto di riconversione della Centrale di Porto Tolle e precisato che lo stesso è incluso nel
piano industriale pluriennale».
7.– All’esito della discussione nella camera di consiglio del 22 maggio 2012 il Collegio ha deciso
il ricorso.
DIRITTO
1.– La questione posta all’esame di questa Sezione attiene alla vicenda relativa alla
riconversione della centrale termoelettrica, situata nel Comune di Porto Tolle, al fine di
consentirne il passaggio dall’alimentazione ad olio combustibile a quella a carbone.
Il Consiglio di Stato, con sentenza 23 maggio 2011, n. 3107, ha annullato il decreto 24 luglio
2009, n 873 del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, che aveva
espresso parere positivo di compatibilità ambientale rilevando che, sulla base delle leggi
all’epoca vigenti, fosse necessario indicare le ragioni per le quali la riconversione da olio
combustibile a carbone fosse di pari o minore impatto ambientale rispetto al gas metano.
Nella fase di esecuzione della predetta sentenza, passata in giudicato, sono state modificate le
norme di disciplina della materia (si veda punto 4.1. della parte in fatto).
Le amministrazioni statali, indicate in epigrafe – al fine di avere indicazioni in ordine alla
disciplina applicabile – hanno proposto l’azione prevista dall’art. 112, comma 5, cod. proc.
amm.
Tale norma prevede che il ricorso di ottemperanza «può essere proposto anche al fine di
ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza»: lo scopo perseguito è quello di
consentire, in attuazione del principio di celerità nella definizione delle controversie, alla parte
che deve eseguire la sentenza di ottenere le indicazioni necessarie ad evitare di porre in essere
attività di violazione o elusione del giudicato.
2.– La risposta al quesito presuppone – prima di esaminare la fattispecie concreta – che venga
analizzato, in assenza di una disciplina della materia, il rapporto tra giudicato e normativa
sopravvenuta.
Tale rapporto non è ricostruibile secondo un unico modello predefinito, essendo lo stesso
strettamente correlato all’oggetto del sindacato giurisdizionale, che dipende dalla tipologia di
azione proposta e di potere pubblico esercitato, e al contenuto precettivo dello ius
superveniens.
In particolare, occorre distinguere, da un lato, le fattispecie che consentono al giudice
amministrativo, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, di svolgere, nell’ambito
della sua giurisdizione di legittimità, un sindacato pieno sul rapporto dedotto nel processo,
dall’altro, quelle che non permettono che il sindacato abbia una tale estensione.
3.– La prima evenienza si verifica quando viene, ad esempio, proposta: i) un’azione di
annullamento di un provvedimento amministrativo avente un contenuto vincolato; ii)
un’azione di adempimento, contestualmente alla prima, con cui si chiede la condanna
dell’amministrazione all’adozione del provvedimento richiesto; iii) un’azione avverso il
silenzio, in presenza di una attività vincolata o che non presenti ulteriori margini di esercizio
della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere computi
dall’amministrazione; iv) un’azione di condanna al risarcimento del danno che presuppone
anch’essa, a prescindere dalla natura del potere esercitato, l’accertamento pieno del rapporto.
In questi casi la domanda di cognizione proposta conduce alla formazione di un giudicato
idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività
dell’amministrazione ovvero a fare sorgere l’obbligo di pagamento della somma risarcitoria.
L’eventuale giudizio di ottemperanza ha natura di sola esecuzione, in quanto il giudice deve
esclusivamente verificare se l’amministrazione abbia correttamente posto in essere l’azione che
la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi contenuti.
3.1.– In presenza di azioni che, per le ragioni indicate, sono idonee a condurre alla formazione
di un giudicato che accerta pienamente il rapporto, il principio generale – derogabile in
ragione della peculiarità di singole fattispecie e dei valori ad esse sottese – è quello della
prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta.
In questi casi, nonostante manchi una norma costituzionale che riconosca espressamente
l’intangibilità del giudicato, la legge sopravvenuta, come affermato più volte dalla Corte
costituzionale, non può incidere – in ossequio al principio di divisione dei poteri giurisdizionali
e normativi (artt. 101, 102 e 104 Cost.) e alla garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi (artt. 24 e 113 Cost.) – su «questioni coperte dal giudicato» ledendo
l’affidamento di chi abbia ottenuto «il riconoscimento giudiziale definitivo» (Corte cost. n. 374
del 2000; si veda anche Corte cost. n. 267 del 2007). La Consulta ha chiarito che la funzione
giurisdizionale non è, invece, violata nel caso in cui il legislatore si muova «sul piano generale
ed astratto delle fonti» e costruisca «il modello normativo cui la decisione giudiziale deve
riferirsi» (Corte cost. n. 432 del 1997 e n. 397 del 1994).
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha anch’essa sancito il divieto di ingerenza, a sensi
dell’art. 6 § 1 della Convenzione, del legislatore nell’amministrazione della giustizia «allo scopo
di influenzare la risoluzione di una controversia» (ex multis, sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed
altri c. Italia).
Il Consiglio di Stato ha condiviso questi principi rilevando – con riferimento ad un caso in cui
si trattava di stabilire se una legge sopravvenuta potesse incidere negativamente su un
giudicato che aveva riconosciuto la sussistenza di un rapporto contrattuale di fatto, con obbligo
dell’amministrazione di provvedere al pagamento di tutte le prestazioni retributive e
previdenziali – che «l’immutabilità del giudicato non può cedere di fronte a norme
sopravvenute aventi efficacia retroattiva». Ciò in quanto «il Parlamento non può sovrapporsi
alla Magistratura modificando "ex post" singole situazioni già definite dal giudice e coperte
dall’autorità del giudicato» (Cons. Stato, Ad. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).
Lo stesso Consiglio di Stato ha, però, puntualizzato – con riferimento all’accertamento del
dovere di corrispondere da parte della pubblica amministrazione prestazioni periodiche – che
in presenza di «situazioni giuridiche durevoli» la legge sopravvenuta, pur non potendo
incidere, per le ragioni indicate, sul rapporto pregresso accertato con il giudicato, può
disciplinare diversamente il «tratto dell’interesse che si svolge successivamente» ad esso,
«determinando non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la
situazione giuridica» (Cons. Stato, Ad. plen., 11 maggio 1998, n. 2; da ultimo, Cons. Stato, sez.
V, 31 marzo 2010, n. 1876).
In definitiva, quando ricorrono le condizioni sin qui esposte, la legge successiva che, con
efficacia retroattiva, interferisse con l’accertamento giudiziale dotato della crisma della
definitività e della pienezza sarebbe contraria agli evocati principi costituzionali.
4.– La seconda evenienza si realizza con riguardo a fattispecie in relazione alle quali il
sindacato del giudice amministrativo non può estendersi all’intero rapporto controverso
dovendo, in ossequio al principio costituzionale di separazione dei poteri, rispettare le sfere di
valutazione di esclusiva spettanza della pubblica amministrazione.
In particolare, ciò si verifica quando viene, ad esempio, proposta: i) un’azione di annullamento
di un provvedimento amministrativo discrezionale; ii) un’azione avverso il silenzio avente ad
oggetto una attività caratterizzata da discrezionalità non ancora esercitata
dall’amministrazione.
In questi casi l’azione di cognizione conduce alla formazione di un giudicato che contiene una
regola incompleta lasciando priva di vincoli la futura attività amministrativa che non è stata
oggetto di sindacato giurisdizionale. La valutazione circa l’effettiva estensione del giudicato e i
consequenziali margini liberi dell’azione amministrativa sono strettamente dipendenti dalla
tipologia del vizio riscontrato.
L’eventuale giudizio di ottemperanza ha, pertanto, secondo l’impostazione tradizionale, natura
mista di cognizione e di esecuzione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n.
3871): il giudice, infatti, concorre alla definizione della regola del caso concreto dando luogo a
quella che viene definita formazione progressiva del giudicato (Cons. Stato, sez. V, 16 giugno
2009, n. 3871).
4.1.– In presenza di azioni che, per le ragioni indicate, non sono idonee a condurre alla
formazione di un giudicato che accerti pienamente il rapporto controverso, la relazione tra
legge successiva e giudicato assume connotati diversi.
La normativa successiva, potendo occupare gli spazi lasciati liberi dal giudicato, realizza
normalmente una successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico.
La prevalenza del giudicato sia ha soltanto nel caso in cui la predetta normativa sovrappone, in
relazione a quello specifico tratto della vicenda amministrativa vincolato dalla sentenza, la
propria regola giuridica a quella giudiziale al fine esclusivo di correggere l’esercizio delle
funzioni del giudice.
Questa evenienza si verifica soprattutto in presenza di leggi provvedimento che si
caratterizzano per avere un contenuto particolare e concreto incidendo su un numero limitato
e determinato di destinatari (Corte cost. n. 137 e n. 94 del 2009). In tale ambito si collocano le
cosiddette leggi di sanatoria che perseguono lo scopo, contrario a Costituzione, di stabilizzare
gli effetti di un determinato provvedimento amministrativo eliminando, in via normativa, il
vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo (cfr. Corte cost. n. 14 del 1999 e n. 211
del 1998).
5.– In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, deve ritenersi che l’ampiezza
dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli
spazi di applicabilità della normativa sopravvenuta, senza che rilevi, è bene puntualizzare, il
momento della notificazione della sentenza. L’orientamento giurisprudenziale, richiamato
dalle parti, che risolve la questione relativa al rapporto tra giudicato e normativa sopravvenuta
ritenendo che si applica la legge esistente al momento della notificazione della sentenza (Cons.
Stato, Ad. plen. 8 gennaio 1986, n. 1; da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2012, n. 36)
non è, a prescindere dall’esigenza di una sua eventuale rivisitazione, suscettibile di estensione
generalizzata. Lo stesso, infatti, si è formato con riguardo ad azioni proposte a tutela di
interessi legittimi pretensivi nel settore specifico della pianificazione urbanistica che vede, in
alcuni casi, quando a cambiare è il piano regolatore, una sostanziale coincidenza tra l’autore
dell’atto impugnato e il soggetto che introduce le nuove regole di disciplina.
6.– Occorre adesso accertare quali siano le conseguenze che l’applicazione di questi principi
determinano in relazione alla fattispecie all’esame di questo Collegio, avendo riguardo: i) alla
natura dell’accertamento giudiziale svolto nell’ipotesi in cui venga proposta, come è avvenuto
nel caso in esame, un’azione di annullamento, a tutela un interessi legittimi oppositivi, da parte
di terzi che si ritengono lesi da un provvedimento favorevole rilasciato dall’amministrazione;
ii) al contenuto delle leggi sopravvenute.
6.1.– L’accertamento pieno del rapporto, in presenza della suddetta posizione soggettiva,
presuppone che il giudice amministrativo svolga un sindacato sull’assetto sostanziale degli
interessi che verifichi l’esistenza di una preclusione al riesercizio del potere ovvero particolari
condizioni che impediscano la successiva modificazione della realtà materiale incisa dall’atto
amministrativo poi annullato.
L’accertamento non pieno del rapporto, in ragione dell’esistenza di margini di discrezionalità,
consente all’amministrazione, in coerenza con la natura dinamica del potere amministrativo,
di riesercitare il potere stesso mediante l’avvio di un nuovo procedimento al quale si
applicherà, salvo quanto si dirà tra breve, la normativa esistente in quel determinato momento
ancorché la stessa sia diversa da quella in vigore quando è stata emanata la sentenza.
Nel caso in esame il Consiglio di Stato, per quanto interessa in questa sede, ha ritenuto fondato
il motivo di ricorso con il quale è stato fatto valere il vizio di motivazione del provvedimento
finale di compatibilità ambientale.
In particolare, ha rilevato che l’art. 30 della legge della Regione Veneto 8 settembre 1997, n. 36
(Norme per l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po) – prevedendo che «gli impianti di
produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti
alternative di pari o minore impatto ambientale» – ha espresso «una sicura opzione legislativa
di preferibilità per gli impianti (…) alimentati a gas metano, ammettendo una differente
alimentazione solo a condizione che siano utilizzate fonti alternative di pari o minore impatto
ambientale».
Questa disposizione regionale, si è sottolineato, non può ritenersi derogata dall’art. 5-bis del
decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi,
nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore
lattiero-caseario), introdotto dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33, il quale prevede
che «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio
combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede
in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di
localizzazione territoriale (…)». Il riferimento, infatti, ai «limiti di localizzazione territoriale»
riguarda, si è sottolineato, esclusivamente un divieto di localizzazione tale da determinare
l’impossibilità dell’insediamento e non permettere, nel contempo, una localizzazione
alternativa.
Con tale sentenza questa Sezione non ha, pertanto, effettuato un accertamento pieno del
rapporto nel senso sopra indicato. L’illegittimità degli atti impugnati è stata, infatti, come
detto, dichiarata per la presenza di un vizio formale senza che il sindacato giudiziale abbia
coinvolto l’assetto sostanziale degli interessi verificando la presenza di preclusioni alla
successiva modificazione della realtà materiale e dunque al riesercizio del potere. Non si è,
dunque, realizzato in capo ai terzi ricorrenti alcun affidamento alla stabilità della situazione
fattuale oggetto del sindacato giurisdizionale.
6.2.– Chiarito ciò, occorre adesso passare a valutare il contenuto precettivo delle nuove
disposizioni.
L’art. 35, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 ha
modificato il riportato art. 5-bis, prevedendo che si può procedere alla riconversione anche in
deroga alle leggi statali e regionali «che condizionano o limitino la suddetta riconversione,
obbligando alla comparazione, sotto il profilo dell’impatto ambientale, fra combustibili diversi
o imponendo specifici vincoli all’utilizzo dei combustibili», purché si garantisca sempre
l’«abbattimento delle emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi
impianti di combustione di cui alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». Nell’ultima si afferma che «la presente disposizione
si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto».
La legge della Regione Veneto 5 agosto 2011, n. 14 (Modifiche all’articolo 30 della legge
regionale 8 settembre 1997, n. 36 «Norme per l’istituzione del Parco regionale del delta del
Po») ha aggiunto all’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 36 del 1997 la lettera a-bis, la
quale prevede che «nel caso di impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio
combustibile di potenza superiore a 300 MW termici già esistenti alla data di entrata in vigore
della legge istitutiva del Parco regionale delta del Po, per i quali sia stata richiesta o venga
richiesta la conversione a carbone o altro combustibile solido ai sensi della normativa statale,
la conversione deve assicurare l’abbattimento delle emissioni di almeno il cinquanta per cento
rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione» di cui al d.lgs. n. 152 del 2006.
La norma ha specificato che quando ricorrono questi presupposti «non trovano applicazione le
disposizioni di cui alla lettera a» dello stesso comma 1 dell’art. 30 della legge n. 36 del 1997, il
quale, come già sottolineato, disponeva che, nell’ambito dell’intero territorio dei comuni
interessati dal Parco del Delta del Po, gli impianti di produzione di energia elettrica «dovranno
essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto
ambientale».
In definitiva, alla luce della normativa statale e regionale sopra riportata non è necessario –
contrariamente a quanto affermato dalle parti resistenti – effettuare la valutazione
comparativa circa il pari o minore impatto ambientale nella fase di riconversione dei predetti
impianti.
Tale normativa non persegue lo scopo di interferire, in contrasto con la Costituzione,
nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
La stessa, infatti, non ha un contenuto provvedimentale ponendo una regola giuridica che si
sovrappone alla regola giudiziale. Né persegue un fine di sanatoria. Il legislatore, infatti, non è
intervenuto sul tratto della vicenda amministrativa oggetto di sindacato giurisdizionale
ritenendo, senza modificare la legge attributiva del potere, che gli atti impugnati non
necessitano di motivazione e pertanto devono ritenersi legittimi. La nuova normativa pone
regole generali e astratte di disciplina della riconversione delle centrali termoelettriche non
limitando l’intervento ad un singolo caso ma a tutti quelli, attuali o futuri, rientranti nel suo
ambito applicativo. Le leggi sopravvenute, del resto, regolano la vicenda in esame non in virtù
della loro valenza retroattiva ma in quanto vigenti al momento di avvio del nuovo
procedimento amministrativo.
Quanto esposto è confermato dall’analisi dei lavori preparatori, in particolare, del decretolegge n. 98 del 2011 da cui risulta che la modifica sia stata introdotta per evitare che
disposizioni di leggi regionali possano prevedere come «vincolo per la riconversione anche
quello di una previa comparazione in termini di impatto ambientale tra diverse
modalità/combustibili di alimentazione». In altri termini, si chiarisce che la regola generale
deve essere quella che consente la riconversione degli impianti alimentanti ad olio
combustibile senza necessità di adempiere ad «obblighi di comparazione, sotto il profilo
dell’impatto ambientale, tra combustibili diversi» (scheda di lettura, Camera dei deputati, n.
522/1, parte II, 7 ottobre 2011; in data 25 febbraio 2012 è stata presentata una proposta di
legge di iniziativa parlamentare, assegnata alle commissioni riunite 8° e 10° in sede referente il
14 maggio 2012; tale proposta prevede la modifica del vigente art. 5-bis del decreto-legge n. 5
del 2009, mediante una previsione che consentirebbe, tra l’altro, la riconversione di impianti
di produzione di energia elettrica in esercizio purché vengano rispettati, «su base regionale»,
gli obiettivi «di riduzione del 20 per cento delle emissioni di sostanze produttive di alterazioni
del clima rispetto alle emissioni del 1990»).
7.– Alla luce di quanto sin qui esposto, rispondendo al quesito posto, deve ritenersi che – in
ragione della natura del giudicato e del contenuto delle leggi successive – si sia realizzata una
legittima successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico.
L’amministrazione statale competente, nel porre in essere gli atti del nuovo procedimento
amministrativo volto alla verifica della compatibilità ambientale della centrale termoelettrica,
dovrà, pertanto, applicare la nuova normativa statale e regionale, salvo il potere, ove ne
ricorrano i presupposti, di fare propri gli accertamenti già svolti e non intaccati dalle diverse
regole giuridiche introdotte.
8.– L’analisi sin qui effettuata ha valutato soltanto gli aspetti relativi all’applicabilità, sul piano
procedimentale, dello ius superveniens.
Si tratta adesso di prendere in esame i rilievi svolti dalle parti appellate con cui si assume, in
particolare, che tale normativa sarebbe, sul piano sostanziale, irrilevante in quanto in
contrasto con normativa comunitaria e, in particolare, con la direttiva 85/337/CEE del 27
giugno 1985, la quale imporrebbe che la valutazione delle possibili alternative di progetto
costituisca una dei contenuti necessari della procedura di valutazione di impatto ambientale.
Qualora non si condividesse questo aspetto, si aggiunge, sarebbe necessario disporre il rinvio
alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
8.1.– Tali rilievi non possono essere esaminati in questa sede.
La collocazione sistematica e la finalità perseguita dall’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm.
segnano il perimetro di operatività dello stesso: non si possono fornire chiarimenti in ordine a
modalità di azione che non siano di esecuzione del giudicato.
Occorre, pertanto, stabilire se quanto richiesto dalle parti resistenti esuli dall’ambito del
giudizio di ottemperanza.
Nei casi in cui il giudicato accerta pienamente il rapporto l’attività successiva posta in essere
dall’amministrazione è oggetto di sindacato da parte del solo giudice dell’ottemperanza.
Nei casi, invece, in cui – ed è quanto accade nella specie – il giudicato non accerta pienamente
il rapporto l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato nel
giudizio di ottemperanza soltanto se la stessa si colloca in un ambito coperto dal giudicato
stesso. L’attività è, invece, oggetto di sindacato nel giudizio di cognizione qualora la stessa
occupi un ambito lasciato libero dal giudicato e disciplinato dalla legge, anche sopravvenuta,
che diventa il parametro per valutare la sua eventuale illegittimità (si veda Cons. Stato, sez. VI,
ordinanza 5 aprile 2012, n. 2024).
Ne consegue che, una volta rilevato che l’amministrazione statale, per l’aspetto relativo alla
valutazione comparativa di impatto ambientale, è tenuta ad applicare la normativa
sopravvenuta il potere conseguentemente esercitato sarà posto in essere non in attuazione del
giudicato ma delle nuovi leggi. L’eventuale sindacato giurisdizionale spetterà, pertanto, al
giudice della cognizione che dovrà valutare anche la conformità sostanziale di tali leggi alla
normativa europea evocata.
Qualora questo giudice svolgesse valutazioni inerenti a questo aspetto violerebbe i limiti posti
alla sua giurisdizione incorrendo in un eccesso di potere giurisdizionale e incidendo sul diritto
delle parti al rispetto del principio del doppio grado di giurisdizione.
Quanto sin qui esposto rende, altresì, priva di rilevanza la richiesta di rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia.
8.2.– E’ bene, infine, rilevare come, allo stesso modo, esulano dall’ambito del presente
giudizio, come delimitato dal ricorso introduttivo, anche le altre questioni, indicate in dettaglio
nella parte in fatto, relative alla persistenza dell’interesse dell’Enel alla rinnovazione del
procedimento, nonché alle modalità di valutazione del materiale istruttorio allegato alla diffida
che le parti interessate hanno notificato alle ricorrenti.
10.– La particolare natura della questione giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle
spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando
sull’appello, come in epigrafe proposto:
a) fornisce, ai sensi dell’art. 112, quinto comma, cod. proc. amm., i chiarimenti indicati nella
parte motiva;
b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2012 con l'intervento dei
magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 19/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 25 ottobre 2012 n. 5469 - Pres.
Giovannini, Est. De Nictolis - Autorità per l’energia elettrica e il gas (Avv.ra Stato) c. Bg Italia
Power s.p.a. (Avv.ti Capria e Lirosi) e Sarlux s.r.l. (n.c.) e Termica Celano s.p.a. (Avv.ti Molè e
Bruti Liberati) e Edison s.p.a. (Avv.ti Travi e Lorenzoni) e Gestore dei Servizi Energetici s.p.a.,
Termica Cologno s.r.l., Termica Milazzo s.r.l., Jesi Energia s.p.a. (n.c.) - (dichiara il ricorso
inammissibile).
1. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Diviso in "fatto" e in
"diritto" - Motivi di censura - Devono essere contenuti nella parte "in diritto" Inclusione di essi nella parte "in fatto" - Inammissibilità.
2. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Ex art. 112 , comma 5°,
c.p.a. - Tendente ad ottenere chiarimenti in ordine alle modalità
dell’ottemperanza di una sentenza del Consiglio di Stato - Nel caso in cui con il
ricorso venga sottoposto al G.A. un quesito generale sulla estensione soggettiva
degli effetti del giudicato - Inammissibilità - Ragioni.
1. Nel caso in cui il ricorso giurisdizionale venga diviso in "fatto" e "diritto", i
motivi di censura debbono essere contenuti nella parte in diritto e sono per
l’effetto da ritenere inammissibili i motivi intrusi, contenuti invece nella parte in
"fatto" (1).
2. E’ inammissibile un ricorso ex art. 112 comma 5°, c.p.a., tendente ad ottenere
chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza del giudicato costituito da
una sentenza del Consiglio di Stato, nel caso in cui, con il medesimo ricorso, non
sia stato sollecitato il potere del G.A. di "interpretazione autentica" del giudicato,
bensì un potere di mera consulenza nei confronti delle parti, ovvero siano state
sottoposte al giudice dell’ottemperanza non già questioni specifiche di
interpretazione del singolo giudicato, bensì questioni di carattere generale
sull’esecuzione di un qualsivoglia giudicato.
----------------------------(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 giugno 2010 n. 4016.
Ha osservato la Sez. VI con la sentenza in rassegna che il principio affermato è stato
recentemente codificato dal secondo d.lgs. correttivo del cod. proc. amm., in sede di novella
dell’art. 40 cod. proc. amm.
N. 05469/2012REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4678 del 2012, proposto dall’Autorità per l’energia
elettrica e il gas, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in
Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro
Bg Italia Power s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Antonella Capria, Antonio Lirosi, con
domicilio eletto presso studio Gianni, Origoni & Partners, in Roma, via Quattro Fontane, n. 20;
Sarlux s.r.l.;
nei confronti di
Termica Celano s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Marcello Molè, Eugenio Bruti Liberati,
con domicilio eletto presso Marcello Molè in Roma, via Nicolò Porpora, n. 16;
Edison s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Aldo Travi, Fabio Lorenzoni, con domicilio
eletto presso Fabio Lorenzoni in Roma, via del Viminale, n. 43;
Gestore dei Servizi Energetici s.p.a., Termica Cologno s.r.l., Termica Milazzo s.r.l., Jesi Energia
s.p.a.;
per ottenere chiarimenti per l’ottemperanza
della sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 6026/2011, resa tra le parti, concernente
aggiornamento prezzo medio combustibile convenzionale
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Bg Italia Power s.p.a., Termica Celano s.p.a., Edison
s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2012 il Cons. Rosanna De Nictolis e
uditi per le parti l’avvocato dello Stato Sica, gli avvocati Capria, Lirosi, Bruti Liberati, Travi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con il ricorso in epigrafe l’AEEG agisce ai sensi dell’art. 112, comma 5, c.p.a. al fine di
ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza della sentenza del Consiglio di
Stato resa dalla sez. VI, 15 novembre 2011 n. 6026, che ha accolto in parte l’appello annullando
la delibera dell’AEEG n. 154/2008.
Da pag. a 3 a pag. 26 il ricorso reca il "fatto", mentre i motivi sono concentrati nella parte
intitolata "diritto" da pag. 27 a pag. 49.
Le prime due richieste di chiarimento attengono al capo di sentenza di cui ai parr. 9.5. e 9.6. in
cui si afferma, testualmente:
"Si deve infatti ritenere che il criterio del costo evitato di carburante, letto alla luce dell’art. 2,
comma 141, l. n. 244/2007, a tenore del quale l’AEEG deve determinare il valore medio del
prezzo del metano ai fini dell’aggiornamento del CEC tenendo conto dell’effettiva struttura
dei costi nel mercato del gas naturale, implichi che:
a) occorre stabilire qual è il mercato del gas naturale rilevante;
b) occorre tener conto della struttura effettiva dei costi di approvvigionamento per un
operatore economico virtuoso.
In relazione al punto a), il mercato rilevante va identificato con il mercato in cui si
incontrano la domanda di gas naturale da parte delle centrali termoelettriche e l’offerta di
gas naturale da parte dei relativi produttori-distributori;
In relazione al punto b):
1) occorre tener conto dell’effettiva struttura dei costi che incontra una centrale
termoelettrica per approvvigionarsi di gas naturale;
2) occorre avere riguardo non ad una qualsivoglia centrale termoelettrica, ma ad un modello
di operatore virtuoso, come riconosciuto dalla stessa appellante, che agisce in modo da
conseguire il più conveniente prezzo del gas naturale;
3) il criterio dell’operatore virtuoso risponde ad elementari esigenze di evitare manovre
speculative e di incoraggiare l’efficienza economica, evitando che il rimborso del CEC si
traduca in una rendita speculativa o in un finanziamento a perdere in favore di operatori
inefficienti;
4) occorre pertanto che siano stabiliti parametri oggettivi e ragionevoli volti a stabilire quale
sarebbe il costo di carburante che incontrerebbe il Gestore dei servizi elettrici se si
approvvigionasse direttamente seguendo il modello dell’operatore virtuoso, e dunque quale è
il CEC.
9.6. Sulla base di tali premesse, si deve ritenere che essendo il mercato rilevante quello del
gas naturale fornito alle centrali termoelettriche, l’AEEG doveva individuare il costo medio
del gas naturale su tale mercato e tanto poteva e doveva fare prendendo in considerazione
anzitutto tutti i contratti di fornitura del gas naturale alle centrali termoelettriche.
Tali contratti sono, normativamente, nella sua disponibilità, ed è dall’insieme di tali
contratti, secondo un criterio di media, che si desume la struttura effettiva dei costi sul
mercato rilevante.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Tar, non si tratta di considerare i singoli contratti dei
singoli operatori, che possono essere effettivamente legati a circostanze contingenti e a
diversi rapporti di forza contrattuale, ma di considerare tutti i contratti del relativo mercato.
Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali contratti costituisce per l’AEEG l’unico
criterio.
Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale,
sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui
fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili.
Si tratta, comunque, di valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non
competono al giudice amministrativo.
In questa sede va solo stigmatizzata la mancata utilizzazione di elementi di fatto essenziali
per la determinazione del prezzo di mercato, vale a dire i contratti che tale mercato
concorrono a costituire".
2. Le prime due richieste di chiarimenti attengono all’affermazione della sentenza secondo cui
"Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali contratti costituisce per l’AEEG l’unico
criterio.
Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale,
sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui
fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili".
L’AEEG chiede:
"see in che misura possa risultare conforme al diritto dell’Unione europea (e segnatamente
alla direttiva 2009/73/CE, con particolare riferimento all’art. 37, che richiama l’art. 18 della
precedente direttiva 1998/30/CE) come interpretato dalla Corte di giustizia e dalla
Commissione europea, l’imposizione di correttivi volti ad incidere sui fornitori del gas
naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili da applicarsi ai soggetti che
forniscono gas ai clienti industriali termoelettrici chiarendo altresì sulla base di quale
principio o previsione normativa o altra base giuridica – e di conseguenza entro quali limiti
– tale potere potrebbe essere correttamente esercitato dall’Autorità intestata
nell’ordinamento interno e nell’osservanza dell’ordinamento sovranazionale".
2.1. Il secondo quesito è subordinato al primo e attiene al corretto dispiegarsi temporale
dell’imposizione per l’anno 2008 dei suddetti correttivi.
2.2. Il terzo quesito attiene all’ambito soggettivo del giudicato e in particolare se esso riguardi:
a) la sola ricorrente BGI; b) tutti e solo i beneficiari del regime di cui al provvedimento Cip-6
che producono energia elettrica tramite la combustione del gas e che per l’anno 2008 hanno
effettivamente sostenuto la presunta maggiore spesa per l’acquisto del gas (27 centrali su 336);
c) tutti i produttori Cip-6 compresi i 309 impianti che non utilizzano gas per produrre l’energia
elettrica.
2.3. Le controparti costituite e/o intervenienti hanno eccepito la inammissibilità del ricorso e
comunque la sua infondatezza.
3. Il ricorso è inammissibile, sia nella sua parte in fatto, sia nella sua parte in diritto.
3.1. Quanto alla parte in "fatto" del ricorso, la giurisprudenza di questo Consesso ha già
chiarito che se il ricorso viene diviso in "fatto" e "diritto" i motivi di censura devono essere
contenuti nella parte in diritto, e sono per l’effetto inammissibili i motivi intrusi, contenuti
invece nella parte in fatto "(Cons. St., sez. VI, 24 giugno 2010 n. 4016).
Tale principio è stato in prosieguo codificato dal secondo d.lgs. correttivo del cod. proc. amm.
in sede di novella dell’art. 40 cod. proc. amm.
Nel caso di specie non può pertanto essere esaminata la parte in fatto del ricorso, da pag. 3 a
pag. 26, che peraltro non sottopone al Collegio questioni di interpretazione del giudicato, ma
lagnanze e critiche contro il giudicato.
4. Quanto ai primi due quesiti interpretativi contenuti nella parte in diritto, essi sono
inammissibili perché esulano dalla portata dei chiarimenti inerenti le modalità di
ottemperanza.
4.1 I quesiti interpretativi da sottoporre al giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 112
comma 5 c.p.a. devono attenere alle modalità dell’ottemperanza, e devono pertanto avere i
requisiti della concretezza e della rilevanza. Non si possono sottoporre al giudice
dell’ottemperanza questioni astratte di interpretazione del giudicato, ma questioni specifiche
che siano effettivamente insorte durante la fase dell’esecuzione del giudicato.
Tale esegesi dell’art. 112 comma 5 discende dai principi generali da un lato in tema di interesse
ad agire, dall’altro lato in tema di divisione dei poteri tra giudice e pubblica amministrazione.
Sotto il primo profilo, atteso che l’interesse ad agire deve essere concreto e attuale, a
sorreggere il ricorso dell’art. 112, comma 5, c.p.a. deve esserci un interesse concreto e attuale a
ottenere il chiarimento.
Sotto il secondo profilo, essendo l’ottemperanza in primis una forma di esercizio del potere
pubblico amministrativo, essa compete, in primis, alla pubblica amministrazione, specie se il
giudicato, come nella specie, lasci a quest’ultima "spazi in bianco".
Il potere "di merito" del giudice amministrativo, di sostituirsi all’amministrazione, subentra
solo in caso di acclarata inottemperanza dell’amministrazione stessa, laddove l’ordinamento
preclude al giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora
esercitati (art. 34, comma 2, c.p.a.). Sicché, l’amministrazione non può ex ante rinunciare
all’esercizio del potere-dovere di ottemperanza, chiedendo al giudice di sostituirsi ad essa.
4.2. Nel caso specifico difettano i requisiti della concretezza e della rilevanza dei quesiti.
Invero, se da un lato il giudicato ha affermato un principio in diritto, quello di determinazione
del CEC sulla base dei costi di mercato, da desumersi dal mercato del gas naturale fornito alle
centrali termoelettriche, dall’altro lato ha espressamente lasciato ampia discrezionalità
all’AEEG quanto alle modalità concrete dell’ottemperanza, affermando che si tratta "di
valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non competono al giudice
amministrativo". Il giudicato si è limitato a fornire criteri meramente esemplificativi, e il
criterio oggetto del quesito interpretativo appare chiaramente come un criterio estremo e
affatto residuale, ancorato a precisi presupposti di fatto, e rimesso comunque alla valutazione
discrezionale dell’AEEG.
Infatti il giudicato afferma testualmente "Non necessariamente il prezzo medio desunto da tali
contratti costituisce per l’AEEG l’unico criterio.
Infatti ove l’esame dei contratti porti a ritenere che il prezzo appare iniquo, irreale,
sbilanciato, l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi volti ad incidere sui
fornitori del gas naturale in termini di imposizione di prezzi massimi praticabili".
Sicché il criterio base è quello del prezzo medio contrattuale, e solo ove esso risulti "iniquo,
irreale, sbilanciato" (evenienza che dovrebbe risultare del tutto eccezionale e che comunque
deve essere dimostrata) l’AEEG dovrebbe valutare l’introduzione di correttivi, rimessi al suo
apprezzamento discrezionale, come si evince dalla frase subito successiva "Si tratta, comunque,
di valutazioni rimesse alla sfera discrezionale dell’AEEG e che non competono al giudice
amministrativo".
Nel caso di specie non risulta dimostrata e neppure dedotta la rilevanza del quesito
interpretativo, atteso che non risulta che l’Autorità abbia avviato l’ottemperanza mediante
l’analisi dei contratti, che abbia determinato il prezzo medio, e che tale prezzo sia risultato
iniquo, irreale o sbilanciato.
Sebbene il ricorso per chiarimenti sia stato presentato a distanza di oltre sette mesi dalla
pubblicazione della sentenza da ottemperare, l’Autorità non ha indicato se e in che modo si sia
attivata per dare esecuzione al giudicato, e in particolare non ha riferito di aver acquisito i
contratti di fornitura del gas e averne desunto il costo medio, sì da poter pervenire alla
conclusione di trovarsi di fronte ad un prezzo iniquo, irreale, sbilanciato.
Resta fermo, poi, che il giudicato, laddove rimette l’introduzione di correttivi al potere
discrezionale dell’AEEG, ne esclude per ciò solo la doverosità atteso che il criterio è meramente
esemplificativo, e ovviamente non impone all’AEEG di agire contra legem, ma solo nei limiti
dei propri poteri.
5. Quanto al terzo quesito, relativo all’ambito soggettivo del giudicato, lo stesso è
inammissibile perché l’art. 112, comma 5, c.p.a. configura un potere di "interpretazione
autentica" del giudicato, in capo al giudice amministrativo, ma non un potere di consulenza nei
confronti delle parti, e segnatamente nei confronti della parte pubblica.
Questo, in ossequio ai principi di parità delle parti e di divisione tra il potere giudiziario e il
potere amministrativo.
Il giudice dell’ottemperanza può intervenire solo in caso di dedotta inottemperanza della p.a.,
ovvero per interpretare il giudicato al fine di rendere più celere l’ottemperanza, ma pur sempre
nei limiti del principio della domanda e di una controversia in atto o quanto meno potenziale
tra le parti del giudicato.
Pertanto, con il rimedio citato, possono essere sottoposte al giudice dell’ottemperanza
questioni specifiche di interpretazione del singolo giudicato, e non questioni di carattere
generale sull’esecuzione di un qualsivoglia giudicato.
Nel caso di specie non viene sottoposto un quesito di interpretazione del giudicato (che è stato
reso tra parti ben specifiche e che pertanto vale tra le parti), ma un quesito generale sulla
estensione soggettiva degli effetti del giudicato, che esula dalla sua interpretazione, e attiene
all’esercizio dei poteri amministrativi di estensione soggettiva degli effetti del giudicato.
Difetta pertanto sia il presupposto dell’inottemperanza, sia il presupposto di una lite anche
solo potenziale tra le parti del giudicato, disputandosi di estendere il giudicato a parti ad esso
estranee, il che postulerebbe quanto meno una istanza delle parti terze.
La questione va pertanto rivolta, se del caso, all’Avvocatura dello Stato quale naturale
consulente della parte pubblica.
4. In conclusione il ricorso è inammissibile.
La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul
ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2012 con l'intervento dei
magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Rosanna De Nictolis, Consigliere, Estensore
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
Silvia La Guardia, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 25/10/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 9 novembre 2011 n.
23302 - Pres. ff. Vittoria, Rel. Rordorf - Consiglio Superiore della Magistratura (Avv.
Vaccarella) c. P.G. (Avv. Luciani), S.A. (Avv. Sanino), C.C.R. e Ministero della Giustizia (n.c.) (accoglie il terzo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri; cassa la sentenza del Cons.
Stato, 27 novembre 2010 n. 8252).
Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - In materia di una
procedura concorsuale non più ormai ripetibile - Poteri del giudice
dell’ottemperanza - Limiti - Individuazione.
Una sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su di un ricorso per
l'ottemperanza ad un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del
conferimento di pubbliche funzioni, a seguito di una procedura concorsuale non
più ormai ripetibile, ordina alla competente Amministrazione di provvedere
ugualmente a rinnovare il procedimento ("ora per allora"), al solo fine di
determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal
ricorrente in altra sede e nei confronti di altra Amministrazione, eccede i limiti
entro i quali è consentito al Giudice amministrativo l'esercizio della speciale
giurisdizione di ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di
Cassazione in punto di giurisdizione (1).
----------------------------------------(1) In applicazione del principio nella specie le S.U. della Cassazione hanno cassato la sentenza
del Cons. Stato, 27 novembre 2010 n. 8252, relativa all’esecuzione di un giudicato formatosi su
di una sentenza in materia di procedura concorsuale per l'incarico di Procuratore generale
aggiunto presso la Corte di Cassazione.
Hanno osservato in particolare le Sez. Unite che non è possibile ricostruire, in sede di
ottemperanza, un procedimento concorsuale "ora per allora", al solo ipotetico fine del
riconoscimento di un determinato trattamento di quiescenza del candidato che risulti
vincitore.
Tale operazione, infatti, sposta radicalmente l'asse tanto dell'azione amministrativa quanto
della tutela giurisdizionale ad essa relativa, perchè un procedimento siffatto non potrebbe
evidentemente in alcun modo condurre all'effettivo conferimento dell'incarico di cui in
precedenza si era discusso e che aveva costituito la ragione prima dell'atto amministrativo
annullato.
Nè le conseguenze del giudicato di annullamento, in termini di ottemperanza, quando non si
tratti soltanto di ricostruire la carriera di un pubblico dipendente facendo retroagire a
determinati fini gli effetti di un atto che lo riguardi, bensì di ipotizzare il compimento ad opera
dell'amministrazione di attività che non hanno più rispondenza nello scopo di pubblico
interesse che è loro proprio, possono spingersi sino a tal segno, sino, cioè, ad implicare la
necessità di svolgere un concorso virtuale, ormai sganciato dalla finalità del conferimento
dell'incarico pubblico ed ipoteticamente destinato solo ad assicurare al vincitore un miglior
trattamento di quiescenza.
Ciò trasformerebbe l'oggetto medesimo del giudizio di ottemperanza, indirizzato così ad un
accertamento destinato a riflettersi su un diverso rapporto (in ipotesi, quello previdenziale), e
ne determinerebbe il sostanziale snaturamento, dovendo esso invece essere prioritariamente
preordinato alla realizzazione della causa tipica del provvedimento amministrativo cui la
pubblica amministrazione sia vincolata dal precedente giudicato - o tutt'al più al risarcimento
del danno, previsto dell'art. 112 cod. proc. Amm. Commi 4 e 5 (domanda che non è stata però
proposta nel presente caso) - e non ridursi allo scopo di porre le premesse perché il ricorrente
possa eventualmente conseguire le utilità economiche connesse ad un superiore (ma affatto
virtuale, perché ormai non più effettivamente conseguibile) inquadramento in organico.
ESPOSIZIONE DEL FATTO
Con Delib. 18 ottobre 2007 il Consiglio superiore della Magistratura conferì al dott. P.G.
l'incarico di Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione. I dottori S.A., R.C. C.
e V. E., i quali avevano concorso per il conferimento del medesimo incarico, ricorsero al
Tribunale amministrativo regionale del Lazio ed, a seguito di decisione ad essi sfavorevole,
proposero appello al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, con sentenza del 1 luglio 2008, n. 3513, accolse gli appelli ed annullò la
citata deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura, poichè la ritenne viziata da un
eccesso di potere, evidenziato dall'illogicità del giudizio di comparazione tra i candidati. Stabilì
perciò che il medesimo Consiglio superiore provvedesse a rinnovare il procedimento
valutativo, con esito libero, condizionato solo dalle prescrizioni conformative contenute nel
giudicato.
Il Consiglio superiore della Magistratura, dopo un'ulteriore comparazione tra gli aspiranti, il 5
febbraio 2009 adottò una nuova deliberazione conferendo ancora al dott. P. l'incarico di
Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione.
I dottori S. e C. (non anche il dott. E., nel frattempo nominato Procuratore Generale presso la
stessa Corte di Cassazione) proposero ricorsi per ottemperanza al Consiglio di Stato, che li
accolse, con sentenza del 31 dicembre 2009, n. 9296, reputando che la nuova deliberazione
fosse elusiva del giudicato derivante dall'annullamento della precedente.
Il Consiglio superiore della Magistratura procedette allora ad assumere una terza
deliberazione, in data 11 febbraio 2010, nella quale reiterò il giudizio di prevalenza del dott. P.
rispetto agli altri aspiranti. Il dott. C. propose ancora un ricorso per ottemperanza e il dott. S.
intervenne nel giudizio, che si concluse con la sentenza del Consiglio di Stato del 6 luglio 2010,
n. 4326, la quale, essendo stata adottata la delibera impugnata in assenza di un valido concerto
da parte del Ministro della giustizia, dispose la nomina di un commissario ad acta per il caso di
ulteriore inadempimento.
Il 15 settembre 2010 il Consiglio superiore della Magistratura, acquisito il nuovo concerto
ministeriale, adottò una deliberazione sostitutiva della precedente, riformulando il giudizio
comparativo con esito ancora favorevole al dott. P..
Il dott. S. propose un ulteriore ricorso per ottemperanza, chiedendo la declaratoria di nullità
della deliberazione da ultimo menzionata, a norma della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies,
comma 2. Il ricorso fu accolto, con la sentenza del 27 novembre 2010, n. 8252, del Consiglio di
Stato, che, avendo nuovamente ravvisato gli estremi dell'elusione del giudicato, ordinò al
Consiglio superiore della Magistratura di prestare esatta ottemperanza a quanto statuito dalla
precedente sentenza n. 3513 del 2008, nominò un commissario ad acta ed, in caso di mancato
rispetto dei termini a quest'ultimo assegnati, si riservò di provvedere direttamente all'adozione
dei necessari provvedimenti.
La predetta sentenza del Consiglio di Stato è stata impugnata dinanzi alle sezioni unite della
Corte di cassazione dal Consiglio superiore della Magistratura, per tre motivi nei quali si
denuncia il superamento da parte del giudice amministrativo dei limiti esterni della propria
giurisdizione. A seguito di ciò, con ordinanza depositata l'11 maggio 2011, il Consiglio di Stato
ha sospeso l'esecuzione della sentenza impugnata.
Il dott. P. ha depositato un controricorso di contenuto adesivo. Una posizione antagonista è
stata invece assunta dall'altro controricorrente, dott. S., mentre nessuna difesa hanno svolto in
questa sede il dott. C. ed il Ministro della Giustizia.
Tanto il ricorrente quanto i controricorrenti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Come si è già accennato, il ricorso consta di tre motivi.
1.1. Nel primo si deduce la violazione dei limiti esterni della giurisdizione con riferimento
all'art. 24 Cost., all'art. 103 Cost. e all'art. 111 Cost., comma 1. A parere del Consiglio superiore,
il giudice amministrativo, utilizzando indebitamente ex post lo strumento dell'interpretazione
del giudicato come parametro della legittimità ovvero dell'elusività del provvedimento
consiliare, si è arrogato la facoltà di scegliere il tipo di potere giurisdizionale da esercitare in
concreto, ed ha optato per quello a cognizione sommaria, proprio della giurisdizione di
ottemperanza, senza che ne ricorressero davvero i presupposti, come il confronto tra le
motivazioni poste a base del primo provvedimento annullato e di quelli adottati
successivamente dall'organo di autogoverno della magistratura varrebbe a dimostrare. Donde
la violazione dei limiti tassativi entro i quali al Consiglio di Stato è consentito esercitare una
giurisdizione di merito, in luogo dell'ordinario sindacato di legittimità articolato in due gradi di
giudizio, oltre che del principio dettato dall'art. 111 Cost., comma 1, a tenore del quale la
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
1.2. L'addebito mosso alla sentenza impugnata nel secondo motivo di ricorso è di avere invaso
il merito delle prerogative riservate al Consiglio superiore della Magistratura dalla Costituzione
e dalla legge. Il ricorrente sostiene che il Consiglio di Stato avrebbe attribuito alla propria
precedente sentenza n. 3513 del 2008 - la quale non aveva affatto affermato che il dott. P. non
avrebbe potuto vincere il concorso, ma si era limitata a riscontrare vizi motivazionali che
rendevano necessaria una nuova valutazione comparativa - una portata diversa e ben più
ampia di quella effettiva, quasi che l'esito del concorso fosse ormai predeterminato.
L'ingiustificata dilatazione del concetto di elusione del giudicato avrebbe perciò condotto il
giudice amministrativo a sostituire indebitamente il proprio giudizio a quello dell'organo di
autogoverno dei magistrati.
1.3. L'ultimo motivo di ricorso, nel denunciare un eccesso di potere giurisdizionale ad opera del
Consiglio di Stato, lamenta in particolare la violazione dell'art. 105 Cost., dipendente dal fatto
che, quando l'impugnata sentenza di ottemperanza è stata pronunciata, tutti i magistrati che
avevano partecipato al contestato concorso per il conferimento dell'incarico di Procuratore
generale aggiunto presso la Corte di cassazione avevano ormai cessato di appartenere
all'ordine giudiziario per sopraggiunti limiti d'età.
Non avrebbe perciò potuto essere ordinata una nuova comparazione, "ora per allora", tra
candidati nessuno dei quali era ormai più in condizioni di ricoprire l'incarico conteso, ed il
provvedimento che si vorrebbe fosse emanato dal Consiglio superiore della Magistratura non
potrebbe produrre gli effetti suoi propri, nè quindi rispondere all'interesse pubblico al quale la
sua emanazione dovrebbe esser preordinata, mirando invece solo a soddisfare l'interesse
privato di un candidato, in relazione alle conseguenze di natura economica dell'incarico non
conseguito; interesse che, però, deve essere fatto valere in sede risarcitoria e la cui tutela è del
tutto estranea al giudizio di ottemperanza.
2. Prima di entrare nel merito delle censure mosse all'impugnata sentenza, occorre farsi carico
di un'eccezione preliminare d'inammissibilità del ricorso, sollevata dalla difesa del dott. S..
E' stato già sopra ricordato che la Delib. Consiglio superiore della Magistratura 15 settembre
2010, la quale ha formato oggetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 8252 del 2010, qui
impugnata, era stata preceduta da altra deliberazione del medesimo organo di autogoverno
della magistratura, in data 11 febbraio 2010, annullata dal Consiglio di Stato con la sentenza n.
4326 del 2010. Il controricorrente dott. S. ora osserva che la sentenza da ultimo menzionata,
oltre a rilevare il difetto del prescritto concerto ministeriale, aveva espressamente affermato
che la citata deliberazione consiliare del febbraio 2010 conteneva le stesse erronee valutazioni
di quelle già in precedenza annullate. Ma detta sentenza n. 4326 non è stata impugnata ed è
passata in giudicato:
il che, per un verso, renderebbe inammissibili le considerazioni critiche che l'attuale ricorso ad
essa riserva e, per altro verso, implicherebbe che anche le censure rivolte alla successiva
sentenza n. 8252 del 2010 sarebbero precluse dal giudicato, attesa la sostanziale identità delle
deliberazioni consiliari esaminate dalle due indicate pronunce.
2.1. L'eccezione, nella misura in cui tende a far dichiarare inammissibile il ricorso per
cassazione nella sua interezza, non appare fondata.
Non v'è dubbio che detto ricorso abbia ad oggetto unicamente l'ultima, in ordine di tempo,
delle sentenze del Consiglio di Stato dianzi ricordate - la sentenza n. 8252 del 2010 - e che tale
decisione è riferita alla Delib. consiliare 15 settembre 2010 (sostitutiva della precedente
deliberazione del febbraio dello stesso anno), avendo ravvisato in essa un'ulteriore elusione del
giudicato formatosi a seguito della decisione n. 3515 del 2008, con cui era stato annullato
l'originario conferimento al dott. P. dell'incarico di cui si discute.
Se, però, può certamente condividersi il rilievo per cui non possono trovare spazio in questa
sede censure rivolte ad una sentenza diversa da quella specificamente qui impugnata,
altrettanto non è a dirsi per le censure che colpiscono direttamente quest'ultima sentenza. La
circostanza che alcuni dei vizi oggi imputati alla sentenza impugnata avrebbero potuto,
eventualmente, essere riscontrati anche nella precedente non comporta preclusione alcuna,
stante comunque la diversità dell'oggetto dei due giudizi che con quelle sentenze si sono
conclusi: che non vien meno per la mera sovrapponibilità (peraltro neppure integrale, come si
desume dal tenore della sentenza impugnata) delle due distinte e successive deliberazioni
consiliari e dei comportamenti dell'amministrazione che in esse si sono estrinsecati, in quanto
l'efficacia oggettiva del giudicato non può mai investire singole questioni di fatto o di diritto se
queste non attengano, in guisa di presupposti o premesse logiche, al medesimo rapporto.
3. Sempre al fine di verificare l'ammissibilità del proposto ricorso, non è superfluo ricordare
che, per giurisprudenza costante, il controllo della Corte di Cassazione sulle pronunce
giurisdizionali del Consiglio di Stato è limitato all'accertamento dell'eventuale sconfinamento
dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte del massimo organo della giustizia
amministrativa, cui non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata
alla pubblica amministrazione attraverso l'esercizio di poteri di cognizione e di decisione non
previsti dalla legge, con conseguente trapasso da una giurisdizione di legittimità a quella di
merito, come può accadere, ad esempio, quando il giudice amministrativo compia atti di
valutazione della mera opportunità dell'atto impugnato, sostituendo propri criteri di
valutazione a quelli discrezionali della pubblica amministrazione, o adotti decisioni finali
interamente sostitutive delle determinazioni spettanti all'amministrazione medesima (si veda
in tal senso, tra le altre, Sez. un. 15 marzo 1999, n. 137). Si è perciò affermato che l'eccesso di
potere giurisdizionale, denunziabile sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito,
ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, è configurabile solo quando l'indagine svolta dal giudice
amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato,
sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e convenienza
dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento,
esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione,
procedendo ad un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia che abbia il
contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli
ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa (cfr., ex aliis, Sez. un., 22 dicembre 2003,
n. 19664).
La speciale giurisdizione di ottemperanza affidata al giudice amministrativo presenta però,
com'è noto, caratteri affatto peculiari, in virtù dei quali l'ingerenza del giudice nel merito
dell'agire della pubblica amministrazione è pienamente ammissibile.
Ed, infatti, al medesimo giudice amministrativo è in tal caso espressamente attribuito un
potere di giurisdizione anche di merito (artt. 7cod. proc. amm., comma 6, e art. 134 cod. proc.
amm.), con possibilità sia di procedere alla "determinazione del contenuto del provvedimento
amministrativo" ed alla "emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione" (art. 114 cod.
proc. Amm., comma 4, lett. a), sia di "sostituirsi all'amministrazione" (art. 7 cod. proc. amm.,
comma 6) nominando, ove occorra, un commissario ad acta (art. 114 cod. proc. amm., comma
4, lett. d). Un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, per invasione della
sfera riservata al potere discrezionale della pubblica amministrazione, non potrebbe perciò
essere certamente ravvisato nel fatto in sè che il giudice dell'ottemperanza, rilevata la
violazione od elusione del giudicato amministrativo, abbia adottato (o ordinato di adottare)
quei provvedimenti che l'amministrazione inadempiente avrebbe dovuto già essa stessa
attuare. Proprio in questo sta infatti la funzione de giudizio di ottemperanza che, in ossequio al
principio dell'effettività della tutela giuridica e per soddisfare pienamente l'interesse
sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali,
incompleti od elusivi del contenuto della decisione del giudice amministrativo (cfr. Sez. un. 19
agosto 2009, n. 18375; e 24 novembre 2009, n. 24673). Nè a ciè è di ostacolo la circostanza che
l'amministrazione cui viene imputata la violazione o delusione del giudicato sia, come nel caso
del Consiglio superiore della Magistratura, un organo di rilevanza costituzionale (si veda Corte
cost. 15 settembre 1995, n. 435).
Ma, se lo sconfinamento nel merito del giudice amministrativo oltre i limiti della sua naturale
giurisdizione di legittimità è sindacabile ad opera della Cassazione, nei termini già dianzi
ricordati, appare del tutto ragionevole dedurne che un analogo sindacato sia esercitabile anche
nel caso in cui, essendo invece un potere di giurisdizione di merito espressamente conferito
dalla legge al medesimo giudice amministrativo, venga addebitato al Consiglio di Stato di avere
ecceduto il limite entro il quale quel potere gli compete: di avere, cioè, esercitato una
giurisdizione di merito in presenza di situazioni che avrebbero potuto dare adito solo alla
normale giurisdizione di legittimità, e quindi all'esercizio di poteri cognitivi e non anche
esecutivi (cfr. Sez. un. 31 ottobre 2008, n. 26302; 19 luglio 2006, n. 16469; e 9 giugno 2006, n.
13431), o che comunque non avrebbero potuto dare ingresso all'anzidetta giurisdizione di
merito. Si ripropone, in siffatti casi, l'identica tematica dell'invasione non consentita, ad opera
del giudice, della sfera di attribuzioni riservata alla pubblica amministrazione; nè, inoltre, il
potere integrativo del giudice dell'ottemperanza può sottrarsi ai limiti esterni della
giurisdizione propria del giudice amministrativo quando la cognizione della questione
controversa, la cui soluzione sia necessaria ai fini della verifica dell'esatto adempimento
dell'amministrazione obbligata, risulti devoluta ad altro giudice in modo che soltanto questi
possa provvedere al riguardo (si vedano Sez. un. 20 novembre 2003, n. 17633; e 19 luglio
2006, n. 16469).
Anche in termini più generali, del resto, queste sezioni unite hanno già avuto occasione in
passato di affermare come debba ormai essere considerata norma sulla giurisdizione non solo
quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella
che da contenuto a quel potere, stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si
estrinseca; con la conseguenza che rientra nello schema logico del sindacato per violazione di
legge per motivi inerenti alla giurisdizione, spettante alla Corte di Cassazione, l'operazione
consistente nell'interpretare la norma attributiva di tutela e nel verificare se il giudice
amministrativo, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8 la abbia correttamente applicata (Sez. un.
23 dicembre 2008, n. 30254).
Naturalmente questo non significa che il sindacato della Suprema corte possa estendersi a
qualsiasi eventuale error in iudicando o in procedendo imputato al giudice amministrativo
nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme che disciplinano il giudizio di
ottemperanza. Per scriminare le fattispecie in cui il sindacato sui limiti di tale giurisdizione è
consentito da quelli in cui esso risulta invece inammissibile, dovendosi aver riguardo al
cosiddetto petitum sostanziale ed all'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio (cfr.,
ex multis, Sez. un., 25 giugno 2010, n. 15323), risulta decisivo stabilire se quel che viene in
questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal
giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione, oppure il fatto stesso
che, in una situazione del genere di quella considerata, un tal potere, con la particolare
estensione che lo caratterizza, a detto giudice non spettava.
Si potrà allora convenire che, quando l'ottemperanza sia stata invocata denunciando
comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai
limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo
nell'individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della
successiva attività dell'amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli
obblighi dal giudicato derivanti. Si tratta, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione
quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla
giurisdizione di ottemperanza. E ciò appunto si verifica - come già detto - ogni qual volta sia
denunciato l'esercizio indebito ad opera del Consiglio di Stato della speciale giurisdizione
d'ottemperanza, con i conseguenti riflessi sul merito amministrativo, in fattispecie suscettibili
invece soltanto di essere trattate dal giudice amministrativo nell'ambito della normale
giurisdizione di legittimità (o eventualmente nell'ambito della sua giurisdizione esclusiva), così
come in qualsiasi altra situazione in cui il giudizio di ottemperanza, estrinsecandosi
nell'emanazione di un ordine di fare (o di non fare) rivolto dal giudice all'amministrazione, si
sia esplicato al di fuori dei casi nei quali un siffatto ordine poteva essere impartito.
3.1. Nel caso di specie il terzo motivo del ricorso - che, come si vedrà, risulta assorbente
rispetto agli altri due e che quindi, per ragioni di economia processuale, conviene esaminare
per primo - investe appunto l'esistenza stessa dei presupposti in presenza dei quali sussiste il
potere del giudice amministrativo di emettere un provvedimento di ottemperanza.
Il sindacato della Suprema corte su tale questione è, dunque, certamente ammissibile.
4. La circostanza che il giudizio di ottemperanza sia stato instaurato quando il ricorrente dott.
S. era già stato collocato a riposo per limiti di età e che la sentenza sia stata poi pronunciata
quando erano usciti definitivamente dall'ordine giudiziario tutti i magistrati che avevano
partecipato al concorso conclusosi con la vittoria del dott. P., sicchè l'incarico a quest'ultimo
assegnato non poteva ormai che essere oggetto di un concorso del tutto nuovo, destinato a
svolgersi tra aspiranti completamente diversi, appare tale da incidere profondamente sulla
portata e sul contenuto effettivo del menzionato giudizio di ottemperanza.
Nell'impugnata sentenza del Consiglio di Stato si sostiene - richiamando alcuni precedenti del
medesimo giudice amministrativo - che il collocamento a riposo dei ricorrente per
ottemperanza non fa venir meno il suo interesse "alla rideterminazione della propria posizione
originaria ai fini giuridici (ora per allora), laddove egli risulti vincitore all'esito del rinnovo
della procedura, con ogni conseguenza in ordine anche al trattamento di quiescenza". Ma la
questione è un'altra: non riguarda l'interesse ad agire, bensì l'oggetto e lo scopo del giudizio di
ottemperanza, e perciò i limiti entro i quali è esercitabile la relativa potestà giurisdizionale del
giudice amministrativo.
Si tratta di stabilire se le surriferite circostanze abbiano fatto venir meno la possibilità stessa
per il Consiglio superiore della Magistratura di dar corso ad una nuova valutazione
comparativa tra i suddetti candidati, difettando perciò, in tale ipotesi, i presupposti stessi per
un giudizio di ottemperanza. La giurisdizione di ottemperanza, infatti, è il mezzo attraverso il
quale deve essere assicurato, grazie all'intervento del giudice, il pieno compimento di
quell'attività che la pubblica amministrazione avrebbe dovuto svolgere conformandosi al
precedente giudicato, ed è intuitivo che essa non possa spingersi sino ad esiti che neppure
all'agire spontaneo della medesima pubblica amministrazione sarebbero più ormai consentiti.
4.1. Occorre a tal riguardo considerare che, come già è stato sottolineato da attenti studiosi
della materia, il giudicato amministrativo non può essere considerato separatamente dalla
fattispecie su cui incide.
Una cosa è il giudicato che tocca vicende chiuse, delle quali cioè l'intervento del giudice è
destinato a segnare la conclusione, altra cosa è la sentenza che, viceversa, riapre una situazione
che il provvedimento annullato aveva inteso definire, dischiudendo nuove prospettive per il
futuro. A questa diversa tipologia di situazioni corrisponde una diversità di effetti del giudicato
amministrativo.
Se si tratta di situazioni orientate al passato, che il provvedimento annullato aveva definito, il
giudicato pone termine alla vicenda; ma se, viceversa, si tratta di situazioni orientate al futuro,
il giudicato accerta fatti e rapporti con riferimento alla data di adozione del provvedimento, e
ciò pone il problema di stabilire se, o fino a qual punto, l'amministrazione debba tener conto di
eventuali nuovi elementi di fatto e di diritto che la sentenza non aveva avuto nè titolo nè modo
per considerare.
Va rimarcato che sovente tali nuovi elementi non incidono sul giudicato in quanto tale, ossia
sulla situazione che la sentenza ha accertato ormai intangibilmente, bensì sugli effetti ulteriori
riferibili al giudicato medesimo e ad esso successivi (effetti che il vincitore vorrebbe trarre dal
giudicato, ma che non ne derivano ex lege). Se la fattispecie si è esaurita, l'assetto dato è
insensibile a qualunque modifica successiva al giudicato, ma se, invece, essa presuppone
ulteriori sviluppi, è ben possibile che un fattore esterno, del tutto indipendente dal giudicato, la
modifichi.
Quando, allora, si predica l'irrilevanza delle sopravvenienze di diritto o di fatto posteriori al
giudicato (a differenza di quelle intervenute nelle more della definizione dei giudizio), che non
possono ormai più incidere sull'assetto degli interessi cui il giudicato medesimo ha posto capo,
e si sottolinea come il decorso del tempo non possa andare a scapito della parte incolpevole,
occorre aggiungere che, ogni qual volta, tuttavia, siano intervenute in seguito circostanze per le
quali non risulti ormai più possibile fare quel che alla data del ricorso per ottemperanza si
sarebbe eventualmente potuto fare, o viceversa, tali circostanze saranno comunque
immancabilmente destinate a riflettersi anche sugli effetti e sulla concreta attuabilità del
precedente giudicato. Anche e proprio per questa ragione, del resto, il legislatore ha ampliato
l'area del possibile risarcimento del danno (che può, all'occorrenza, assumere i connotati del
danno da perdita di chance), espressamente ricollegandolo all'ipotesi della violazione o
dell'elusione del giudicato.
Ne consegue che il giudicato amministrativo formatosi su un provvedimento col quale
l'amministrazione abbia proceduto al conferimento di un incarico pubblico ha l'effetto
d'imporre alla medesima amministrazione di provvedere al rinnovo della relativa procedura,
volta al conferimento di quell'incarico, ma solo se e fino a quando l'incarico sia ancora
conferibile e la procedura sia ancora espletabile. Venuta meno tale condizione, cessa per ciò
stesso non solo l'obbligo, ma la possibilità stessa per l'amministrazione di provvedere in tal
senso, fermo l'eventuale diritto al risarcimento per chi abbia visto indebitamente frustrate le
proprie legittime aspirazioni.
La possibilità di dar corso ad un procedimento concorsuale "ora per allora", al solo ipotetico
fine del riconoscimento di un determinato trattamento di quiescenza del candidato che risulti
vincitore, sposta radicalmente l'asse tanto dell'azione amministrativa quanto della tutela
giurisdizionale ad essa relativa, perchè un procedimento siffatto non potrebbe evidentemente
in alcun modo condurre all'effettivo conferimento dell'incarico di cui in precedenza si era
discusso e che aveva costituito la ragione prima dell'atto amministrativo annullato. Nè le
conseguenze del giudicato di annullamento, in termini di ottemperanza, quando non si tratti
soltanto di ricostruire la carriera di un pubblico dipendente facendo retroagire a determinati
fini gli effetti di un atto che lo riguardi, bensì di ipotizzare il compimento ad opera
dell'amministrazione di attività che non hanno più rispondenza nello scopo di pubblico
interesse che è loro proprio, possono spingersi sino a tal segno:
sino, cioè, ad implicare la necessità di svolgere un concorso virtuale, ormai sganciato dalla
finalità del conferimento dell'incarico pubblico ed ipoteticamente destinato solo ad assicurare
al vincitore un miglior trattamento di quiescenza. Ciò trasformerebbe l'oggetto medesimo del
giudizio di ottemperanza, indirizzato così ad un accertamento destinato a riflettersi su un
diverso rapporto (in ipotesi, quello previdenziale), e ne determinerebbe il sostanziale
snaturamento, dovendo esso invece essere prioritariamente preordinato alla realizzazione della
causa tipica del provvedimento amministrativo cui la pubblica amministrazione sia vincolata
dal precedente giudicato - o tutt'al più al risarcimento del danno, previsto dell'art. 112 cod.
proc. Amm. Commi 4 e 5 (domanda che non è stata però proposta nel presente caso) - e non
ridursi allo scopo di porre le premesse perchè il ricorrente possa eventualmente conseguire le
utilità economiche connesse ad un superiore (ma affatto virtuale, perchè ormai non più
effettivamente conseguibile) inquadramento in organico.
4.2. Nella fattispecie in esame, come s'è visto, non solo quando è stata pronunciata l'impugnata
sentenza del Consiglio di Stato, la contestata procedura concorsuale conclusasi in favore del
dott. P. appariva non più utilmente ripetibile, dovendo ormai necessariamente essere indetto
un nuovo e diverso concorso (come in effetti è accaduto) a causa del sopravvenuto
pensionamento dello stesso dott. P. e di tutti gli altri originari concorrenti a quell'incarico, ma
già al momento della proposizione del ricorso da parte del dott. S. quest'ultimo aveva cessato
di far parte dell'ordine giudiziario per superamento dei limiti di età. Non vi era quindi più
spazio per un provvedimento giurisdizionaie di ottemperanza, volto ad imporre il compimento
di un'attività amministrativa della quale non sussistevano più gli indispensabili presupposti,
potendo invece la tutela del dott. S. esplicarsi nel naturale solco di una pretesa risarcitoria. Nè
la circostanza che il Consiglio superiore della Magistratura, intendendo adeguarsi ad un
precedente del Consiglio di Stato, abbia tuttavia ritenuto di potere emettere un provvedimento
"ora per allora" costituisce, da solo, argomento sufficiente a far dubitare di quanto appena
osservato.
Come si è sopra notato, la formula "ora per allora" esprime una mera fictio iuris, implicando
che, in realtà, l'oggetto della pronuncia non era, nè avrebbe più potuto essere, l'espletamento
di un nuovo concorso volto all'effettivo conferimento dell'incarico di Procuratore generale
presso la Corte di Cassazione, bensì il mero accertamento di una situazione soggettiva
eventualmente azionabile in altra sede dall'interessato. Donde l'esorbitanza del provvedimento
di ottemperanza dai limiti del relativo potere giurisdizionale - esercitato in una situazione che
non lo avrebbe consentito e per finalità ad esso estranee - in quanto volto al conseguimento di
un risultato meramente cognitorio, riferibile ad un eventuale rapporto giuridico da far valere in
un diverso contesto giurisdizionale e dinanzi ad un giudice diverso.
5. Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto.
La sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza ad un
giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni a seguito di
una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, ordina alla competente amministrazione
di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento ("ora per allora"), al solo fine di
determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in
altra sede e nei confronti di altra amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al
giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetto,
pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione in punto di giurisdizione.
6. Alla stregua del principio ora enunciato, il terzo motivo di ricorso risulta meritevole di
accoglimento, con conseguente cassazione dell'impugnata sentenza del Consiglio di Stato,
restando in ciò assorbite le questioni sollevate negli altri due motivi di ricorso.
7. La particolarità della vicenda e l'assenza di precedenti giurisprudenziali in termini
suggeriscono di compensare tra le parti le spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La corte accoglie il terzo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri, cassa l'impugnata
sentenza e compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2011.
Depositata in Cancelleria il 9 novembre 2011.
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 15 gennaio 2013 n. 2 Pres. Coraggio, Est. Botto - Loperfido (Avv.ti Prosperetti e Tomassetti) c. Università degli Studi
di Bari (Avv.ti Prudente e Carbonara) e Favale (Avv.ti Caputi Jambrenghi, Mastroviti e
Sanino) - (riforma T.A.R. Puglia - Bari, Sez. III, n. 1832/2009 e T.A.R. Puglia - Bari, Sez. II, n.
447/2011, dichiarando ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto).
1-2. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Disciplina prevista dal
c.p.a. - Attuale polisemicità del "giudizio" e dell’"azione di ottemperanza" Azioni esperibili mediante il giudizio di ottemperanza - Individuazione.
3. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Ricorso ex art. 112,
comma 5, c.p.a. - Proposto al fine di "ottenere chiarimenti in ordine alle
modalità dell’ottemperanza" - Natura giuridica - Individuazione - Annoverabilità
di esso tra le azioni di ottemperanza - Esclusione - Ragioni.
4. Giustizia amministrativa - Procedimento giurisdizionale - Riunione dei ricorsi,
per ragioni di connessione - Ex art. 70 c.p.a. - Casi in cui può essere disposta Individuazione.
5. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Proposizione
contemporanea di un ricorso ordinario volto all’annullamento degli atti esecutivi
e di un ricorso per ottemperanza per la dichiarazione di nullità degli atti stessi, in
quanto violativi del giudicato - Trattazione congiunta - Necessità.
6-7. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Conversione ex art. 32,
comma 2, c.p.a. - Presupposti e condizioni - Individuazione.
8. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Poteri della P.A. a
seguito di un giudicato - Potere di rivalutazione della situazione - Possibilità Potere di rimettere in discussione i fatti accertati - Impossibilità.
9. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - A seguito del passaggio
in giudicato di una sentenza (riguardante una procedura comparativa per
professori universitari) - Azione con la quale si deduce che la mancata
soddisfazione della pretesa sia imputabile ad una non corretta applicazione del
decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa
- Va qualificata come azione per l’ottemperanza.
1. La disciplina del giudizio di ottemperanza non è sussumibile in una mera
azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse
equiparabile, ma presenta profili affatto diversi, non solo quanto al
"presupposto" (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il
giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della
domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere: a) "l’attuazione" delle sentenze
o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro
giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti e del
giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal
giudice amministrativo "per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza"
(art. 112, comma 2, c.p.a.); b) la condanna "al pagamento di somme a titolo di
rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza"
(art. 112, comma 3); c) il "risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o
comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del
giudicato" (art. 112, comma 3); d) la declaratoria della nullità di eventuali atti
emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4).
2. L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss.
c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, comma 4), porta ad
affermare la attuale polisemicità del "giudizio" e dell’ "azione di ottemperanza",
dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune
meramente esecutive, altre di chiara natura cognitoria, il cui comune
denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza
passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare
concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di
conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite
dell’art. 113 c.p.a., deve essere attualmente considerato come il giudice naturale
della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle
obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio
presupposto.
3. Il ricorso, ex art. 112, comma 5, c.p.a. proposto al fine di "ottenere chiarimenti
in ordine alle modalità dell’ottemperanza", non presenta caratteristiche che
consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di
ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal
legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’"azione di ottemperanza" ad
essere utilizzabile in questi casi - afferma che è "il ricorso" introduttivo del
giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile,
ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di
ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio
di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso
appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica
Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).
4. Nel giudizio amministrativo, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione
(ex art. 70 c.p.a.), può essere disposta in riferimento a cause che attengono al
medesimo tipo di giudizio e sempre che i ricorsi pendano nel medesimo "grado".
Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni
del codice di procedura civile (cui il codice del processo amministrativo effettua
rinvio: art. 39, comma 1, c.p.a.), anche dalle norme dello stesso Codice del
processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di "pluralità
delle domande e conversione delle azioni", prevede che "è sempre possibile nello
stesso giudizio il cumulo di domande connesse".
5. Nel caso in cui, a seguito di una sentenza passata in giudicato, siano stati
proposti due ricorsi (uno, ordinario, diretto all’annullamento degli atti esecutivi
adottati in sede di ottemperanza, e l’altro, per l’esecuzione del giudicato, diretto
ad ottenere la declaratoria di nullità degli atti violativi del giudicato), entrambi i
giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbono essere
trattati in modo unitario, atteso che, in tal caso, ciò che viene richiesto al giudice,
sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti giudizi, è innanzi tutto la
concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato
(precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o
violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta
rilevabili); in tal caso, il giudice stesso non può che essere chiamato ad un esame
complessivo della vicenda (1).
6. L’art. 32, comma 2, primo periodo, c.p.a. (in base al quale "il giudice qualifica
l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali", e la conversione
dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma –
"sussistendone i presupposti"), presuppone che l' azione sia proposta non già
entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, comma 1, cui
rinvia l’art. 31, comma 4, c.p.a.), bensì entro il termine di decadenza previsto
dall’art. 41 c.p.a.: il rispetto del termine decadenziale per la corretta
instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del
giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza
dei "presupposti" (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del
termine decadenziale), effettuato dall’art. 32, comma 2, c.p.a.
7. La conversione dell’azione ex art. 32, comma 2, primo periodo, c.p.a. può
essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo
giudice, per effetto degli artt. 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, comma 4,
lett. b), c.p.a., è competente, in relazione ai provvedimenti emanati
dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di
sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per
violazione o elusione del giudicato, e dunque della più grave delle patologie delle
quali gli atti suddetti possono essere affetti.
8. Anche se non può escludersi in via generale che, in sede di esecuzione del
giudicato, la P.A. possa effettuare una rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame
del giudice, va tuttavia ritenuto che la riedizione del potere debba essere
assoggettata a precisi limiti e vincoli, dato che l’accertamento definitivo del
giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa
del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione
amministrativa. Si deve infatti ritenere - in linea con l’orientamento
interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (2) - che
l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice
amministrativo, non possa rimettere in discussione quanto accertato in sede
giurisdizionale.
9. E’ sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie devolute alla
cognizione del giudice dell’ottemperanza, un ricorso con il quale il ricorrente
dopo il passaggio in giudicato di una sentenza (nella specie riguardante una
procedura comparativa per la copertura di posti di professore universitario), ha
dedotto che la mancata soddisfazione della propria pretesa sia imputabile ad una
non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e
proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante l’utilizzo di nuovi criteri
esulanti dall’alveo procedimentale portato all’esame del giudice. In tal caso è
evidente è il fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova
fondamento e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la
decisione giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa successiva alla
decisione viene prospettata come disallineata rispetto al contenuto del giudicato
formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non in base alla mera
qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi intrinseca della
natura dei vizi dedotti.
------------------------------------(1) Ha osservato la sentenza in rassegna che l’instaurazione di due distinti giudizi – che è
conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento processuale – non elimina
la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice,
insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia
dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame
congiunto e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del
sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di
ottemperanza.
In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le
censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un
giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in
quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice
competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.
Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a
qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente
all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione
amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al
rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato
dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così
la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta
carenza di interesse della seconda domanda.
Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione
dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
(2) Cfr., in questo senso, CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia.
N. 00002/2013REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 18 di A.P. del 2012, proposto da:
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Tomassetti, con domicilio
eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina,19;
contro
Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico
Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5;
Ministero universita' e ricerca;
nei confronti di
Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Vincenzo Caputi Jambrenghi, Fulvio
Mastroviti e Mario Sanino, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180;
sul ricorso numero di registro generale 19 di A.P. del 2012, proposto da:
Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Vincenzo Caputi Jambrenghi e
Fulvio Mastroviti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, viale Parioli, 180;
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Marco Prosperetti e Domenico
Tomassetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 19;
nei confronti di
Università degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e
domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
sul ricorso numero di registro generale 20 di A.P. del 2012, proposto da:
Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico
Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava C/O Uff. Legale Univ.La Sapienza in
Roma, Piazzale Aldo Moro, 5;
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Domenico Tomassetti e Marco
Prosperetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via G. Pierluigi Da Palestrina, 19;
nei confronti di
Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, rappresentato e difeso dall'Avvocatura,
generale dello Stato e domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Stefano Favale;
per la riforma
quanto al ricorso n. 18 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione III n. 1832/2009, resa tra le parti, concernente
PROCEDURA DI VALUTAZIONE COMPARATIVA PER UN POSTO DI PROFESSORE
ORDINARIO - ESEC.GIUD.TAR
quanto ai ricorsi nn. 19-20 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione II n. 447/2011, resa tra le parti, concernente
APPROVAZIONE GRADUATORIA CONCORSO PER LA COPERTURA DI N.1 POSTO DI
PROFESSORE ORDINARIO
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Universita' degli Studi di Bari e di Stefano Favale e
di Università degli Studi di Bari e di Francesco Loperfido e di Francesco Loperfido e di
Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 giugno 2012 il Cons. Alessandro Botto e uditi per
le parti gli avvocati Tomassetti, Prudente, e Caputi Jambrenghi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ordinanza collegiale n. 2024/12 del 5 aprile 2012 la VI Sezione del Consiglio di Stato ha
rimesso all’esame dell’adunanza plenaria le questioni prospettate nei ricorsi indicati in
epigrafe, previa riunione degli stessi per evidenti ragioni di connessione processuale.
2. La complessa vicenda portata all’attenzione dell’adunanza plenaria necessita di una
preliminare ricostruzione (in fatto e in diritto).
2.1. Con decreto del Rettore dell’Università degli Studi di Bari n. 5453 del 24 giugno 2002
veniva indetta una procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di
professore ordinario presso la Facoltà di medicina e chirurgia, settore scientifico disciplinare
MED/11-malattie dell’apparato cardio-vascolare.
La commissione, nella riunione dell’11 dicembre 2004, dopo avere richiamato i criteri di
valutazione individuati dal d.P.R. 19 ottobre 1998 n. 390 e dal d.P.R. 23 marzo 2000, n. 117,
definiva ulteriormente i criteri stessi e quindi procedeva alla valutazione comparativa dei titoli,
dei curricula e delle pubblicazioni dei candidati ammessi alla procedura e ciò si traduceva nella
espressione di giudizi individuali sintetici da parte di ciascun componente e in un giudizio
collegiale.
Ebbene, il giudizio riportato dal candidato Favale è risultato il seguente: "La ricerca
scientifica, dedicata prevalentemente alla aritmologia, è svolta con continuità e rigore
metodologico e risulta di pregevole livello. Il riconoscimento dell’apporto individuale è ben
definibile. L’attività assistenziale è consona alla posizione del candidato. L’attività didattica
si è svolta nel Corso di laurea in Medicina. Il giudizio complessivo sul candidato è molto
buono."
Il giudizio, invece, espresso sul candidato Loperfido è stato il seguente: "L’attività scientifica
del candidato presenta spunti di originalità e di innovatività con apporto individuale ben
riconoscibile. L’attività didattica è ottimamente documentata. L’attività in campo clinico
risulta essere ampia e continuativa, da tempo concretizzatasi con responsabilità primaziale.
Il giudizio complessivo sul candidato è molto buono".
Sulla base di tali giudizi, la commissione il 7 giugno 2005 procedeva quindi alla votazione, a
seguito della quale il candidato Marino (estraneo alla presente controversia) riportava cinque
voti favorevoli, il candidato Favale ne riportava tre e il candidato Loperfido due (mentre i
restanti candidati non prendevano alcun voto). La commissione, pertanto, dichiarava idonei i
candidati Marino e Favale.
2.2. Il successivo 25 agosto 2005 si riuniva peraltro una commissione consultiva straordinaria,
incaricata dal Rettore di svolgere un esame in ordine alla regolarità degli atti della procedura
seguita. Tale commissione esprimeva perplessità in merito alle ragioni che avevano condotto la
commissione esaminatrice ad esprimere analoghi giudizi collegiali per i due candidati e
sollecitava il Rettore a rimettere gli atti alla commissione esaminatrice per un riesame del
giudizio finale.
2.3. Il Rettore accoglieva l’invito e, con provvedimento del 2 settembre 2005, rimetteva
nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice per la "rinnovazione della votazione
relativa alla seconda idoneità".
La commissione si riuniva, a tale scopo, il 25 ottobre 2005 e, dopo avere proceduto ad una
riponderazione delle valutazioni dei candidati in lizza, confermava la votazione già espressa,
evidenziando peraltro come nella votazione finale non si possa prescindere da una certa libertà
dei votanti rispetto agli apprezzamenti precedentemente effettuati, con la conseguenza che
possono aversi dei risultati non perfettamente aderenti all’ordine delle preferenze enucleabile
dai giudizi espressi sui candidati stessi.
2.4. In merito interveniva nuovamente la commissione consultiva, che osservava come la
commissione di concorso avesse omesso la valutazione specifica dei titoli didattici e di servizio
dei candidati, traducendosi la nuova determinazione in una "tautologica e generica conferma
delle determinazioni in precedenza assunte". Di conseguenza, la commissione esprimeva il
parere che gli atti della commissione esaminatrice potessero essere approvati limitatamente al
concorrente prof. Paolo Marino, cha aveva riscosso l’unanimità dei voti e il Rettore, con
decreto del 7 febbraio 2006, procedeva alla declaratoria di idoneità del solo candidato Marino,
rimettendo nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice quanto alla seconda idoneità.
2.5. Si riuniva nuovamente la commissione esaminatrice in data 22 marzo 2006, la quale
confermava la precedente votazione ed affermava che "sebbene il prof. Loperfido presenti titoli
assistenziali più consistenti, l’attività didattica viene valutata pariteticamente (cfr. il risultato
della prova didattica del candidato Favale), mentre nell’attività scientifica emergono chiare
differenze qualitative a vantaggio del dott. Favale, come si appalesa dai giudizi collegiali
formulati nella IV riunione della commissione (a fronte della indicazione di "spunti di
originalità ed innovatività" segnalati per il prof. Loperfido, l’attività scientifica del dott.
Favale è definita "pregevole e caratterizzata da continuità e rigore metodologico"). In
definitiva, le diversità sopra segnalate si sono riverberate sull’esito finale, che ha visto il dott.
Favale prevalere con tre voti favorevoli contro due del prof. Loperfido ecc.".
A seguito di tale giudizio, il rettore, con decreto del 31 marzo 2006, dichiarava idoneo il dott.
Favale.
3. Su ricorso del prof. Loperfido, il TAR Puglia, sezione di Bari, con sentenza n. 47/2007,
annullava tale dichiarazione di idoneità del dott. Favale. Infatti, il Tribunale riteneva che fosse
debole la ricostruzione in termini di parità dell’attività didattica svolta dai candidati Loperfido
e Favale, tanto che la commissione esaminatrice aveva dovuto dare forte peso alla prova
pratica cui il dott. Favale era stato sottoposto, prova che, peraltro, la stessa commissione non
aveva giudicato in termini entusiastici. Inoltre, la valutazione della produzione scientifica del
prof. Loperfido non sarebbe ispirata ad un criterio logico e non avrebbe potuto essere presa in
considerazione una pubblicazione del dott. Favale, poiché ancora in corso di stampa al
momento di presentazione della domanda.
La sentenza di primo grado veniva poi confermata in appello dal Cons. Stato,VI, n. 1039/2008,
rilevando come fosse incomprensibile che la valutazione della prova pratica svolta dal dott.
Favale avesse consentito a questi di prevalere sotto il profilo della capacità ed esperienza
didattica e ciò a causa: a) dell’iniziale giudizio collegiale espresso dalla commissione
esaminatrice, più favorevole al prof. Loperfido (allegato 2 al verbale n. 4 del 9 maggio 2005);
b) della non dimostrata equivalenza dell’attività di docenza svolta dal dott. Favale rispetto a
quella del prof. Loperfido, ben più lunga (quest’ultima) nell’ambito di un corso di laurea
inerente il medesimo settore scientifico-disciplinare oggetto della procedura concorsuale di cui
è causa; c) dell’incomprensibilità del giudizio (di parità) fondato solo sulle risultanze della
prova didattica a cui si era sottoposto il dott. Favale.
4. A seguito di tale pronuncia del Consiglio di Stato, il Rettore, con decreto 30 aprile 2008,
disponeva che la commissione esaminatrice procedesse alla rinnovazione parziale della
valutazione comparativa delle pubblicazioni, tenendo conto di tutte e venti le pubblicazioni del
prof. Loperfido e di diciannove pubblicazioni prodotte dal dott. Favale, nonché alla
rivalutazione comparativa dell’attività didattica dei due candidati.
La commissione, riaperto il procedimento, concludeva nel senso che il dott. "Favale prevale
con sufficiente chiarezza nella comparazione con l’attività didattica del prof. Loperfido per la
maggiore intensità dell’impegno e della responsabilità didattica ascrivibile al primo anziché
al secondo (Corso di laurea a fronte di Scuole di specializzazione) nonostante la differenza di
sette anni di età di laurea. L’attività scientifica vede prevalere il dott. Favale per sistematicità
e originalità, rigore metodologico e continuità, dote quest’ultima soprattutto venuta a
mancare all’attività scientifica del prof. Loperfido negli ultimi due-tre anni antecedenti la
scadenza del termine concorsuale, come ha confermato e meglio dimostrato la rilettura delle
sue venti pubblicazioni effettuata dai commissari". Pertanto, veniva confermata la
dichiarazione di idoneità del dott. Favale.
Il Rettore, con decreto del 13 ottobre 2008 n. 12312, ha poi fatto propria tale determinazione,
recependola formalmente.
5. Contro tale decreto, nonché avverso gli atti presupposti, il prof Loperfido ha proposto sia
ricorso per ottemperanza sia autonomo ricorso ordinario.
Con il ricorso per ottemperanza egli deduce la nullità degli atti impugnati per
violazione/elusione del giudicato formatosi sulla sentenza di questo Consiglio, VI, n.
1039/2008 e chiede la nomina di un commissario ad acta estraneo all’Università di Bari.
Il TAR adito, con sentenza del 13 luglio 2009 n. 1832, ha dichiarato inammissibile il ricorso,
ritenendo che la sentenza passata in giudicato sia stata formalmente eseguita e che ogni
eventuale doglianza in merito avrebbe dovuto essere proposta nell’ambito di un ordinario
giudizio di cognizione.
Avverso tale pronuncia il prof. Loperfido ha proposto appello (rubricato al n. 7506/2010), con
cui censura la statuizione del giudice di primo grado, in quanto l’Università di Bari sarebbe
incorsa nel vizio di elusione di giudicato, avendo utilizzato criteri diversi da quelli contemplati
nel giudicato stesso. Aggiunge l’appellante che la commissione esaminatrice avrebbe dovuto
essere sostituita.
Lo stesso TAR, con sentenza 22 marzo 2011, n. 447, ha invece accolto il ricorso ordinario pure
proposto dal prof. Loperfido, ritenendo fondato il secondo motivo di censura dedotto, in
quanto il nuovo giudizio non avrebbe dovuto essere formulato dalla medesima commissione,
bensì da una nuova commissione esaminatrice.
Avverso tale ultima sentenza sono stati proposti due appelli: uno (rubricato al n. 4159/2011) da
parte del prof. Favale e l’altro (n. 4289/2011) da parte dell’Università di Bari, con cui si
lamenta che il vizio relativo alla mancata sostituzione della commissione avrebbe dovuto
essere dichiarato tardivo e che, comunque, il giudicato non avrebbe imposto la sostituzione
della commissione. Inoltre, il giudice avrebbe ecceduto nell’esercizio del potere giurisdizionale,
operando un non consentito sindacato di merito con il quale si sarebbe sostituito alla stessa
Università.
6. Con la citata ordinanza collegiale di rimessione della presente controversia all’esame
dell’adunanza plenaria, previa riunione degli appelli sopra richiamati, la VI Sezione ha
evidenziato l’opportunità di un esame in questa sede della questione processuale di massima
circa il corretto uso degli strumenti di tutela giudiziaria ove l’amministrazione, come nel caso
di specie, reiteri con uguale risultato gli atti di una selezione tecnica già annullati dal giudice
amministrativo.
In sostanza, il collegio rimettente ritiene necessario affrontare il tema, di ordine generale,
dell’oggetto, dei contenuti e dei limiti del giudizio di ottemperanza e della necessità di evitare
duplicazioni di giudizi, in virtù del principio del ne bis in idem e delle esigenze di economia
processuale.
Osserva altresì come spesso (ciò che è avvenuto nel caso di specie) vengano affiancati due
giudizi, uno ordinario e uno per ottemperanza, a fronte del rinnovo dell’attività amministrativa
successivamente alla formazione di un giudicato, con conseguente aggravamento della tutela
giudiziaria ed inevitabile produzione di incoerenze e di incertezze nella risposta
giurisdizionale.
6.1. Il collegio rimettente rappresenta poi alcuni elementi interpretativi utili alla soluzione
della questione prospettata (rectius: delle questioni prospettate).
Innanzitutto evidenzia che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta sia l’inerzia della
p.a. (ossia il non facere) sia il comportamento (id est: facere) che realizzi un’ottemperanza
parziale o una vera e propria violazione/elusione del giudicato. Infatti, anche un’attuazione
parziale o inesatta o elusiva deve essere annoverata nella nozione di inottemperanza, al pari
dell’inerzia (cfr. C.d.S., VI, 12 dicembre 2011 n. 6501). Ciò, oltretutto, appare ormai recepito nel
Codice del processo amministrativo (art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6).
Tale assunto, evidenzia il collegio rimettente, appare in linea con i principi di effettività della
tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo, nel cui ambito va iscritto il diritto di
ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre che in tempi rapidi, senza la necessità di
dover attivare un ulteriore giudizio di cognizione.
Al riguardo viene ricordato l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo
cui il diritto al processo (di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il
diritto all’esecuzione del giudicato ("diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia"). Il
diritto al giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove non vi fossero strumenti utili per dare
esecuzione al giudicato, esecuzione che non può essere indebitamente ritardata.
Ciò premesso, il collegio rimettente si chiede se la scelta della sede cui fare ricorso per la
verifica della corretta esecuzione del giudicato possa essere rimessa alla scelta della parte
vittoriosa in sede di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce all’azione della p.a.
successiva al giudicato (violazione/elusione del giudicato o autonoma violazione) o se occorra
dare prevalenza all’esigenza di frustrare i comportamenti formalmente rinnovatori, ma in
realtà meramente reiterativi della precedente determinazione in relazione alla quale si è
formato il giudicato.
Comunque sia, rileva il collegio rimettente che occorre previamente individuare l’esatta portata
oggettiva del giudicato, tenuto conto che l’efficacia del medesimo va ricondotta al principio
generale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è aderente ai limiti oggettivi e soggettivi della
controversia, da identificare nella correlazione tra petitum e causa petendi in rapporto alla
dedotta lesione dell’interesse vantato e, dunque, in relazione, ai vizi dedotti. A tale riguardo
viene richiamato il parametro concettuale delle azioni costitutive del processo civile e viene
rammentato che l’individuazione concreta del perimetro del giudicato è rimessa
all’applicazione di un elastico criterio integrativo di origine giurisprudenziale, costituente
ormai diritto vivente: trattasi del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla decisione.
Tale assunto, nella peculiarità della judicial review dell’esercizio della funzione pubblica, si
sostanzia nei seguenti corollari:
a) il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ossia non solo le questioni (di fatto e di diritto)
fatte valere in via di azione o di eccezione e comunque esplicitamente investite dalla decisione,
ma anche le questioni che, seppure non dedotte, costituiscono un presupposto logico
indefettibile della decisione; il giudicato, quindi, preclude la proposizione di domande
contemplate dalla intervenuta risposta giurisdizionale, ma non la prospettazione di domande
completamente nuove, che anzi assumano il giudicato quale presupposto logico;
b) la peculiarità del giudizio amministrativo, peraltro, impedisce la piena espansione del
principio di cui al capo a), poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con
esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel
ricorso;
c) la sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo
sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non
integrano l’ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio ordinario di
cognizione e non il giudizio di ottemperanza;
d) la domanda risarcitoria sulla quale il giudice non si sia pronunciato dovrà, quindi, essere
proposta in autonomo giudizio di cognizione;
e) gli effetti del giudicato di rigetto si estendono anche a tutte le questioni inerenti l’esistenza e
la validità del rapporto dedotto in giudizio che siano state vagliate, anche implicitamente, nella
sentenza.
6.2. Quanto alla natura del giudicato amministrativo, evidenzia il collegio rimettente che esso
ha un contenuto complesso, non limitato agli effetti demolitori e ripristinatori della situazione
quo ante, ma ricomprendente anche effetti conformativi rivolti al futuro, che si traducono in
vincoli imposti alla p.a. in sede di riedizione del potere amministrativo successivamente al
decisum giurisdizionale.
Tale assetto ricostruttivo va poi coniugato con i principi di effettività della tutela
giurisdizionale, nonché con i principi di celerità della risposta giurisdizionale e di lealtà
processuale (che a loro volta sono espressione del più generale principio di buona fede): ciò
comporta che occorre interpretare il giudicato secondo un complessivo canone di buona fede al
fine di consentire l’espansione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
6.3. Afferma in particolare il collegio rimettente che il cpa. sembra mostrare un favor per la
concentrazione nell’alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo
un giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione.
Peraltro, e qui sta il cuore della rimessione all’adunanza plenaria, tale favor non pare che
possa spingersi fino al punto di poter affermare che qualsiasi provvedimento adottato dopo un
giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa del ricorrente
vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice dell’ottemperanza. Infatti, ove il nuovo
atto successivo al giudicato non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma autonomamente
lesivo, poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato, l’azione corretta, afferma il collegio
rimettente, è quella del ricorso ordinario di cognizione (cfr, in questo senso, anche la prima
giurisprudenza formatasi dopo l’entrata in vigore del cpa: C.d.S., VI, 15 novembre 2010 n.
8053).
Il discrimen tra violazione/elusione del giudicato e nuova autonoma violazione può essere
compiuto con esemplificazione casistica per categorie generali relative ai tipi di vizi dell’azione
amministrativa su cui incide il giudicato. In sostanza, si tratta di stabilire quali sono i limiti che
derivano dal giudicato al rinnovo dell’azione amministrativa e quali sono, invece, gli spazi
bianchi lasciati ad un’autonoma e nuova valutazione.
In attuazione di tale ricostruzione consegue che, ove il giudicato comporti l’annullamento del
provvedimento solo per vizi formali, è indubbio che residui spazio pieno per il rinnovo della
valutazione dell’amministrazione: in questa ipotesi, ove la p.a. elimini i vizi formali, ma
ciononostante adotti un provvedimento non satisfattivo della pretesa, è pacifico che si
determini non una violazione/elusione del giudicato, ma una eventuale nuova autonoma
illegittimità.
Ad analoghe conclusioni, afferma sempre il collegio rimettente, si deve pervenire ove il
giudicato si formi in relazione al silenzio-inadempimento e si limiti ad affermare l’obbligo di
provvedere: anche in questo caso il provvedimento espresso successivo al giudicato potrà
essere eventualmente impugnato per vizi autonomi, da dedurre in sede di ricorso ordinario di
cognizione.
Evidenzia in proposito il collegio rimettente che una parte della giurisprudenza afferma che,
dopo la formazione del giudicato, la p.a. possa individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla
pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola; aggiunge, peraltro, che tale
tesi, se può essere condivisa a fronte di un potere discrezionale, non sembra invece
condivisibile nel caso di reiterazione di un’attività vincolata o nel caso di attività caratterizzata
da cosiddetta discrezionalità tecnica. In questi casi, infatti, la p.a. (al di fuori dell’autotutela o
dell’enucleazione di cause ostative legali) non può utilizzare in danno del vincitore elementi del
tutto incontroversi e mai messi in discussione.
Alla luce di ciò, conclude il collegio rimettente, si dovrebbe ritenere che, nel caso di giudicato
di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali
nuovi vizi, dia luogo a violazione/elusione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da
una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di
una nuova valutazione.
7. All’odierna udienza, sentiti i difensori di cui al verbale, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
.1. Vengono poste all’esame dell’adunanza plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo
luogo, all’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo e,
al contempo, alla necessità, da un lato, di contenere in tempi ragionevoli la risposta
giurisdizionale e, dall’altro, di evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale
stessa.
Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di specie appare emblematico nell’evidenziare le
difficoltà per gli interessati di individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente,
vincitore in sede cognitoria, ha difatti attivato due ricorsi, uno in sede di ottemperanza
(dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di cognizione (accolto per
un motivo formale) e tale modus operandi è di frequente utilizzo in presenza di un giudicato, a
dimostrazione delle incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia.
Sul piano sostanziale, poi, il problema portato all’attenzione di questo consesso risiede nella
individuazione di un equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo,
assetto che peraltro non può che essere delineato sul piano dei principi, poiché il concreto
atteggiarsi del singolo giudicato nei confronti del sopravvenuto esercizio della funzione
amministrativa non può che essere rimesso all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P.,
22 dicembre 1982 n. 19).
2. Il caso oggetto dei presenti giudizi, l’uno di ottemperanza e l’altro di cognizione e portati
unitariamente all’esame dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine
preliminare di verificare la correttezza della riunione, che sia delineata l’attuale configurazione
del giudizio di ottemperanza, quale essa risulta, non solo dalle acquisizioni giurisprudenziali,
ma anche e soprattutto alla luce del codice del processo amministrativo.
Ebbene, ciò che risulta evidente dall’esame della disciplina codicistica è che il giudizio di
ottemperanza (cui sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza
plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune
riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di
una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre
ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela
giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a
prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è
noto, non ha copertura costituzionale).
Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad
una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile,
presenta profili affatto diversi, non solo quanto al "presupposto" (cioè in ordine al
provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in
ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
a) "l’attuazione" delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice
amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte
dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634)
e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice
amministrativo "per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza" (art. 112, comma 2). E
già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è
noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna "al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il
passaggio in giudicato della sentenza" (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è
evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento
delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni
principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento
equiparato);
c) il "risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione
in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. ." (art. 112, comma 3). In questo caso
l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ "attuazione" di una
precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il
presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è
l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è,
per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale
(a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice
dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato
(art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal
provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per
ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato
(art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata
attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento
nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone
l’effetto causativo di danno.
Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina
azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’
"attuazione" richiesta ad una "esecuzione" della sentenza (o provvedimento equiparato),
ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in
dipendenza del giudicato medesimo.
A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di "ottenere
chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza": anche questo non presenta
caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di
ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale lungi dall’affermare che è l’ "azione di ottemperanza" ad essere utilizzabile in questi casi afferma che è "il ricorso" introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad
essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza
dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio
di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare
proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione
soccombente nel precedente giudizio).
In conclusione, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss.
cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale
polisemicità del "giudizio" e dell’ "azione di ottemperanza", dato che, sotto tale unica
definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura
cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di
una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare
concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il
giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere
attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività
amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o
che in esso trovano il proprio presupposto.
3. E’ in questo quadro normativo che occorre, dunque, procedere preliminarmente all’esame
dell’ammissibilità della riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente.
Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria che tale riunione sia possibile, tenuto conto
dell’esigenza di simultaneus processus che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai
ricorrenti.
E’ noto che, in via generale, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può
essere disposta in riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che
i ricorsi pendano nel medesimo "grado". Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla
lettura delle disposizioni del codice di procedura civile (cui il codice del processo
amministrativo effettua rinvio: art. 39, comma 1, cpa), anche dalle norme dello stesso Codice
del processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di "pluralità delle
domande e conversione delle azioni", prevede che "è sempre possibile nello stesso giudizio il
cumulo di domande connesse".
Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due giudizi in questione, pur nella evidente differenza di
tipologia, debbano essere trattati in modo unitario.
Ed infatti, proprio perché ciò che viene richiesto al giudice, sia pure per il tramite
dell’instaurazione di due distinti giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione
della patologia dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in
quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta
rilevabili), il giudice stesso non può che essere chiamato ad un esame complessivo della
vicenda.
L’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo
stesso ordinamento processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che
presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della
patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente,
non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande,
ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi
tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza.
Fermi, dunque, i principi generali in tema di riunione sopra individuati, in questo caso provvisto di una sua evidente specificità - la riunione dei ricorsi appare coerente con il
principio di effettività (completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la
valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente unitaria.
In attuazione di quanto esposto, occorre quindi ritenere corretto che nel caso di specie si sia
proceduto alla riunione dei due appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza
e dal giudizio di cognizione.
4. Quanto ora affermato sulla correttezza della riunione dei due appelli sollecita a questa
adunanza plenaria una ulteriore riflessione.
Ed infatti, le medesime ragioni – che il Collegio ha qui evidenziato per così dire ex post, a
giustificazione della riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure nei
termini e limiti di seguito esposti, sostenere l’ammissibilità di un solo ricorso, in luogo dei due
che la parte è spesso, per ovvie ragioni di "cautela processuale", necessitata ad esperire
avverso i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di
annullamento di proprio precedente provvedimento.
In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le
censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un
giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in
quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice
competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.
Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a
qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente
all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione
amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al
rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato
dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così
la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta
carenza di interesse della seconda domanda.
Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione
dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale "il giudice
qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali", e la conversione dell’azione è
ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – "sussistendone i
presupposti".
Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio
iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di
decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta
instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio
impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei "presupposti" (tra
i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato
dall’art. 32, co. 2, cpa.
Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice
dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21
septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai
provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a
seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per
violazione o elusione del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave delle
patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti.
5. Ciò premesso e venendo al caso in esame, è ben noto come sia jus receptum l’assunto che il
giudicato amministrativo si presenti in modo poliforme, a seconda delle situazioni giuridiche
coinvolte e delle censure dedotte.
Infatti, il ricorrente può far valere mere censure formali nei confronti dell’azione
amministrativa, ovvero vizi più pregnanti, che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per
ottenere il bene della vita; la sua domanda poi, può tendere ad opporsi ad un’azione della p.a,
(in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che comunque consentono
di sterilizzare l’iniziativa della p.a.) , ovvero può prospettare una pretesa (e in questo caso
contemplerà usualmente censure di carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza
della pretesa stessa).
E dunque è altrettanto pacifico che la sentenza del giudice amministrativo si atteggia in modo
differente a seconda che abbia ad oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria
pretesa nonchè a seconda del vizio accolto.
E’ in questo quadro variegato che va posta e risolta la questione dell’annoverabilità nell’ambito
del giudicato non solo del "dedotto" (ossia di ciò che espressamente è stato oggetto di
contestazione ed esame), ma anche del "deducibile" (id est: ciò che, pur non espressamente
trattato, si pone come presupposto/corollario indefettibile del thema decidendum).
Va premesso peraltro che la questione si può porre solo nei riguardi dell’attività oggetto di
esame giudiziale, in quanto tale anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza, propria
del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare
l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere,
ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non
contemplate in precedenza.
La questione si pone invece ove la riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel
valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o
implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice.
In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può escludersi in via generale la rivalutazione
dei fatti sottoposti all’esame del giudice.
E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi da tempo avanzate che, facendo leva sul principio di
effettività della giustizia amministrativa, prospettano la necessità di pervenire all’affermazione
del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato sfavorevole, ma non ritiene di
poter aderire a tale indirizzo che appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e
di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della Corte
europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in Paesi dell’Unione
europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali
possiamo vantare un sistema di esecuzione del giudicato amministrativo – l’ottemperanza
appunto – sicuramente più avanzato.
Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e
vincoli.
5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza
dei presupposti della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa,
consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come
avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma
dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3). In questo modo,
oltretutto, si recupera un lontano indirizzo giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al
modello giuridico idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro ordinamento, secondo
il quale si riteneva possibile un immediato e diretto accesso al fatto nei casi in cui la pretesa al
bene della vita non dovesse essere filtrata da una valutazione discrezionale, rimessa alla
esclusiva competenza della p.a.: cfr. C.d.S., IV, 13 giugno 1902, De Paulis contro Provincia di
Aquila, con nota adesiva della migliore dottrina dell’epoca).
Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di
determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei
confronti dell’azione amministrativa (di recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n. 3569 ha
affermato che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in
giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta): tale assetto
appare, oltretutto, coerente con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa
in precedenza richiamata e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione
esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in
sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia) .
5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione
(come nel caso in esame, in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata
invece la loro valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche
dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti incombe l’obbligo di dare esecuzione ai
provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica amministrazione, in
un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi
costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il
diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante
complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale).
Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a principi inveterati ma di scarsa
rilevanza effettuale, poiché l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione
giurisdizionale amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione interpretativa della
materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di soddisfare la pretesa del
ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima aspettativa con comportamenti elusivi.
Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla
pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto
ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo,
inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non
può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici,
è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del
giudicato.
Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della
costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece,
l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto
tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon
andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede.
Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve essere tanto più esplicita e pregnante nel
caso in cui il riesame sia effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio.
6. Occorre ora fare applicazione dei principi testé enunciati al caso di specie: il prof. Loperfido,
ricorrente vittorioso in sede cognitoria (C.d.S., VI, 11 marzo 2008 n. 1039), ha proposto azione
di ottemperanza con cui ha dedotto la nullità degli atti in cui si è sostanziato, con la rinnovata
valutazione dei candidati, il riesercizio della funzione amministrativa.
Egli, infatti, ha denunciato la violazione, elusione del giudicato formatosi, ritenendo che la
commissione esaminatrice abbia in sostanza disatteso la statuizione del giudice
amministrativo, avendo operato la nuova valutazione sulla base di criteri completamente
diversi da quelli che erano stati utilizzati in precedenza nella procedura valutativa in esame.
In concreto, il ricorrente vittorioso ha quindi dedotto che la mancata soddisfazione della
propria pretesa fosse imputabile proprio ad una non corretta applicazione del decisum
giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante
l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale portato all’esame del giudice. Ciò in
evidente violazione, altresì, del principio di buona fede, avendo in pratica la p.a. frustrato la
pretesa del ricorrente mediante l’utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che tendeva a
confermare il precedente risultato mediante l’utilizzo di un percorso logico differente da quello
in precedenza utilizzato.
Ebbene, tale situazione, in base a quanto sopra affermato, appare sicuramente annoverabile
nell’ambito delle controversie devolute alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, poiché
evidente è il fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova fondamento e
parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la decisione giurisdizionale. In
altre parole, l’azione amministrativa successiva alla decisione viene prospettata come
disallineata rispetto al contenuto del giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente,
non in base alla mera qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi
intrinseca della natura dei vizi dedotti.
La domanda proposta dal ricorrente in sede di ottemperanza mirava dunque ad evidenziare
che l’accertamento giurisdizionale aveva avuto ad oggetto determinati presupposti della
pretesa sostanziale dedotta in sede cognitoria, in relazione ai quali si doveva ritenere esteso
l’effetto del giudicato, con conseguente esistenza in proposito di un vero e proprio vincolo per
la riedizione dell’azione amministrativa. E tale vincolo sarebbe stato infranto dalla susseguente
attività amministrativa della commissione esaminatrice, che avrebbe in pratica eluso il
decisum mediante un artificio logico consistente nell’adozione di un differente percorso logico
motivazionale.
Il ricorso per ottemperanza proposto dal prof. Loperfido, pertanto, non avrebbe dovuto essere
dichiarato inammissibile ed ha quindi errato il giudice di primo grado nel qualificarlo come
tale.
7. Diversa questione, invece, è quella della fondatezza o meno del ricorso medesimo, alla luce
dei principi fin qui enunciati, ai quali deve attenersi l’azione dell’amministrazione in sede di
riedizione del potere dopo la pronuncia del giudice.
Questa valutazione viene peraltro rimessa all’esame della Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma
4, cpa.
8. Quanto al secondo giudizio relativo agli appelli proposti dal prof. Favale e dall’Università di
Bari avverso la sentenza del giudice di primo grado, emessa in sede di giudizio di cognizione,
che ha invece accolto (per un motivo formale) il ricorso pure proposto dal prof. Loperfido, esso
va rimesso alla sezione per le valutazioni sia di ordine pregiudiziale, si è visto infatti che la
permanenza dell’interesse dipende dalla decisione dell’altra domanda, che di merito.
La decisione in ordine alle spese viene rinviata alla decisione finale
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), non definitivamente
pronunciando sugli appelli in epigrafe, riuniti, così provvede:
1. accoglie l’appello proposto da Francesco Loperfido (n. 18/2012 A.P.) e, per l’effetto, in
riforma della sentenza impugnata, dichiara ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto
dal ricorrente;
2. restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 18 giugno 2012 e 19 novembre 2012
con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Giorgio Giovannini, Presidente
Gaetano Trotta, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Botto, Consigliere, Estensore
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Anna Leoni, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/01/2013
. 00462/2014REG.PROV.COLL.
N. 05327/2013 REG.RIC.
N. 05542/2013 REG.RIC.
N. 05582/2013 REG.RIC.
N. 05584/2013 REG.RIC.
N. 05586/2013 REG.RIC.
N. 05807/2013 REG.RIC.
N. 05809/2013 REG.RIC.
N. 05818/2013 REG.RIC.
N. 05821/2013 REG.RIC.
N. 07082/2013 REG.RIC.
N. 07083/2013 REG.RIC.
R E P U B B L I C A
I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sui
seguenti
ricorsi
in
appello:
1) nr. 5327 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale
dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
la signora Elsa VERELLI, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa, con
domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
2) nr. 5542 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
il signor Nettuno MORRA, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con
domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
3) nr. 5582 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei
Portoghesi, 12,
contro
la signora Caterina USAI MIRRA, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa,
con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
4) nr. 5584 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
l’avvocato Giunio MASSA, rappresentato e difeso da sé medesimo, con domicilio
eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
5) nr. 5586 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
la signora Gigliola DI PALERMO, rappresentata e difesa dall’avv. Giunio Massa,
con domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
6) nr. 5807 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei
Portoghesi, 12,
contro
il signor Maurizio NAPOLI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con
domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
7) nr. 5809 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei
Portoghesi, 12,
contro
il signor Michele CORONELLA, non costituito;
8) nr. 5818 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei
Portoghesi, 12,
contro
il signor Luigi PAGANO, non costituito;
9) nr. 5821 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la stessa in Roma, via dei
Portoghesi, 12,
contro
la signora Concetta TROTA, non costituita;
10) nr. 7082 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in
persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
il signor Vittorio RICCARDI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con
domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
11) nr. 7083 del 2013, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in
persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
il signor Mario MENICAGLI, rappresentato e difeso dall’avv. Giunio Massa, con
domicilio eletto presso l’avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45;
per l’annullamento
quanto al ricorso nr. 5327 del 2013:
della sentenza nr. 83/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma,
depositata il 7 gennaio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione
alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione nr. 23821/11 del 20 ottobre 2011;
quanto al ricorso nr. 5542 del 2013:
della sentenza nr. 5338/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 22 maggio
2013, depositata il 28 maggio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato
formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 9262/2012,
depositata il 7 giugno 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per
eccessiva durata del processo;
quanto al ricorso nr. 5582 del 2013:
della sentenza nr. 4231/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 10 aprile
2013, depositata il 29 aprile 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato
formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 6174/2012,
depositata il 19 aprile 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per
eccessiva durata del processo;
quanto al ricorso nr. 5584 del 2013:
della sentenza nr. 5749/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 22 maggio
2013, depositata il 7 giugno 2013, sul ricorso per l’esecuzione (limitatamente alle
spese oggetto di distrazione) del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della
Corte di Cassazione nr. 6173/2012, depositata il 19 aprile 2012, recante il
riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva durata del processo;
quanto al ricorso nr. 5586 del 2013:
della sentenza nr. 4019/2013 resa dal T.A.R. del Lazio, Sezione Prima, il 10 aprile
2013, depositata il 22 aprile 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in
relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 2357/2012, depositata il 16
febbraio 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva
durata del processo;
quanto al ricorso nr. 5807 del 2013:
della sentenza nr. 6202/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma,
depositata il 20 giugno 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione
alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione nr. 6169/2012 depositata in data
19 aprile 2012;
quanto al ricorso nr. 5809 del 2013:
della sentenza nr. 4718/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma,
depositata il 10 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione
al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54711/07, depositato in data 21
giugno 2010;
quanto al ricorso nr. 5818 del 2013:
della sentenza nr. 4739/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma,
depositata il 13 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione
al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54711/07 depositato in data 21
giugno 2010;
quanto al ricorso nr. 5821 del 2013:
della sentenza nr. 4738/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima di Roma,
depositata il 13 maggio 2013, per l’ottemperanza al giudicato formatosi in relazione
al decreto della Corte d’Appello di Roma nr. 54702/07, depositato in data 22
giugno 2010;
quanto al ricorso nr. 7082 del 2013:
della sentenza nr. 6891/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 3 luglio
2013, depositata l’11 luglio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato
formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 3345/2012,
depositata il 2 marzo 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per
eccessiva durata del processo;
quanto al ricorso nr. 7083 del 2013:
della sentenza nr. 6889/2013 resa dal T.AR. del Lazio, Sezione Prima, il 3 luglio
2013, depositata l’11 luglio 2013, sul ricorso per l’esecuzione del giudicato
formatosi in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione nr. 3343/2012,
depositata il 2 marzo 2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo per
eccessiva durata del processo.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati in epigrafe indicati;
Viste le memorie prodotte dagli appellati costituiti a sostegno delle proprie difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, alla camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014, il Consigliere Raffaele
Greco;
Udita l’avv. dello Stato Gabriella D’Avanzo per l’Amministrazione appellante;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I – Il Ministero della Giustizia ha appellato, chiedendone la riforma, la sentenza
con la quale il T.A.R. del Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla signora Elsa
Verelli per l’ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di
Cassazione che ha condannato la detta Amministrazione al pagamento di un equo
indennizzo, pari a complessivi € 9.250,00, per eccessiva durata del processo, ai
sensi della legge 24 marzo 2001, nr. 89, oltre alle spese e agli accessori di legge.
L’appello è affidato ai seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo (CEDU), dell’art. 117 Cost., degli artt. 2 e 3, comma 7, della
legge nr. 89 del 2001 (in relazione all’avere il primo giudice disapplicato la
disposizione interna di cui al comma 7 dell’art. 3 della citata legge nr. 89/2001, per
supposto contrasto con la CEDU);
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 114, comma 4, cod. proc. amm. (non
essendo applicabile la penalità di mora contemplata da detta disposizione ai casi di
inottemperanza di sentenze dai quali discendano obblighi di carattere pecuniario).
Si è costituita l’appellata, signora Elsa Verelli, la quale si è argomentatamente
opposta all’accoglimento del gravame, concludendo per la conferma della sentenza
impugnata.
II – Un secondo appello di analogo tenore il Ministero della Giustizia ha proposto
avverso altra sentenza del T.A.R. capitolino, relativa all’ottemperanza alla sentenza
della Corte di Cassazione recante condanna al pagamento della somma
complessiva di € 9.750,00 (oltre spese e accessori) in favore del signor Nettuno
Morra, sempre a titolo di equo indennizzo ex legge nr. 89/2001.
L’appello si fonda su motivi sostanzialmente sovrapponibili a quelli del ricorso
indicato al precedente punto I, investendo unicamente la parte della decisione
gravata con la quale all’Amministrazione è stata comminata la penalità di mora di
cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm.
Si è costituito l’appellato, signor Nettuno Morra, opponendosi all’accoglimento
dell’appello e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
III – Con ulteriore appello, il Ministero della Giustizia ha gravato altra sentenza del
T.A.R. del Lazio, di tenore identico a quello delle sentenze già impugnate, recante
ottemperanza alla condanna al pagamento della somma complessiva di € 10.000,00
(oltre spese e accessori) in favore della signora Caterina Usai Mirra; i motivi sono
identici a quelli dell’appello di cui al precedente punto II.
Si è costituita l’appellata, anche in questo caso assumendo l’infondatezza
dell’impugnazione e chiedendone la reiezione.
IV – Con un quarto appello, fondato su identici motivi, l’Amministrazione ha
censurato un’ulteriore sentenza del T.A.R. capitolino, recante ottemperanza alla
condanna al pagamento della somma € 10.600,00 per equo indennizzo in favore
del signor Franco Bonomo, limitatamente alle spese di lite da distrarsi in favore
dell’avvocato Giunio Massa, pari a complessivi € 2105,00 oltre a spese e accessori.
Anche in questo giudizio l’appellato, ritualmente costituitosi, ha argomentato a
sostegno dell’infondatezza del gravame e della conferma della sentenza impugnata.
V – Ancora un altro appello è stato proposto dal Ministero della Giustizia, sulla
scorta di motivi identici a quelli posti a sostegno dei precedenti ricorso, avverso
un’ulteriore sentenza del T.A.R. del Lazio, identica alle altre, relativa
all’ottemperanza della sentenza di condanna in Cassazione alla somma complessiva
di € 10.250,00 (oltre a spese e accessori) in favore della signora Gigliola Palermo.
La appellata si è a sua volta costituita, chiedendo la reiezione del gravame.
VI – Identico iter si è avuto in relazione a un sesto appello, col quale il Ministero
della Giustizia ha chiesto la riforma della sentenza del T.A.R. laziale relativa a
ottemperanza alla condanna al pagamento della somma di € 9.650,00 (oltre spese e
accessori) in favore del signor Maurizio Napoli, costituitosi in resistenza.
VII – Con un settimo appello, l’Amministrazione della Giustizia ha impugnato
un’altra sentenza del T.A.R. capitolino, di tenore identico alle precedenti, con cui è
stata ordinata l’ottemperanza di un decreto della Corte d’Appello di Roma recante
condanna al pagamento della somma € 16.000,00 in favore del signor Michele
Coronella, sempre per equo indennizzo da eccessiva durata del processo; i motivi
di gravame sono identici a quelli degli altri appelli.
In questo giudizio, la parte appellata non si è costituita.
VIII – Con ulteriore appello di identico tenore, è stata poi gravata la sentenza
relativa all’ottemperanza ad altro decreto della Corte d’Appello romana, recante
condanna alla somma complessiva di € 16.000,00 in favore del signor Luigi
Pagano, sempre a titolo di equo indennizzo.
Anche in questo caso, l’appellato è rimasto contumace.
IX – Sempre i medesimi motivi di gravame sono alla base del nono appello in
epigrafe, proposto dal Ministero della Giustizia avverso un’ulteriore sentenza del
T.A.R. del Lazio, afferente all’ottemperanza del decreto della Corte d’Appello di
Roma recante condanna al pagamento di € 16.000,00 in favore della signora
Concetta Trota.
L’appellata
si
è
costituita,
opponendosi
con
diffuse
argomentazioni
all’accoglimento del gravame.
X – Analogo iter si è avuto quanto ad ulteriore appello proposto dalla stessa
Amministrazione, sempre sulla base degli stessi motivi in diritto, avverso altra
sentenza del T.A.R. del Lazio relativa all’ottemperanza della sentenza della Corte di
Cassazione recante la condanna al pagamento della somma di € 9.750,00, oltre
spese e accessori, in favore del signor Vittorio Ricciardi.
Anche in questo caso, l’appellato si è costituito opponendosi all’accoglimento
dell’appello.
XI – L’ultimo degli appelli in epigrafe, proposto dal Ministero della Giustizia sulla
base di identici motivi, investe la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha
ordinato l’ottemperanza di altra sentenza della Corte di Cassazione, recante
condanna al pagamento della somma di € 9.250,00 in favore del signor Mario
Menicagli.
Anche in questo caso, l’appellato si è ritualmente costituito ed ha chiesto la
conferma della sentenza impugnata.
XII – Tutti gli appelli suindicati, chiamati alla camera di consiglio del 9 gennaio
2014, sono stati in tale circostanza spediti in decisione.
DIRITTO
1. Preliminarmente, appare opportuno disporre la riunione degli appelli in epigrafe,
ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., essendo gli stessi fondati su questioni
identiche.
2. Sono appellate, invero, undici sentenze del T.A.R. del Lazio emesse in altrettanti
giudizi di ottemperanza relativi a sentenze della Corte di Cassazione ovvero a
decreti della Corte di Appello di Roma, con cui il Ministero della Giustizia è stato
condannato al pagamento di somme di varia entità a titolo di equo indennizzo per
eccessiva durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, nr. 89.
2.1. Il Ministero della Giustizia ha appellato le suddette sentenze limitatamente alla
parte in cui il primo giudice, oltre a ordinare l’esecuzione della sentenza
ottemperanda e a nominare un Commissario ad acta per l’eventuale adempimento
in sostituzione dell’Amministrazione, ha condannato quest’ultima anche al
pagamento di ulteriori somme a titolo di penalità di mora (c.d. astreinte), ai sensi
dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. in ragione dell’ingiustificato
ritardo nell’esecuzione rispetto al momento in cui sulle sentenze o sui decreti di
condanna all’equo indennizzo si era formato in giudicato.
Questo, in estrema sintesi, il percorso argomentativo del giudice di prime cure:
- la legge nr. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) è stata adottata dallo Stato italiano al
dichiarato scopo di predisporre un rimedio per la violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), per la cui violazione l’Italia risultava aver
subito molteplici condanne dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo;
- la Corte, pur riconoscendo l’adeguatezza del rimedio indennitario, si è posta il
problema della reazione da prevedere per l’ipotesi in cui le Autorità nazionali
omettano di ottemperare ai provvedimenti giudiziari che riconoscono l’equo
indennizzo;
- per questo, la giurisprudenza CEDU ha precisato che l’esecuzione della
condanna de qua deve considerarsi parte integrante del termine complessivo del
processo, e pertanto rileva ai fini del rispetto del citato art. 1, par. 6, della
Convenzione (al riguardo, sono state citate le sentenze della Grande Camera, 29
marzo 2006, Cocchiarella c. Italia, e della Sez. II, 21 dicembre 2010, Gaglione c.
Italia);
- negli arresti testé richiamati, la Corte ha ritenuto ragionevole ammettere un
termine di “tolleranza” per l’esecuzione delle sentenze in subiecta materia, termine
che è stato equitativamente fissato in sei mesi, decorsi i quali il ritardo non è più
giustificabile;
- inoltre, la Corte ha precisato che la mancanza di risorse finanziarie non può
costituire idonea giustificazione all’inadempimento degli obblighi indennitari
discendenti da condanne giurisdizionali per violazione della ragionevole durata del
processo;
- tale quadro normativo e giurisprudenziale impone, secondo il primo giudice,
“un’interpretazione restrittiva (sostanzialmente, la disapplicazione)” dell’art. 3, comma 7,
della precitata legge nr. 89 del 2001, secondo cui, in caso di condanna all’equo
indennizzo: “...L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse
disponibili”;
- ciò premesso, decidendo sulla domanda delle parti ricorrenti di condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno da ritardo mediante applicazione
della penalità di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., il T.A.R. ha
ritenuto di aderire all’orientamento secondo cui tale istituto, a differenza di quello
similare disciplinato nel processo civile dall’art. 614-bis cod. proc. amm., è
applicabile anche alle ipotesi in cui gli obblighi incombenti alla p.a. in esecuzione
del giudicato abbiano carattere pecuniario;
- conseguentemente il primo giudice ha ritenuto, da un lato, di non ritenere
giustificabile – in applicazione della richiamata giurisprudenza EDU – il perdurante
ritardo nell’erogazione delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo sulla base
dell’affermata carenza di risorse finanziarie, e, pertanto, di dover condannare il
Ministero della Giustizia al pagamento di somme ex art. 114, comma 4, lettera e),
cod. proc. amm. con decorrenza dallo scadere dell’anzi detto termine semestrale
dalla data in cui ciascuna sentenza o decreto da ottemperare erano passati in
giudicato (tanto, sempre in ossequio alla giurisprudenza europea innanzi
richiamata);
- con riguardo alla quantificazione dell’astreinte, il T.A.R. ha infine ritenuto di
aderire all’indirizzo per cui questa va equitativamente commisurata in € 100,00 per
ogni mese di ritardo (cfr. sent. Cocchiarella, cit.).
2.2. A fronte delle statuizioni così riassunte, l’Amministrazione ha affidato i propri
appelli a due motivi fondamentali:
a) da un lato, contestando l’applicabilità dell’istituto introdotto nel processo
amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. anche
all’esecuzione di condanne al pagamento di somme di denaro;
b) dall’altro, tacciando di erroneità la disapplicazione dell’art. 3, comma 7, della
legge nr. 89 del 2001, per ritenuto contrasto con l’art. 6, par. 1, come interpretato
dalla Corte, non essendo tale operazione consentita al giudice a cagione della non
diretta applicabilità delle norme CEDU nell’ordinamento italiano.
3. Tutto ciò premesso, la Sezione reputa che – indipendentemente dall’ordine in
cui sono articolati i due mezzi suindicati, che è differenziato nei diversi appelli qui
esaminati – vada accordata priorità logica al primo dei detti motivi, essendo
evidente che la sua eventuale fondatezza, comportando in radice l’inammissibilità
della domanda di condanna all’astreinte, esonererebbe dall’esame del secondo
mezzo.
4. La doglianza è però infondata, dovendo condividersi le conclusioni del primo
giudice.
4.1. Al riguardo, la Sezione non ritiene di doversi discostare dall’ormai consolidato
indirizzo di questo Consesso, che è concorde nel senso dell’applicabilità
dell’istituto della penalità di mora per ritardo nell’esecuzione del giudicato,
introdotto nel processo amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc.
amm., non solo ai casi di ottemperanza a sentenze comportanti per la p.a. obblighi
di fare o non fare, ma anche alle condanne al pagamento di somme di denaro (cfr.
ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, nr. 3781; Cons. Stato, sez. III, 30
maggio 2013, nr. 2933; C.g.a.r.s., 30 aprile 2013, nr. 424; Cons. Stato, sez. IV, 31
maggio 2012, nr. 3272; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2012, nr. 2744).
Non ignora il Collegio che è ancora diffuso in primo grado un orientamento
opposto, basato su non irragionevoli argomenti che sono stati puntualmente
richiamati dal Ministero della Giustizia negli odierni appelli, e segnatamente:
- sulla Relazione di accompagnamento al codice del processo amministrativo, nella
quale si assume che l’introduzione dell’astreinte obbedirebbe alla ratio di dotare
anche il processo amministrativo di uno strumento analogo a quello introdotto nel
processo civile dall’art. 614-bis cod. proc. civ. (laddove, come è noto, la possibilità
di condanna a penalità di mora da parte del giudice dell’esecuzione è limitata ai soli
casi di inadempimento di giudicati da cui discendano obblighi di fare o di non
fare);
- sull’esigenza di evitare “asimmetrie” sotto tale profilo tra giudizio civile e giudizio
amministrativo;
- sulla circostanza che tali asimmetrie potrebbero tradursi in vere e proprie
discriminazioni proprio con riguardo all’esecuzione delle condanne pecuniarie
emesse dal giudice ordinario nei confronti delle amministrazioni pubbliche,
laddove – come è noto – sopravvive nell’attuale sistema la facoltà della parte
vittoriosa di ricorrere, alternativamente o anche cumulativamente, sia al giudizio di
esecuzione in sede civile sia al giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice
amministrativo.
Tuttavia, questi argomenti appaiono recessivi a fronte del chiaro tenore letterale
della disposizione de qua, laddove, a differenza che nel citato art. 614-bis cod. proc.
civ., non viene posta alcuna distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere
del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna dell’amministrazione
inadempiente al pagamento della penalità di mora.
Inoltre, sono note le peculiarità del giudizio di ottemperanza disciplinato
nell’ambito del processo amministrativo, tali da escluderne la piena assimilabilità ad
un mero giudizio di esecuzione e, pertanto, anche da giustificarne un diverso
regime normativo sotto lo specifico profilo qui considerato.
In particolare, la giurisprudenza più sopra richiamata sottolinea la peculiare natura
giuridica dell’astreinte ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che integra
non già un mero meccanismo risarcitorio per il ritardo nell’inadempimento del
giudicato, ma anche uno strumento sanzionatorio e di pressione nei confronti della
p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi
discendenti dal decisum giudiziale.
5. Alla luce dei rilievi che precedono, va respinta la doglianza di violazione o falsa
applicazione dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. articolata in tutti gli
appelli qui riuniti.
6. Con riferimento al motivo di cui sub b) al precedente punto 2.2, la sua decisione
va differita all’esito delle definizione della questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001, che viene sollevata dalla Sezione
con separata ordinanza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), riuniti gli appelli in
epigrafe, parzialmente pronunciando su di essi, li respinge in parte, come meglio
precisato in motivazione.
Riserva al definitivo ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014 con
l’intervento dei magistrati:
Marzio Branca, Presidente FF
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Fabio Taormina, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/01/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
N. 00260/2014REG.PROV.COLL.
N. 00247/2010 REG.RIC.
R E P U B B L I C A
I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nominato nel ricorso in
ottemperanza
n.
247
del
2010,
proposto
da
Giuseppe Ianniruberto, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Verde, ed
elettivamente domiciliato presso lo studio Farsetti – Amoroso in Roma, via
Tarvisio n. 2, come da nuova istana per l’ottemperanza del 26 aprile 2013;
contro
Ministero della giustizia, in persona del ministro legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la
stessa
domiciliato
ex
lege
in
Roma,
via
dei
Portoghesi
n.12;
Consiglio superiore della Magistratura, in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Massimo Luciani, ed elettivamente
domiciliato presso quest’ultimo in Roma, lungotevere Raffaello Sanzio n. 9, come
da mandato a margine della memoria del 25 ottobre 2013;
nei confronti di
Torquato Gemelli, non costituito in giudizio;
per l’esecuzione
della decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n.
4839 del 31 luglio 2009;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consiglio superiore della Magistratura e
del Ministero della giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013 il Cons. Diego
Sabatino e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale d’udienza ;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con atto denominato “nuova istanza per l’ottemperanza”, Giuseppe Ianniruberto,
depositato il 15 maggio 2013, chiede a questa Sezione di pronunciarsi nuovamente
in merito all’esecuzione della sentenza n. 4839 del 31 luglio 2009, di fronte alla
situazione determinatasi a seguito del provvedimento del nominato commissario
ad acta, depositato agli atti del giudizio in data 25 febbraio 2013.
La vicenda su cui la Sezione deve pronunciarsi si pone alla fine di una diatriba
giudiziaria complessa, che ha interessato sia la fase di cognizione sia quella di
esecuzione. Quest’ultima è quella qui rilevante ed anche quella in cui si rinvengono
i profili di maggior complessità, per cui pare necessario riassumerne sinteticamente
la scansione cronologica.
Con ricorso iscritto al n. 247 del 2010, depositato il 14 gennaio 2010, Giuseppe
Ianniruberto proponeva giudizio per l’ottemperanza alla decisione del Consiglio di
Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 4839 del 31 luglio 2009. La
sentenza aveva accolto il ricorso proposto contro il Ministero della giustizia ed il
Consiglio superiore della magistratura per l’annullamento della sentenza del Tar
Lazio, sezione I, n. 00925/2009, resa tra le parti e concernente la nomina a
presidente aggiunto della Corte di cassazione. In motivazione, la Sezione aveva
ritenuto fondate le censure dedotte dal ricorrente, sotto il profilo del vizio di
eccesso di potere per errore di fatto e travisamento, avverso i giudizi formulati dal
Consiglio superiore della magistratura nei confronti delle esperienze professionali
maturate, rispettivamente, dai due magistrati controinteressati al giudizio.
Proponendo il ricorso per mancata esecuzione del giudicato, iscritto al n. 247 del
2010, il ricorrente lamentava l’ulteriore inadempimento del Consiglio superiore
della magistratura in merito all’obbligo di rideterminarsi a seguito della decisione di
questa Sezione.
Il ricorso veniva accolto, con la decisione n. 1715 del 24 marzo 2010, dalla quale
emergeva l’obbligo dell’organo di autogoverno di procedere all’esecuzione della
sentenza di accoglimento nel merito, evidenziando come le ragioni dedotte a
sostegno della propria inadempienza, e soprattutto attinenti all’intervenuto
collocamento a riposo del dott. Ianniruberto, non avessero alcuna efficacia
esimente della mancata ottemperanza.
In esecuzione della decisione n. 1715 del 2010, il Consiglio superiore della
magistratura adottava, nella seduta del giorno 8 luglio 2010, una ulteriore delibera
con la quale veniva sostanzialmente confermato il giudizio espresso nei confronti
del dott. Ianniruberto. Tale decisione veniva gravata, nell’ambito dello stesso
procedimento, con atto per motivi aggiunti depositato il 16 luglio 2010,
evidenziando come la delibera avesse sostanzialmente eluso il giudicato
intervenuto tra le parti.
Con ordinanza n. 397 del 2010, la Sezione esperiva accertamenti istruttori, al fine
di acquisire la delibera gravata e, successivamente, all’udienza in camera di
consiglio del 18 gennaio 2011, assumeva il ricorso in decisione, depositando, in
data 4 marzo 2011, la sentenza n. 1415. In questa sentenza, la Sezione osservava
come il Consiglio superiore della magistratura avesse sostanzialmente ribaltato i
canoni utilizzati nella prima valutazione, già annullata, utilizzando un metro
diverso, ed opposto a quello previsto nelle delibere vigenti per l’assegnazione degli
incarichi direttivi e semidirettivi ai magistrati ordinari, per poi giungere alle stesse
conclusioni in fatto, confermando l’esclusione del ricorrente Ianniruberto.
Sulla scorta della riconosciuta irragionevolezza del comportamento del Consiglio
superiore della magistratura, pur in presenza di una sentenza favorevole al
ricorrente, questa Sezione si pronunciava nei sensi di ritenere “che nella fattispecie
sussistano fondati elementi per qualificare come elusive del giudicato le ulteriori
determinazioni adottate a seguito della decisione n. 4839 del 2009, e segnatamente
la delibera consiliare del giorno 8 luglio 2010 con la quale si è nuovamente
proceduto a designare il dottor Gemelli per l’incarico direttivo di Presidente
aggiunto presso la Corte di cassazione”.
Disponeva inoltre che “In considerazione della reiterata inottemperanza
dell’Amministrazione al giudicato, la Sezione reputa altresì di dover nominare fin
d’ora un Commissario ad acta nella persona del Vice Presidente pro tempore del
Consiglio Superiore della Magistratura: all’Amministrazione è pertanto assegnato
per l’adempimento un termine di trenta giorni dalla notificazione o dalla
comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, dopo di che,
perdurando l’inottemperanza, il Commissario ad acta avrà un ulteriore termine di
trenta giorni, decorrente dall’inutile scadenza del periodo precedente, per
provvedere a quanto di competenza. In caso di infruttuoso decorso anche di tale
ulteriore termine, la Sezione si riserva di provvedere direttamente, su istanza di
parte,
sostituendosi
provvedimenti”.
all’Amministrazione
per
l’adozione
dei
necessari
La pronuncia n. 1415 del 2011, così sintetizzata nei suoi aspetti centrali, veniva
gravata, con ricorso datato 12 maggio 2011, davanti alla Corte suprema di
cassazione, con ricorso ai sensi dell’art. 111, comma 8, della Costituzione, dell’art.
110 del codice del processo amministrativo e dell’art. 362 del codice di procedura
civile, con difesa affidata ad un professionista del libero foro e non all’Avvocatura
dello Stato, dove si sosteneva il superamento da parte di questa Sezione dei limiti
esterni della propria giurisdizione. La proposizione del ricorso determinava la
Sezione, a seguito di esplicito incidente proposto dalla difesa del Consiglio
superiore della magistratura, a sospendere l’esecutività della propria sentenza, con
ordinanza n. 2543 del 14 giugno 2011.
La decisione del ricorso proposto contro la sentenza qui ottemperanda era data
con sentenza delle sezioni unite n. 736 del 19 gennaio 2012. La Corte di
cassazione, sottolineato come il caso in scrutinio si presentasse “in certa misura
analogo a quello su cui la Corte è di recente intervenuta con la sentenza 23302 del
2011 di queste sezioni unite”, evidenziava continuità e differenze rispetto
all’orientamento espresso poco più di due mesi prima e, conclusivamente,
respingeva il ricorso proposto dal Consiglio superiore della magistratura con
ricorso ai sensi dell’art. 111, comma 8, della Costituzione, dell’art. 110 del codice
del processo amministrativo e dell’art. 362 del codice di procedura civile,
consolidando così il decisum della sentenza di questa Sezione, n. 1415 del 4 marzo
2011.
Con ricorso in riassunzione e prosecuzione del giudizio di ottemperanza con
istanza risarcitoria, Giuseppe Ianniruberto chiedeva a questa Sezione di dare corso
al procedimento iscritto al n. 247 del 2010, all’esito del quale è stata emessa la
sentenza n. 1415 del 4 marzo 2011, contro la quale è stato proposto dal Consiglio
superiore della magistratura ricorso ex art. 111 ultimo comma della Costituzione,
ricorso respinto dalla Suprema corte con sentenza n. 736 del 19 gennaio 2012. In
concreto, poiché a seguito della proposizione del ricorso davanti alla Suprema
corte, questa Sezione, con ordinanza n. 2543 del 14 giugno 2011, aveva sospeso
l’esecutività della sentenza impugnata, il ricorrente Ianniruberto chiedeva ora di
dare corso al decisum, dettando i provvedimenti necessari al conseguimento
dell’utilità domandata.
La Sezione emetteva pertanto la sentenza n. 6286 del 10 dicembre 2012, dove
accoglieva l’istanza proposta da Giuseppe Ianniruberto e disponeva procedersi
all’attuazione della sentenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione
Quarta, n. 1415 del 4 marzo 2011 nei sensi indicati nella stessa sentenza,
provvedendo altresì alla sostituzione del commissario ad acta, ora nominato nella
persona del segretario generale del Consiglio superiore della magistratura,
contestualmente revocando la precedente nomina in favore del vicepresidente del
Consiglio superiore della magistratura. La stessa sentenza provvedeva a respingere
la domanda risarcitoria proposta dal ricorrente Ianniruberto.
Il commissario ad acta depositava, in data 25 febbraio 2013, il provvedimento del
22 febbraio 2013 con cui, in ottemperanza alla sentenza n. 6286 del 10 dicembre
2012, disponeva l’inserimento nel fascicolo personale del ricorrente della sentenza
del Consiglio di Stato n. 1415 del 4 marzo 2011 e del provvedimento del
commissario ad acta che aveva disposto in tal senso nonché l’inserimento, nella
scheda anagrafica che ricostruisce la carriera del magistrato, della seguente
annotazione: “Vincitore del contenzioso per la nomina dell’incarico di Presidente
aggiunto della Corte di Cassazione”.
Avverso tale provvedimento, ritenuto non satisfattivo, insorge ora Giuseppe
Ianniruberto con l’atto denominato “nuova istanza per l’ottemperanza”, depositato
il 15 maggio 2013, evidenziando la sostanziale elesione del giudicato formatosi e
chiedendo alla Sezione di fargli conseguire direttamente il bene della vita richiesto,
ossia la qualifica di Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, con conseguente
attribuzione del trattamento di fine rapporto spettante, oltre interessi, rivalutazione
e
risarcimento
dei
danni
subiti
in
conseguenza
del
comportamento
dell’amministrazione.
Nel giudizio, si è costituito il Consiglio superiore della Magistratura, chiedendo di
dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
All’udienza in camera di consiglio del 12 novembre 2013, il ricorso è stato discusso
e assunto in decisione.
DIRITTO
1. - In via preliminare, ritiene la Sezione di dover correttamente qualificare la
domanda proposta da Giuseppe Ianniruberto con l’atto denominato “nuova
istanza per l’ottemperanza”, depositato il 15 maggio 2013, anche al fine di
determinare la disciplina applicabile.
Va in primis rimarcato come l’ipotesi di un’ulteriore decisione sull’ottemperanza
possa scaturire, a norma dell’art. 112 del codice del processo amministrativo, nei
casi in cui l’amministrazione non abbia dato attuazione alla sentenza, vuoi per il
silenzio serbato di fronte alla richiesta del privato, vuoi per la sostanziale elusività
del suo comportamento. Tuttavia, nelle evenienze globalmente contemplate dalla
norma, il comportamento omissivo o commissivo censurabile è sempre imputabile
all’amministrazione, come soggetto primariamente responsabile dell’ottemperanza,
a norma del comma 1 del citato art. 112.
Qualora invece, come in questo caso, il giudice abbia provveduto alla nomina,
giusta l’art. 21 del codice del processo amministrativo, di un commissario ad acta,
non
vi
è
spazio
giuridico
per
dolersi
dell’azione
o
dell’omissione
dell’amministrazione, in quanto la stessa è stata sostituita nell’ottemperanza e vi è
un soggetto diverso incaricato dell’esecuzione. Peraltro, l’attività del commissario
ad acta non è senza controllo, atteso che l’art. 114 comma 5 del codice prevede
una particolare azione avverso gli atti, esercitabile da chiunque ne abbia interesse,
con modalità diverse, in quanto le stesse parti possono agire dinanzi al giudice
dell'ottemperanza con reclamo nel termine di sessanta giorni, mentre i terzi
estranei al giudicato possono impugnarli con il rito ordinario.
Dagli elementi appena ricordati, è evidente che la “nuova istanza per
l’ottemperanza”, depositata da Giuseppe Ianniruberto in data 15 maggio 2013, non
può essere intesa come tesa a censurare l’azione o l’omissione del Consiglio
superiore della magistratura, atteso che questo era stato sostituito nell’attuazione
dalla nomina del commissario ad acta, nella persona del segretario generale
dell’organo di autogoverno.
A tale constatazione si aggiunge quella che la “nuova istanza per l’ottemperanza” si
rivolge espressamente contro il provvedimento del commissario ad acta,
censurandone i contenuti e facendo di tale atto l’oggetto delle doglianze.
Appare quindi del tutto corretto qualificare la “nuova istanza per l’ottemperanza”
come atto di reclamo proposto dalle parti contro l’operato del commissario ad
acta, a norma dell’art. 114 comma 5 del codice del processo amministrativo, in
ragione della sua collocazione nell’iter processuale e del suo contenuto.
2. - Ancora in via preliminare occorre dare conto dell’eccezione di tardività
proposta dalla difesa del Consiglio superiore della Magistratura nella sua memoria
del 25 ottobre 2013. Nella difesa si rileva come, a fronte di un provvedimento
adottato in data 22 febbraio 2013 e depositato in data 25 febbraio 2013, il reclamo
sia stato notificato solo in data 6 maggio 2013 con deposito in data 15 maggio
2013, e quindi dopo la maturazione del termine di decadenza di cui all’art. 114,
comma 6, del codice del processo amministrativo.
2.1. - L’eccezione è fondata e va accolta.
Occorre evidenziare come sia consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui
“il Commissario ad acta esplica sempre attività di carattere giurisdizionale ed è
organo del giudice dell'ottemperanza, per cui i suoi atti non sono riconducibili al
regime delle impugnazioni bensì all'immanente controllo del predetto giudice”
(così Consiglio di Stato, sez. V, 21 gennaio 2011 n. 443, peraltro espressosi in
relazione ad una fattispecie antecedente all’entrata in vigore; argomento ripreso poi
da Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2013 n. 635).
L’entrata in vigore del codice del processo amministrativo ha provveduto ad
precisare gli strumenti di controllo giudiziale sul commissario ad acta, articolando
due diversi meccanismi processuali: il primo riservato alle sole parti del giudizio e
costruito nella forma del reclamo al giudice dell’ottemperanza; il secondo, valevole
per tutti i terzi e quindi per tutti gli estranei al giudicato formatosi, che ha invece la
forma del giudizio ordinario.
È evidente come il diverso regime sia collegato alla sostanziale diversità di
situazioni giuridiche, collegate all’essere o meno evocati in giudizio. Infatti, mentre
le parti partecipano, o sono messe in condizione di partecipare, al giudizio con le
garanzie previste dall’ordinamento, ed essere così a conoscenza del progressivo
avanzamento dell’iter processuale, i terzi, che sono stati estranei al giudizio di
cognizione come pure, conseguentemente, al giudizio di ottemperanza, subiscono
gli atti del commissario ad acta come una inaspettata intrusione nella loro sfera
giuridica. Ecco perché a questi ultimi, e solo a questi ultimi, il codice del processo
amministrativo riserva le garanzie del giudizio ordinario, ossia li equipara a
qualsiasi altro soggetto inciso dall’azione ab externo dall’azione amministrativa.
La detta diversità ha un riflesso nella scansione dell’incidente processuale.
Infatti, mentre parlando dei terzi, l’art. 114 comma 6 del codice del processo
amministrativo fa semplicemente rinvio al giudizio ordinario (e quindi
dinamicamente richiama tutta la disciplina vigente in merito ai termini e alle
modalità di instaurazione del giudizio), in relazione alle parti provvede
autonomamente a regolare il procedimento utilizzabile, stabilendo che “le stesse
parti possono proporre, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, reclamo, che e'
depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni”.
Tuttavia, la disciplina non dice nulla in merito al momento iniziale di decorrenza
del termine di sessanta giorni per il deposito del reclamo. Mentre nei riguardi di
terzi il mero rinvio alla disciplina del giudizio ordinario fa supporre che sia
applicabile il criterio generale della conoscenza dell’atto, nulla dice il codice in
merito al criterio valevole nel caso di reclamo proponibile dalle parti.
In particolare, nonostante che il commissario ad acta sia disciplinato nello stesso
capo V del libro I relativo agli ausiliari del giudice, ai suoi atti non può essere
applicata la stessa disciplina valevole per le altre figure di ausiliari, ossia il
verificatore e il consulente tecnico, sia in relazione alla partecipazione alle
operazioni, sia soprattutto in merito alla comunicazione, ex art. 68 comma 4,
dell’avviso che l'istruttoria disposta e' stata eseguita e che i relativi atti sono presso
la segreteria. E ciò in considerazione che, mentre gli altri ausiliari agiscono nella
fase istruttoria fornendo un mero supporto conoscitivo, il commissario ad acta
opera al posto del giudice, con atti che, quando correttamente esplicati, sono
imputati alla funzione giurisdizionale stessa.
L’individuazione del momento di decorrenza del termine per il deposito del
reclamo deve quindi essere individuato tenendo presente i rapporti processuali e i
poteri dei soggetti coinvolti. E, infatti, in primo luogo, le parti non possano
vantare la pretesa alla comunicazione individuale del deposito degli atti del
commissario ad acta, vicenda applicabile agli altri ausiliari; in secondo luogo,
neppure possono fruire della posizione di attesa dei terzi, che sono legittimati ad
agire all’esito dell’effettiva conoscenza del provvedimento lesivo; in terzo luogo,
non possono neppure protrarre ad libitum la pendenza del termine, visto che il
provvedimento del commissario viene comunque ad incidere sulle posizioni
corrispettive delle controparti del giudizio.
La comparazione delle posizioni e delle rispettive posizioni di forza processuale
permette quindi di ritenere che, come sostenuto dalla difesa del Consiglio
superiore della Magistratura, il termine decadenziale di sessanta giorni debba
effettivamente decorrere dalla data del deposito del provvedimento, ossia dal
momento della conoscibilità dell’avvenuto adempimento da parte del commissario
ad acta.
La conoscibilità (e non l’effettiva conoscenza che invece giova ai terzi esterni)
appare un criterio di equa ripartizione dei doveri di diligenza processuale in capo ai
soggetti coinvolti. Infatti, in tale modo si esce dall’impasse di assimilare
ingiustamente la parte ai terzi o il commissario agli altri ausiliari o ancora di
consentire il protrarsi sine die di una situazione irrisolta. Per altro verso, la detta
conoscibilità non si risolve in un onere gravoso in capo alla parte, sia per il termine
oggettivamente lungo per la presentazione del reclamo, sia perché la conoscenza
dell’avvenuto deposito ben può avvenire tramite la mera consultazione del sito
informatico della giustizia amministrativa, dal quale risultava in tempo reale
l’avvenuto deposito da parte del C.S.M. in data 25 febbraio 2013.
Conclusivamente, dovendosi fare decorrere il termine per la presentazione del
reclamo di cui all’art. 114 comma 6 del codice del processo amministrativo dal
momento del deposito agli atti del processo del provvedimento emesso del
commissario ad acta, ne deriva la tardività della presentazione della “nuova istanza
per l’ottemperanza”, depositata in data 15 maggio 2013 rispetto al deposito
dell’atto reclamato, avutosi in data 25 febbraio 2013.
3. - Il reclamo va quindi dichiarato irricevibile. Tutti gli argomenti di doglianza non
espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese
processuali, determinati dalla novità della questione decisa.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente
pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
1. Dichiara irricevibile il reclamo proposto contro gli atti del commissario ad acta
nominato nell’ambito del ricorso n. 247 del 2010;
2. Compensa integralmente tra le parti le spese della presente fase di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013, dal
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta - con la partecipazione
dei signori:
Riccardo Virgilio, Presidente
Nicola Russo, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 20/01/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)