Petrolio e petrolchimica
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Le origini del petrolio
Le prime ipotesi sulle origini del petrolio risalgono al 1700:
Alessandro Volta espresse l'opinione che il «gas delle paludi» o
metano, fosse prodotto dalla decomposizione di sostanze
animali. Il metano venne poi studiato da Dalton.
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In questi ultimi anni sono state
formulate varie teorie:
•secondo Fischer e Tropsch, il petrolio
si sarebbe formato da reazioni chimiche
tra fra carbonio inorganico (carburi) e
acqua ad altissime pressioni nella zona
p r o f o n d a d e l l a Te r r a c h i a m a t a
"mantello".
•Il petrolio esiste nel mantello fin da
epoche remotissime, ovvero fin dalla
formazione del pianeta. Queste enormi
quantità di idrocarburi sotterranei
migrano lentamente alla superficie
formando i pozzi dai quali oggi
estraiamo petrolio e gas;
•secondo un'altra teoria la radioattività
terrestre avrebbe liberato idrogeno
dall'acqua, con successive reazioni di
addizione al carbonio.
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La più accreditata è,
però, la teoria
dell'origine organica del
petrolio, per la quale la
degradazione anaerobia
di organismi morti
avrebbe formato per
primi gli idrocarburi
superiori;
questi sarebbero stati poi elaborati da batteri aerobi e
anaerobi. A convalida, si trovano nel petrolio grezzo sostanze
organiche di struttura simile al colesterolo, sostanze
otticamente attive e pigmenti del gruppo delle porfirine.4
sabato 21 agosto 2010
I materiali organici da cui si è
formato il petrolio sono costituiti da
resti di organismi vegetali e animali
(alghe, coralli, lamellibranchi, ecc.),
che vivevano nel mare, allo sbocco
dei fiumi o in prossimità della costa.
Questo materiale sedimentava sul
fondo e veniva ricoperto dai detriti
portati dai fiumi: si formarono, così,
rocce argillose, rese compatte dal
peso degli strati che man mano
andavano accumulandosi.
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Queste rocce sedimentarie sono state battezzate «rocce madri»
in quanto in esse si svolse il lento processo di trasformazione
che ha dato origine al petrolio. Successivamente avvenne il
fenomeno della «migrazione»: le rocce madri, pressate dagli
strati superiori, si comportarono come una spugna schiacciata,
facendo sprizzar fuori il petrolio che andò a impregnare sabbie e
rocce più porose, quindi più permeabili come argille sabbiose e
calcari, ma non sottoposte a elevate forze di schiacciamento.
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Le rocce nelle quali si accumula il petrolio sono dette «rocce
magazzino» o «rocce serbatoio» e rappresentano gli attuali giacimenti.
Questi giacimenti, prettamente sottomarini, si ritrovano oggi in molte
zone continentali: la loro attuale dislocazione è dovuta agli imponenti
fenomeni che hanno modificato e modificano la struttura e la
morfologia della crosta terrestre, trasportando ovunque le rocce
magazzino e le rocce madri.
Il petrolio si ritrova, però, solo
nelle rocce magazzino che non
sono affiorate; dalle altre,
affiorate nelle epoche passate, il
petrolio si è disperso in
superficie e le rocce stesse si
sono trasformate dando origine
a tipiche rocce asfaltiche; in rari
casi, si è verificata la
formazione di veri e propri laghi
d'asfalto come quello, ancora
esistente, di Trinidad.
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La trasformazione della sostanza organica in petrolio iniziano
già a circa 1 Km di profondità e ad una temperatura di almeno
60 C° con il processo di diagenesi attraverso il quale i
sedimenti diventano roccia e in questo caso roccia madre.
Il processo di
sprofondamento può
anche continuare
passando alla
catagenesi, continuando
nella metagenesi e fino
ad arrivare al
metamorfismo per
profondità superiori ai 6-7
Km e temperature di oltre
200°.
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Durante la diagenesi il sedimento e la materia organica,
prevalentemente composta da lipidi, proteine e carboidrati
(con lignine e tannini per i vegetali), subiscono una
compattazione a causa dalla pressione ed un aumento di
temperatura che favorisce i batteri presenti nel terreno a
"fermentare" la sostanza organica producendo CO2 e CH4;
quest'ultimo a volte può formare i famosi gas di palude,
detto metano biogenico. Al termine della diagenesi la
sostanza organica in parte si è trasformata in Kerogene,
geopolimero complesso progenitore del petrolio.
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Con l'incremento della temperatura e della profondità si passa
alla fase di catagenesi dove il kerogene passa allo stato
amorfo in macromolecole formate principalmente da carbonio
ed idrogeno, con una piccola percentuale di ossigeno, zolfo e
azoto. Aumenta ancora la temperatura e il kerogene continua a
trasformarsi eliminando dalla macromolecola le molecole più
leggere, e relativamente ricche di O e H, assumendo una
struttura via via più ordinata e stabile.
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Nella fase finale della
catagenesi il kerogene completa
la sua maturazione (a circa
150°C e diversi Km di profondità
con pressioni di circa 1000
Atm. ). Qui avviene il processo
di cracking, causato dalla
temperatura. Le macromolecole
originali si rompono formando
molecole di bitume (petrolio) e
di gas che, essendo molto
meno dense della
macromolecola di partenza,
migreranno verso l'alto e per
accumularsi contro barriere
rocciose impermeabili
(trappole).
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La produzione di petrolio avviene tra
due temperature: una minima di
circa 60° in cui inizia la fase di
diagenesi al cui termine si genera il
kerogene, ed una massima tra i
100°-150° in cui il kerogene subisce
il cracking. Queste due soglie
termiche delimitano la finestra
dell'olio, ossia l'intervallo di
profondità e temperatura in cui la
roccia madre produce la massima
quantità di petrolio.
Alla soglia del metamorfismo (circa 5-6 Km di profondità e temp di
circa 200°) il kerogene diventa un residuo carbonioso grafitico.
Non esiste possibilità alcuna di generare petrolio ma può formarsi
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ancora metano.
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Ricapitolando
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Qualche ripensamento?
La vecchia teoria
secondo la quale il
petrolio sarebbe una
rielaborazione degli
idrocarburi inizialmente
presenti nella
formazione della Terra
è stata utilizzata
costantemente dai
geofisici russi.
Ottimi risultati sono stati ottenuti in Siberia, nel Vietnam, negli anni
Sessanta e Settanta, e in una regione considerata per
quarantacinque anni come un bacino geologicamente sterile, il
bacino del Dnieper-Donets, situato fra la Russia e l’Ucraina.
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La maggior parte degli olii è di tipo paraffiniconaftenico, generalmente di media densità e con
poco zolfo, oppure di tipo aromatico-intermedio
di solito densi e con tenore di zolfo spesso
elevato. Gli oli naftenici sono molto rari.
Con l'aumentare della profondità e della
temperatura gli olii si alterano, diventando più
leggeri, più paraffinici e meno ricchi di zolfo;
viceversa, per olii più superficiali, il dilavamento
per azione di acque meteoriche, accompagnato
da azioni batteriche, rende gli olii più pesanti e
viscosi, e più ricchi di aromatici e composti con
azoto/zolfo/ossigeno.
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Composizione petroli
paraffinici
naftenici
aromatici
provenienza
Greggi
paraffinici
60-70
20-25
10
Nord America
Medio Oriente
Greggi
naftenici
10-12
70
10
Russia
Greggi
paraffinonaftenici
45-50
30-35
15-18
Medio Oriente
Greggi
aromaticonaftenici
15-20
35-45
25-50
Nord America
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Commercialmente, la proprietà utilizzata per descrivere il greggio è la
densità, tradizionalmente espressa con il grado API. Si definiscono
olii pesanti quelli con °API minori di 25, ossia con peso specifico
maggiore di 0,9; gli olii leggeri hanno densità attorno ai 40° api, ossia
peso specifico 0,83. Un altro parametro che ha molta importanza nella
valorizzazione del greggio è il contenuto di zolfo, che può variare tra
lo 0,1 e valori oltre il 5% peso. La maggior parte dei greggi lavorati sul
mercato ha composizione compresa in una forchetta più ristretta.
500.000 barili/
giorno
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Recupero primario
Nella maggior parte dei casi, i pozzi petroliferi
vengono trivellati con il metodo "a
rotazione" (rotary) brevettato in Gran
Bretagna nel 1844 da R. Beart. L'elemento
più appariscente di un impianto di
perforazione è l'alta struttura a traliccio detta
torre di trivellazione, o derrick, che a circa tre
metri dal suolo sostiene una piattaforma sulla
quale sono montati la "tavola rotante" e il
relativo apparato motore. Entro un foro a
sezione quadrata della tavola rotante
(orizzontale) scorrono verticalmente,
ricevendo da questa un moto rotatorio, le aste
tubolari (pure a sezione quadrata) della
batteria di perforazione, che vengono avvitate
una sull'altra man mano che penetrano nel
terreno.
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La prima asta, che provvede alla
perforazione del terreno, è dotata di
una testa tagliente (denominata
"scalpello"), generalmente costituita
da tre ruote dentate coniche ad assi
concorrenti, con i denti di acciaio
temprato o di altro materiale adatto a
frantumare la roccia. All'interno della
batteria di perforazione, che penetra
nel terreno spinta dal suo stesso
peso, viene pompato fango molto
fluido: questo, raggiunto lo scalpello,
ritorna in superficie (portando con sé i
detriti del terreno scavato) passando
nell'intercapedine situata fra le aste
della batteria e le pareti del foro (il
diametro dello scalpello infatti è
maggiore di quello delle aste).
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Il petrolio grezzo contenuto nelle trappole
sotterranee è solitamente sotto pressione e salirebbe
fino alla superficie se non fosse bloccato da uno
strato di roccia impermeabile; così, quando la trivella
penetra in questi bacini petroliferi "pressurizzati", il
petrolio fluisce immediatamente nella zona di bassa
pressione costituita dal foro di trivellazione, che è in
comunicazione con la superficie terrestre. Il pozzo,
via via che si riempie di liquido, esercita a sua volta
una contropressione sul bacino petrolifero: in teoria
l'afflusso di nuovo liquido nel pozzo dovrebbe
dunque cessare molto presto. In pratica,
intervengono altri elementi a sostenere il flusso: fra
questi, l'elevata quantità di gas contenuto in
soluzione nel petrolio greggio, che si libera durante
l'afflusso nel pozzo di trivellazione, causando una
spinta del liquido verso l'alto, o la pressione
dell'acqua freatica, che pure si traduce in una spinta
del petrolio verso la superficie.
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A mano a mano che si estrae greggio dal
giacimento, la pressione all'interno del bacino e la
percentuale di gas disciolto nel liquido diminuiscono,
e dunque la quantità di petrolio che sale in superficie
si riduce; a questo punto, per continuare l'estrazione
è necessario ricorrere all'azione di una pompa
aspirante.
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Recupero secondario
Quando il flusso di petrolio è diventato esiguo, tanto che pomparlo in
superficie sarebbe troppo costoso (il che accade, generalmente,
quando si è estratto circa il 25% della riserva del bacino), si fa ricorso
a tecniche diverse, dette di recupero secondario. Attualmente i
sistemi di recupero secondario più usati sono: l'iniezione di acqua e
l'iniezione di gas o di vapore.
1) Per coltivare un giacimento petrolifero di grandi dimensioni, è
possibile trivellare numerosi pozzi a distanze comprese tra i 60 e i
600 m, in relazione al tipo di trappola nella situazione specifica.
Pompando acqua all'interno di alcuni dei pozzi, si riesce a mantenere
a un livello pressoché costante (oppure ad aumentare) la pressione
interna del bacino. In questo modo si incrementa la percentuale di
recupero del petrolio greggio, sfruttando anche il fatto che l'acqua lo
sposta fisicamente, facilitandone il recupero. In alcuni bacini molto
uniformi e caratterizzati da un basso contenuto di argilla, l'iniezione di
acqua può aumentare considerevolmente l'efficienza del pozzo.
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1) Iniezione di acqua
Per coltivare un giacimento petrolifero di
grandi dimensioni, è possibile trivellare
numerosi pozzi a distanze comprese tra i 60
e i 600 m, in relazione al tipo di trappola nella
situazione specifica. Pompando acqua
all'interno di alcuni dei pozzi, si riesce a
mantenere a un livello pressoché costante
(oppure ad aumentare) la pressione interna
del bacino. In questo modo si incrementa la
percentuale di recupero del petrolio greggio,
sfruttando anche il fatto che l'acqua lo sposta
fisicamente, facilitandone il recupero. In
alcuni bacini molto uniformi e caratterizzati
da un basso contenuto di argilla, l'iniezione
di acqua può inoltre aumentare
considerevolmente l'efficienza del pozzo.
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2) Attraverso un foro obliquo rispetto alla
direzione del foro di estrazione si inietta
gas o vapore alla maggiore profondità
possibile, in modo che questo spinga il
petrolio verso l'alto e inoltre, miscelandosi
a esso, ne diminuisca parzialmente la
densità. L'iniezione di vapore è impiegata
soprattutto nei giacimenti che contengono
tipi di greggio molto densi e viscosi, che
fuoriescono lentamente (Bitume). Il vapore
non solo fornisce energia necessaria a
spostare il petrolio ma, innalzando la
temperatura del bacino, ne riduce in modo
significativo la viscosità, permettendo una
fuoriuscita più rapida.
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Trivellazioni in mare aperto
Gli impianti di trivellazione in mare aperto (off shore) sono installati su
speciali piattaforme, capaci di resistere alla forza delle onde e del
vento, sia galleggianti, sia poggiate su piloni piantati nel fondale
marino, a profondità di diverse centinaia di metri. Come negli impianti
di trivellazione tradizionali, il derrick serve sostanzialmente a sostenere
e far ruotare la batteria di perforazione, alla cui estremità è fissata la
trivella stessa. Alcuni pozzi petroliferi trivellati da piattaforme di questo
tipo raggiungono profondità di oltre 6500 m sotto la superficie
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Sabbie bituminose (Tar sands)
Nel mondo esistono importanti giacimenti
di oli cosiddetti “non convenzionali”, vale a
dire greggi extra-pesanti e bitumi che
potrebbero costituire riserve energetiche
addizionali ai greggi che siamo abituati a conoscere. In
quest’ultima categoria rientrano anche le sabbie bituminose,
meglio conosciute con il termine di tar sands.
Le sabbie bituminose sono depositi di olio greggio notevolmente
più viscoso rispetto ad altri oli (extra-heavy oil, <10-12°API) . Dal
punto di vista geologico, la gran parte degli oli pesanti deriva da
oli maturi che, dopo essere stati espulsi dalla roccia madre, sono
migrati in strati rocciosi permeabili dove possono aver subito una
serie di processi degradativi, quali attacco di microrganismi,
evaporazione o dilavamento delle frazioni leggere, che hanno
concentrato la componente più pesante dell’olio.
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Una caratteristica comune alla gran parte dei greggi pesanti è
la loro presenza in bacini fluviali relativamente superficiali (basti
ricordare il bacino dell’Orinoco in Venezuela e l’Athabasca in
Canada). Per quanto riguarda le caratteristiche chimiche, oltre
all’alta densità, i greggi pesanti sono in genere caratterizzati da
significative quantità di zolfo (fino al 6-8% peso), metalli
(diverse centinaia di ppm di nichel e vanadio che, nel caso
degli heavy oil venezuelani, possono raggiungere i valori record
di 700-800 ppm) e soprattutto asfalteni, tanto che spesso essi
costituiscono una vera e propria componente dell’olio potendo
raggiungere livelli di concentrazione del 35% peso.
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Tipiche consistenze dei giacimenti (in barili di petrolio)
Iraq
Est Baghdad (campo petrolifero)
11 miliardi
Kirkuk (giacimento)
16 miliardi
Majnoon (campo petrolifero)
11-20 miliardi
Rumaila (campo petrolifero)
20 miliardi
West Qurna (campo petrolifero)
11-15 miliardi
Venezuela
Canada
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Bolivar Coastal (campo petrolifero)
ca. 30 miliardi
Boscán (campo petrolifero), Venezuela
1.6 miliardi
Orinoco (sabbie bituminose)
1.7 migliaia di miliardi
Athabasca (sabbie bituminose)
1.7 migliaia di miliardi
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Pretrattamenti
Il petrolio, all’atto dell’estrazione contiene
•acqua
•detriti
•sostanze organiche inquinanti contenti N,O,S
•tracce di metalli
Subito dopo l’estrazione viene fatto decantare per
allontanare i primi due. Rimangono però ancora
goccioline di acqua in sospensione contenenti sali.
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Se superano i 600 ppm deve essere trattato perché altrimenti i sali
(Ca2+, Mg2+,SO42-, Cl-) danno luogo a incrostazioni o corrosioni alle
parte metalliche degli impianti. E’ necessario allora dissalare, lavando
il petrolio con soluzioni acquose di modificatori della tensione
superficiale (alcoli superiori o solfonati) per consentire la coalescenza
delle goccioline d’acqua.
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Topping
E’ la distillazione
frazionata a pressione
atmosferica che si
attua sul petrolio.
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Nella colonna si immette il
greggio preriscaldato dalle
frazioni uscenti e
riscaldato a 360 °C in un
forno a tubi (pipe still);
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Il greggio caldo entra nella
colonna a 1/5 dell’altezza
(zona del flash) sotto forma
di miscela liquido/vapore a
1,4 atm e a circa 300°C.
Nella parte superiore della
colonna si ha la rettifica
mentre in quella inferiore si
ha l’esaurimento.
Dal basso della colonna, dove
non è presente un ribollitore,
si invia vapore che pur
provocando un certo
passaggio di idrocarburi
altobollenti nella zona di
rettifica, provoca il totale
esaurimento degli idrocarburi
bassobollenti presenti nel
residuo.
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sabato 21 agosto 2010
Tutte le frazioni vengono strippate in
controcorrente con del vapore per
allontanare la parte più volatile che è stata
trascinata.
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Attenzione agli scambi di calore
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I prodotti che si separano, a partire dalla testa,
sono:
-gas; da esso, compresso e raffreddato,
condensano propano e butano (GPL) mentre
metano ed etano rimangono allo stato gassoso.
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-oli leggeri (benzine); provengono dalla zona a100-200 °C
-kerosene; dalla zona a 210-250 °C
-gasolio; dalla zona a 260-320 °C
-gasolio pesante; oltre i 320 °C
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sabato 21 agosto 2010
I residui (oli pesanti) passano alla lavorazione successiva.
Non sarebbe produttivo infatti alzare la temperatura per
separare altre frazioni perché altrimenti inizierebbero le
reazioni di cracking comportanti rotture incontrollate delle
molecole, non esclusa la formazione di carbone
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sabato 21 agosto 2010
Il residuo del topping
passa al vacuum: è la
distillazione degli
idrocarburi pesanti
(quelli che hanno
p.eb.>360 °C) fatta a
pressione ridotta; si
ottiene un
frazionamento a
temperatura più bassa
evitando quindi il
cracking.
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sabato 21 agosto 2010
Crea il
vuoto
Si separano, a
partire dalla
testa:
Olii
lubrificanti
nafta
Forno a
tubi<400°C
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Ogni frazione, di entrambe le lavorazioni, passa ad uno
stripping con vapore per separare i componenti più leggeri
che vengono immessi nuovamente nella colonna principale
mentre le code sono le frazioni desiderate e prima di essere
immagazzinate preriscaldano l’alimentazione della colonna
principale.
Tutte le frazioni ottenute devono subire:
1)stabilizzazione, che consiste in un degasolinaggio che di
norma è già effettuato nelle citate colonne di stripping
2)trattamenti chimici con H2SO4 o con NaOH e aria
per allontanare i composti dello zolfo
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Più recente è la idrodesolforazione catalitica in cui si utilizza idrogeno impiegando come catalizzatori
CoO e MoO3 supportati su Al2O3. Inoltre la temperatura è regolata in modo da minimizzare il cracking,
mentre la pressione viene mantenuta a livelli sufficientemente alti da favorire il processo, ma
compatibili quanto al costo. Nella reazione si convertono tioli, solfuri e tiofeni in idrocarburi e H2S
(da cui si ricupera S con il processo Claus).
Vengono anche eliminati
composti azotati ed
ossigenati, che se ne
vanno sotto forma di H2O e
NH3, deleteri sia per la
stabilità della frazione sia
perché veleni per i
catalizzatori delle
lavorazioni successive.
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Ogni frazione, di entrambe le lavorazioni, passa ad uno
stripping con vapore per separare i componenti più leggeri
che vengono immessi nuovamente nella colonna principale
mentre le code sono le frazioni desiderate e prima di essere
immagazzinate preriscaldano l’alimentazione della colonna
principale.
Tutte le frazioni ottenute devono subire:
stabilizzazione, che consiste in un degasolinaggio che di
norma è già effettuato nelle citate colonne di stripping
idrodesolforazione catalitica in cui si utilizza idrogeno
impiegando come catalizzatori CoO e MoO3 supportati su
Al2O3. Inoltre la temperatura è regolata in modo da
minimizzare il cracking, mentre la pressione viene mantenuta a
livelli sufficientemente alti da favorire il processo, ma
compatibili quanto al costo. Nella reazione si convertono tioli,
solfuri e tiofeni in idrocarburi e H2S (da cui si ricupera S con
il processo Claus). Vengono anche eliminati composti azotati
ed ossigenati, che se ne vanno sotto forma di H2O e NH3,
deleteri sia per la stabilità della frazione sia perché veleni per i
catalizzatori delle lavorazioni successive.
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