universita` degli studi di roma tor vergata

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TOR VERGATA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER LE PROFESSIONI LEGALI
Anno Accademico 2013/2014
II Anno
Docente
Materia
Prof. Giovanni Diurni
Fondamenti del Diritto Europeo
- Lezione del
Ora
Venerdì 14 febbraio 2014
9.00/11.00
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Argomento della lezione:
Gli antefatti del principio di ragionevolezza
1. Indagine storica tra continuità e discontinuità
2. L’attualità di un dibattito
3. Ratio iuris e ratio legis
4.- Interpretatio e interpretazione
5.- Ragionevolezza tra interpretatio e aequitas
1.- Indagine storica tra continuità e discontinuità
Parlare di esperienze giuridiche concluse nell’ambito del Corso di Fondamenti del
diritto europeo, tenuto conto che sovente i dati storico-giuridici di riferimento hanno
significati e hanno avuto conseguenze diversi, costituisce la premessa per discutere
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di diritto positivo. Chi si accinge ad esercitare una professione legale ha comunque
necessità di una scienza giuridica, che si alimenti e si realizzi con il confronto tra le
esperienze giuridiche passate e quelle
presente, come soleva sottolineare qualche
decennio fa Riccardo Orestano [Verso l’unità della ‘conoscenza giuridica’, in
Riv.trim.dir.pubblico,1984]. Poiché egli di queste cose si intendeva, arricchendo la
lezione da lui condivisa di Giuseppe Capograssi (1899 – 1956), ha tentato di
superare gli steccati, che ancora oggi si frappongono tra conoscenza scientifica e
conoscenza storica del diritto [cfr. R. Orestano, Introduzione, pp. 307 ss., 343 ss.]:
“Guardare al diritto sotto l’angolo visuale della nozione di ‘esperienza giuridica’ egli sosteneva- significa (…) riconoscere e affermare l’integrale storicità del
giuridico, in ogni sua manifestazione e, perciò, fra l’altro, risolvere per intero e senza
residui la cosiddetta ‘conoscenza scientifica’ del diritto, in quella particolare
conoscenza ‘giuridica’, di cui anche la ‘conoscenza storica’ è elemento inscindibile”
(p. 360).
Una realtà dominata dalla incessante domanda di regole adeguate, che attualmente si
realizza, sovente, in una confusione di linguaggi e di significati e in una eccessiva
produzione legislativa, del tutto inadeguata e frammentaria nei fini e nei risultati, e il
correlato strutturale mal funzionamento della giustizia impediscono sovente percorsi
coerenti, che attuino in modo efficace il regolamento normativo. Il compito della
scienza giuridica oggi più che mai diviene, dunque, ancor più necessario, soprattutto
per ridefinire gli strumenti idonei a realizzare la cosiddetta vita del diritto e non per
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appesantirla con scientismi, poco incidenti nell’effettivo, pur se intellettualmente
giustificati, e non appropriati a veicolare la domanda di giuridicità più ampia rispetto
al regime legale delle tutele delle società attuali: i formalismi nascondono
l’insignificanza delle soluzioni e la perversa -a volte- rassicurazione di soluzioni e di
meccanismi diretti ad un bonum, tanto declamato quanto solo virtuale . D’altra parte
la vasta area del pre-giuridico (solo –per semplificare- in termini di costumi e di
abitudini inveterate da salvaguardare e da aggiornare, di nuovi e pervasivi bisogni,
anche di sopravvivenza civica e sociale e di correlate urgenti necessità, di
convivenza e di rapporti sociali, anche disomogenei) realizza una percezione
socialmente e culturalmente diffusa delle regole, da normativizzare, ove necessario,
in modo adeguato e soprattutto utile nel solco dell’esperienza giuridica, ancor più
necessaria in una società affamata di eguaglianza e di partecipazione a condividere il
lavoro e le risorse, che dall’esperienza stessa scaturiscono.
La lezione sulla conoscenza giuridica di Orestano (e di altri come lui) è, dunque,
utile affinché il diritto riassuma completamente le dinamiche appropriate. Mettendo
da parte i percorsi segnati dalle diverse dommatiche, per altro contrastanti tra loro,
comprese
quelle
codicistiche,
neo-giusnaturaliste
e
neo-razionaliste,
la
fenomenologia giuridica, per come si realizza, va riguardata senza preconcetti,
recuperando così il carattere distintivo di essa, ovvero quello della sua storicità.
Appunto il carattere della storicità tiene conto del porsi della norma di fronte alla sua
applicazione, che non può che essere dinamica in riferimento alla sua efficacia in
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termini di tutela; carattere, pertanto, connesso sia alla ricostruzione delle esperienze
giuridiche concluse sia al diritto vigente.
Il giurista non ha, peraltro, dommatiche da proporre e soluzioni da inventare, non ha
il compito di vaticinare o di costruire modelli razionali, ma di certo ha quello di
valutare se il diritto, innanzitutto le sue fonti principali, rimesse alla prevalente
produzione istituzionale, è coerente ai fini che gli sono propri secundum rationem.
Il giurista recupera ed esercita il ruolo necessario di professionista dell’esperienza
giuridica, che conosce e adopera gli strumenti che gli sono propri, li affina, li adatta,
ne inventa, se del caso, di nuovi, li organizza perché sia reso fruibile ed efficace il
dettato normativo nella sua giuridicità, per offrire criteri di miglioramento e di
aggiornamento di esso in rapporto alle mutate esigenze e sensibilità sociali, con
costante riferimento ai diritti costituzionalmente riconosciuti e garantiti. Vanno,
dunque, superati i limiti fisiologici propri del formalismo giuridico, che privilegia la
c.d. veritas legis, comunque da sottoporre al vaglio della ragionevolezza. Sono
appunto questi limiti comunque a comprimere l’effettività della norma e la sua
applicazione in termini di giustizia sostanziale, e non astratta. La forza di legge
sovente realizza un utilitarismo legislativo, attuato soprattutto non a vantaggio della
collettività, ma
condizionato da fattori interni, quali la burocrazia istituzionale
refrattaria ad ogni riforma [basti pensare che l’apparrato dello stato è ancora
tratteggiato sul modello assolutista di ancien régime e centralista e gli innesti delle
autonomie regionali disegnate sullo stesso modello lo hanno ancor più rafforzato,
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paralizzando una efficace ed efficiente azione amministrativa] ed esterni, quali
gruppi di pressione o influenti settori economico-finanziari della società globalizzata.
Tutto ciò collide e comunque non risponde alla domanda sociale di giuridicità. Sono
proprio questi settori che favoriscono e impongono soluzioni normative o di
vantaggio o di privativa, guarda caso coerenti e razionali, intervenendo sulla causa
legis, ma del tutto inappropriate. Anzi il primo si traveste da privato e utilizza le
civilistiche forme societarie, che prescindono per definizione dal criteri di interesse
pubblico (la stessa Banca d’Italia, la Cassa depositi e prestiti, l’Agenzia delle entrate,
le società municipalizzate e così via) e agiscono d’imperio per la loro qualità
pubblica, senza che sussistano dei controlli di governance e di policy, essendo
insufficienti quelli effettuati a posteriori dalla Corte dei Conti.
In una situazione siffatta, la scienza giuridica non può prescindere dal compito che le
è proprio, quello dell’approntamento di metodiche, che pongono in primo piano la
categoria del ragionevole, e l’impiego di strumenti che scandaglino la legge in
termini di ragionevolezza, e dunque di soluzioni concrete e adeguate. Si tratta di
mutamento culturale che li ripensi e li adatti, purchè si dimostrino, come tali, efficaci
e correlati ai fini del regolamento normativo.
Gli interventi della Corte costituzionale confermano ampiamente l’attualità della
problematica, come sottolineano i Presidenti della Corte,
annuale:
nella loro relazione
“La giustizia costituzionale”, per sottolineare che il principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. fa riferimento alla “razionalità” della disposizione
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legislativa, “id est alla non contraddittorietà della stessa rispetto al sistema giuridico
o al fine per il quale la disposizione è stata redatta”.
Lo schema del giudizio è strutturato in riferimento alla parità di trattamento tra
situazioni identiche e simili o ancora assimilabili in un modulo trilatero (tertium
comparationis). Il che significa che nel riferimento alla razionalità la ragione non
implica un confronto con altra norma, postulando un giudizio incentrato
esclusivamente sulle caratteristiche della norma oggetto. Tale controllo di tipo
esterno sembra limitato però alla non giustificatezza o alla non arbitrarietà delle
scelte legislative. Al contrario l’art. 3 Cost. è per sua natura norma di chiusura di un
sistema, in quanto richiama principi che si connettono necessariamente a valori.
Questi ultimi si raccordano necessariamente alla dinamica della storia giuridica
all’interno sia delle esperienze giuridiche concluse sia di quelle attuali, trattandosi di
quel complesso di elementi significanti, costituenti comunque caratteri e segni
distintivi, anch’essi di tradizione vissuta, di una determinata società. Trattasi dunque
di valori condivisi, costituenti sostanza della coscienza sociale, radice comune di
civiltà, che vanno individuati e tutelati.
E’ di tutta evidenza che tali caratteri non possono collocarsi né vanno collegati alle
categorie della continuità e della discontinuità, sia istituzionale sia legislativa. Essi
restano tali ed hanno rilievo, per quel che si è detto, pur nella discontinuità degli
ordinamenti
attuali,
nell’ambito
della
‘conoscenza
giuridica’,
riferimento
imprescindibile ad una eguaglianza non solo dichiarata, ma sostanziabile e
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sostanziata nella legge, in mancanza o in violazione della quale
la norma è
incostituzionale. Solo in tal modo la norma è coerente perché realizza appunto il
principio di ragionevolezza; in poche parole essa non costituisce discrimine, ma
tutela di posizioni.
In tema di ragionevolezza della legge, anche in riferimento agli articolati meccanismi
legislativi, questi aspetti, non relegabili semplicemente nell’ambito culturale,
possono offrire al dibattito attuale uno scenario più ampio, anche in considerazione
del fatto che, pur nel mutamento repentino della realtà, bisognevole di tutele sempre
più efficaci, la sfida per una giustizia effettiva non può né –ritengo- deve ignorarli.
Non si tratta neppure di un indefinito, che cozzerebbe con quel principio di
razionalità, da sempre consapevolmente collegato, nelle sue scansioni di ratio iuris e
di ratio naturalis (qualunque ne sia la fonte), alla giustizia. L’evocazione e la
formalizzazione di una ‘giustizia giusta’, come, ad esempio, quella realizzata
recentemente nell’ordinamento italiano, anziché portare a soluzioni più appropriate
per la c.d. ‘domanda di giustizia’, ha innescato ulteriori confusioni e pone il fine di
giustizia su un piano, che non le è proprio, banalizzandolo e depotenziandolo tramite
meccanismi procedurali presuntivamente garantisti, del tutto farraginosi e
scarsamente efficaci.
Poiché la tradizione giuridica (romanistica), come essa prese forma e si radicò nei
regimi storici a diritto comune, utilizzata quale fonte generale e suppletiva si è da
tempo definitivamente conclusa, la sua ricchezza di esperienza e di elaborazione
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scientifica è completamente fruibile in termini di scienza giuridica, purché la si
contestualizzi nel periodo storico oggetto di analisi, senza inappropriate e poco
incidenti attualizzazioni.
La ricerca deve avvenire senza nostalgie continuiste, come avvertiva già nei primi
decenni del secolo appena trascorso Vittorio Scialoja, non a caso grande romanista,
onde scongiurare il pericolo sempre attuale che si ritorni a sterili metodiche, del tutto
inidonee a rispondere alle necessità della società odierna, caratterizzata, nel bene e
nel male, dal processo inarrestabile delle globalizzazioni, da emergenze economiche,
sociali, di popoli e di culture, drammaticamente divise e in parte inconciliabili, anche
nel trattamento e nella tutela dei diritti essenziali della persona umana e della sua
dignità, nonostante le innumerevoli carte dei diritti, internazionalmente proclamate.
Orbene, nelle esperienze giuridiche vissute in Italia, sotto il profilo terminologico,
generalmente si impiega, soprattutto nelle fonti, l’aggettivazione ‘ragionevole’ e il
termine ratio, piuttosto che quello di rationabilitas, risalente all’epoca matura della
scienza giuridica.
L’approccio alla problematica storica in territorio italiano può avvenire su due
versanti diversi: quello ordinamentale e quello più tecnico-scientifico.
Relativamente agli ordinamenti, meccanismi che si avvicinano a quello odierno della
ragionevolezza della legge vanno ricercati nell’ambito sia degli ordinamenti
universali dell’Impero e della Chiesa, sia dei sistemi di particolarismo giuridico. Nei
periodi del primo e secondo medioevo, pur se con differenti e più ricche articolazioni
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del secondo (secc.XII-XV) rispetto al primo (secc.V-XI) si sono affermati distinti e
originali regimi normativi, che vanno coniugati non tanto sotto il profilo della
gerarchia fra di essi, quanto piuttosto sul versante della contiguità. Tale contiguità,
perché ciascun regime si realizzasse e nello stesso tempo si giustificasse rispetto agli
altri, ha avuto necessità di meccanismi normativi di collegamento e di prevalenza
dell’uno rispetto all’altro o di assolutezza in termini di rationes, cioè di
giustificazioni correlate ai contenuti delle situazioni giuridiche regolate o da tutelare,
tenuto conto anche del diverso trattamento riservato a ciascun ceto rispetto agli altri,
ciascuno peraltro rigidamente collocato nella struttura sociale, ove gli appartenenti
ad alcune classi usufruivano, in quanto tali, di specifiche esenzioni, immunità e
privilegi. Nel regolamento normativo prevale comunque il diritto oggettivo rispetto
al riconoscimento e alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive, che ancora non
assurgono a diritti soggettivi, formalmente riconosciuti e rivendicati. Prevalgono al
contrario privative che si riferiscono a privilegi ed immunità a vantaggio di alcune
classi, da queste assunti e rivendicati e soprattutto alcuni di essi trasmissibili a volte
per successione mortis causa, e solo questi trattati come fossero diritti soggettivi
modernamente intesi.
Le esperienze giuridiche lì praticate si sono lentamente arricchite nel progresso delle
società, tanto da creare l’ambiente idoneo all’affermazione della scientia iuris,
realizzata prima nella scuola dei glossatori (secc. XII-XIII) sulla base della
Compilazione di Giustiniano, innovata poi nei fini, nei contenuti e nella metodica dai
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giuristi del Commento (sec. XIV-XV). Prevale la tradizione (romanistica),
costituente di per sé sistema normativo generale, che, realizzatasi nell’utrumque ius,
pur se nella variabilità delle soluzioni politiche e delle condizioni sociali ed
economiche, nel corso dei secoli, è stata oggetto anche di contrasti e di travisamenti.
Ciò avverrà per naturale e inarrestabile trasformazione dei meccanismi regolativi di
società in trasformazione, nulla potendo restare fisso e immutabile, se non gli
elementi di giustificazione che ciascuna società e ordine si dà o a cui si riferisce.
Concorrono, e non poco, alla crisi della tradizione (romanistica) ragioni di
opportunismo politico e culturale, soprattutto nell’epoca matura dell’assolutismo
regio (sec. XVII-XVIII), con l’aperta lotta dello Stato nei confronti della Chiesa,
attraverso il giurisdizionalismo, e con l’attuazione di una politica di svecchiamento
legislativo, tramite il riformismo legislativo.
D’altra parte, la radice comune era rappresentata comunque dal diritto romano,
assunto quale fonte ineludibile ed indiscussa, anche sotto il profilo della
giustificazione, dai due ordini universali dell’Impero e della Chiesa, divenuta
elemento essenziale di ogni sistema normativo, accolta come tale tramite la scientia
iuris anche dagli ordinamenti nazionali e feudali, che facevano riferimento ad essa
quale ratio scripta. Proprio questa tradizione entrerà in crisi nel periodo
dell’assolutismo regio, soprattutto per la struttura assunta dagli ordinamenti
nazionali, che la riduceva a strumento formale di distinzioni paludate e disquisizioni,
proprie di una giurisdizione, esercitata a nome del sovrano, quale concretizzazione di
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un potere assoluto, che si esprimeva in modo autoritativo e del tutto discrezionale.
In tal modo quella certezza, scaturente dall’applicazione del sistema a diritto comune
nell’ambito di meccanismi certi (di carattere razionale), produceva l’insicurezza
normativa, ove prevalevano le immunità e i privilegi delle classi al potere, rispetto
alla società in genere. La crisi diverrà inarrestabile a seguito del miglioramento
economico e della modernizzazione, accelerato dal ricambio delle classi, che sfocerà
nella eversione degli ordinamenti di anciem régime e della sua morte annunciata
dalla rivoluzione francese.
Con le rivoluzioni settecentesche, l’autorità e la prevalenza della visione
giurnaturalistica dei diritti e le innovazioni istituzionali faranno da supporto
all’applicazione di un modello di ordinamento, che troverà il suo fondamento e
giustificazione da lì in avanti nelle carte costituzionali, formali ( Stati Uniti e
Francia)
o materiali (Inghilterra) che siano. Esse non si limitano solo alla
ricognizione della struttura dello Stato, ma ne disegnano una nuova, dove il modello
è costituito dalla divisione dei poteri, formale o sostanziale, introducendo forme di
governo più articolate ed efficienti nel perseguire l’interesse generale, ma soprattutto
nel formalizzare i c.d. diritti di libertà, al cui esercizio e alla cui tutela presiede lo
Stato, mediante appunto la distinzione dei tre poteri originari, autonomi tra loro, e
nella specificazione delle funzioni e delle prerogative dello Stato stesso.
2.- L’attualità di un dibattito
Tutti ricorderanno lo scandalo provocato da Papa Benedetto XVI, con la impegnativa
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lectio magistralis, tenuta presso l’Università di Ratisbona nel 2007, concernente la
citazione di un passo, attribuito dal papa espressamente all’imperatore bizantino
Emanuele II Paleologo (a. 1391).
L’approccio teologico e filosofico, del tutto condivisibile, delle religioni dal papa
espressamente evocate, che si richiamano al Dio unico di Abramo, è stato allora del
tutto travisato, basandosi su un presunto favorevole giudizio del papa sulla prima
proposizione dell’imperatore, quella di un mutamento di pensiero in tema di “guerra
santa” da parte di Maometto rispetto alla Sura 256 [“nessuna costrizione nelle cose di
fede”], dettata dal profeta nel primo periodo della persecuzione.
Va sottolineato che l’argomentazione sviluppata dal Sommo pontefice non è stata
altro che l’enunciazione di un’occasio lectionis, utilizzata quale spunto retorico,
impiegata al solo fine
di indagare sulla sostanza della
ratio e se essa deve
presiedere comunque ogni agire umano.
La proposizione discussa se il “non agire secondo ragione è contrario alla natura di
Dio”, al di là delle argomentazioni teologiche, tocca anch’essa la problematica sulla
ragionevolezza: d’altra parte le radici di questo discorso si intravedono già nel
processo storico di acculturazione dei primi cristiani nel corso dell’espansione del
Cristianesimo nel mondo romano, permeato ancora di cultura ellenica.
Il discorso inizia dalle prime parole del Vangelo di Giovanni: “In principio era il
logos”, ove si realizzerebbe –secondo una cultura consolidata- l’incontro tra il
messaggio biblico del primo versetto [“in principio Dio creò il cielo e la terra”], da
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Giovanni modificato, e il pensiero greco. Pur trattandosi, dunque, di discorso
religioso con accenti, le cui argomentazioni di carattere teologico e filosofico, si
dipanano storicamente, la domanda se la convinzione che agire contro la ragione sia
contraria alla natura di Dio, coinvolge un valore e i suoi corollari, come esplicitati e
diffusi dalla filosofia greca, e accolti e praticati dalla cultura romana, da cui vengono
trasfusi nel pensiero cristiano: tale valore (la ragione), se connaturato all’uomo, vale
e non può che valere sempre e per se stesso.
L’excursus storico-filosofico del Papa, pertanto, coinvolge il ragionevole giuridico,
che guarda caso si solidifica e si realizza necessariamente nel diritto della Chiesa. Le
fonti di diritto canonico, divengono così ‘legge vivente’ [in contrapposizione del
diritto ‘antico’ romano della Compilazione, assunto come tale], come il canonista
Card. Stikler ha definito il complesso delle fonti canoniche, soprattutto a partire da
quelle medievali, organizzate da Graziano nel Decretum [“Concordantia
discordatium canonum”], in riferimento alla legge data della Compilazione di
Giustiniano, e proseguita con le Decretales pontificie (sec.XIII) fino a Giovanni
XXII, costituenti l’utrumque ius in unione con il ius civile di matrice romanistica.
Gli enunciati cristiani, evocati dal Papa, del Dio come parola (atto creativo) e perciò
pura ragione, sono, pertanto, strettamente connessi al diritto canonico nella sua
dimensione di statuto legale per l’uomo. E che la legge coinvolga direttamente la
natura umana e non solo la dimensione cristiana di appartenenza è dimostrato dal
fatto che il bonum già realizzato con il diritto naturale, e la lex, che non può essere
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contraria ad esso (iustum), anzi lo espande e lo concretizza, divengono principi
irrinunciabili. Essi costituiscono nel periodo medievale e successivo anche per il
diritto civile (e prima ancora per il diritto romano della Compilazione di Giustiniano)
verità assiologiche. Inoltre la comune cultura medievale si è alimentata e da subito
fece proprio prima il pensiero di matrice neoplatonica tramite la corrente
enciclopedica, compreso quello agostiniano, e poi quello di radice aristotelica tramite
gli approfondimenti delle scuole medievali di arti liberali (sec.XII), teologicamente
sistemati nella scolastica di Tommaso d’Aquino e infine giuridicamente impiegati
dalla scuola del commento. La saldezza dei principi si scontra incessantemente con il
malum della violenza, delle passioni, degli egoismi, delle prevaricazioni, delle
incompletezze di una natura finita, il cui ineluttabile destino è la morte. La genetica
della morte porta in sé la costante ricerca di migliorare la propria condizione, di
colmare e di aggiornare le lacune, di eliminare i difetti, quasi endemici, della legge,
appunto perché attuativa di valori, astrattamente definiti, ma concretamente elusi o
violati, nello sforzo costante di attuare una concreta giustizia, non solo quella
formale. E il meccanismo per attuare questo fine o quantomeno di attenuare le
conseguenze dell’ingiustizia (soprattutto perché chi deve attuarla è egli stesso
incapace di percepirla e di perseguirla nella sua vera sostanza) è proprio la ratio.
3.- Ratio iuris e ratio legis
Quanto fin qui detto ci fa restare, dunque, nell’ambito del giuridico e ci consente di
valutare la ricchezza di contenuti del ‘ragionevole’, che assume sostanza quando già
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il termine “ratio”, con il quale si traduceva certamente il vocabolo greco “logos”, da
parola polisemica si stabilizza ad individuare un aspetto o una cosa qualificata o da
un aggettivo o da un genitivo (ratio iuris e ratio legis). Lo stesso termine assume
significato quando è accompagnato ad un verbo, tant’è che rationem esse indica,
come il ratione facere, ovvero i loro contrari, una maniera di comportarsi, appunto,
in termini di buon senso o di normale ragionevolezza.
Per quanto concerne i significati sopra riferiti, Pietro Fiorelli ha forse scritto pagine
non dimenticabili. Egli, non limitandosi all’analisi semantica e lessicografica, pone a
confronto nella loro dinamica storica il termine ratio con quelli, che sovente lo
segnano con il genitivo, di ius e di lex; anzi indicando anche, relativamente al loro
concreto impiego, il significato identico dei due termini, tanto che ciascuno di essi, a
seconda della sensibilità culturale di ciascuna epoca storica, prevale sull’altro.
Sono molti gli usi che i giuristi classici ne fanno in riferimento alle fattispecie
tipizzate, oggetto della loro interpretatio. In questa sede è sufficiente il solo richiamo
dei frammenti che l’illustre storico-esegeta esamina, nella rinnovata e costante
meditazione nel solco di una solida tradizione esegetica. Non a caso essi sono inseriti
nel Digesto nel titolo che si occupa della disciplina delle leggi, dei senatus consulta e
della longa consueudo [D.1.3.14-16]: D.1,3,14 «Quod vero contra rationem iuris
receptum est, non est producendum ad consequentias». D.1,3,15 «In his, quae contra
rationem iuris constituta sunt, non possumus sequi regulam iuris». D.1,3,16 «Ius
singulare est, quod contra tenorem rationis propter aliquam utilitatem auctoritate
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constituentium introductum est».
I tre frammenti, il primo e il terzo di Paolo, il secondo di Giuliano si occupano di
problematiche, ove la norma, pur se valida, si trova in contrasto con i principi
generali dell’ordinamento. Soprattutto il terzo sembra far assumere al termine ratio
un valore oggettivo, appunto quello proprio di ratio iuris riferita al principio di
diritto, come peraltro avviene nel ben più decisivo testo della costituzione di
Costantino, inserito nel Codice di Giustiniano [C.8.52(53).2]. In questo frammento la
ratio sembra individuare quella dell’ordinamento giuridico.
Certo è che la ratio iuris è riferita alla coerenza della legge nell’ambito del sistema,
cioè in una strutturazione del principio giuridico attraverso il quale trova
giustificazione e validità la norma stessa, perché coerente con i principi stessi
dell’ordinamento.
La ratio iuris diventa, dunque, la norma in quanto tale, perché il ius per essere tale,
non può che avere una sua giustificazione intrinseca, e dunque è logicamente
ordinata ai principi dell’ordinamento. La ratio, peraltro, non perde il significato
primigenio di calcolo, ovvero di indice di ponderazione.
4.- Interpretatio e interpretazione
La legge deve però essere interpretata. Se nei sistemi pre-codificazione il termine
latino interpretatio era polisemico, nei sistemi codicistici prevale l’expositio rispetto
all’interpretatio.
Severino Caprioli, ci dà conto del ruolo dei due meccanismi di interpretatio ed
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expositio: “Se per interpretazione si intende oggi, dai più, il riconoscimento degli
enunciati normativi nel loro significato - e non altro potrebbe intendersi-, nei tempi
in cui la cultura giuridica ebbe forma di tradizione romanistica interpretatio fu in
senso pieno determinazione di precetti, dati altri precetti. Mentre nei vecchi regimi
l’attività detta interpretatio venne praticata e teorizzata come un fenomeno compreso
tra i fatti normativi - e come una facoltà, non un dovere, spettante agli organi cui
competevano i precetti -, ben oltre l’ovvio riconoscimento degli enunciati cui si dava
il diverso nome di expositio; l’accezione cognitiva di interpretazione - e
specificamente l’accezione ermeneutica - sarà esclusiva negli Stati di diritto, regolati
dall’appartenenza delle elementari funzioni pubbliche ad organi contrapposti,
coerenti al programma tutto moderno di costituzione formale e codificazione. Questo
iniziale scenario mostra evidenti quali sono i percorsi accidentati di interventi che
facciano colloquiare i due momenti sicché si possa delineare, come peraltro è stato
tentato [cfr. E. Betti] una teoria generale dell’interpretazione comune ai precetti ed
alle fattispecie. Lo stesso sembra valere sul versante dell’ermeneutica giuridica,
come specie di un’ermeneutica generale.”
Si badi, inoltre, che un conto è decrittare una scrittura espressiva, altro è interpretare
la scrittura normativa.
Orbene, sono, dunque, distanti quei regimi normativi, dove nell’ambito del sistema
di leggi, nella diversità e molteplicità delle fonti, si impiega il meccanismo della
interpretatio. Accanto ed insieme a questa vengono minutamente definite le regole
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legali di ermeneutica (interpretazione), sempre più strutturate ed articolate
nell’arricchimento delle metodiche di tipo sia controversistico sia causale. Ciò non
toglie, però, che il fine della interpretatio e dell’interpretazione, nell’epoca
considerata, è il medesimo, intersecandosi sovente tra loro, realizzandosi comunque
su due piani distinti: quello di rendere efficace e utile l’applicazione della norma e
quello di rendere possibile la tutela delle posizioni e delle situazioni giuridiche
sottostanti, ricercando la veritas a fini di giustizia, così contrastando, ove possibile
mediante interpretatio, anche gli abusi correlati all’esercizio del potere.
Il che ci riporta al criterio del ‘ragionevole’, quale argomento o mezzo
autointegrativo e per certi aspetti eterointegrativo, ove il dictum giudiziale, quale è
quello delle rationes delle sentenze della Cassazione a Sezioni Unite, rispetto alle
motivazioni delle sentenze di merito, propone significati all’interno del sistema
esegetico delineato nell’art. 12 preleggi. Della giustizia costituzionale si è già fatto
cenno, e ad esse rinvio.
D’altra parte la ragionevolezza della legge, nel suo fine di identificazione dei
contenuti della norma,
ha necessità di rapportarli all’effettività del fenomeno
regolato dalla norma stessa, tenuto conto che essa, nella sua formulazione astratta e,
come tale, fonte del regolamento, deve, comunque, rapportarsi alla situazione, in
qualche modo come un vestito nuovo adattato e cucito sulla fattispecie concreta in
base al modello predefinito e obbligatorio. La coerenza del ragionevole è assicurata,
poi, dal fatto che anche la stoffa va modellata. Uscendo dalla metafora, sono evidenti
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i limiti del formalismo giuridico, che solo tramite ‘ragionevolezza’ sono superabili,
tenuto soprattutto conto che ad esso si affiancano gli aspetti positivi di un sistema,
dove prevale la tutela dei diritti soggettivi, garantiti dalla fonte superiore della
Costituzione, che come tali sussumono valori ben più espansivi.
Per quanto concerne la ‘forma’ codice in quanto tale, essa necessita di per sé di
qualche approfondimento, ben al di là di una, a volte stucchevole e poco incisiva,
discussione su consolidazione e codificazione, per altro correttamente evocata
qualche decennio fa, da storici, quali Mario Viora e Guido Astuti. Dall’altra parte
nell’indagine sul primo Codice civile, quello di Napoleone, del 1804 si è dedicata
poca
attenzione
alla
situazione
immediatamente
precedente,
concernente
l’assolutismo di stato e il conseguente riformismo legislativo in Europa durante il
‘700. Tale esperienza giuridica è al contrario parte integrale, pur se non di carattere
continuista di istituzioni e di forme legislative, di quelle realizzatesi immediatamente
dopo. Sicché l’immediatamente ‘prima’ si analizza semplicemente in base agli
interventi e all’azione politica dei codificatori, attraverso l’esame e lo studio dei
lavori preparatori, privilegiando la cultura e la preparazione dei singoli protagonisti
dell’evento. Quel codice è figlio ed erede dell’esperienza giuridica, non solo nella
sua radice culturale e scientifica, da cui attinge a piene mani e che offre materiali
consapevolmente utilizzati (Jean Domat e Pothier), ma quale base di innovazione e
di trasformazione di un giuridico non più adeguato ai tempi, ma non per nulla
obsoleto e da rottamare. Il materiale del codice è, dunque, di un ‘prima’, che diviene
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sostanza diversa di un ‘dopo’, appunto, quello contenuto nella legge-codice, il cui
aspetto più rilevante è costituito dalla sua struttura. E’ quella stessa struttura che
consente al tempo stesso la realizzazione della ratio legis, tanto da sopprimere,
almeno per i primi entusiasti interpreti - quelli che daranno vita alla scuola
dell’esegesi - l’impiego di meccanismi retorici e dialettici, nella scienza ancora
praticati. Se, pertanto, il dies a quo del codice è la promulgazione delle leggi, che lo
compongono, il testo si innerva comunque in una realtà giuridica, ben più articolata e
rivolto a tutti i cittadini, non più di classi e territori, fatti uguali davanti alle leggi, e
che prosegue senza soluzione di continuità nelle stesse materie giuridiche, ove
l’innovazione coinvolge solo in parte, anche se in termini sostanziali, le regole
precedenti, costituenti la massa maggiore del codice nuovo. La legge-codice inoltre
non completa e non copre interamente la tutela dei diritti e delle situazioni giuridiche
connesse al diritto civile aperto al nuovo cittadino di uno Stato sovrano. Guarda caso
i commentari post codicem [ cfr..tra i tanti, Demolombes] utilizzano a piene mani
materiali già in uso, senza neppure cambiare l’ordine tradizionale delle materie.
Molte discipline giuridiche restano fuori dalla legge-codice e ci rimarranno, quale ad
esempio quella concernente la tutela delle situazioni possessorie. L’eversione è
un’altra, quella dell’assolutezza della legge prodotta dal potere legislativo, anch’esso
esclusivo e che essa si pone quale fonte inderogabile per tutti i cittadini, senza
eccezione alcuna di status e di luogo. Da qui la necessità di ripensare e di adattare gli
strumenti, come è avvenuto con l’intervento legislativo, che non limita in alcun
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modo, come a volte si è malinteso, l’impiego del criterio, e non solo, di
ragionevolezza, restando indifettibile l’indagine della ratio.
5.- Ragionevolezza tra interpretatio e aequitas.
Accanto ad una ratio iuris sussiste anche una ratio naturalis, a cui fanno riferimento
nel primo paragrafo del primo titolo, quello dedicato al De iustitia et iure, sia il
Digesto [D.1.1.1.1] sia le Istituzioni di Giustiniano [Inst. 1.1.1]. Trattasi del diritto
naturale, il primo dei sistemi, collegato strettamente alla iustitia perché “ius est ars
boni et aequi”, come dichiara il frammento del Digesto e perché “iuris prudentia est
divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia”, come
sottolineato dalle Istituzioni. Questo ius naturale costituisce attraverso il
meccanismo dell’aequitas, il motore dell’intero sistema normativo. Essa, quale
estrinsecazione della “iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique
tribuens” (Inst. 1.1. pr.) presiede ad ogni norma, alla applicazione di qualsiasi
istituto. Si tratta, dunque, di una radice che l’interprete, il giurista, il giudice
soprattutto debbono scoprire. Riguarda, dunque, una qualità costitutiva della
fattispecie, che rende effettiva ed efficace la norma stessa.
Nell’ambito del ius civile essa si affianca, ma non sovrasta, il rigor iuris, sicché il
compito dell’interprete è proprio quello di dialetticamente comporre i due elementi,
individuando le due rationes. D’altra parte, già nell’ambito della retorica, l’equità si
realizza nella ricerca della causa naturalis, iscritta da sempre in ogni fatto umano,
come risalente al primo enciclopedismo medievale, come sottolinea l’ignoto autore
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delle Questiones de iuris subtilitatibus; il che sta a significare che essa pone in
rapporto necessario i due diritti, il naturale e il civile [cfr. Cicerone, Topica, 2, 9].
E pensare che proprio l’espressione ratio iuris, secoli dopo costituirà l’inizio della
Bolla emanata il 16 dicembre 1331 dal Papa avignonese Giovanni XXII. Con essa
infatti la Sacra Rota (il tribunale della Chiesa) diviene organo autonomo, a cui sono
assegnate nuove regole di procedura, tendenti al confronto, all’interno del Collegium,
dei pareri degli uditores (iudices). Tali rationes debbono essere raccolte e conservate
dal relatore della causa. Non passa molto tempo che la prassi introduce il
meccanismo di annotare sinteticamente quelle rationes depositate dagli uditores.
Esse, per facilità di consultazione, andranno a costituire da lì a qualche anno (già
intorno al 1336-37) la raccolta delle Decisiones, diffusamente consultate dai pratici e
dagli stessi giuristi dal tardo ‘300 in avanti.
Non è un caso che l’ordinamento della Chiesa faccia riferimento alla ratio iuris nella
risistemazione del suo regime giuridico di diritto positivo che si realizza con la
organizzazione delle fonti antiche da parte di Graziano (a. 1140 ca.), il quale separa
dalla teologia il diritto. Va immediatamente sottolineato che l’oscuro monaco
residente a Bologna utilizza nella sua sistemazione, appunto, la metodica
controversistica individuando una specifica materia e ponendo a raffronto i testi della
Tradizione [trattasi di ben 3548 frammenti di fonti diverse, conciliari e papali],
sciogliendo le apparenti – che non possono essere che tali – contrarietates,
giungendo ad una solutio preposta al capitolo quale dictum o individuando il canone
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della distinctio. Tale operazione, come è noto, avviene attraverso dei criteri anch’essi
chiamati rationes (ratio temporis, ratio locis, ratio dispensationis, ratio
significationis). E proprio in riferimento alla ricerca della ratio nei suoi più ampi
significati, contrapponendo essa all’auctoritas, termine questo che nel suo significato
di ratio naturalis, ratio iuris e ratio scripta è forse quello che è usato con maggiore
frequenza nell’opera grazianea. In questa sede indico un solo testo, che poi non è
altro che la trascrizione, come spesso accade all’interno del Decretum, di quello che
abbiamo già incontrato nel Codice di Giustiniano. Graziano riproduce il testo
inserendo dopo “legem” l’aggettivo scriptam, forse ridondante nel testo giustinianeo,
ma del tutto giustificato quando il canonista si riferisce alla legge romana, che pur
subordinata alla legge canonica, costituisce ratio scripta. Il dictum, comunque, a cui
il giurista giunge è più conciso [Decr. Grat., 1.11.4, c. Consuetudinis, dist. XI e
dictum]: “usus et consuetudo legem et rationem vincere non potest”.
Il meccanismo del ‘ragionevole’, correlato sia alla ratio iuris sia alla ratio naturalis,
si arricchisce ancora di più quando al metodo della glossa e alla circolazione di
apparatus glossarum, si unisce, quasi certamente per motivi di insegnamento, alla
lezione orale la esposizione scritta della lectura. Il metodo praticato già al tempo di
Giovanni Bassiano era finalizzato a far emergere soprattutto la ratio legis. Questo
costituisce l’aggiornamento di tipo dialettico in modo che dal casus legis proposto si
valutassero i pro e i contra, si individuassero i loci generales e si dibattesse infine la
quaestio. Ai fini della individuazione proprio della ratio legis e della ratio naturalis
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era necessario indagare la sostanza che andava a regolarsi, senza la quale non si
poteva valutare appieno l’efficacia applicativa della norma.
Ben altro è, però, l’approccio delle nuove metodiche, realizzatesi anche nell’ambito
del sapere giuridico dai moduli argomentativi tratti dalla logica aristotelica, cioè di
un sillogismo consapevole e teoricamente impostato, teso alla ricerca dei veri
significati da sottoporre all’argomentazione, con l’applicazione dei complessi
principi della metodica scolastica, non più quella tràdita dalla cultura enciclopedica.
Nell’approccio, il giurista tiene anche a individuare la mens legis, che costituisce
anch’essa elemento della interpretazione. Come è intuibile e come è noto, la ratio per
la cultura medievale non percepisce altre sostanze di essa soprattutto quella della
ragione illuministica, quale sola misura della verità ed unico strumento per
conseguirla. Mai la ragione medievale diviene o sfocia nel razionalismo; la verità
non è da ricercare e da fondare sulla ragione umana, bensì è quella già rivelata, per
definizione assunta e collegata a quell’auctoritas consegnata da Dio sia al Papa,
quale successore di Cristo e capo visibile del Corpus misticum, sia all’Imperatore; il
primo presiede al governo dello spirituale e il secondo del temporale, che formano
un sistema concreto di legge costituito dall’utrumque ius.
Si tratta per le esperienze giuridiche concluse del medio evo di quella ratio che
l’ignoto autore delle Questiones de iure subtilitatibus pone sul capo dell’immagine
riflessa della iustitia nella visione descritta nel proemio.
La iustitia si personifica in una donna, che tiene in grembo l’ aequitas ed è
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contornata dalle proprie figlie: religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia e
veritas. Tale immagine la dice lunga sulla finalizzazione della legge e del sapere
giuridico, costituita dalla applicazione della legge in termini di giustizia, che si
realizza tramite la ratio e l’aequitas e ove la veritas è solo una delle figlie, tra le
tante, della giustizia stessa.
Di rationes delle leggi si occupa in modo sistematico la scuola del Commento, come
detto, soprattutto in riferimento alla ricerca della causa legis, e per superare il rigore
della lettera della legge costituita dai verba.
A poco servirà sotto gli aspetti pratici il ricorso sempre più massivo all’argumentum
ab auctoritate, anche se questo ha valore sotto il profilo dottrinale.
D’altra parte accanto all’auctoritas, come legittimazione di intervento, si pone quella
che indica piuttosto autorevolezza circa il pensiero dei massimi giuristi, che
contribuiscono non poco alla trasformazione del diritto basato sulle fonti legali a
“diritto giurisprudenziale”.
Le rationes divengono così non la ricerca di motivazioni attraverso l’indagine
ermeneutica sui contenuti delle leggi, quanto piuttosto la scelta delle rationes dei
maestri, che attraverso il meccanismo dell’exemplum, che funzionava come
eccezione, si sceglievano per il decisum (che è la sentenza), coperta da giudicato
perché emessa in forza di potestà pubblica. Tracciato il sentiero, il parere del maestro
diviene esso stesso argumentum ab auctoritate.
Questo sistema creò una sovrastruttura che si rafforzerà nel tempo, nell’apatia di una
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classe di giuristi, sempre più modesta, incapace di invenzione e quasi drogata
dall’autorità dei dottori, le cui opere aumentano a dismisura con false attribuzioni di
libercoli scadenti, ma facilmente consultabili.
Un’impostazione in qualche modo più seria si ha quando si fa ricorso all’opinio
communis (ovvero opinio doctorum), anch’essa comunque modesta sotto il profilo
dell’indagine giuridica.
Con l’Umanesimo quella ratio scripta, che i giuristi post-glossatori avevano
coniugato rispetto ad una Compilazione già dissodata dalle glosse, diviene al
contrario nuovo criterio di indagine, ricercando una intrinseca razionalità nelle fonti
romane classiche, edulcorate secondo la scuola dei culti dagli interventi
normalizzatori ed improvvidi dei funzionari giustinianei, primo tra tutti quel
Triboniano di dannata memoria, secondo l’Hotman. E già nell’ordinamento
monarchico francese, solo per il tramite della ratio scripta, poteva farsi riferimento
al diritto romano, pur nella distinzione tra pays de droit écrit e pays de droit
coutumier. Certo è che in questo periodo anche i giuristi del mos gallicus,
contrapponendosi a quelli del mos italicus, strenuamente difesi da Alberico Gentili,
faranno comunque ricorso agli schemi della sistematica giuridica romanista.
Ma la morte annunciata da una crisi inarrestabile dei sistemi a fonti plurime del
diritto comune è alle porte, come già preannunciava il sostenitore del diritto
nazionale Francesco Hotman.
Per finire mi limito a sottolineare lo scarso interesse nelle esperienze giuridiche
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medievali per concettualizzazioni, che non fossero correlate strettamente
all’effettività giuridica e, dunque, il ricco significato della categoria rationabilitas
non ebbe estimatori per diversa sensibilità culturale e, forse, per inconsapevolezza di
una ragione sottratta ad un credo fideisticamente accolto, quella ragione che
laicamente prescinde dalla religione e da Dio, per richiamarsi a quella ragione
consapevole, che pone ciascun individuo come sola misura della verità e unico
strumento disponibile per conseguirla.
Il giusnaturalismo segnerà in tal senso una eversione, che però non produrrà
inizialmente grandi risultati, anche se si tratta di ragione che si riferisce a valori già
scritti nel cuore dell’uomo, costituenti la sua stessa umanità.
D’altra parte nella dinamica della giuridicità, la sensibilità culturale ha in qualche
modo avvicinato le due culture tributarie della ragione, quella laica e quella religiosa.
Si tratta di un cammino recente, che elabora una dottrina sociale, modernamente
iniziato, proprio contro i modernisti, con Leone XIII della Rerum novarum (15
maggio 1891) fino a giungere alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Ciò è
avvenuto nella considerazione che il bene sommo dell’uomo è la sua dignità umana.
In questo caso è forse la cultura religiosa che nelle aperture della società ai bisogni
dei singoli in termini di eguaglianza e di tutela individuale, primo tra tutti quello del
necessario per vivere, di promozione sociale e di accesso generalizzato alle risorse,
ha assunto consapevolmente questi valori, rendendoli distinguibili rispetto
all’identità cristiana.
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Giovanni Diurni
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