“Le leggi economiche universali” CAPITOLO OTTAVO

“Le leggi economiche universali” CAPITOLO OTTAVO
Il “purgatorio”-socialismo e il costo-lavoro
Non abbiamo certo dimenticato il rapporto che si crea inevitabilmente tra socialismo e LEU,
ma tale nesso generale abbisogna di alcune precisazioni preventive, a partire proprio dalla
definizione socioproduttiva della fase di sviluppo socialista.
Basato “sulla proprietà comune dei mezzi di produzione” (Marx) come il comunismo
sviluppato, il socialismo costituisce il “purgatorio” dei produttori diretti dopo la
plurimillenaria esperienza infernale delle società classiste, ivi compreso il capitalismo
monopolistico di stato dell’epoca contemporanea, ma non di meno risulta una società
ancora distante sotto molti aspetti nei confronti del futuro “paradiso” del comunismo
sviluppato: un “paradiso” che comunque conoscerà anch’esso contraddizioni e problemi,
quali la morte individuale ed i dolori/sofferenza, le tensioni tra i produttori diretti per
decidere “come, cosa e quando” produrre, ecc.
In altri termini, caro Moro, il socialismo va inteso come la fase iniziale ed immatura (=un
purgatorio, per l’appunto) del modo di produzione comunista moderno, industriale e postindustriale, come avevi sottolineato nella tua splendida Critica al Programma di Gotha,
seppur avendo in comune con lo stadio più avanzato e maturo del comunismo degli
elementi fondamentali, quali la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e l’assenza di
sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Siamo in presenza di una fase evolutiva assai inferiore per molti aspetti al comunismo
sviluppato, contraddistinto dalla gratuità tipica della regola gioiosa “a ciascuno secondo i
suoi bisogni” come dall’iperabbondanza di forze produttive (a partire dalle conoscenze
tecnico-scientifiche umane), dall’abolizione della divisione del lavoro tra gli esseri umani e
tra città/campagna, oltre che all’estinzione totale degli apparati statali; la fase socialista
risulta invece contraddistinta dalla severa regola distributiva del “a ciascuno secondo il suo
lavoro”, dalla derivata presenza dello stato come regolatore del processo di distribuzione di
beni ai produttori diretti e dalla scarsità relativa nello sviluppo delle forze produttive.
Il socialismo deve essere inoltre inteso come una possibile tappa di avanzata verso il
comunismo sviluppato, ma anche (a determinate condizioni politico-sociali) come punto di
possibile ritorno al capitalismo di stato, come avvenne ad esempio all’area geopolitica del
disciolto Patto di Varsavia nel 1989/91: si tratta di un “autostrada” che può marciare in due
direzioni opposte, in avanti (verso il comunismo) o all’indietro verso la precedente fase del
capitalismo di stato, visto che l’effetto di sdoppiamento continua da operare anche nel
socialismo ed agirà fino al pieno consolidamento del comunismo sviluppa-to. 1
Il socialismo risulta quindi la fase immatura del modo di produzione comunista, ma in ogni
caso va inteso come una tappa assolutamente diversa per la sua natura fondamentale del
modo di produzione capitalistico, segnato invece dalla proprietà privata dei mezzi di
produzione e del prodotto sociale, del pluslavoro/plusvalore e delle condizione della
produzione (terra-acqua, ecc.)da parte della borghesia: un sistema socioproduttivo in cui
anche nelle zone “più ricche” e all’inizio del terzo millennio, sta dilagando miseria e fame
per le masse popolari.
“Adotta un bambino spagnolo. Proprio come accade coi bimbi dell’Africa, del Biafra, con gli
algerini saharawi e persino coi piccoli rom albanesi. Ma nessuno, nemmeno nei tempi di
miseria più nera del dopo guerra franchista avrebbe immaginato una campagna del genere
per i figli della spagna.
1
R. Sidoli, “I rapporti di forza”, cap. 6/7/8, in www.robertosidoli.net
«Non l’avrei mai concepito solo un anno fa, ma è così. E’ questa la nostra situazione,
purtroppo», racconta Azzucena Paredes, 30 anni, madrilena, madre di Desiree, di 4 anni, e
di due fratellini più piccoli. Sfrattati dopo 20 anni da un alloggio di edilizia popolare e senza
lavoro, da novembre sopravvivono grazie agli aiuti da 400 euro al mese, che invia loro una
famiglia di Oslo.
Il 24 giugno scorso, il titolo shock sul giornale norvegese VG: “la spagnola, Desiree, 4 anni, è
adottata a distanza dal norvegese Sunniva, 10 anni”. Il primo caso, ma non l’unico. Decine di
norvegesi stanno contribuendo a sostenere economicamente famiglie spagnole strangolate
dalla Grande Crisi, secondo quanto riferiva ieri il quotidiano El Mundo. Nelle ricche
democrazie del nord Europa, la tragedia dei nuovi poveri del sud viaggia sui canali tivù.” 2
Il socialismo costituisce la fase iniziale e imperfetto del modo di produzione comunista
moderno, ma in ogni risulta assolutamente diverso per la sua matrice socioproduttiva dal
capitalismo monopolistico di stato, da quel devastante capitalismo di stato che si è
progressivamente formato a partire dal 1914/18 in tutte le principali metropoli
imperialistiche, Stati Uniti inclusi, sempre sotto il segno dello sfruttamento dell’uomo
sull’uomo.
Un capitalismo monopolistico di stato (con l’asse finanza privata/multinazionali private) in
cui la grande maggioranza dei mezzi di produzione e dell’attività produttiva, a partire dal
decisivo settore finanziario, rimane in ogni caso proprietà privata della borghesia, negli Usa
come nella Spagna di Azucena Paredes, nel 1914 come nel 2014. La micro-ondata di
nazionalizzazioni del periodo 1944-1970 è stata infatti sommersa ed annientata da una
gigantesca contro-ondata di privatizzazioni di portata enorme, da una controdinamica di
svendite ai privati in tutto il mondo capitalistico (a partire dal 1973 e fino ad oggi) di larga
parte del patrimonio e delle aziende/banche pubbliche: basti pensare che in Italia il
governo Monti nel 2012 ha progettato la svendita persino del patrimonio immobiliare
pubblico, a partire dai palazzi siti in posizioni strategiche nelle grandi città.
A livello mondiale (con l’esclusione degli Usa, dove la proprietà pubblica era già stata
smantellata in gran parte nel 1951/57) si è trattato di un processo concreto e gigantesco di
privatizzazioni/svendita di “mezzi e beni pubblici di produzi-one, che non a caso è stato
ignorato da “utili idioti” della borghesia mondiale, quali il comunismo di “sinistra” (formato
dai seguaci dei vari Bordiga, Korsch, Pannekoek “Socialismo o barbarie”, ecc.) e dal
movimento anarchico.
Un capitalismo di stato nel quale vige inoltre la costante regola del “socialismo dei ricchi”, e
cioè il processo di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite a favore dell’alta
borghesia e delle sua proprietà/profitti a favore di azionisti e rentier, in caso di crisi
generale/settoriale del processo di accumulazione capitalistico: regola ben illustrata anche
dalla crisi epocale del 2007/2009, con le diverse migliaia di miliardi di dollari spesi dagli
apparati pubblici al fine esclusivo di salvare dalla bancarotta le banche private e l’alta
finanza privata, a partire da Wall Street e dai “liberisti” Stati Uniti di Bush jr./Obama, per
difendere il processo di riproduzione socioproduttivo dell’alta borghesia privata e dei grandi
azionisti nelle metropoli imperialistiche. Siamo da molti decenni in presenza di una
particolare regola del capitalismo di stato, quella della socializzazione delle perdite e della
privatizzazione dei profitti, che è stata non a caso ignorata dai comunisti “di sinistra” sopra
elencati e dagli anarchici.
Un capitalismo di stato che vede da sempre la collusione e stretta collaborazione tra
monopoli e multinazionali da un lato, nomenclature politiche al potere nelle metropoli
2
P. Del Vecchio, “Ora i norvegesi adottano i bambini spagnoli alla fame”, 6/8/2012, Il Secolo XIX, p. 3
imperialisti-che dall’altro, attraverso meccanismi e dinamiche ben collaudate quali la
corruzione diretta/indiretta di leader politici per ottenere appalti e politiche economiche
per le grandi imprese, lo scambio personale direttivo tra settore capitalistico e sfera politica
(il caso-Monti è solo una tra i tanti…), l’attività continua delle grandi lobby affaristiche verso
i (bendisposti) apparati statali, ecc.
Un capitalismo di stato che vede da sempre presente al suo interno il lucroso meccanismo
degli “appalti statali/profitti privati”, come si può facilmente verificare attraverso i
giganteschi e costanti profitti ottenuti dalle multinazionali private del complesso militarindustriale, a partire dai “liberisti” Usa, oppure dalle aziende private che lavorano nel
settore “civile” mediante appalti pubblici, o dalle grandi imprese di costruzione che
ottengono profitti/rendite attraverso le lucrose lottizzazioni delle aree edificabili da parte
dei poteri pubblici centrali/locali ecc.
È appena il caso di rilevare che il complesso militar-industriale a sua volta mantiene stretti
rapporti con l’oligarchia finanzia-ria. Attorno al 1980 “Il gruppo Morgan, tramite una serie
di istituti finanziari e di società (Morgan Guarantee, J. P. Morgan, Bankers Trust ed altri)
partecipa al capitale delle compagnie General Dynamics, Du Pont de Nemours, Rayteon,
United Technologies, Martin-Marietta, Boeing, Lockheed, Rockwell International e di molte
altre. Il gruppo concentrato intorno alla Chase Manhattan Bank ha un notevole pacchetto
azionario di Mc Donnell-Douglas, Boeing, United Technologies, Litton Industries, General
Dynamics. Il gruppo Rockfeller, attraverso la Chemical Bank, controlla direttamente l’attività
della Lockheed, della Litton Industries e di altre. Il gruppo californiano (Bank of America,
Security Pacific National Bank) influisce attivamente sulla politica della Rockwell
International e della Lockheed e di alcune altri grandi compagnie militar-industriali.
Il gruppo Mellon ha investito grandi capitali nella società Martin-Marietta.
Nella RFT la famiglia Flick e la Dresdner Bank controllano il consorzio militare Flick; la
famiglia Merton e tre banche (Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerzbank) controllano
la BASF, la Bayer e la Hoeckst; la famiglia Siemens e la Deutsche Bank controllano la
Siemens; i Messerschmitt, i Belkow, i Siemens ed altri controllano la compagnia MBB. Di
simili esempi se ne possono citare molti, essi esprimono una situazione tipica per molti
paesi capitalistici sviluppati.”3
Una dinamica reale, quella della collusione tra sfera politica e multinazionali e della stretta
alleanza tra oligopoli e stato borghese; un meccanismo reale, quello degli “appalti
statali/profitti privati”, non a caso ignorati dal proteiforme comunismo “di sinistra”, deciso a
dimenticare che nel reale capitalismo di stato contemporaneo, ivi compresa la formazio-ne
economica sociale statunitense, operano ed esistono proprio attraverso il sostegno pubblico
le grandi imprese private, a partire dalle multinazionali del settore bellico (Lockeed, General
Dynamics, ecc.).4
Un capitalismo di stato reale nel quale mantengono un posto di tutto rilievo gli azionisti, ivi
compresi gli azionisti di riferimento con grandi pacchetti di titolo di proprietà, le “grandi
famiglie” (Agnelli, Walton, ecc.), e le aziende da loro controllate; i grandi proprietari di terre,
3
A. Buzuev, “Le multinazionali e il militarismo”, p. 36, ed. Progress
4
A. Buzuev, “Le multinazionali e il militarismo”, op. cit., p. 26; M. Schmidt, in Autori Vari, “Stato ed accumulazione
del capitale”, p. 73, ed. Mazzotta
di miniere e di giacimenti petroliferi, dagli USA fino al Giappone e all’Italia contemporanea:
anche questi elementi (reali) socioproduttivi caratterizzano il reale capitalismo di stato, nel
1914 come nel 2013 e lo differenziano simultaneamente dal “purgatorio” del socialismo.
Un capitalismo di stato nel quale le multinazionali private, con azionisti privati, giocano un
ruolo centrale e trovano l’appoggio dei loro rispettivi poteri statali attraverso il
finanziamento pubblico dei loro programmi di ricerca scientifici, gli incentivi statali alle
esportazioni, le garanzie pubbliche sugli investimenti delle multinazionali all’estero ed il
sostegno pubblico alla loro azione economica in suolo straniero, attuando una simbiosi
(non priva di contraddizioni) tra apparati statali e corporation transnazionali. 5
Un capitalismo di stato reale che dal 1989 si è rivelato in forma chimicamente pura proprio
nei paesi che componevano il disciolto Patto di Varsavia e l’ex Unione sovietica, apportando
con particolare intensità nella Russia di Eltsin. Nazioni nelle quali si è verificato, dopo il
1989/91, un gigantesco processo di privatizzazioni/svendite ai privati dei mezzi di
produzione e delle fonti di energia-materie prime, che ha trasformato rapidamente società
in precedenza egemonizzate dal socialis-mo deformato di matrice sovietica (socialismo
deformato, ma reale) in un reale e non-deformato capitalismo di stato, in un reale paradiso
di ricchi-speculatori e delle multinazionali occidentali che domina da due decenni la zona
ex-sovietica in modo quasi incontrastato, oltre che un reale inferno per buona parte degli
operai dell’area geopolitica in esame.
Una dinamica reale, quella della svendita alle grandi imprese autoctone e alle multinazionali
straniere del patrimonio pubblico dell’ara ex-sovietica (a partire dalla Germania orientale,
nel 1990), che purtroppo è stata anche in questo caso ignorata dai soliti comunisti “di
sinistra”, incapaci anche solo di chiedersi le ragioni del fenomeno innegabile del
riapparire/trionfo della proprietà privata dei mezzi di produzione nel (reale) capitalismo di
stato formatosi, dopo il crollo del muro di Berlino, da Lubiana a Vladivostock.
Siamo pertanto in presenza di un insieme combinato di processi reali e indiscutibili ma
ignorati volutamente dai vari “comunisti di sinistra”, proprio perché il silenzio su ciascuno di
essi serviva/serve sul piano politico agli iper-antagonisti (a parole) per legittimare la
definizione di “capitalismo di stato” prima per la Russia sovietica e l’Unione Sovietica, ed in
seguito per la Cina di Mao e quella contemporanea del 1977/2013 (con la sua egemonia
contrastata del settore pubblico e cooperativo rispetto al reale capitalismo, autoctono o
estero, operante dal 1980 nel gigantesco paese asiatico), oltre che per la Cuba socialista di
Fidel e Raul Castro; soggettività iper-antagoniste tanto cieche da dimenticarsi che la
controriforma liberista, che ha dato forma al reale capitalismo di stato contemporaneo, si è
basato subito sul dogma del “privato è bello” e sulla privatizzazione della sfera produttiva
pubblica, partendo dal sanguinario prototipo della giunta fascista-liberista di Pinochet, con
la sua lotta sanguinosa contro la “via ala schiavitù” socialista.
“Dopo esser arrivato al potere alla testa di una coalizione d’unità popolare nel settembre
1970, il presidente socialista Salvador Allende procede alla nazionalizzazione delle miniere
di rame e all’esproprio di una certa quantità di terre, incoraggiando forme di autogestione
operaia nelle industrie nazionalizzate. Cadrà tre anni dopo, ad opera di un colpo di Sato
militare appoggiato dalla CIA. La dittatura del generale Pinochet costituirà il primo esempio
di applicazione nel mondo occidentale di un liberismo allo stato puro. La politica economica
viene messa in mano ai “Chicago boys”; la dittatura militare assicura una totale discrezione
che consente a questi ultimi di agire indisturbati utilizzando i cileni come topi di laboratorio.
5
A. Astapovic, “La strategia delle multinazionali”, p. 178-179, ed. Progress
Privatizzazioni, restituzione delle terre agli ex proprietari, revisione del diritto del lavoro in
senso sistematica-mente sfavorevole ai lavoratori, sistema pensionistico consegnato ai fondi
pensione privati, equiparazione tra pesos e dollaro: è la festa del mercato e della
mitragliatrice. La “scienza economica” ha il suo ruolo: nel 1975, il generale Pinochet nomina
ministro dell’economia un laureato dell’Università di Chicago, Sergio de Castro. L’anno dopo,
questi eredita il portafoglio delle Finanze, molto più strategico, e consegna il proprio ex
ministero a un altro laureato presso la medesima università, Pablo Baraona. La Banca
Centrale viene affidata anch’essa ad alcuni ex allievi di Milton Friedman. È comprensibile
che i liberali preferiscano attribuire a Margareth Thatcher piuttosto che a un generale
golpista la palma di antesignano della loro controrivoluzione. Ma è a Santiago, non a
Londra, ed è nel sangue, non nelle urne, che la “via della schiavitù” ha registrato una prima
battuta d’arresto”.6
Soggettività tanto iperantagoniste da dimenticare che nel reale capitalismo di stato
contemporaneo sono diventati oggetti di proprietà privata (privata!) e di sfruttamento
capitalistico anche l’acqua ed il DNA, alias la matrice della vita.
“La frontiera che la globalizzazione neoliberista ha varcato è quella della riduzione del
vivente a materia prima. Tutto è merce da utilizzare nel processo di accumulazione
capitalistica, ovvero da sottoporre a sfruttamento ai fini della valorizzazione del capitale. La
vita entra direttamente dentro il processo di accumulazione e di sfruttamento. Lo fa, per
esempio, attraverso gli organismi geneticamente modificati e la proprietà dei brevetti da
parte delle multinazionali che, grazie a questo strumento di dominio, possono determinare
per l’oggi e per il domani la perpetuazione dell’asservimento di intere comunità alle colture
imposte. Lo fa attraverso la penetrazione dentro al vivente della sperimentazione e della
pratica dello sfruttamento. Lo fa attraverso l’appropriazione e la mercificazione dei beni
elementari e primari per la vita (gli elementi dell’antica filosofia greca: terra, acqua, aria e
fuoco)”.7
Niente di nuovo sotto al sole, visto che già la Russia sovietica di Lenin, appena sei mesi dopo
l’epocale Rivoluzione d’Ottobre era stata del resto subito definita come capitalismo da
alcuni “iperantagonsiti” a parole, quali il “marxista” (e menscevico) A. Isuv.
Il “perfido” (come l’ha definito giustamente Lenin) Isuv già nell’aprile del 1918 scrisse infatti
che “priva fin dall’inizio di un carattere veramente proletario, la politica del potere dei
Soviet si inoltra sempre più apertamente, negli ultimi tempi, sulla via della conciliazione con
la borghesia e assume un carattere antioperaio. Sotto la bandiera della nazionalizzazione
dell’industria si persegue una politica di impianto di trust industriali, con il pretesto di
ricostruire le forze produttive del paese si cerca di abolire la giornata di otto ore, di
introdurre il lavoro a cottimo e il sistema Taylor, le liste nere e i fogli di via. Questa politica
minaccia di togliere al proletariato le sue principali conquiste nel campo economico e di
farne la vittima di uno sfruttamento illimitato da parte della borghesia”.
Sulla scia di Isuv, seppur in buona fede soggettiva, anche Bucharin, ed i comunisti “di
sinistra” russi di quel periodo si trasformarono allora in “utili idioti” della borghesia
mondiale, sostenendo (solo sei mesi dopo della Rivoluzione d’Ottobre!) che la Russia
6
S. Halimi, “Il grande balzo all’indietro”, p. 246-247, ed. Fazi
7
Op. cit.,
sovietica si era rivelata come una forma di capitalismo, e non invece una nazione che stava
iniziando un reale e durissimo processo di transizione al socialismo (e purgatorio…) reale.
Nella rivista Kommunist, Bucharin a sua volta sottolineò nell’aprile del 1918 che
“l’introduzione da parte del potere sovietico della disciplina del lavoro legata alla
reintegrazione di capitalisti alla direzione della produzione, mentre non può aumentare
sostanzialmente la produttività del lavoro, diminuirà l’iniziativa di classe, l’attività e la
capacità organizzativa del proletariato. Essa minaccia di asservire la classe operaia, susciterà
il malcontento sia degli strati arretrati che dell’avanguardia del proletariato. Per attuare
questo sistema, dato l’odio che regna nei ceti proletari verso i “capitalisti sabotatori”, il
partito comunista dovrebbe appoggiarsi sulla piccola borghesia contro gli operai e così
suicidarsi come partito del proletariato”
Sul tema - politicamente centrale - della differenza reale tra capitalismo di stato e socialismo
(purgatorio-socialismo), si può subito notare chi descrisse e definì in modo comune (come
analisi finale) l’Unione Sovietica in termini di capitalismo di stato una “rete” diversificata di
personaggi, spesso assai sconosciuti, quali:
- Il fascista/aristocratico Julius Evola;
- Il fascista “di sinistra” N. Bombaci, che straparlava di “capitalcomunismo”;
- Il fascista tout court B. Mussolini;8
- Korsch, Pannekoek e Ruhle, per cui il bolscevismo fin dai tempi di Lenin del 1917/23 non
era che una variante dello sviluppo capitalistico: O. Ruhle arrivò a dire nel 1939 che il
regime sovietico, quale uscito dall’opera di Lenin e Stalin era un regime borghese che
era servito come modello al fascismo, per cui “la lotta contro il fascismo deve
cominciare dalla lotta contro il bolscevismo”;9
- A. Bordiga, dopo il 1955;
- Il liberal-borghese B. Henry-Levy;10
- Il borghese A. Ronchey;
- Il borghese A. Voslensky, allo stesso tempo esaltatore indefesso della virtù del
capitalismo ed accusatore implacabile delle malefatte del “capitalismo di stato”
sovietico, a partire dai “privilegi” materiali goduti da Lenin nel 1917-24. 11
È soprattutto su questo importante snodo teorico-pratico che anche il “post-marxismo”
occidentale, magma proteiforme che ha iniziato a formarsi/svilupparsi dall’inizio degli anni
8
L’Unità, n.3 del 1937, p. 6
9
M. Salvadori, “La critica marxista allo stalinismo”, in Storia del marxismo, vol. 3/2, p. 128, ed. Einaudi
10
R. Sidoli, “Logica della storia e comunismo novecentesco”, p. 157, ed. Petite Pleisance
11
D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli, “Lenin o Isuv?”, in www.lacinarossa.net, dicembre 2011
Settanta (T. Negri, Deleuze, l’ultimo Althusser, ecc.), si è trasformato quasi sempre in un
proiettile anti-marxista, usato carsicamente da molti intellettuali e propagandisti della
borghesia mondiale per mandare un chiaro messaggio a tutti i lavoratori, e cioè che non
sussiste un alternativa seria al capitalismo. “Guardate non solo come è finito il comunismo,
ma anche che al suo interno c’erano (URSS, ecc.) e ci sono tuttora (Cina, Cuba, ecc.) i
“padroni rossi”: non è cambiato niente dopo la rivoluzione, e pertanto accettate come
minore dei mali il “libero mercato” di matrice occidentale, senza sognare (non parliamo poi
di “fare”) rivoluzioni, che parrebbero solo alla creazione di una nuova casta di padroni,
seppur verniciata di rosso”.12
Ma torniamo all’algida sfera economico-produttiva, per esaminare l’azione della legge del
costo-lavoro all’interno del processo di produzione/riproduzione nel socialismo (il suo
carattere di “purgatorio” imperfetto, specie se messo a confronto con il “paradiso” del
comunismo sviluppato, costituisce ovviamente uno dei punti di forza oggettivi del
comunismo “di sinistra” contro il socialismo concreto e reale, in carne e ossa.
Usando la categoria (modificata) del valore, caro Moro, nella tua splendida Critica al
programma di Gotha avevi notato rispetto alla “società comunista” (termine da te
impiegato anche per la fase immatura di sviluppo del modo di produzione comunista, e cioè
il socialismo-purgatorio) che dal suo “prodotto sociale complessivo” si dovranno effettuare
alcune, “detrazioni”, prima di ottenere la quota di prodotto sociale invece a disposizione per
il fondo di consumo dei suoi consociati (anche non produttori diretti: vecchi, bambini, inabili
al lavoro).
Dopo aver criticato alcune (scorrette) tesi relative alla “giusta ripartizione del prodotto
sociale ed “frutto del lavoro”, indicasti che nel socialismo (come nel comunismo sviluppato)
vi sarebbe stato un “prodotto sociale complessivo”, e che esso a sua volta sarebbe stato
l’autentico “frutto del lavoro sociale” combinato con l’azione gratuita di sostegno della
Natura.
Emerge pertanto una precisa relazione dialettica, e cioè che il “lavoro sociale” determina la
produzione/riproduzione continua del “prodotto sociale complessivo” anche nel socialismo,
come nel comunismo primitivo ed in quello sviluppato: siamo in pieno regno sia della legge
universale dell’indispensabilità del lavoro umano che dia quella del costo-lavoro, visto che
alla “società collettivistica” (Marx) il “prodotto sociale complessivo” comporta e costa solo
erogazione di lavoro, risultando il contributo della Natura gratuito sotto tuti gli aspetti.
Ma non solo. Sempre nella Critica al programma di Gotha avevi fatto riferimento anche al
costo-lavoro “indiretto”, caro Marx, e più precisamente alla vincolante necessità (pena la
progressiva autodistruzione della società collettivistica, non solo sul piano produttivo) di
destinare una parte del “prodotto sociale complessivo” (del costo-lavoro in esso
contenuto…) per creare-riprodurre un fondo di ammortamento (“per reintegrare i mezzi di
produzione consumati”) e di accumula-zione: siamo sempre dentro nel regno del “costolavoro” e del calcolo/“contabilità” (Marx) del costo-lavoro nel processo di produzione del
socialismo, all’interno del “purgatorio”-socialismo ed in una società collettivistica.
Ma leggiamo con attenzione il tuo lucido ragionamento, caro Moro.
“Che cosa è “frutto del lavoro”? Il prodotto del lavoro o il suo valore? E, nell’ultimo caso, il
valore complessivo del prodotto o solo quella parte di valore, che il lavoro ha aggiunto al
valore dei mezzi di produzione consumati?
“Frutto del lavoro” è una rappresentazione vaga, che Lassalle ha messo al posto di concetti
economici determinati.
12
A. Negri, “Good-bye Mr. Socialism”, p. 36, ed. Feltrinelli
Che cosa è “giusta ripartizione”?
Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in realtà l’unica
ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici
regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli
economici? Non hanno forse i membri delle sette socialiste le più diverse concezioni della
“giusta” ripartizione?
Per sapere che cosa si deve intendere in questo caso sotto la frase “giusta ripartizione”,
dobbiamo confrontare il primo paragrafo con questo. Quest’ultimo paragrafo suppone una
società in cui “i mezzi di lavoro sono proprietà comune e il lavoro complessivo è organizzato
su una base collettiva”, mentre nel primo paragrafo vediamo che “il frutto del lavoro
appartiene integralmente a ugual diritto, a tutti i membri della società”.
A tutti i membri della società? Anche quelli che non lavorano? E dove se ne va allora il
“frutto integrale del lavoro”? solo ai membri della società che lavorano? E dove se ne va
allora, “l’ugual diritto” di tutti i membri della società?
Ma “tutti i membri della società” e “l’ugual diritto” sono evidentemente solo modi di dire. Il
nocciolo sta in questo, che in questa società comunista ogni operaio deve ricevere un
lassalliano “frutto del lavoro” “integrale”.
Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del
lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo.
Ma da questo si deve detrarre:
Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati.
Secondo: un parte supplementare per l’estensione della produzione.
Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati dagli avvenimenti
naturali, ecc. queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità
economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in
base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla
giustizia.
Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo.
Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:
Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione.
Questa parte è ridotta fin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale e
ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando (=il comunismo sviluppato,
per l’appunto).
Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione dei bisogni sociali, come scuole, istituzioni
sanitarie, ecc.
Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà
nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.
Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta
assistenza ufficiale dei poveri”.13
Partendo dai solidi presupposti per cui il socialismo-comunismo si basa sulla “proprietà
comune” dei mezzi di produzione, e che i produttori diretti risultano sicuramente “gli
uomini il cui faticoso lavoro crea ogni cosa, dalle gigantesche macchine ai giocattoli per i
bambini”, (M. Gorkij), Marx indicò la “stella polare” da cui partire per l’analisi del socialismo:
“il prodotto sociale complessivo” disponibile.14
13
K. Marx, “Critica al Programma di Gotha”, cap. primo
14
Dal passo sopracitato del “Moro” oltre che dalla concreta pratica storica, dopo il 1917 e
l’Ottobre Rosso sovietica, non si può non dedurre innanzitutto come non solo nel
comunismo primitivo e in quello sviluppato, ma anche nel socialismo l’unico elemento che
costano alla società i diversi oggetti d’uso è il lavoro: una banale/sicura verità in parte
compresa da Stalin in suo scritto del 1952, quando notò l’importanza e la positività
all’interno del socialismo di fattori quali “la gestione redditizia, il costo sociale di
produzione, i prezzi”.15
Anche Che Guevara, nel giugno del 1963, sottolineò l’importanza dei “costi di produzione”
all’interno dell’econo-mia socialista cubana, rilevando che “è necessario elaborare un
sistema di analisi dei costi che premi sistematicamente e punisca con uguale sistematicità i
successi e gli insuccessi nella lotta per ridurli.
È anche necessario elaborare norme sul consumo delle materie prime, sulle spese indirette,
sui prodotti in lavorazione, sugli inventari delle materie prime e dei prodotti finiti. Bisogna
rendere sistematico il controllo degli inventari e fare un lavoro economico preciso su tutti
questi indici, in un costante processo di rinnovamento.
Nel nostro sistema di contabilità, abbiamo diviso i costi in: costi delle materie prime e dei
materiali diretti, costi dei materiali indiretti, costo della forza lavoro, costo del
deprezzamento” (ammortamento) “e della previdenza sociale, che è il contributo delle
imprese statali misurato in funzione del fondo salari.
Bisogna agire su tutti e su ciascuno degli elementi indicati, tranne sull’imposta di previdenza
sociale […].
Nell’ambito delle materie prime e dei materiali di diretto consumo si può agire facendo dei
risparmi diretti, introducendo dei cambiamenti tecnologici ed evitando gli sprechi. Nei
materiali indiretti si può risparmiare diminuendo il consumo di elettricità, di combustibile,
ecc.16
Sempre partendo dalla “stella polare” del prodotto sociale complessivo, caro Moro, avevi
ben delineato tutta una serie di “detrazioni”, che si basano giustamente sul
calcolo/contabilità relativa al costo-lavoro (o valore se si preferisce) dei vari “fondi” da
detrarre al prodotto sociale complessivo: a partire ovviamente dal fondo per il logorio-usura
dei mezzi di produzione via via consumati nel processo produttivo (“quel che occorre per
reintegrare i mezzi di produzione consumati” in termini di costo-lavoro, secondo le regole e
proporzioni delineate in precedenza) e del fondo di accumulazione socialista (la “parte
supplementare per l’estensione della produzione”), sempre collegato al costo-lavoro
socialmente necessario per effettuare i nuovi investimenti produttivi, e per creare i nuovi
mezzi di produzione, materie prime e fondi di consumo destinati alla forza-lavoro. Pertanto
il processo di calcolo del costo-lavoro delle “detrazioni” in oggetto ed il processo di
riproduzione delle forze produttive, anche durante la prima ed immatura fase di sviluppo
M. Gorkij, “La madre”, p. 362, ed. Fabbri
15
V. I. Stalin, “Problemi economici del socialismo”, cap. terzo, Editori Riuniti
16
E. Che Guevara, “Considerazione sui costi di produzione”, giugno 1963
della “società comunista” (Marx), marciano di pari passo costituendo una coppia dialettica
indissolubile.
Ma non solo. Almeno fin dal 1943 in Unione Sovietica era stato riconosciuto il fatto evidente
(e quasi banale) che collegava i costi dei diversi oggetti d’uso nella società socialista (ed i
loro prezzi) “ai costi socialmente necessari della loro produzione” (=costo-lavoro) anche se
definendo in modo erroneo come “merci” tali oggetti e rilevando (invece in modo corretto)
che la società socialista poteva stabilire per via politica (=i “prezzi politici”) certe
“deviazioni” dal costo-lavoro per alcuni beni di cui si appropriavano i produttori diretti, in
base alla quantità/qualità del lavoro da essi erogato.17
Risulta dunque inevitabile che il costo-lavoro dei diversi oggetti, ivi compresi i mezzi di
produzione, e la loro contabilità giochino un ruolo assai importante rispetto a tale
“segmento di pratica produttiva della società socialista, nella quale serve/servirà conoscere
con esattezza sia il tempo di lavoro disponibile per l’attività produttiva che per le
proporzioni in cui essa si distribuisce all’interno del processo di riproduzione dei diversi
valori d’uso, creati via via nella “società collettivistica” (Marx, Critica al Programma di
Gotha); in cui serve/servirà conoscere in modo preventivo i “mezzi e le forze presunte”
(Marx) in campo produttivo a disposizione della “nuova società” per riprodurre sia i mezzi di
consumo che i mezzi di produzione.
Nulla vieta alla società socialista di applicare “prezzi politici” su alcuni beni, ma non certo
su tutti o su una loro parte maggioritaria, se non pagando la “penitenza” di prosciugare
simultaneamente il fondo destinato all’accumulazione-ammortamento, oppure di
aumentare il costo di altri beni per compensare i prezzi politici.
Teoria del costo-lavoro che, seppur in forma implicita, sta alla base anche di importanti
conquiste teoriche degli economisti sovietici sulla pianificazione/calcolo del processo
produttivo, quali ad esempio:
- Il bilancio materiale, da intendersi come un insieme dialettico di input produttivi;
- Il metodo delle interdipendenze settoriali (metodo input-output) elaborato dagli
economisti sovietici P. I. Popov e M. Barengolts, in cui si raggiunge un equilibrio tra i vari
settori con proporzioni ricavabili empiricamente da una matrice di coefficienti produttivi
intersettoriali, presupposto un fattore primario (=il lavoro) che non è a sua volta
prodotto;
- La programmazione lineare statica di L. Kantorovich (1939), e cioè la costruzione di
matrici di equazioni lineari da cui si estraevano le soluzioni ottimali in termini di
distribuzione delle risorse;
- Il modello dinamico di programmazione lineare, sempre di L. Kantorovich (1959);
- La teoria del controllo ottimale elaborata dal matematico sovietico Pontryagin;
- Il modello di sviluppo di Feld’man nel (1928), che partendo da alcune rigide premesse
produttive definiva il tasso di investimento determinato dalla dimensione/sviluppo del
settore A, destinato alla produzione di mezzi di produzione.18
17
R. Meek, op. cit., p. 252
18
M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, pp. 410-413, Editori Riuniti
Si tratta di un insieme di gioielli teorici e pratici che partono proprio anche dalla teoria del
costo-lavoro come loro base, assieme alla co-presenza dialettica del meccanismo di
pianificazione sovietica.
Ad esempio gli economisti sovietici utilizzarono con successo la categoria di produttività
netta al fine di determinare la redditività degli impianti produttivi, indicando con tale
termine la produttività di un impianto importante e di un determinato periodo di tempo,
meno il costo iniziale necessario per ottenerla espresso in rapporto al costo di costruzione
dell’impianto, anch’esso calcolato in termini di costi correnti dei salari e dei materiali
impiegati nella costruzione.
Come ha notato M. Dobb, gli economisti marginalisti “in passato hanno generalmente
sostenuto che la distribuzione del capitale tra le industrie, la quale comporta le decisioni
attorno al numero, al tipo e alle dimensioni di ogni singolo impianto, potrebbe essere
organizzata “razionalmente” (in modo, cioè, da tradurre in termini di produzione totale il
massimo possibile delle riserve investite) solo nel caso in cui esista un meccanismo del
quale la produttività anticipata in ogni impiego possa essere paragonata con il costo delle
riserve, quando il “costo” sia calcolato in modo da riflettere la massima produttività
potenziale di quelle riserve secondo le diverse possibilità d’investimento. È stato sostenuto
che, perché ciò sia possibile, queste riserve di capitale (per es., macchinario o materiale da
costruzione) debbono essere valutate non solo in base al complesso della forza-lavoro
(valutata al prezzo dei salari correnti), direttamente o indirettamente impiegata nella loro
produzione, ma in base ad una speciale “costo del capitale” calcolo come una specie di
saggio d’interesse esprimente il rapporto tra la “scarsità” del complesso delle riserve di
capitale disponibili per l’investimento e la somma dei loro usi potenziali (valutati secondo la
loro produttività potenziale in questi usi).
Questa tuttavia non sembra essere una conseguenza inevita-bile, anche se la situazione
economica e i problemi che essa coinvolge hanno il carattere che gli economisti di solito
hanno ad essi attribuito. Ove siano disponibili i dati concernenti la produttività dei diversi
investimenti progettati e i relativi costi di impianto (espressi in base ai costi primari delle
costruzioni, dei materiali e delle attrezzature occorrenti), esisterà una base per calcolare la
produttività netta di ciascun progetto e per stabilire una successione di priorità nei progetti,
in ragione del loro relativo rendimento. Una volta precisate tali priorità (che, naturalmente,
non possono essere decise solamente in base alle considerazioni concernenti la produttività
calcolate, il problema della distribuzione può essere risolto seguendo la successione delle
priorità fino ad esaurimento delle risorse previste per gli investimenti in quel periodo.
Procedendo con tale metodo, nessun progetto con prospettive di rendimento minori sarà
preferito ad uno con prospettive di rendimento maggiori: al tempo stesso saranno state
rispettate le condizioni per la sua più efficace utilizzazione delle risorse disponibili. 19
Passiamo a questo punto al processo di distribuzione/consumo all’interno della società
collettivistica, notando subito che siamo in presenza di una società al cui interno lo sviluppo
delle forze produttive risulta ancora limitato (relativamente) e tale da non poter garantire il
soddisfacimento dei bisogni umani secondo la regola della gratuità del consumo, in base
alla regola comunista/sviluppata del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Pertanto nel socialismo-purgatorio si assiste al processo di riproduzione continua di una
contraddizione fondamentale, tra l’alto (positivamente alto) livello di sviluppo già raggiunto
dai bisogni sociali (materiali e culturali, bisogni soddisfatti in modo individuale e collettivo) e
19
M. Dobb, op. cit., p. 17-18
il basso (purtroppo ancora limitato, scarso ed insufficiente) grado di sviluppo delle forze
produttive sociali destinate a soddisfarlo: una tensione e scarto di valore generale che può
anche assumere un carattere antagonista, sia a livello teorico che pratico (Kronstadt 1921,
ecc.).
Ma non solo: un’ulteriore contraddizione (secondaria ma di un certo peso) all’interno della
dinamica del purgatorio-socialismo consiste nella parziale tensione tra l’aumento del
soddisfaci-mento dei bisogni materiali-culturali dei prodotti diretti da un lato, e
l’incremento del loro tempo libero con la riduzione progressiva dell’orario di lavoro: a parità
di condizioni quest’ultimo elemento risulta in contraddizione con il primo, visto che se si
lavora di meno diminuisce simultaneamente la qualità dei mezzi di consumo a disposizione
della società collettivistica e dei suoi produttori.
Dati questi presupposti e condizioni materiali, la migliore forma di distribuzione del
prodotto sociale all’interno di una società socialista diventa quella effettuata attraverso il
tempo di lavoro erogato in base alla sua durata, intensità (e qualifica), dai diversi produttori
diretti, una volta effettuate le “detrazioni” sopra esaminate: “a ciascuno secondo il suo
lavoro”, in estrema sintesi.
Tot erogazione di tempo di lavoro, tot. quantità di mezzo di consumo acquisiti/consumabili
dai singoli produttori diretti all’interno del socialismo-purgatorio, sempre dopo avere
effettuato le detrazioni sopra indicate dal “prodotto sociale complessivo”: questo è il
criterio ottimale per il processo di distribuzione nel socialismo-purgatorio dei mezzi di
consumo individuali, a giudizio di Marx.
Si tratta di una regola generale basata su uno scambio (tra produttori diretti e società
collettivistica) di lavori uguali e costi-lavoro eguali, sull’uguaglianza tra il lavoro in entrata
(=l’erogazione di una determinata quantità di tempo-lavoro da parte dei produttori diretti)
da una parte, ed il lavoro in uscita e l’output dall’altra (=il tempo di lavoro necessario per
produrre i mezzi di consumo attribuiti ed acquisiti da parte dei produttori diretti), sempre
dopo avere effettuato le “detrazioni” di cui sopra.
Lavoro e costo-lavoro, in entrata e uscita.
Si tratta in ogni caso di un processo continuo di scambio tra equivalenti, ma non di un
processo scambio di merci: e del resto proprio il tuo amico Engels aveva rilevato
giustamente che “la produzione di merci non è affatto la forma esclusiva di produzione
sociale”.20
Sotto questo profilo, caro Marx, avevi sottolineato giustame-nte nella “Critica al Programma
di Gotha” che se nel socialismo-purgatorio ed “all’interno della società collettivistica vige la
regola della distribuzione secondo il lavoro erogato, dall’altra parte niente può diventare
proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali”.
A questo punto esaminiamo il lungo passo della “Critica al Programma di Gotha”, in cui si
descrive una particolare manifestazione della legge universale del costo-lavoro (“la stessa
quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un'altra”) che
domina la distribuzione dei mezzi di consumo nel socialismo.
“All’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei mezzi di
produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in
prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi
posseduta, poiché ora, in contrapposte alla società capitalistica, i lavori individuali non
diventano più parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma
20
R. Meek, op. cit., p. 240-241
in modo diretto. L’espressione “frutto del lavoro”, che anche oggi è da respingere a causa
della sua ambiguità, perde così ogni senso.
Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla
sua prima base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi
ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della
vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il prodotto singolo riceve – dopo le
detrazioni – esattamente ciò che dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità
individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore
di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della
giornata di lavoro sociale conferita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro
sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino di cui risulta che egli ha prestato lavoro
(dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal
fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa
quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un'altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci, in quanto
è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione
nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché dall’altra parte niente può
diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò
che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio
che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma,
contro un’eguale quantità in un'altra.
L’uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benché principio
e pratica non si accapiglino più, mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di
merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.
Nonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite
borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro,
l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.
Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso
tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire
come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di
essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non
riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli
altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di
rendimento come privilegi naturali. Esso è perciò, per suo contenuto, un diritto della
disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura,
nell’applicazione di un eguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui
diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono
sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un
lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro
soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro
no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la
partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più
ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere
uguale, dovrebbe essere diseguale.
Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista quale è
uscita dopo i lunghi travagli del parto della società capitalistica. Il diritto non può essere mai
più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato,
della società”.21
21
K. Marx, “Critica del Programma di Gotha”, op. cit.
Lavoro e costo-lavoro pertanto contraddistinguono il “parti-colare ed egualitario” “scambio
di equivalenti” dentro “la società collettivistica” (Marx).
La regola generale dello “scambio di equivalenti” (sempre presupponendo ed effettuando
prima le “detrazioni”) sussistente tra produttori diretti e società socialista (“scambia una
quantità di lavoro in una forma, contro un’uguale quantità in un'altra”) solleva subito alcune
questioni importanti, da risolvere in modo preventivo anche per evitare inutili equivoci.
Innanzitutto la teoria del costo-lavoro si dimostra uno schema esplicativo che permette di
comprendere tale “scambio” particolare, diverso da quello che avviene nelle società
classiste: uno scambio in cui la forza-lavoro non diventa merce ed al cui interno “si scambia
una quantità di lavoro in una forma contro un uguale quantità in un'altra” (Marx), uno
scambio particolare che assomiglia allo scambio di merci ma è quantitativamente diverso da
esso elemento non compreso da Stalin nel 1952.22
Il criterio generale (“la misura uguale, il lavoro”) in via d’esposizione non costituisce inoltre
l’unica regola applicabile ad una società socialista, venendo infatti affiancato da quello
alternativo dell’egualitarismo materiale, ben diverso dall’“uguale diritto” alla stessa quantità
di mezzi di consumo se si è in presenza di un uguale contributo materiale: in altri termini, la
regola “a tutti la stessa quantità di mezzi di consumo”, rappresenta un’opzione diversa da
quella proposta invece da Marx per il processo di distribuzione/consumo all’interno del
socialismo-purgatorio.
A nostro avviso il criterio dell’egualitarismo materiale non va solo contro al pensiero
marxiano, per il quale cui se un produttore diretto “fornisce quindi nello stesso tempo più
lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo” ha diritto sicuramente, ad
ottenere una quantità maggiore di mezzi di consumo del lavoratore invece meno abile o
resistente, ma soprattutto presenta due gravi inconvenienti.
In primo luogo tale regola di ridistribuzione del prodotto sociale risulta sicuramente
ugualitaria, ma certo non basata su una reale “giustizia”: se ad esempio un produttore
diretto, lavorando otto ore a parità di qualifica, ottiene la stessa quantità di mezzi di
consumo e la stessa “retribuzione” di un suo collega, che lavora invece con un’intensità
doppia del primo, il “senso comune” di gran parte della forza-lavoro del
passato/presente/futuro riterrà non conforme a giustizia tale distribuzione, l’egualitarismo
materiale, inoltre favorirebbe direttamente il disinteresse per la produzione sociale nel
socialismo, scoraggiando come minimo buona parte della spinta collettiva a lavorare meglio
e più intensamente, a raggiungere una qualifica superiore autocreandosi una forza-lavoro
“complessa” in senso marxiano.
L’esperienza concreta ed ormai secolare dei paesi egemonizzati dal socialismo deformato
non lascia spazio ad alcun dubbio in proposito, tanto che Raul Castro – divenuto dal luglio
2006 il leader di una delle nazioni socialiste che per più tempo ha tollerato l’ugualitarismo
de facto nelle retribuzioni – ha sottolineato nel corso di un suo discorso dell’11 luglio 2008
che “socialismo significa giustizia sociale ed eguaglianza, ma eguaglianza dei diritti e delle
opportunità e non dei salari”, rilevando con realismo che a Cuba “si lavora poco, si lavora
sempre di meno: scusate la crudezza delle mie parole.”23
22
V. I. Stalin, “Problem…” op. cit., cap. terzo
23
“Cuba, terre incolte ai privati”, in www.repubblica.it, 12 luglio 2012
Si tratta di un problema annoso e che risale già agli anni Sessanta, come venne
testimoniato anche da economisti simpatizzanti per la Rivoluzione quali gli statunitensi L.
Huberman e P. M. Sweerzy, che già allora notarono che l’assenteismo sul lavoro costituiva
un fenomeno diffuso sull’isola.24
Purtroppo l’esperienza storica pluridecennale delle società collettivistiche ha mostrato
come il parassitismo (effettuato da pseudo-lavoratori ai danni dei veri lavoratori) non
costituisca solo un fenomeno assai diffuso in Natura e vantaggioso per la riproduzione degli
organismi parassitari, ma diffuso anche nel socialismo-purgatorio, se lasciato libero di
diffondersi senza forti e costanti controtendenze: le secche parole di Raul Castro pertanto
erano basate su un processo concreto di distribuzione del prodotto sociale a Cuba
chiaramente viziato da errori, a partire dall’incomprensione del messaggio marxiano “antiegualitario” del 1875.
“Perché lavorare più intensamente, perché ottenere una migliore qualifica professionale”,
chiederebbe subito gran parte dei produttori diretti del socialismo, “se tanto otteniamo
proprio in termini di mezzi consumo proprio come i nostri colleghi pigri e/o non qualificati?
Proprio per senso di giustizia, d’ora in poi anche noi ci adegueremo al loro stesso livello,
lavorando anche noi il meno possibile: tutti uguali non solo nei consumi, ma anche
nell’intensità/qualificazione reale del lavoro.”
Terza precisazione: la distribuzione di matrice socialista secondo il lavoro erogato non va
confusa con la legge del costo-lavoro, che attribuisce invece ai produttori diretti delle
società classiste solo la quantità di mezzi di consumo socialmente necessari per la
riproduzione (dignitosa, nei casi migliori, stentata e precaria, di regola) della loro forzalavoro e delle loro famiglie.
In uno scenario relativamente favorevole, la regola del “a ciascuno secondo il suo lavoro”
produce effetti assai positivi per i lavoratori del purgatorio-socialismo.
Se ad esempio i produttori diretti erogassero alla società collettivistica una quantità di
lavoro (collegato ad un determinato grado medio di produttività del lavoro sociale) in grado
di produrre una quantità globale di mezzi di consumo doppia rispetto a quella invece
necessaria per una riproduzione dignitosa ed umana della loro forza-lavoro, essi
otterrebbero una quantità di mezzi di consumo doppia, rispetto a quella necessaria per il
soddisfacimento umano e di “buona qualità” (Marx) dei loro bisogni materiali-culturali.
Se erogassero invece il triplo del costo (dignitoso, umano e di “buona qualità”) della
riproduzione della forza-lavoro, otterranno a loro volta invece una quantità tripla di quella
necessaria, e così via senza limiti e “tetti” invalicabili (consideriamo come già effettuate le
“detrazioni” marxiane del 1875, astraendoci pertanto dal calcolo del costo-lavoro
necessario al fine di riprodurre i fondi di ammortamento, di accumulazione e di riserva).
Ma purtroppo esiste anche la “variante negativa”, nello schema proposto.
Un grave problema si può infatti porre nel caso di una società collettivistica uscita rovinata
dalla guerra civile, con un basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali già nel
periodo pre-rivoluzionario, ed in sovrappiù gravata dalla pesante “detrazione” creata dalla
necessità di mantenere un numeroso e costoso esercito per difendersi dalla minaccia di
aggressione dal campo capitalistico, in assenza di una rivoluzione socialista mondiale.
Chiamiamo tale società collettivistica con un nome di fantasia, diciamo… Russia
sovietica/Unione Sovietica, diretta da un leader (ipotetico) di nome Lenin.
Chiamiamo la società classista pre-rivoluzionaria Russia zarista.
24
L. Huberman e P. M. Sweerzy”, Le socialism cubain”, p. 152, ed. Anthropos Paris
Denominiamo il protagonista della costosa “detrazione” di matrice militare con il titolo
(glorioso) di Armata Rossa.
Ipotizziamo che il quadro temporale per questa simulazione sia stato il 1921.
Cosa sarebbe potuto succedere in tale scenario ipotetico e fantasioso, rispetto al processo
di distribuzione del prodotto sociale nel “purgatorio” del socialismo?
Immaginiamo che i produttori diretti della società collettivi-stica avessero erogato
globalmente un prodotto sociale com-plessivo pari a 100, diciamo otto volte meno della più
avanzata potenza capitalistica a cui diamo il nome USA; e che, effettuate le “detrazioni” di
marxiana memoria con l’aggiunta di quella di matrice militare, avessero raggiunto solo una
quota ipotetica di 40 come quantità globale di mezzi di consumo disponibili, assai sotto alla
quota di cento invece necessaria per una remunerazione dignitosa, umana e di “buona
qualità” (Marx) della loro forza-lavoro. Risulta subito chiaro che avremmo un problema
gigantesco, anche se “ipotetico”, quando il produttore diretto nel socialismo ottiene solo il
40% dei mezzi di consumo invece necessari per un esistenza e un limite di consumi
dignitosi.
Ma immaginiamoci anche, rispetto alla forza-lavoro operante negli (ipotetici) USA, che essa
avesse invece ottenuto una quota pari a 160 come quantità globale di mezzi di consumo
disponibili, supponendo la come pari numero alla Russia sovietica per produttori diretti e
“detratto” lo sfruttamento capitalistico.
Logica conseguenza della nostra “simulazione”, nel 1921 la forza-lavoro degli USA avrebbe
ottenuto una retribuzione reale superiore di ben quattro volte rispetto ai “colleghi”
sovietici, nonostante che questi ultimi lavorassero e vivessero in ambito collettivistico. E
subito chiaro che avremmo un secondo e gigantesco problema, anche se solo “ipotetico”.
Anche in base ad una delle LEU analizzate nel primo capitolo, non si può infatti consumare
quello che non si è prodotto (o non hanno prodotto altri) in precedenza: i produttori diretti
dell’ipotetica Russia sovietica del 1921 non solo non avrebbero ottenuto la quantità di
mezzi di consumo necessari per una vita dignitosa, umana e di “buona qualità”, ma anche
vedrebbero gli operai degli ipotetici USA vantare un tenore di vita materiale superiore al
loro di ben quattro volte. In altri termini, anche se non sfruttati i produttori diretti
dell’ipotetica Russia sovietica starebbero assai peggio dei “colleghi” statunitensi del 1921, a
dispetto della regola socialista di distribuzione fondata sul “a ciascuno secondo il suo
lavoro”.
Le conseguenze politico-sociali di questo ipotetico scenario?
I lavoratori-sfruttati degli ipotetici USA del 1921 aderirebbero e sceglierebbero il capitalismo
nella loro grande maggioranza, dato che tale sistema socioproduttivo garantirebbe loro un
potere d’acquisto reale superiore di quattro volte rispetto ai loro colleghi socialisti della
Russia sovietica. “Bel socialismo della miseria/fame, che avete creato con la vostra grande
rivoluzione socialista”, esclamerebbe la “voce operaia” americana nei confronti
dell’esperienza dei produttori diretti sovietici.
A loro volta questi ultimi potrebbero invece ribellarsi alle loro miserie (anche se non dovute
a sfruttamento) condizioni di vita, ipotizziamo anche con un’insurrezione armata nella
(immaginaria) base operaia e navale di Kronstadt, con uno sciopero (quasi) generale nella
Pietrogrado del febbraio 1921, ecc.
Terza (e marginale) conseguenza, i comunisti “di sinistra” potrebbero sostenere che
nell’ipotetica Russia sovietica non si sarebbe certo realizzato il socialismo, ma solo una
forma particolare di capitalismo di stato…
In ogni caso, tranquilli compagni: si è trattato solo di uno scenario ipotetico e fantasioso, di
una simulazione socioeconomica frutto solo della nostra fantasia. Oppure forse era la realtà,
nel tremendo scenario socioproduttivo sovietico del 1921, ben vivo ed operante Lenin? Il
grande storico notò che “la situazione della Russia del 1917 era caratterizzata da un reddito
nazionale pro capite molto esigua e da un basso tenore di vita a causa del basso livello della
produttività del lavoro. Una tale situazione, a sua volta, dipendeva dal fatto che l’industria
era scarsamente sviluppata, mentre la grande maggioranza della popolazione era dedita ai
lavori della terra e soprattutto a quei tipi di colture che hanno un basso rendimento in
relazione alla manodopera impiegata e alla estensione della superficie coltivata. Al basso
rendimento di un’agricoltura ancora allo stato primitivo si aggiunge la sovrappopolazione
rurale: eccesso di popolazione in rapporto all’estensione delle aree coltivate e ai mezzi di
produzione a disposizione dei coltivatori. In particolare l’industria pesante era scarsamente
sviluppata, e la sua passata espansione si era strettamente limitata alle esigenze delle
costruzioni ferroviarie.”
Sempre Dobb notò che già durante la seconda metà del 1920 nella Russia sovietica, ben
vivo e operante Lenin, all’ottavo congresso dei Soviet “i delegati contadini avevano già
avanzato le loro lagnanze; uno di essi per esempio si lamentò dei funzionari e dei comitati
dei quali «ne esistono in una sola volost tanti quanti sono le famiglie. Se i comitati fossero
messi uno sull’altro, probabil-mente raggiungerebbero il cielo. Essi se ne stanno sul collo
indurito del contadino che lavora, le cui gambe vacillano, e presto lo faranno cadere».
Mentre queste parole venivano pronunciate, nelle regioni del Volga e della Siberia
occidentale,
stava
diffondendosi
una
catena
di
sollevazioni
contadine;
contemporaneamente nel governatorato di Tambov e a Saratov i funzionari incaricati della
raccolta di viveri venivano assaliti, torturati e uccisi.
La popolazione rurale non era la sola da estraniarsi dal regime.
Le masse degli operai della città cominciavano a sentire un distacco tra sé e l’apparato dello
Stato e tra sé e il partito comunista. Un aspetto di questo distacco fu l’antagonismo tra il
«centro» e le «provincie» caratteristico de quell’epoca; esso si manifestava nelle provincie
in sorde mormorazioni, anche tra gli stessi comunisti, contro i ben calzati e ben pasciuti
commissari provenienti dal centro, come Juri Libedinskij, nella Settimana, fa dire ai suoi
personaggi Simchova e Martynov. Tra gli operai delle fabbriche cominciò a diffondersi una
crescente sfiducia verso le più alte autorità economiche, che sapevano solo coprirli di un
diluvio di ordini e di regolamenti, che li lasciavano in ozio per la mancanza di materiale o di
combustibile, che proibivano loro di acquistare generi alimentari sul mercato libero e che
non erano capaci di fornire loro nemmeno le pur magre razioni. Cominciò ad infiltrarsi il
sospetto che i sindacati, piuttosto che organi rappresentativi degli operai comuni e tutori
degli interessi delle masse nei consigli statali, costituissero un apparato il cui compito era
quello di assicurare l’acquiescenza degli operai alle direttive governative; i sindacati operai
cominciarono ad essere considerati come qualcosa di poco diverso da un qualsiasi ufficio
ministeriale.
L’atteggiamento tenuto dai sindacati durante il periodo della guerra – la loro collaborazione
con l’industria per mantenere la disciplina del lavoro e per reclutare gli eserciti del lavoro e
la pratica, divenuta quasi costante, di sostituire le cariche elettive con designazioni dall’alto
– contribuì in larga misura al rafforzamento di una tale situazione. Il regime che Trotskij
aveva introdotto nelle ferrovie era un esempio di questa tendenza e provocò numerose
proteste in ogni settore del mondo sindacale. Inebriato dal successo riportato
nell’organizzazione dell’Esercito rosso, Trotskij, fin dall’inizio del 1920, aveva posto mano ad
un progetto di coscrizione obbligatoria del lavoro e alla formazione di un esercito del lavoro
che permettessero di affrontare i problemi della ricostruzione. Vennero costituiti speciali
«battaglioni d’assalto», il cui compito era quello di dare un nuovo slancio produttivo alle
aziende «d’assalto»; a mano a mano che le unità dell’Esercito rosso venivano ritirate dal
fronte, invece di essere smobilitato, venivano avviate sul fronte del lavoro per fronteggiare
la crisi dei combustibili e dei trasporti che in quel momento era nella sua fase più acuta.
Secondo questo piano, i sindacati avrebbero dovuto fornire il personale organizzativo che
doveva essere nominato dall’alto e posto sotto una disciplina militare. Entro certi limiti il
successo arrise all’iniziativa; la raccolta del legname combustibile venne accelerata; gli
ingenti lavori di riparazione delle officine ferroviarie e delle strade ferrate principali vennero
condotti a termine. Tuttavia, contro l’esiguità dell’incentivo e contro l’esaurimento fisico ben
poco
Potevano l’organizzazione militare e l’obbligatorietà del lavoro; ben presto si manifestò una
reazione contraria. Nella seconda metà del 1920 gli scioperi divennero assai frequenti.
L’assenteismo continuò ad aumentare e riunioni di fabbrica cominciarono a votare
risoluzioni di opposizione, nelle strade si verificano delle dimostrazioni di protesta; gli
operatori governativi vennero fischiati. Quando il precario miglioramento della situazione
dei combustibili, dovuto al ritorno sotto il controllo sovietico dei giacimenti petroliferi del
Caucaso, accennò a scomparire, nuovi segni di scontento cominciarono a manifestarsi.
Questa volta essi si estesero fino a Konstadt, la base navale vicino a Pietrogrado, che fin dai
primi giorni di marzo del 1917 era stato il vanto e la gloria della rivoluzione. Questo era
particolarmente significativo poiché era il riflesso dello scontento dei contadini, penetrato
ormai fin dentro la cittadella del bolscevismo.”25
In ogni caso l’analisi relativa al processo di distribuzione-consumo all’interno del
“purgatorio-socialismo” sottolinea come anche il calcolo del costo della riproduzione della
forza-lavoro, dignitosa e di “buona qualità”, rientri in quel processo di “contabilità” (Marx)
che, all’interno del socialismo come nel comunismo sviluppato, “diventa più importante che
mai” (Marx). Tale processo di riproduzione di buona qualità della forza-lavoro, sia sul piano
produttivo che politico-sociale (si pensi solo alla Konstadt reale del 1921), si rivela come un
limite ed una soglia minimale di retribuzione della forza-lavoro, sotto la quale la formazione
economico-sociale collettivistica non può né deve andare: sotto pena di scomparire per il
peso delle sue contraddizioni interne e incontrando la (sacrosanta) ribellione dei produttori
diretti, dopo tempi più o meno prolungati.
Processo collettivo di riproduzione di “buona qualità” della forza-lavoro che non avveniva
sicuramente in Cina, ancora nel 1967 e nella zona relativamente privilegiata di Pechino in
cui era posto il vicolo di Fanghuzhai, come ha testimoniato anche la figlia di Deng Xiaoping,
Deng Rong, quando gli effetti della disastrosa Rivoluzione Culturale allontanarono il padre
dal nucleo centrale del potere politico cinese a Zhongnanhai.
“Non saprei in quale altro modo definire il posto in cui stavamo a Zhongnanhai, se non
come una sorta di “torre d’avorio”. Qui a Fanghuzhai, invece, eravamo senza alcun dubbio
nel mondo reale.
Gli operai e gli impiegati del Gabinetto del Comitato centrale nostri coinquilini ci trattavano
abbastanza bene, forse dietro ordine di qualcuno. Appena arrivati, molti ci chiesero se
avevamo bisogno di qualcosa. Ci diedero dei porri e della salsa di soia. Avevamo ancora in
mente Zhongnanhai e quel posto ci sembrava vecchio e cadente, ma gli operai e gli
impiegati erano sempre vissuti là con le loro famiglie.
Non pensavano che ci fosse nulla di sbagliato, e noi iniziammo a capire che la gente comune
viveva così. I loro stipendi erano bassissimi – da venti yuan al mese in su. Al massimo,
quaranta. E questo stesso doveva bastare per una famiglia di tre generazioni. Molte mogli
per arrotondare incollavano scatole di cartone o di fiammiferi. In molte case i letti erano
semplici tavole appoggiate su due lunghe panche sulle quali si coricava l’intera famiglia. I
pasti consistevano in focaccine di farina di mais e verdure salate. Se c’erano i tagliolini fritti
in salsa di soia con un po’ di carne trita era già una festa. I vestiti erano pieni di toppe. I
bambini erano quelli che subivano le privazioni maggiori, ed erano fortunati se riuscivano a
difendersi dal freddo.
25
M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, op. cit., p. 14, 137 e 138
Di che cosa potevamo lamentarci? Non avevamo il diritto di essere insoddisfatti.
Imparammo a vivere come quelle famiglie di operai. Prendevamo l’acqua dal rubinetto in
cortile. Usavamo i bagni pubblici nel vicolo. Presentavamo i buoni per comprare le granaglie
allo spaccio dei cereali, mostravamo il nostro libricino al deposito di carbone per
comprarne. In quegli anni i cereali, il carbone, l’olio commestibile e molti altri prodotti
scarseg-giavano ed erano razionati.
Nei periodi festivi, ci mettevamo in coda come gli altri per comprare dei funghetti, dei Fiori
Gialli, delle spezie, che nei giorni feriali non si trovavano in vendita. Il formaggio di soia si
vendeva una volta alla settimana, e quel giorno dovevamo alzarci alle quattro o cinque del
mattino, per metterci in coda al mercato ortofrutticolo”.26
Sempre rispetto alla LEU in via d’esame, assume infine un ruolo importante anche il
processo di analisi del “socialismo di mercato”, su cui si sono soffermati A. Gabriele e F.
Schettino in un loro interessante saggio teorico del 2012.27
Il socialismo di mercato si differenzia innanzitutto da quello di matrice sovietica, a partire
dagli studi di O. Lange e dall’esperienza jugoslava del 1950/88, perché il processo di
formazione dei prezzi dei valori d’uso (mezzi di produzione e mezzi di consumo) viene
affidato al suo interno principalmente (ma non solo) al processo di decisione relativamente
autonoma delle singole unità produttive, sempre di proprietà collettiva: tale fenomeno si
verificò nell’area jugoslava specialmente dopo il 1965 e in Cina dopo il 1979. A partire dal
1980, infatti, si conferì un certo grado di autonomia alle imprese del gigantesco paese
asiatico fissando “un contratto tra dirigenti delle imprese” (di stato) “e ministeri, che
stabilisce da un lato gli obiettivi produttivi da raggiungere in un orizzonte di 3-4 anni e la
quota da conferire allo stato; dall’altro gli obblighi finanziari (tasse)”: nel giro di pochi anni,
soprattutto dopo il 1988, le aziende statali cinesi diventarono soggetti in buona parte
autonomi sul piano giuridico ed economico. 28
Inoltre il livello microeconomico/aziendale di matrice socialista acquisisce anche il potere
principale (ma non esclusivo) di determinare “quanto e cosa produrre”, a partire dal
rapporto tra fondo di consumo dei lavoratori e fondo di accumulazione, oltre che nel
processo di selezione concreta di prodotti finali verso cui indirizzare la produzione delle
singole unità produttive: nell’esperienza della Jugoslavia uno dei centri principali delle
decisioni microeconomiche iniziarono ad essere i collettivi dei lavoratori già a partire dal 27
giugno del 1950.29
26
Deng Rong, “Deng Xiaoping e la Rivoluzione Culturale”, p. 65, ed. Rizzoli
27
A. Gabriele e F. Schettino, “Market socialism as a distinct socioeconomic formation internal to the modern made
of production”, maggio 2012
28
G. Salvini, “La modernizzazione della Repubblica popolare cinese”, p. 359, in Autori Vari, “La Cina, verso la
modernità”, vol. terzo, ed. Einaudi
29
In terzo luogo e a differenza che nel socialismo ipercentra-lizzato di matrice sovietica,
sussiste e si riproduce nel socialismo di mercato un grado ((variabile) di concorrenza tra le
singoli unità produttive che operano nello stesso settore (ad esempio in quello
automobilistico): in modo tale che il “mercato”, inteso come l’insieme dei consumatori dei
diversi oggetti d’uso (gli acquirenti di automobili, nel caso specifico), decide in via principale
– anche se non esclusiva – quale sia l’impresa che produce gli oggetti d’uso migliori in
termini di rapporto tra prezzo e qualità rispetto ai “concorrenti”.
Per quanto riguarda la LEU del costo-lavoro, come nel socialismo di matrice pianificata essa
risulta in ogni caso alla base del processo di formazione dei costi dei prezzi anche per il
socialismo di mercato: ad esempio l’automobile dell’azienda-socialista costerà infatti in ogni
caso un dispendio in termini di erogazione di forza-lavoro, di consumo di materie prime (a
loro volta costate una quantità X 1 di tempo-lavoro generale), di usura degli impianti e di
trasporto degli oggetti d’uso nel luogo di consumo, come del resto avverrà nell’impresasocialista che risulti concorrente dalla prima, e così via.
E, a sua volta, la quantità di mezzi di consumo (il “salario”) acquisiti mano a mano dalla
forza-lavoro impiegata nelle diverse aziende socialiste dipenderà dalla quantità/qualità di
lavoro erogata, posta in combinazione dialettica con lo sviluppo qualità del tipo delle forze
produttive esistenti nel settore, una volta che siano state effettuate le “detrazioni” previste
da Marx nel 1875 (di regola sotto forma di tasse sul prodotto/profitto delle singole aziende)
e il processo decisivo sul rapporto tra fondo di consumo e fondo di accumulazione, rispetto
al prodotto sociale complessivo a disposi-zione delle singole aziende. Come nel socialismo
pianificatore, la forza-lavoro non assumerebbe la forma di merce venduta a determinati
prezzi ad acquirenti assolutamente autonomi e privi di qualunque vincolo con la parte
venditrice, perché le imprese socialiste appartengono ai produttori diretti anche se il
principio dello “scambio tra lavoratori uguali” assomiglia molto alla legge del valore si ha un
“contenuto e forma mutati”, perché “niente può diventare proprietà dell’individuo al di
fuori dei mezzi di consumo individuale” (Marx).
Potremmo fermarci a questo punto, ma ci consentiamo di “divagare” per poche pagine
sull’argomento stimolante del rapporto tra pianificazione e mercato all’interno del
socialismo, notando che Gabriele e Schettino avevano sicuramente ragione nell’affermare
che “l’esperienza storica ha mostrato che l’alto e sempre crescente grado di complessità
dell’economia moderna, legata alla sua continua e stratificata accumulazione di conoscenze
da parte di numerosi e diversificati attori, non consente semplicistiche o supercentralizzate
soluzioni al problema-chiave della gestione/governance”, mentre proprio l’economia
pianificata di tipo sovietico ha mostrato di essere “troppo rigida” per essere in grado di
assorbire “l’innovazione” tecnologica e scientifica, di natura autoctona o estera. 30
Ma altresì è sempre l’esperienza storica che mostra i disastri economici a cui porta il
“mercato”, seppur operante con imprese ed unità produttiva di tipo socialista e
collettivizzate, se esso viene privato della guida di una seria e vincolante pianificazione sulle
linee-guida del processo economico, a partire dal tasso di accumulazione/consumo e dalla
dinamica di distribuzione (settoriale e geografica) degli investimenti all’interno del
socialismo di mercato.
E. Hosch, “Storia dei paesi balcanici”, p. 263, ed. Einaudi
30
A. Gabriele F. Schettino, op. cit., p. 28
Il caso jugoslavo del 1950/88 ha provato che il mercato, senza pianificazione, crea
inevitabilmente:
- crisi periodiche di sovrapproduzione e fasi recessive, (1974 e 1980/83), come nel
capitalismo;31
- asimmetrie di sviluppo e potere d’acquisto tra le diverse zone geopolitiche della stessa
nazione, oltre a crescenti contraddizioni tra di esse;
- asimmetrie di sviluppo tra i diversi settori produttivi;
- aumento dei prezzi di consumo ed inflazione costante;
- privilegi corporativi nei settori produttivi meglio posizio-nati.32
All’interno dell’economia jugoslava, infatti, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, “la
libera economia di mercato” basata su aziende socialiste “moltiplicò i beni di consumo a
disposizione, ma produsse anche l’inflazione.
Alla base della disputa sui vantaggi della programmazione centrale, contro la libera
economia di mercato, c’era il conflitto di interessi tra le diverse repubbliche della
federazione, tra il Nord, prospero e industrializzato, e il Sud, contadino e impoverito. Il
reddito medio della popolazione in Croazia era quasi doppio rispetto al reddito in Bosnia,
Montenegro e Macedonia; in Slovenia era due volte e mezzo più alto. La Serbia occupava
una posizione intermedia, cui contribuivano la ricca provincia settentrionale della Vojvodina
(provincia autonoma, all’interno della Serbia) e il Sud povero di Kossovo e Metohija. Le
differenze si accentuarono con l’introduzione dell’economia di mercato: ogni anno, Croazia,
Slovenia e Vojvodina diventavano più ricche e Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Macedonia,
Kossovo e Metohija più povere. Tito era perfettamente consapevole del problema, come
disse a Dedijer. “Per molti anni ho lottato in campo internazionale per mettere fine alla
pauperizzazione di grandi parti del mondo. I paesi ricchi diventano sempre più ricchi e quelli
poveri sempre più poveri, e molto in fretta. Mi dispiace vedere che questo stesso processo
ha luogo anche in Jugoslavia.” Dal 1945 “nel nostro paese, le regioni industriali diventano
sempre più ricche a spese delle regioni economicamente sottosviluppate.”
Tito era risoluto a elevare il livello di vita nel sud e a crearvi posti di lavoro, ma questo si
poteva fare molto meglio mediante la programmazione centralizzata che con la libera
economia di mercato.”33
Un altro esempio delle proteiformi contraddizioni che possono sorgere tra le imprese
socialiste autonome e l’interesse generale della società collettivistica viene fornita
dall’esperienza sovietica del 1918, visto che “nella primavera del 1918, cominciò a
diffondersi tra i comitati di fabbrica una tendenza sindacalista: essa era un derivato dell’idea
che le aziende dovessero essere gestite direttamente dagli operai in esse occupati nel loro
esclusivo interesse. Questo fenomeno determinò un abbassamento della produzione e della
31
E. Hosch, “Storia dei paesi balcanici”, op. cit., p. 268-269, ed. Einaudi
32
J. Ridley, “Tito”, p. 358-363 e 367, ed. Mondadori
33
Op. cit., p. 341
disciplina in fabbrica; in molti casi fece sorgere tra gli operai un sentimento particolaristico e
di possesso nei confronti delle loro fabbriche, che andava a detrimento degli interessi della
più vasta comunità e resisteva gelosamente ai tentativi di coordinamento e di direzione
dall’alto. “Subentrò un altro proprietario – scriveva uno dei dirigenti del sindacato degli
operai metallurgici – che, alla pari del precedente, era individualista ed antisociale ed il
nome del nuovo proprietario era comitato di controllo nel bacino di Donez. Le officine
metallurgiche e le miniere si rifiutavano reciprocamente di fornirsi il ferro e il carbone a
credito, e vendevano il ferro ai contadini, senza alcun riguardo per i bisogni dello Stato”. Un
successivo rapporto del Vesenkha riassumeva la posizione assunta da tale organismo
durante questo periodo in termini molto franchi. “Il Vesenkha ha chiaramente compreso la
necessità di un coordinato piano di nazionalizzazione condotto su linee ben precise.
Tuttavia, nel primo periodo esso non ha potuto disporre dell’apparato statistico ed
amministrativo, ne stabilire contatti efficienti con le singole località e, per conseguenza,
mancando il numero sufficiente di organi locali efficienti e di “quadri” operai, è stato
costretto a portare entro i limiti della propria competenza e a cercare di dirigere un numero
troppo grande di imprese economicamente deboli: ciò ha reso l’organizzazione della
produzione estrema-mente difficile. Il primo tempestoso periodo di amministrazione
industriale ha sconvolto ogni organizzazione sistematica dell’industria e della rilevazione
economica.”34
Proprio basandosi su un’esperienza socioproduttiva ormai quasi secolare, che parte
dall’Ottobre Rosso sovietico fino ad oggi, risulta ormai evidente che proprio la
combinazione dialettica tra una pianificazione di tipo vincolante a livello strategico e la
simultanea azione del mercato/libera concor-renza tra imprese autonome (parzialmente) a
livello di decisio-ni microeconomiche, unita all’intervento statale teso a riequilibrare
costantemente le asimmetrie via via createsi nei processi di formazione dei prezzi e nella
destinazione (sia settoriale che geografica) degli investimenti, si sia dimostrata nei fatti la
migliore per ottimizzare il processo di riproduzione allargata del sistema socialista: tesi
verificata proprio dalla concreta esperienza cinese del 1978-2013, con le sue luci e ombre, e
con le sue “correzioni di tiro” in corso d’opera anche rispetto all’interrelazione dialettica tra
piano e mercato, tra prezzi fissati dallo stato, ecc.35
Per definire la “coabitazione” tra i due poli dialettici si può utilizzare, usare lo slogan
evidenziato dalla pluridecennale pratica cinese, e cioè “il massimo di pianificazione
macroeco-nomica compatibile con il mercato a livello microeconomico, e viceversa”, mentre
solo la pratica sociopolitica permette di superare le inevitabili contraddizioni tra i due
meccanismi di interconnessione/intervento nei processi economici in Cina.
Lo storico e analista D. Graeber ha notato giustamente che “siamo abituati a pensare che il
capitalismo e il mercato siano la stessa cosa, ma, come ha osservato il grande storico
francese Fernand Braudel, sotto molti aspetti i due si possono vedere anche come opposti.
Mentre i mercati sono delle istituzioni per scambiare merci usando la moneta come mezzo
– storicamente, un modo per coloro che avevano un eccedenza di grano di procurarsi delle
34
M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, op. cit., p. 107 Editori Riuniti
35
M. C. Berger, “La repubblica Popolare cinese”, p. 265-281, ed. Il Mulino; G. Samarani, “La Cina del Novecento”, p.
313-315, ed. Einaudi
candele e viceversa (in termini economici, M-D-M’, ovvero merce-denaro-altra merce) –, il
capitalismo è prima di tutto l’arte di usare il denaro per produrre altro denaro ( D-M-D’).
naturalmente il modo più facile per riuscirci e stabilire qualche tipo di monopolio, ufficiale o
de facto. Per questa ragione, i capitalisti di ogni tipo, che si tratti di mercanti, principi,
finanzieri o industriali, hanno sempre cercato di allearsi con l’autorità politica per limitare la
competizione nel mercato, in modo da essere agevolati e poter guadagnare di più.”36
Come meglio evidenzieremo in un prossimo saggio, se il “mercato” precede ed anticipa nei
fatti di almeno sette millenni la genesi del capitalismo (Engels, 1894), a sua volta
quest’ultimo ha utilizzato con una certa efficacia e su larga scala il meccanismo della
pianificazione vincolante a livello strategico fin dall’esperienza concreta dell’“economia di
guerra” tedesca del 1914-1918, allora diretta da un geniale organizzatore come il magnate
W. Rathenau: bisogna innanzitutto de-ideologizzare la questione del rapporto dialettico tra
mercato e pianificazione, evitando sia l’errata ed antistorica identificazione tra il primo
elemento ed il capitalismo, che l’altrettanto scorretta ed antistorica equazione fra
socialismo e pianificazione omnicomprensiva.
In Jugoslavia ad esempio sussisteva (troppo) poca pianifica-zione ma molti elementi di
socialismo, visto che il 4 gennaio del 2003 l’allora ministro serbo dell’economia e delle
privatizzazioni, A. Vlahodic, annunciò con fare trionfante che entro l’anno il governo
iperliberista di Z. Djndjic sarebbe riuscito a privatizzare il 60% dell’intera economia serba,
ben 15 anni dopo l’inizio dell’implosione dell’esperienza jugoslava.
Assai diversa risultava invece la questione, almeno altrettanto importante sul piano politicosociale, della presenza di un consistente settore capitalista all’interno di una formazione
economico-sociale prevalentemente collettivistica ed egemonizzata dal settore produttivo
di matrice statale e cooperativo, con il delicato processo di coesistenza-lotta tra il primo (=
la “linea nera”) ed il secondo (= la “linea rossa”), che si è materializzata nella dinamica
socioproduttiva cinese tra 1978 e il 2014: ma anche su questa stimolante tematica
rimandiamo per forza di cose ad un prossimo lavoro ad hoc.
Possiamo invece concludere questo capitolo sottolineando come la LEU del costo-lavoro
non costituisca certo l’unico nesso generale e costante che si manifesta all’interno della
sfera produttiva del purgatorio-socialismo.
Infatti anche tutte le altre leggi economico universali, già analizzate in precedenza, si
manifestano e si rivelano (con le loro rispettive specificità concrete) all’interno del processo
di riproduzione economico-sociale della fase (immatura) di sviluppo socialista, che può a
determinate condizioni aprire le porte progressivamente, senza un drastico salto di qualità
ma con progressivi avanzamenti e “riforme” (quali ad esempio l’introduzione graduale della
gratuità nel consumo di beni di prima necessità), al difficile e lungo processo di costruzione
del comunismo sviluppato.
Per verificare (o smentire) la loro azione si deve solo riprendere dall’inizio di focalizzazione
rispetto alle diverse LEU, a partire proprio dall’indispensabile e costante apporto economico
che la Natura fornisce alla praxis produttiva umana, nel socialismo, oltre che alla sua
riproduzione sociobiologica.
Certo, si tratta di un'altra sfida ai compagni-lettori: buona critica/ricerca.
36
D. Graeber, “Debito”, p. 253, ed. Il Saggiatore