- Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche

L’OCCUPAZIONE APPROPRIATIVA NEL QUADRO DELLA LEGALITÀ
CONVENZIONALE
L’art. 934 regola il fenomeno della c.d. accessione diretta, che si ha quando l’opera che accede al
suolo o per unione organica (piantagioni) o per impianto meccanico (costruzione) diviene parte
del fondo (c.d. attrazione reale). La proprietà si acquista non solo a titolo originario, ma anche
automaticamente, a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà del proprietario del suolo.
Si pensi al tipico caso del contratto d’appalto: l’appaltatore costruisce di regola con materiali
propri sul terreno del committente, il quale acquista la proprietà della costruzione, una volta
realizzata, senza manifestazione di volontà e a titolo originario e non in forza del contratto stesso.
La norma fa salve le diverse disposizioni di legge e del titolo (ad esempio, quello costitutivo del
diritto di superficie).
La norma, inoltre, fa salve anche altre fattispecie tipiche, per cui è necessario distingue ipotesi
diverse:
1) Opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935);
2) Opere fatte da un terzo con materiali propri sul fondo altrui (art. 936);
3) Opere fatte da un terzo con materiali altrui (art. 937);
4) Occupazione di porzione di fondo attiguo (art. 938).
1. – NOZIONE DI ACCESSIONE INVERTITA. NATURA GIURIDICA. GLI ELEMENTI DELLA
FATTISPECIE. IL MECCANISMO DI FUNZIONAMENTO. INDENNITÀ E RISARCIMENTO DEL DANNO.
NOZIONE.
Si ha accessione invertita quando il costruttore sul proprio fondo sconfina in buona fede nel
terreno confinante, con la conseguenza che la costruzione occuperà in parte il suolo altrui. In tal
caso, se il proprietario del fondo attiguo non fa opposizione entro il termine di decadenza di 3
mesi dal giorno in cui ebbe inizio la costruzione, l’autorità giudiziaria può (con sentenza
costitutiva) attribuire al costruttore la proprietà dell’edificio e del suolo occupato, dietro
corresponsione di un’indennità pari al doppio del valore del suolo stesso (cfr. art. 938 cod. civ.).
Il
termine accessione invertita, adoperato dalla dottrina, tende a mettere in particolare evidenza il
fatto che, eccezionalmente, non è la proprietà del suolo che attrae la proprietà dell’edificio, ma è
la proprietà dell'edificio che attrae a sé la proprietà del suolo.
NATURA GIURIDICA.
 1ª tesi: La fattispecie costituirebbe una figura speciale di accessione nella quale si
deroga al principio «superficies solo cedit», si tratterebbe di un’accessione non
«verticale», vale a dire del suolo alla costruzione, ma «orizzontale», cioè del suolo altrui
occupato al suolo proprio attiguo.
 2ª tesi: È preferibile la teoria dominante la quale ritiene che il fenomeno dell’accessione
invertita sia, non eccezione al principio generale dettato dall’art. 934, bensì una sua
applicazione, con la particolarità che, in un primo momento, vi è la tipica accessione a
favore del proprietario del suolo occupazione dalla costruzione altrui; soltanto, in un
secondo momento, il costruttore, a seguito della sentenza costitutiva, diviene proprietario
della porzione di suolo occupato e della costruzione che ivi sorge.
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 3ª tesi: Nel perseguimento di un minor costo sociale (1).
In giurisprudenza, la norma è generalmente qualificata come eccezionale; tuttavia, non persuade
la deduzione che essa non possa trovare applicazione nell’ipotesi di costruzione sul fondo comune
da parte di un condomino, sembrando invero preferibile il criterio per cui il condomino debba
essere tutelato non diversamente dal terzo. La norma non trova applicazione nell’ipotesi di
costruzione sul confine in violazione di una «servitus non aedificandi», né in ipotesi di edificazione
verticale (un tunnel), avvenuta nel sottosuolo altrui.
GLI ELEMENTI DELLA FATTISPECIE.
1) La fattispecie comprende la «costruzione di un edificio». Parte di dottrina e giurisprudenza
propongono la seguente lettura, in chiave interpretativa della norma: «se nella costruzione si
occupa un’area altrui con una parte dell’edificio che si edifica» etc. L’ipotesi è diversa rispetto a
quella prevista ex art. 936, che disciplina il caso in cui le costruzioni realizzate sul fondo altrui
presentino una propria autonomia strutturale ed economica in guisa da poter essere
astrattamente idonee ad apportare di regola un vantaggio economico al proprietario del
fondo.
2) Quanto alla «porzione di edificio attiguo», la parziarietà riguarda l’edificio piuttosto che il
fondo, non rilevando che il fondo sia occupato solo in parte, ma che la costruzione, gravante
per la maggior parte sul fondo del costruttore, si estenda a quello del vicino. La qualifica di
fondo attiguo non è esclusa dall’esistenza di un fondo intermedio.
3) Il costruttore è normalmente il proprietario del suolo; ma in relazione a possibili
sconfinamenti operati da terzi possessori sine titulo o concessionari si è osservato che
spetterà al proprietario-contendente la facoltà di chiedere la pronuncia giudiziale a proprio
favore salva, nel caso di sua inerzia, un’actio interrogatoria del concessionario e anche la
possibilità di chiedere l’accessione invertita a suo favore.
4) La giurisprudenza ritiene che la «buona fede» di cui alla norma in commento non si sostanzi
nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto, bensì nella ragionevole opinione di essere proprietario
della porzione di fondo altrui occupato, con un giudizio che secondo alcuni riguarda la
diligenza, prudenza e onestà nel valutare la situazione: essa va perciò esclusa quando il
costruttore sia consapevole di non vantare alcun diritto reale su tale porzione di fondo.
5) Il costruttore è legittimato a chiedere l'accessione invertita nel caso di mancata opposizione
del dominus soli nel termine di decadenza di 3 mesi decorrente dall'inizio obiettivo della
costruzione, intendendosi come tale qualsiasi attività anche preparatoria che, come lo
sbancamento del terreno, modifichi lo stato dei luoghi e appalesi il fine edificatorio
dell’occupazione del fondo altrui. Decorso inutilmente il termine per l’opposizione, il
proprietario del suolo occupato può chiedere la demolizione dell’opera altrui, non applicandosi
i limiti previsti ex art. 936, 4° e 5° co. La decorrenza del termine previsto dalla norma in
commento non impedisce comunque di esercitare la scelta di cui all’art. 936, 1° e 5° co., ove
non sia scaduto il relativo termine.
IL MECCANISMO DELLA C.D. ACCESSIONE INVERTITA.
Il diritto del costruttore si acquista con la sentenza che ha natura costitutiva: tuttavia, il giudice
potrebbe negare la pronuncia «in ragione delle circostanze» e con congrua motivazione: tali
(1) La ratio dell’art. 938 andrebbe ravvisata nel riconoscimento dell’interesse del costruttore che «è suscettibile
di prevalere su quello del proprietario del fondo solo in quanto la demolizione della porzione confinante
comprometterebbe l’intera costruzione anche per la parte legittimamente eseguita, dando luogo a quella
dispersione di ricchezza che il legislatore ha inteso evitare».
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circostanze possono consistere nell’apprezzamento dei contrapposti interessi, conducendo a
negare l’accessione invertita quando essa limiterebbe sensibilmente l’utilizzazione edificatoria del
suolo restante. L’azione ha natura reale ed è trascrivile ai sensi dell’art. 2653, n. 1.
INDENNITÀ E RISARCIMENTO DEL DANNO.
L’indennità pari al doppio del valore del suolo occupato si determina in ragione delle utilizzazioni
in atto e di quelle concretamente possibili alla stregua delle caratteristiche economico-giuridiche
del fondo. Il pagamento di tale indennità è un debito di valore suscettibile di rivalutazione
monetaria e va determinato con riferimento alla data della sentenza.
Il risarcimento del danno si
valuterà in misura del deprezzamento che sia derivato al suolo residuo, a seguito della privazione
della zona occupata, vale a dire la ridotta utilizzabilità dell’area residua. Il pregiudizio va provato
dal danneggiato.
2. – LA C.D. «OCCUPAZIONE APPROPRIATIVA» DELLA P.A.
L’ipotesi si realizza quando la P.A. costruisce un’opera pubblica su suolo privato occupato
illegittimamente, in quanto il provvedimento amministrativo:
1) manca;
2) è stato annullato;
3) ovvero è scaduto il termine dell’occupazione autorizzata in via d’urgenza.
A partire dalla Cass., SS.UU., 83/1464, si è consolidato l’orientamento secondo cui la P.A.
diventa proprietaria del suolo a titolo di accessione invertita quando la costruzione dell’opera
destina irreversibilmente il fondo ad opera pubblica, con radicale trasformazione dello stesso, e
non semplici migliorie (2). Ciò avviene non all’inizio del lavoro, né al suo completamento, ma
quando l’opera raggiunge lo stadio in cui le sue caratteristiche sono definitive, e lo status quo ante
può essere ricostruito solo distruggendo ciò che non può più essere detto essere la stessa cosa
dell’immobile originario (3). A tal fine, è comunque necessaria una preesistente e valida
(2) Cass., SS.UU., 83/1464, secondo la quale «Nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione (o un suo
concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un’opera pubblica e tale occupazione sia
illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali
l’occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l’irreversibile sua destinazione
al fine della costruzione dell’opera pubblica, comporta l’estinzione del diritto di proprietà del privato e la
contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un
fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine
prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell’ente
medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma
pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di
acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di
espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del
tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell’assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito); Cass.
09/11747, secondo la quale «L’acquisto da parte della P.A. di un fondo privato per effetto della cosiddetta
accessione invertita presuppone che il bene acquisito sia stato interessato da trasformazioni così rilevanti da
mutarne struttura e natura e non può derivare dall’esecuzione di semplici migliorie. Tale ipotesi non ricorre là
dove, costruita da privati una strada vicinale sul proprio terreno, essa venga successivamente asfaltata da parte del
Comune, con l'installazione, nel sottosuolo, di condutture per il gas, il telefono e lo scarico delle acque. Tali opere,
infatti, incidono solo sulla titolarità del godimento del bene e sulle modalità del suo esercizio, evidenziando
l’asservimento di detta strada a fini pubblici, ma non comportano un mutamento della consistenza e della struttura
del preesistente manufatto, né implicano l’acquisizione in proprietà dell’ente territoriale, la quale postula
l’inemendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale di un’opera pubblica. Ne consegue che
l’esecuzione dei suddetti lavori non legittima i proprietari frontistanti ad aprire accessi diretti dai loro fondi su tale
strada privata, se non previa costituzione di un ordinario diritto di servitù”.
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dichiarazione di pubblicità utilità, la sola idonea ad attribuire quel vincolo di scopo all’attività di
costruzione dell’opera pubblica e di utilizzazione del suolo privato, il quale legittima l’ablazione
del diritto di proprietà. In mancanza (c.d. «occupazione usurpativa»), il proprietario è legittimato
a richiedere la rimozione dell’opera e la «restitutio in integrum», nonché a rivendicare il bene.
La realizzazione di un’opera pubblica sul fondo oggetto di legittima occupazione in via d’urgenza,
non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, è un mero fatto inidoneo ad
assurgere a titolo dell’acquisto, deponendo in tal senso la giurisprudenza CEDU e l’art. 42 bis,
d.P.R. 8 giungo 2001, 327 (4). L’acquisto a titolo originario dell’immobile da parte della P.A.
comporta un obbligo (per il titolare del potere espropriativo) di risarcire il danno derivante al
proprietario, la cui pretesa risarcitoria si prescrive nel termine di cinque anni decorrenti dallo
spirare del termine per l’occupazione validamente autorizzata.
3.1 – EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI “OCCUPAZIONE
ESPROPRIAZIONE INDIRETTA ALL’ORIGINE ERA L’ACCESSIONE INVERTITA.
APPROPRIATIVA”.
L’espropriazione mediante accessione venne forgiata in via pretoria allo scopo di rimediare ai
casi, frequentemente invalsi nella prassi, nei quali la P.A. procedeva ad occupare suoli privati sulla
scorta di provvedimenti d’urgenza, senza emettere il decreto di esproprio.
Le origini dell’istituto si fanno risalire agli inizi degli anni ’80, quando si impose l’esigenza di
offrire una sistemazione concettuale maggiormente appagante a soluzioni inclini al salvataggio
dell’opera pubblica, già radicate nella risalente giurisprudenza.
Sino ad allora, si andava
consolidando l’idea che l’occupazione del fondo privato, non seguita dall’adozione del
(3) Cass. 98/12403, secondo la quale «In tema di espropriazione, qualora l’ente espropriante non abbia emanato il
decreto di occupazione d’urgenza immettendosi, nel contempo, nel possesso di fatto dell'immobile, l’occupazione si
palesa ab origine illegittima, trasformandosi in espropriazione sostanziale (cosiddetta «occupazione acquisitiva»)
dal momento in cui il bene, perduta la sua connotazione originaria, risulti irreversibilmente inserito nel nuovo
contesto dell’opera pubblica. Tale, irreversibile trasformazione dell’immobile (che integra gli estremi dell’illecito
per distruzione dell’identità originaria della res) non coincide, quoad tempus, né con l’inizio né con la ultimazione
dei lavori, ma si colloca in un momento intermedio, quello, cioè, in cui l’opera venga a delinearsi nei suoi
connotati ormai definitivi e nelle sue previste caratteristiche, evidenziando, per l’effetto la non ripristinabilità
dello status quo ante se non attraverso nuovi interventi (altrettanto) eversivi della fisionomia attualmente assunta
dal bene, e, quindi, allorché si tratti (come nella specie) di una strada, non appena di essa si sostanzi l’astratta
idoneità ad essere percorsa come tale per avere ormai assunto i connotati minimi suoi propri, nonostante la
mancanza di opere accessorie che ne rendano l’uso più agevole e sicuro e ne consentano, in concreto, l’effettiva
apertura al traffico”.
(4) Cass. 13/705, la quale esprime il seguente principio di diritto, «La realizzazione di un’opera pubblica su un
fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura
espropriativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, ed è, come tale,
inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della P.A., in tal senso deponendo la
costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha affermato la contrarietà alla
Convenzione dell’istituto della cosiddetta «espropriazione indiretta» e negato la possibilità di individuare
sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento
ablatorio; a questa conclusione induce altresì l’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), aggiunto dall’art. 34, primo
comma, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, norma che, anche con riguardo ai fatti
anteriori alla sua entrata in vigore, disciplina le modalità attraverso le quali, a fronte di un’utilizzazione senza titolo
di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile – con l'esercizio di un potere basato su una valutazione degli
interessi in conflitto – pervenire ad un’acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio
indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di
un importo a titolo di indennizzo, nella misura superiore del dieci per cento rispetto al valore venale del bene»).
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provvedimento d’esproprio entro il termine di efficacia dell’occupazione d’urgenza, si traducesse
in un illecito di carattere permanente della P.A. occupante, priva di conseguenze sul piano del
regime proprietario del terreno occupato.
Si riteneva che l’occupazione (divenuta) sine titulo, lungi dal determinare l’affievolimento o
l’estinzione del diritto di proprietà in capo al privato, ridondasse in una mera lesione del diritto
dominicale, situazione questa che legittimava la richiesta di retrocessione del fondo.
Tuttavia, altrettanto fermo era il convincimento che la realizzazione dell’opera pubblica,
funzionale al soddisfacimento del pubblico interesse, precludesse la restituzione del suolo e
solo consentisse la somministrazione di una tutela meramente risarcitoria.
Non pochi erano i problemi posti da tale paradigma ricostruttivo, non ultimi quelli derivanti da un
assetto proprietario del tutto anomalo, atteso che, in assenza di provvedimento espropriativo, il
privato continuava a rimanere proprietario del bene, sia pure soltanto sul piano formale (e
catastale) non potendo, di fatto, esercitare alcuna facoltà inerente al diritto dominicale.
La nota
deference dei giudici ordinari verso il potere pubblico consigliava loro di astenersi dall’adottare
pronunce di tipo restitutorio e tanto dava origine – in base al principio dell’elasticità del dominio –
a quel fenomeno di titolarità solo formale del diritto dominicale (c.d. espropriazioni “anomale”
o “non ablative”), oramai svuotato nel suo contenuto sostanziale, ma comunque capace di
resistere, senza estinguersi, anche a fronte di gravi compromissioni.
Si avvertì, quindi, l’esigenza di rinvenire un assetto più razionale, onde superare lo scarto tra
titolarità del diritto dominicale (riconosciuta in capo al privato) e il dominio effettivo (ben
saldamente radicato in capo alla P.A. occupante). La frattura venne ricomposta uniformando la
situazione di diritto a quella di fatto e, dunque, consentendo, tramite l'elaborazione dell’istituto
della c.d. «accessione invertita», l’acquisto in mano pubblica anche della titolarità formale del
bene.
Abbandonata la tesi dell’occupazione sine titulo quale illecito permanente – sanabile tramite la
tardiva adozione del decreto di esproprio – si fece strada l’idea che l’occupazione del fondo
privato, a seguito della modificazione radicale conseguente all’irreversibile destinazione alla
realizzazione dell’opera pubblica, desse piuttosto luogo ad un illecito istantaneo,
determinando, ad un tempo, l’estinzione del diritto dominicale e la sua acquisizione a titolo
originario a favore dell’ente pubblico costruttore, con insorgenza, a favore del privato, del
diritto al risarcimento del danno.
Cadeva, in questo modo, anche la possibilità di emanazione di un tardivo provvedimento
d’esproprio, risultando l’eventuale decreto inutiliter datum, avendo la P.A. già acquistato la
proprietà del fondo occupato per effetto della irreversibile trasformazione.
Alla stregua di tale
diversa ricostruzione, la fattispecie acquisitiva veniva ricostruita a partire dai principi generali,
tramite richiamo alla regula iuris della concentrazione, in capo al medesimo soggetto della
proprietà del suolo e della costruzione.
Si riteneva che detto principio, di per sé non privo di
riscontri sul terreno del diritto positivo nell’àmbito della disciplina civilistica dell’accessione,
operasse, nel caso di illegittima occupazione di suoli privati, ad esclusivo vantaggio della P.A.,
siccome ritenuta portatrice dell’interesse prevalente (5).
(5) Cass., SS.UU., 16 febbraio 1983, n. 1464 secondo la quale «Nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione (o
un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un’opera pubblica e tale
occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in
relazione ai quali l’occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l’irreversibile
sua destinazione al fine della costruzione dell’opera pubblica, comporta l’estinzione del diritto di proprietà del
privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all’ente costruttore, ed inoltre
costituisce un fatto illecito istantaneo con effetti permanenti, che abilita il privato a chiedere, nel termine
prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell’ente
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Pur dopo iniziali incertezze, l’istituto in parola venne via via consolidandosi in senso alla
giurisprudenza (anche amministrativa), ricevendo il successivo avallo da parte del Legislatore (6)
che della Corte Costituzionale (7).
Vennero così nel tempo tracciate, con maggiore sicurezza d’analisi, anche le linee di confine tra la
c.d. «occupazione acquisitiva» e quella «usurpativa».
La prima venne ricondotta alla materia
delle espropriazioni, assurgendo a tipica modalità di definizione del procedimento ablativo
accanto alla cessione volontaria e al decreto di esproprio.
La seconda venne, invece, ricondotta
nell’alveo dei fatti illeciti disciplinati dall'art. 2043 c.c., stante la mancanza di una valida ed
efficace dichiarazione di pubblica utilità, condizione questa indispensabile per segnalare la
soverchiante presenza di un interesse pubblico e giustificare in tal modo il sacrificio imposto,
tramite l’estinzione del diritto dominicale, al contrapposto interesse privato.
Pur essendo, almeno in teoria, nette le linee di confine tra l’occupazione acquisitiva e quella
usurpativa, venendo predicata soltanto per la prima e non anche per la seconda l'applicazione del
principio dell’accessione invertita, la differenziazione tra le due figure venne progressivamente ad
assottigliarsi in seno alla giurisprudenza proprio in punto di tutela restitutoria, tanto che si
pervenne anche per l’occupazione usurpativa (e non solo per quella acquisitiva), ad enucleare
ipotesi nelle quali la tutela reipersecutoria veniva esclusa.
Come prima per l’occupazione acquisitiva, anche per l’usurpativa, si pose il problema di superare
lo iato esistente tra la titolarità formale del bene (saldamente radicata in capo al privato) e
titolarità sostanziale (oramai acquisita in capo alla P.A.), in conseguenza dell'asserita non
restituibilità del bene.
La frattura venne, in questo caso, ricomposta facendo ricorso all’espediente, alquanto artificioso,
della rinunzia abdicata del diritto di proprietà, ravvisabile quante volte l’interessato avanzasse
richiesta di risarcimento commisurato al controvalore del bene in luogo della pretesa si natura
medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma
pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di
acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l’ulteriore conseguenza che un provvedimento di
espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del
tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell’assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito». Tale
orientamento trova un significativo precedente in Cass., 8 giugno 1979, n. 3243.
(6) Cfr. art. 3, l. 27 ottobre 1988, n. 458, il quale prevedeva che «Il proprietario del terreno utilizzato per finalità di
edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da
provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della
retrocessione del bene». Tale comma è stato abrogato dall’art. 58 del d.P.R. 327/2001.
(7) Cfr. Corte Cost., 31 luglio 1990, n. 384, la quale – argomentando a partire dalla tesi sostenuto dal giudice a
quo, secondo cui l’art. 3, l. 458/88 contrasterebbe con l’art. 42, 2° e 3° comma, Cost., alla stregua del quale la
potestà espropriativa sarebbe caratterizzata da una peculiare sua tipicità, in quanto riferibile a casi
preventivamente e tassativamente individuati dalla legge; sarebbe da escludere che il trasferimento coattivo
della proprietà possa essere stabilito ex post, sanando retroattivamente situazioni d’illegittima occupazione di
beni di proprietà privata – sostiene che «Questa tesi non trova riscontro nel contenuto dell’articolo indicato a
parametro. Il 2° comma dell’art. 42 della Costituzione stabilisce, infatti, che la proprietà privata riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi d’acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. In tal modo viene demandata alla legge la determinazione dei
modi di acquisto della proprietà, sia in via generale, sia in relazione a situazioni peculiari sempre in presenza
della finalità di assicurarne la funzione sociale. Il 3° comma dell’art. 42 della Costituzione non implica che la
potestà espropriativa debba riferirsi ad ipotesi ablative prefigurate in via generale e accompagnate da sequenze
procedimentali costanti ed unitarie. Quella potestà si esplica legittimamente anche quando – sempre se sorretta
da motivi d'interesse generale – si riferisce a concrete fattispecie ablative non usuali, e perfino già realizzate».
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restitutoria (8).
Veniva, in questo modo, battezzata una soluzione che verrà nel tempo generalizzata dalla
giurisprudenza ordinaria, tramite il richiamo all’esistenza di un discutibile potere di scelta del
danneggiato tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente (9).
3.2. – IL
SANANTE.
DECLINO DELL’OCCUPAZIONE APPROPRIATIVA E L’ASCESA DELL’ACQUISIZIONE
Dopo gli arresti giurisprudenziali degli anni ’80, l’istituto dell’occupazione acquisitiva poteva dirsi
ormai delineato nelle sue linee essenziali, sì che il suo radicamento poté consolidarsi senza
contrasti, quanto meno in seno alla giurisprudenza.
Ciò nonostante, il tema delle occupazioni sine titulo ha continuato ad agitare il dibattito in seno
alla dottrina, parte della quale appariva poco persuasa dalla compatibilità della c.d.
«espropriazione di fatto» rispetto alle disposizioni costituzionali sulla garanzia del diritto di
proprietà e sulla legalità dell’azione amministrativa.
Analoghi dubbi di legittimità furono sollevati, a distanza di qualche anno, dalla Corte EDU, in
riferimento al diverso parametro della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (10).
Sin dalle
prime pronunce degli anni ’00, la Corte di Strasburgo evidenziò la necessità che, alla stregua delle
disposizioni convenzionali sul diritto di proprietà, l’ingerenza della pubblica autorità nel
godimento del diritto al rispetto dei beni venisse a manifestarsi secondo modalità legittime, in
ossequio al principio di legalità sancito nella Convenzione, il quale richiede che le norme di
diritto interno siano sufficientemente accessibili, precise, e prevedibili.
Sennonché, tale condizione sarebbe del tutto mancata nell’accessione invertita, dal momento
che l’elaborazione pretoria dell’istituto aveva dato luogo ad applicazioni contraddittorie,
suscettive di condurre ad esiti imprevedibili e arbitrari.
Ma le ragioni del contrasto rispetto alle norme della Convenzione EDU erano da ricercare anche in
altri profili, di non minore importanza.
Secondo i giudici di Strasburgo, sembrava poco accordarsi con la garanzia di tutela della proprietà
riconosciuta dalla Convenzione, la presenza, all’interno della fattispecie dell’occupazione
acquisitiva, di una attività illegittima, non importa se manifestatasi ab origine o solo in via
sopravvenuta.
Da qui le riserve espresse dalla Corte in merito alla compatibilità con il principio di legalità di
un meccanismo il quale consente all’amministrazione di trarre vantaggio da una situazione di
illegalità che essa stessa ha cagionato, ponendo per di più il privato dinanzi al fatto compiuto.
Negli anni seguenti, gli interventi dei giudici di Strasburgo, indirizzati per lo più verso lo Stato
italiano, divennero se possibile ancora più frequenti, offrendo attorno al problema della
legittimità convenzionale dell’espropriazione de facto un quadro di maggiore nitidezza, tanto più
opportuno in ragione delle obiezioni che i giudici interni, segnatamente quelli ordinari di
(8) Cass., SS.UU., 4 marzo 1997, n. 1907.
(9) I dubbi derivano dall’applicazione del principio che affida al danneggiato la scelta tra tutela in forma specifica
e quella per equivalente alla materia dei diritti reali.
(10) L’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU così stabilisce: «1) Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità
pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. 2) Le disposizioni
precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie
per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle
imposte o di altri contributi o delle ammende».
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legittimità (11), avevano intanto opposto, al fine di giustificare il perdurante ricorso all’istituto
dell’accessione invertita.
Le argomentazioni adoperate dalle Corti ordinarie interne – facenti sostanzialmente leva sulla
consolidata tradizione pretoria dell’istituto e sulla sua idoneità a realizzare, anche tramite il
riconoscimento di un risarcimento ragionevole, un giusto equilibrio tra la garanzia del diritto di
proprietà e gli interessi generali della collettività – non riuscirono a far breccia nella
giurisprudenza della Corte EDU.
Già negli arresti immediatamente successivi del 17 maggio e del 15 novembre 2005 (12), i giudici
di Strasburgo stigmatizzarono, se possibile ancora più apertamente, l’operato della
giurisprudenza interna ordinaria, ripercorrendone le argomentazioni e confutandone le
conclusioni.
Ribadita – anche con l’ausilio della giurisprudenza amministrativa interna (13) – l’assenza di
prevedibilità nella disciplina pretoria dell’accessione invertita, la Corte EDU rilevava come il
principio della preminenza della legge non consentisse alla P.A. di occupare terreni privati,
trasformandoli irreversibilmente, senza che in parallelo venisse adottato un atto formale di
trasferimento della proprietà in capo all’amministrazione.
Vi è di più, considerando che l’istituto dell’accessione invertita permette all’amministrazione di
acquisire il terreno, senza corrispondere alcuna indennità, ponendo a carico dell’interessato
l’onere di sollecitare il giudizio, al fine non sono di appurare la perdita del diritto dominicale, ma
anche di ottenere il riconoscimento del giusto ristoro, entro peraltro gli angusti spazi concessi dal
(11) Cass., SS.UU., 14 aprile 2003, n. 5902 secondo la quale «L’istituto dell’occupazione appropriativa – da non
confondere con la generica ed indeterminata apprensione sine titulo da parte di un ente pubblico, per qualsivoglia
ragione e fine, di un bene immobile del privato – si colloca, oramai, in un contesto di regole sufficientemente
chiare, precise e prevedibili, ancorate a norme di legge [art. 3, L. 458/1988 e poi art. 3, co. 65, L. 662/1996], le
quali hanno recepito, confermandola, l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione, costituente diritto
vivente, ed hanno positivamente superato il vaglio di costituzionalità (cfr. sent. n. 188 del 1995, n. 369 del 1996, n.
148 del 1999). La riconosciuta necessità che l’occupazione appropriativa sia comunque presidiata da una
valida dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, realizzata dalla P.A. per fini d’interesse generale (e, quindi,
l’esclusione, dal suo ambito, delle vicende di occupazione usurpativa, non collegate ad alcuna utilità pubblica
formalmente dichiarata, o per mancanza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità o perché questa è venuta
meno in seguito ad annullamento dell’atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei relativi termini); la
previsione che al privato va riconosciuto un risarcimento ragionevole, il cui importo è in ogni caso superiore a
quello dell’indennità spettante in sede di espropriazione; l’esistenza, infine, di norme idonee ad assicurare una
tutela effettiva in sede giudiziaria per l’esercizio dell’azione risarcitoria, anche sotto il profilo del termine di
prescrizione, consentono di ravvisare un giusto equilibrio tra la garanzia del diritto di proprietà, prevista dalla
normativa costituzionale interna e dall’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (come interpretato dalla Corte di Strasburgo), e gli
interessi generali della collettività».
(12) Scordino c. Italia (n. 3), n. 43662/98, 17 maggio 2005; Dominici c. Italia del 15 novembre 2005.
(13) La Corte EDU, in Dominici c. Italia del 15 novembre 2005 richiama espressamente Cons. Stato, Ad. Plen.,
29 aprile 2005, n. 2, secondo la quale «In caso di illegittimità della procedura espropriativa – pur al cospetto di una
realizzata opera pubblica – l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento al fine di evitare la restituzione dell’area al
privato proprietario (salva autonoma ed esplicita rinuncia da parte di quest’ultimo e contestuale richiesta di
risarcimento del danno) è l’adozione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione ex art.43 del D.P.R. n.327
dell’8 giugno 2001 (testo unico in materia di espropriazione). In difetto di detto provvedimento, che comunque
impone il risarcimento del danno, l’Amministrazione espropriante non può addurre l’intervenuta realizzazione
dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e fonte di impedimento alla restituzione, trattandosi
di un mero “fatto” che tale resta, occorrendo all’opposto – onde veder attuato ex nunc l’effetto traslativo –
l’adozione del ridetto provvedimento (“atto”) di acquisizione».
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regime prescrizionale quinquennale.
Negli stessi anni in cui la giurisprudenza ordinaria si rifugiava dietro una lettura riduzionistica della
giurisprudenza CEDU, la giustizia amministrativa si muoveva, invece, verso tutt’altra
direzione.
Si spiega così la genesi della c.d. «acquisizione sanante», istituto coniato dall’art. 43, d.P.R. n.
327/2001 proprio su iniziativa del Consiglio di Stato che ne sollecita l’introduzione allo scopo di
consentire alla P.A. l’acquisizione del fondo detenuto sine titulo (o senza più valido titolo), tramite
l’adozione di uno specifico provvedimento ablativo, secondo forme e modalità ritenute
maggiormente ossequiose del principio di preminenza della legge proclamato dalla CEDU.
3.3. – L’OCCUPAZIONE APPROPRIATIVA È VERAMENTE SCOMPARSA? I DUBBI SOLLEVATI DALLA
GIURISPRUDENZA ORDINARIA.
In verità, anche dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327/2001, la disciplina dei provvedimenti
ablativi ha continuato ad essere caratterizzata da una notevole dose di instabilità interpretativa,
per lo più alimentata dai contrasti prepotentemente insorti, e mai completamente appianati, tra i
due plessi giurisdizionali interni.
Tanto che appare, tutt’ora, non completamente accettata l’idea che l’occupazione acquisitiva sia
stata davvero «cancellata» dall’ordinamento.
Intanto, l’adozione per effetto del D.Lgs. n. 80/1998, di nuovi criteri di riparto della
giurisdizione (non più ancorati, come per il passato, alla natura della situazione giuridica
soggettiva dedotta in giudizio, bensì) imperniati su materie o blocchi di materie, determinò una
rilevante dilatazione dei confini della giurisdizione amministrativa, segnatamente nelle materie
dell’urbanistica e dell’edilizia, ritenute oramai estese al punto tale da abbracciare anche le
controversie – fino ad allora ben saldamente intestate in capo al giudice ordinario – relative alla
retrocessione del fondo e al risarcimento del danno, in presenza quanto meno di
comportamenti amministrativi della P.A.
È potuto così accadere che controversie del tutto identiche – relative alla retrocessione e al
risarcimento del danno derivante da comportamenti amministrativi (e non meri) – venissero a
confluire verso giurisdizioni diverse, in ragione della data di radicamento della lite, se
antecedente o successiva a quella di entrata in vigore delle nuove disposizioni sulla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
In questo peculiare contesto, decidendo ciascuno della propria quota temporale di contenzioso, i
due plessi giurisdizionali hanno dato luogo, per tutto il decennio passato, ad un contrasto assai
accesso, mai completamente ricomposto, nel quale ognuno ha sostenuto la conformità ai principi
della CEDU dell’istituto di rispettiva creazioni.
Con riguardo alla giurisprudenza amministrativa, questa declinò sin da subito (dal 2005 in poi)
l’idea di realizzare una difesa a tutta oltranza dell’occupazione acquisitiva, persuadendosi ben
presto che l’unico rimedio ammesso dall’ordinamento per evitare – nei casi di illegittimità della
procedura espropriativa – la restituzione dell’area fosse proprio l’emanazione di un legittimo
provvedimento di acquisizione c.d. «sanante» ai sensi dell’art. 43, d.P.R. n. 327/2001.
A tale conclusione, la giurisprudenza amministrativa pervenne anche con riferimento ai
procedimenti espropriativi già esauriti alla data di entrata in vigore del d.P.R. n. 327/2001, a
dispetto della disposizione transitoria contenuta nell’art. 57, T.U., che sembrava limitare
l’applicazione delle disposizioni del T.U. ai soli procedimenti espropriativi per i quali fosse già
intervenuta alla data di entrata in vigore del d.P.R. la dichiarazione di pubblica utilità.
A giudizio della giurisprudenza amministrativa, con tale norma il legislatore si sarebbe
preoccupato di regolare l’applicazione delle disposizioni del d.P.R. in relazione alle sole fasi
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fisiologiche del procedimento espropriativo, senza incidere sull’àmbito di applicazione temporale
dell’acquisizione sanante: trattandosi, infatti, di provvedimento adottato ab externo del
procedimento espropriativo, l’acquisizione sanante sarebbe sfuggita alla norma intertemporale
contenuta nell’art. 57, d.P.R. n. 327/2001, risultando perciò adoperabile anche in relazione ai
risalenti procedimenti ablativi.
La validità di tale opzione ermeneutica veniva corroborata dal principio dell’interpretazione
conforme, siccome capace di assicurare esiti interpretativi maggiormente ossequiosi della
giurisprudenza della Corte EDU, consentendo di realizzare il definitivo superamento
dell’occupazione acquisitiva reiteratamente stigmatizzata dai giudici di Strasburgo.
Per converso, veniva evidenziata da parte della giurisprudenza amministrativa la conformità alla
CEDU del diverso istituto contemplato dall’art. 43 T.U., sul rilievo che l’acquisto della proprietà
avvenisse in ossequio al principio di preminenza della legge, grazie al riconoscimento di un
giusto ristoro dei danni subiti dal privato e all’adozione di un provvedimento previsto dalla
legge, munito di efficacia ex nunc e giudizialmente sindacabile.
Su posizioni radicalmente differenti si attestava, invece, la giurisprudenza di legittimità che, fino
a tempi relativamente recenti, ha continuato a predicare la compatibilità dell’occupazione
acquisitiva non solo rispetto ai principi della Convenzione EDU, ma anche rispetto all’istituto
dell’occupazione sanante.
Al di là dei motivi tecnici adoperati dalla giurisprudenza ordinaria per negare, quanto meno per le
fattispecie più risalenti, il definitivo superamento dell’occupazione acquisitiva (14), è piuttosto
importante rilevare come sul tema dirimente della compatibilità convenzionale, la S.C. non ha
inteso mostrare alcun segno di effettiva deflessione rispetto ai precedenti del 2003, continuando
a più riprese a sostenere la tesi secondo cui la stabilità dell’elaborazione pretoria sull’accessione
invertita avrebbe nel tempo generato, in ossequio agli standards richiesti dalla normativa
convenzionale, un contesto di regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, sì da
giustificare il perdurante ricorso all’istituto dell’accessione invertita (15).
A ben vedere, solo negli arresti più recenti, editi a partire dal 2013, l’orientamento
pervicacemente sostenuto dalla giurisprudenza ordinaria è stato rimesso in discussione, a
vantaggio della tesi, conforme rispetto alla giurisprudenza CEDU, secondo cui la realizzazione
dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente espropriato costituisce di per sé un «mero
fatto», incapace di assurgere a titolo di acquisto della proprietà a vantaggio
dell’amministrazione occupante.
Il superamento dei tradizionali e più usuali itinerari non è, tuttavia, avvenuto senza ripensamenti
(16), tanto che le Sezioni Unite sono state di recente sollecitate a chiarire se, in riferimento alle
(14) Era frequente rinvenire in senso alla giurisprudenza di legittimità l’affermazione della inapplicabilità, ratione
temporis, delle disposizioni racchiuse nel d.P.R. n. 327/2001, proprio a motivo della disciplina transitoria, che
circoscrive l’àmbito di operatività delle nuove disposizioni ai soli procedimenti per i quali la dichiarazione di
pubblica utilità fosse intervenuta dopo la data di entrata in vigore del T.U.. Argomento comune alle diverse
pronuncia è che le vecchie occupazione appropriative ad esaurimento sarebbero assoggettate alla disciplina
transitoria dell’art. 55, d.P.R. n. 321/2001: v., Cass., Sez. I, 21 ottobre 2011, n. 21867, secondo la quale «L’istituto
dell’occupazione sanante, di cui all’art. 43 del d.Lgs. n. 327 del 2001 (peraltro dichiarato incostituzionale con
sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010), non si applica "ai progetti per i quali, alla data di entrata in
vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza" (art. 57),
senza possibilità di utilizzare un criterio ermeneutico diverso dal mero riscontro temporale in ordine alla data del
progetto contenente la dichiarazione di pubblica utilità».
(15) Cass., Sez. I, 28 luglio 2008, n. 20543.
(16) È da segnalare, infatti, che la giurisprudenza ordinaria più recente (v. Cass., Sez. I, 17 aprile 2014, n. 8965)
facendo tesoro delle riflessioni giurisprudenziali e dottrinarie più evolute in tema di decorrenza dell’azione
risarcitoria, individua il dies a quo del termine di prescrizione nel momento in cui la produzione del danno si
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più risalenti fattispecie, possa ancora oggi predicarsi l’acquisto della proprietà per effetto di
occupazione appropriativa o debba, invece, ritenersi – in sintonia con quanto da tempo vanno
sostenendo i giudici amministrativi – che l’occupazione dia luogo soltanto ad un illecito
permanente, suscettibile di essere superato tramite l’acquisizione sanante ovvero tramite gli
ulteriori strumenti, tra loro chiaramente alternativi, dell’accordo (anche di tipo transattivo) col
proprietario e dell’usucapione del bene da parte dell’occupante.
Come si vede dal rapido excursus sulla parabola dell’occupazione acquisitiva, la giurisprudenza
ordinaria non ha mai realmente consumato il proprio definitivo divorzio dagli usuali paradigmi
ricostruttivi, diversamente da quella amministrativa oramai incline a ravvisare nel solo potere di
acquisizione sanante l’ultimo, ed estremo ostacolo, alla pretesa restitutoria del privato.
3.4. – ADDIO ALLE OCCUPAZIONE ILLEGITTIME DOPO LE SEZIONI UNITE N. 735 DEL 2015.
Le Sezioni Unite, a distanza di ben trentadue anni da Cass., SS.UU., n. 1464/83 (17), confezionano
una decisione diretta a riallineare il sistema interno in materia di occupazioni illegittime alla
protezione del diritto al rispetto dei beni offerta dall’art. 1, Prot. addizionale n. 1, annesso alla
CEDU. Sull’altare viene sacrificata la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione che aveva, in
passato, coniato il meccanismo estintivo/acquisitivo, sussumendolo nell’alveo dell’illecito
istantaneo, oggi soppiantato dalla qualificazione in termini di condotta illecita permanente.
Secondo la citata sentenza, « … Il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1
del protocollo addizionale alla CEDU è sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro
ordinamento …».
Le Sezioni Unite – dopo aver dato atto che « … l’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato
dapprima elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, è stato presupposto da diverse
disposizioni di legge …» – rilevano un conflitto evidente tra il principio generale posto a base
dell’istituto pretorio (in base al quale, nel caso di opere fatte da un terzo su un terreno altrui, la
manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile. Sicché in materia di
occupazione espropriativa, ai fini del decorso della prescrizione, non è sufficiente la mera consapevolezza di
aver subito un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile sine titulo, bensì occorre che il proprietario si
trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche
con riferimento alla loro rilevanza giuridica: e quindi, in particolare, al verificarsi dell’effetto estintivoacquisitivo definitivo perseguito dall’amministrazione espropriante. L’onere di provare la ricorrenza del
presupposto richiesto dall’art. 2947 c.c. – coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà
venga o possa essere percepito dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile – grava
sull’amministrazione e, in mancanza di tale prova, si deve ritenere, in adesione all’indirizzo giurisprudenziale
della Corte EDU, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio nel quale il
proprietario richieda il controvalore dell’immobile. Si è osservato che, in tal modo, pur non perdendo
l’occupazione acquisitiva la propria caratterizzazione di illecito istantaneo, sia andata attenuandosi la diversità
di regime rispetto all’occupazione usurpativa. V. Cass., Sez. I, 30 ottobre 2014, n. 23266.
(17) Cass., SS.UU., 19 gennaio 2015, n. 735, secondo la quale «L’illecito spossessamento del privato da parte
della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno
luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’aera da parte
dell’Amministrazione e il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo
diritto e chiedere il risarcimento del danno. Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni per il periodo,
non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal
terreno e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno
per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al
risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità (quanto al danno per la perdita del godimento), e dalla data
della domanda (quanto alla reintegrazione per equivalente)».
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proprietà sia del suolo che che della costruzione viene attribuita al soggetto portatore
dell’interesse ritenuto prevalente) e la giurisprudenza della Corte EDU.
Tale disarmonia si risolve in via interpretativa dando spazio allo «schema generale degli artt.
2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano
pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei
confronti di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato
dell’immobile, provvedimento di urgenza per impedirne la trasformazione, ecc.), oltre al
consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.: esattamente come
sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa».
In definitiva, le Sezioni Unite proclamano che «… viene meno la configurabilità dell’illecito come
illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare
solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte
dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia [abdicativa] del proprietario al suo
diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente» (18).
Sono, altresì, presenti importanti chiarimenti sul tema della rinunzia abdicativa che rimane pur
sempre tra le facoltà spettanti al proprietario.
Secondo la Cassazione «… si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il
controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al
proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinunzia al
diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato; tale rinuncia ha carattere abdicativo
e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà
del fondo da parte dell’Amministrazione».
La decisione, in definitiva, travolge in radice l’istituto dell’occupazione acquisitiva – ma non
certo le occupazioni illegittime in danno dei proprietari – sulla base di coordinate argomentative
che attribuiscono il mutamento di giurisprudenza “epocale” al quale si è giunti non agli
interventi normativi succedutisi a partire dal varo del nuovo T.U. espropriazioni, ma alla
necessità di conformare, sul piano esclusivamente ermeneutico, il sistema interno ai principi
espressi dalla Corte EDU, visto che era stata la giurisprudenza nazionale a coniare l’istituto.
In questa prospettiva, il giudice di legittimità si dà carico di rileggere le norme, che pure nel
tempo avevano positivizzato l’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva, in una chiave idonea
a consentire alle stesse di operare anche in base all’innovativa costruzione in termini di
natura permanente dell’illecito, alla quale viene quindi ricondotto il fatto dell’occupazione
illegittima, sia esso o meno fondato sulla dichiarazione di pubblica utilità.
Un ultimo accenno alla questione di legittimità costituzionale che le stesse S.U. hanno in
precedenza sollevato con riferimento all’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001, soltanto per dire che in
caso di suo accoglimento le vicende illecite correlate all’illecita occupazione dei fondi da parte
della P.A. finirebbero col tornare nella tradizionale “casa comune” dei diritti fondamentali
contribuendo a delineare, in modo definitivo e in termini di chiarezza, un sistema che, grazie al
riassetto operato dalla sentenza in commento, potrebbe aspirare realmente ad essere effettivo
ed efficace, realizzando un rinnovato bilanciamento fra il diritto di proprietà ingiustamente
aggredito dall’amministrazione e l’interesse pubblico.
(18) Le SS.UU. aggiungono, in motivazione, che la cessazione dell’illecito potrà aversi anche per effetto di un
provvedimento di acquisizione reso dall’amministrazione, ai sensi dell’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001, senza
però affrontare la questione se tale disposizione sia applicabile anteriormente alla data di entrata in vigore del
T.U..
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3.5. – ACQUISIZIONE
CONVENZIONALE E
(VECCHIA E NUOVA) E SOLITI DUBBI DI LEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE: SI TRATTA DI UNA NUOVA FORMA DI ESPROPRIAZIONE
SANANTE
INDIRETTA?
Non meno tormentate sono state, in questi anni, le vicende relative all’acquisizione sanante.
Già con la sentenza Dominici del 2005, seguita a breve distanza da altre pronunce di analogo
tenore, la Corte di Strasburgo aveva sollevato più di un dubbio attorno alla legittimità dell’art. 43,
d.P.R. n. 321/2001, osservando come l’acquisizione sanante costituisse anch’essa una forma di
regolarizzazione dell’illecito incompatibile con i principi della Convenzione, in quanto volta a
regolare le conseguenze dell’occupazione a beneficio dell’amministrazione autrice della
stessa condotta abusiva.
Secondo i giudici di Strasburgo, è irrilevante che tale forma di sanatoria avvenga in virtù di un
principio giurisprudenziale (com’era al tempo dell’occupazione acquisitiva) ovvero in base ad una
disposizione di legge (come avveniva ormai sotto il vigore dell’art. 43, d.P.R. n. 321/2001).
Nell’uno come nell’altro caso, ricorrerebbe una forma di «espropriazione indiretta», idonea a
precostituire un percorso alternativo rispetto alla regolare procedura di espropriazione
definita per legge e, dunque, elusivo delle relative garanzie.
Le posizioni espresse dai giudici europei hanno avuto largo eco nel dibattito nazionale, tanto che
nel corso degli anni seguenti sono via via emerse in seno alla dottrina, alla giurisprudenza
ordinaria di legittimità e finanche in seno alla Corte Costituzionale che – nel dichiarare la
illegittimità costituzionale dell’art. 43, d.P.R. n. 321/2001 – non ha rinunciato, anche se in
obiter, a prendere posizione sull’annoso problema della conformità convenzionale
dell’acquisizione sanante, facendosi portatrice delle medesime preoccupazioni reiteratamente
espresse dalla Corte EDU.
Allontanandosi dalle originarie posizioni di favore, per lo più giustificate dalla presenza di un
contesto normativo iniziale parzialmente differente, la dottrina più attenta aveva nel tempo
manifestato viva preoccupazione attorno alla legittimità dell’art. 43, d.P.R. n. 321/2001.
A non convincere era naturalmente la scelta – ritenuta poco compatibile con il principio di legalità
– di assegnare alla P.A. il potere di conseguire il risultato utile del salvataggio dell’opera, pure
a fronte dell’inosservanza delle garanzie e delle condizioni di legittimità del procedimento
ablativo ordinario.
Operazione questa tanto più discutibile in ragione della indefinita ampiezza del potere di
acquisizione coattiva: pensata per operare a fronte di circostanze del tutto eccezionali,
l’acquisizione sanante aveva finito per assumere – sotto la spinta congiunta delle innovazioni
legislative e delle interpretazioni giurisprudenziali – sembianze tali da assurgere a strumento
utile per tutte le occasioni, finanche per consentire, stando alla lettera della disposizione,
l’acquisto anche nei casi – prima, invece, sottratti dal campo di applicazione dell’accessione
invertita – di più evidente ed eclatante devianza dal modello legale (19).
Era, pertanto, nel tempo venuta meno – con non pochi inconvenienti in punto di conformità ai
principi costituzionali e convenzionali – quella relazione da regola ad eccezione tra
procedimento ordinario ed acquisizione sanante che il legislatore delle origini, tramite
principalmente la messa al bando dell’occupazione d’urgenza, aveva inteso in qualche modo
assicurare.
Dubbi via via più consistenti erano andati ad addensarsi attorno a tutti gli aspetti portanti
dell’istituto:
(19) Si pensi all’ipotesi di assenza ab origine della dichiarazione di pubblica utilità o del vincolo preordinato
all’esproprio.
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1) dal concetto di «modificazione» del bene, locuzione questa tutt’altro che chiara e fonte
di continue riflessioni e precisazioni giurisprudenziali;
2) al presupposto della previa valutazione degli interessi in conflitto, ritenuto a ragione alla
stregua di vero e proprio «pseudo-limite», stante la difficoltà di individuare ipotesi di
recessività dell’interesse pubblico rispetto a quello privato;
3) dal meccanismo d’acquisizione giudiziale previsto dal comma 3 dell’art. 43 T.U., in forza
del quale si consentiva al giudice di paralizzare la pretesa restitutoria, senza che fossero
previsti criteri idonei ad orientare la decisione;
4) all’esercizio della potestà sanante finanche dopo la formazione del giudicato
restitutorio, possibilità questa avallata da una discutibile prassi giudiziaria.
Giudizi di non minore severità sono stati, peraltro, rivolti all’indirizzo dell’acquisizione sanante
«rivisitata», appositamente reintrodotta dal legislatore con il D.L. n. 98/2011, convertito con
modificazioni dalla L. n. 111/2011, tramite l’inserimento nel corpo del d.P.R. n. 321/2001 di un
nuovo art. 42 bis.
Si spiega, così, in ragione di un contesto di diffusa insoddisfazione verso le scelte operate dal
legislatore, la remissione alla Consulta di numerose questioni di legittimità, per violazione dell’art.
42 Cost., del principio di ragionevolezza nonché dell’art. 117 Cost., in merito all’inosservanza delle
disposizioni della CEDU sul diritto di proprietà.
Per quanto riguarda la «nuova» acquisizione sanante, va detto che le maglie dell’istituto sono
state rese, innegabilmente, più stringenti dal legislatore del 2011, tramite una più restrittiva
definizione dei presupposti sostanziali di esercizio del potere, oggi identificati nella ricorrenza di
eccezionali ragioni di interesse pubblico e dall’assenza di ragionevoli alternative, sicché non
totalmente priva di fondamento appare la pervicace difesa dell’istituto opposta dalla prevalente
giurisprudenza amministrativa.
A tal riguardo, appare condivisibile, a parare di chi scrive, quanto la dottrina più attenta già aveva
osservato intorno alla prima «versione» (ben più problematica) dell’acquisizione sanante, e cioè
che il problema è di «misura».
A ben vedere, la Corte EDU ha in diverse occasioni soltanto sollecitato a rimuovere gli ostacoli
giuridici che nell’ordinamento impediscono, «sistematicamente e per principio», la restituzione
del terreno, ma non ha escluso la possibilità che per motivi plausibili, da valutarsi caso per caso, gli
Stati contraenti assicurino una tutela per equivalente.
Vi è, dunque, spazio anche all’interno della giurisprudenza europea per una compressione della
tutela restitutoria.
Pare, dunque, ragionevole ritenere che l’attivazione di rimedi «sostanzialmente» sananti non
sia preclusa dal diritto convenzionale, purché sia prevista a fronte di ipotesi eccezionali e venga
circondata da opportune garanzie onde evitare che l’acquisizione divenga una comoda
alternativa rispetto al procedimento ordinario.
A tale stregua, l’eccezionalità delle ragioni di interesse pubblico dovrà essere necessariamente
tale, sì da costituire un filtro reale contro le arbitrarie dilatazioni che farebbero assurgere l’istituto
a facile alternativa rispetto al procedimento ordinario – vero limite edificato dalla giurisprudenza
CEDU – oltre il quale si concretizzerebbe la legalizzazione dell’illecito.
Dovrà, dunque, escludersi che l’eccezionalità possa semplicemente desumersi dalla mera
realizzazione dell’opera, atteso che, in un sistema che prevede ancora l’occupazione d’urgenza,
può non essere così agevole impedire alla P.A. la realizzazione dell’opera, benché il suo operato si
riveli, sia pure ex post, illegittimo.
È, pertanto, evidente la necessità di un quid pluris ravvisabile nella necessità che l’eccezionalità
emerga dalla natura e dalla dimensione degli interessi pubblici rispetto ai quali l’opera risulta
asservita nonché nella irragionevolezza delle eventuali soluzioni alternative, parametro questo
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che sembrerebbe reclamare un giudizio contro-fattuale non lontano dalla logica sottesa all’art. 21
octies, comma 2, l. n. 241/1990.
In questa prospettiva, l’area di operatività dell’istituto sembrerebbe attestata in un territorio
coincidente (se non addirittura più circoscritto, di quello designato dagli artt. 2058 e 2933 c.c.)
disposizioni queste, in realtà, non direttamente applicabili, ma espressive della medesima ratio
solidaristica.
Pare doversi individuare proprio nel dovere di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., il fondamento
sostanziale dell’acquisizione sanante.
È noto, infatti, che il dovere previsto dall’art. 2 Cost. – di cui costituisce specificazione storicopositiva proprio la funzione sociale della proprietà ex art. 42, comma 2, Cost. – già sorregge
ordinariamente il potere ablativo.
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