Bahrain, anniversario di sangue
Venerdì 15 Febbraio 2013 00:00
di Michele Paris
In occasione del secondo anniversario dell’inizio della rivolta anti-regime in Bahrain, nella
giornata di giovedì sono riesplose massicce proteste popolari nel piccolo paese del Golfo
Persico. Come è puntualmente accaduto dal 14 febbraio 2011 ad oggi, le forze di sicurezza del
regime guidato dal sovrano, Hamad bin Isa al-Khalifa, hanno ancora una volta risposto
duramente alle manifestazioni di piazza, mettendo in grave pericolo i negoziati appena riaperti
con le opposizioni ufficiali per trovare una qualche soluzione alla più lunga crisi finora registrata
tra quelle ascrivibili alla cosiddetta Primavera Araba.
Già dalle prime ore di giovedì, dunque, centinaia di manifestanti sono scesi nelle strade dei
quartieri a maggioranza sciita della capitale, Manama, e nelle altre principali città del paese.
Secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno, i rivoltosi avrebbero bloccato numerose
strade, costringendo la polizia e l’esercito a “ristabilire l’ordine”.
Gli scontri più recenti hanno fatto almeno un morto, un ragazzo di appena 16 anni colpito da un
proiettile sparato dalle forze di sicurezza nella località di Diya, non lontano da Manama. La
notizia della morte del giovane manifestante è apparsa sul sito web del principale partito sciita
di opposizione, Al Wefaq, secondo i cui esponenti ci sarebbero stati anche decine di feriti,
principalmente a causa dell’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.
Nuove dimostrazioni sono già state organizzate per la giornata di venerdì, mentre svariati
gruppi dell’opposizione hanno invocato uno sciopero generale in tutto il paese per celebrare
l’anniversario dell’inizio della rivolta.
Il caos in Bahrain era esploso nel febbraio del 2011 dopo che, almeno inizialmente, un
movimento popolare formato sia da sciiti che da sunniti aveva marciato per le strade della
capitale chiedendo la fine del regime dittatoriale della famiglia Al Khalifa. Facendo leva sulle
divisioni settarie che caratterizzano da secoli questo paese, tuttavia, la casa regnante
appoggiata dall’Occidente ha da subito manipolato con successo le proteste, riuscendo a
dividere la popolazione.
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In particolare, il regime ha ripetutamente puntato il dito contro il vicino Iran, accusandolo senza
alcuna evidenza di fomentare le proteste in Bahrain. Ben presto, così, ad animare la rivolta nel
paese è rimasta pressoché esclusivamente la maggioranza sciita della popolazione.
D’altra parte, il malcontento degli sciiti, che rappresentano circa il 70% degli abitanti del
Bahrain, non è cosa nuova, dal momento che essi sono regolarmente discriminati dal regime
sunnita ed esclusi dalle posizioni di potere, così come, ad esempio, dagli impieghi governativi,
dall’assegnazione di alloggi pubblici e dall’accesso alle migliori strutture scolastiche.
Per bilanciare questa disparità nella composizione della popolazione, inoltre, il regime continua
a garantire procedure accelerate per l’ottenimento della cittadinanza a decine di migliaia di
persone di fede sunnita provenienti da altri paesi della regione, tanto che degli 1,2 milioni di
abitanti attuali solo poco meno di 600 mila risultano essere nativi del Bahrain.
In ogni caso, di fronte ad una comunità internazionale che alla crisi del Bahrain ha dato una
rilevanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Libia o Siria, la repressione del
regime ha finora provocato decine di morti: 35 secondo le stime di una commissione d’inchiesta
lanciata dal governo, più di 80 per le opposizioni ufficiali.
A questi numeri, con ogni probabilità sottostimati ma comunque consistenti per un paese delle
dimensioni del Bahrain, vanno inoltre aggiunti gli arresti e le torture di migliaia di militanti sciiti e
di medici colpevoli solo di avere prestato soccorso ai manifestanti feriti durante gli scontri, ma
anche la privazione della cittadinanza per molti militanti che avevano preso parte alle
manifestazioni.
La prima fase della rivolta era stata poi soffocata nel sangue già nella primavera del 2011
grazie al contributo decisivo di un contingente militare inviato dalle monarchie assolute del
Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui regime continua a temere la possibilità di un contagio
dell’insurrezione in Bahrain nelle proprie provincie a maggioranza sciita.
La repressione delle manifestazioni da parte della famiglia Al Khalifa è stata resa possibile
principalmente grazie al più o meno tacito appoggio degli Stati Uniti, per i quali il Bahrain è un
alleato strategico fondamentale, vista la sua posizione nel Golfo Persico a meno di 200
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chilometri dalle coste iraniane. Qui, inoltre, si trova il quartier generale della Quinta Flotta della
Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico,
nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.
In seguito alle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama ha talvolta emesso blande
dichiarazioni di condanna nei confronti della casa regnante del Bahrain, giungendo nel
settembre 2011 a sospendere un contratto di fornitura di armi da oltre 50 milioni di dollari a
causa delle evidenti violazioni dei diritti umani. Le forniture di armi, tra cui equipaggiamenti
utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti, sono però state sbloccate già nel maggio
successivo, secondo Washington grazie ai progressi registrati nel paese.
Anche dietro le pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per il danno d’immagine causato dal
ripetersi degli scontri nel Bahrain, già nel 2011 erano stati lanciati i primi colloqui tra il regime e
le opposizioni. Il dialogo si è però quasi subito arenato di fronte alla totale mancanza di volontà
del regime di rinunciare anche solo parzialmente al controllo assoluto delle leve del potere.
Le opposizioni, inoltre, risultano divise al loro interno, con il partito Al Wefaq che è attestato su
posizioni moderate, mentre i movimenti della società civile, tra cui spicca la Coalizione 14
Febbraio, hanno progressivamente assunto atteggiamenti più radicali fino a chiedere la fine del
regime Al Khalifa.
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Proprio alla vigilia del secondo anniversario della rivolta, il governo ha invitato le opposizioni a
tornare al tavolo delle trattative, così che domenica scorsa il dialogo era ripreso tra i
rappresentanti del regime e di alcuni gruppi di opposizione, come Al Wefaq. Le richieste di
questi ultimi sono però limitate, come la creazione di una monarchia costituzionale, e volte
quasi esclusivamente ad ottenere un qualche ruolo nella gestione del potere.
Tra la popolazione, al contrario, il sentimento di avversione verso il regime ha superato ormai i
livelli di guardia e, qualsiasi eventuale “riforma” su cui si accorderanno le due parti, le tensioni
nel paese difficilmente potranno essere placate nell’immediato futuro.
Concessioni relativamente limitate da parte del regime erano infatti già state adottate negli anni
Novanta del secolo scorso, sempre in risposta a sollevazioni popolari contro il regime. La natura
dittatoriale della monarchia Al Khalifa, appartenente ad una tribù originaria del Qatar che invase
il Bahrain sul finire del XVIII secolo, è rimasta però stanzialmente invariata, così come
l’emarginazione della maggioranza della popolazione sciita, lasciando così intatte tutte le
contraddizioni di questo minuscolo ma importante paese dove proteste e repressione hanno
caratterizzato quasi ogni giorno degli ultimi 24 mesi.
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