Carlo Morandi, LUIGI XIV

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Carlo Morandi, Luigi XIV, Enciclopedia Italiana, 1934
LUIGI XIV
Enciclopedia Italiana (1934)
di Carlo Morandi1
LUIGI XIV il Grande, re di Francia. - Nacque a Saint-Germain-en-Laye il 5 settembre 1638
da Luigi XIII e Anna d'Austria, dopo ventitré anni di matrimonio infecondo, e fu battezzato
coi nomi di Louis-Dieudonné. La morte del padre lo elevò solo nominalmente al trono (14
maggio 1643); di fatto Anna d'Austria ottenne dal parlamento la reggenza "con piena autorità" e se ne giovò per raccogliere e affidare il potere nelle mani del Mazzarino.
Il fanciullo crebbe in una sorta d'isolamento, estraneo agli affetti familiari. La scarsa vivacità naturale parve un indice d'intelligenza torpida e fiacca; era invece il faticoso temprarsi
d'un carattere nell'ambiente sordo e ostile della corte che mirava a contrapporre il giovane
re al potente ministro. Di qui un istintivo bisogno di sorvegliarsi, un precoce rinchiudersi in
sé stesso: tutta la giovinezza di L. fu un continuo sforzo di disciplina interiore.
Fin dal 1646 la reggente delegava la tutela e la cura del figlio al Mazzarino, e accanto al
governatore, maresciallo N. di Villeroy, costituiva un corpo insegnante d'indubbio valore, diretto dall'abate Hardouin de Beaumont e, più tardi, dal gesuita P. Paulin. L. mostrò scarsa
inclinazione allo studio in senso scolastico; ma un vivo interesse per tutto ciò che richiamava
la grandezza della Francia e della dinastia. Non che il giovane allievo rifuggisse dallo studio
delle lingue (una versione del primo libro dei Commentarii di Cesare porta il suo nome), delle matematiche o del disegno; ma in lui già appariva un senso meno libresco e più concreto
del sapere. E senza dubbio il Mazzarino ebbe nella formazione di L. una parte migliore e più
attiva di quella che il duca di Saint-Simon gli ha attribuito. Egli si preoccupava infatti d'impedire che il pupillo divenisse uno strumento d'opposizione nelle mani dei suoi nemici; ma
non ne trascurò l'educazione politica. Pure negli ultimi anni i contatti furono frequenti talvolta quotidiani, e, nell'opera stessa del Mazzarino, L. trovava una scuola di realismo politico feconda d'insegnamenti concreti. Tuttavia, agli occhi dei sudditi, la figura dominante del
ministro sembrava perpetuare l'infanzia del monarca. Questi compiva invece la formazione
della propria personalità. Si plasmavano le forze virili nella consuetudine degli esercizî fisici
(caccia, equitazione) e nell'addestramento prediletto alla vita militare; ed emergevano pure
le doti del carattere: riservatezza, senso profondo della dignità, coscienza del dovere, un
complesso di solide qualità che testimoniavano d'uno spirito ormai maturo.
Con la morte del Mazzarino giungeva l'ora della prova. Fino a quel momento L. era rimasto
escluso dalla partecipazione diretta alla vita dello stato; ma non estraneo, poiché da anni ne
osservava attentamente ogni aspetto, cercando di formarsi giudizî proprî, e di precisare una
futura linea di condotta aderente ai bisogni che l'esperienza gli suggeriva. Negli anni della
reggenza i pericoli esterni e i disordini interni, lungi dall'abbatterlo, gli avevano dato piena
coscienza dei suoi doveri e delle sue alte responsabilità. Le splendide vittorie militari, la
1
Morandi, Carlo Storico (Suna 1904-Firenze 1950). Prof. di storia del Risorgimento all’univ. di Pisa (1936-39) e di storia moderna a Firenze (1939-50). Dedicatosi già nella sua prima opera (Ideali e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, 1927) allo studio della
formazione dell’Italia moderna, M. ne individuò il momento creativo nel sec. 18°, studiandone sia l’aspetto più propriamente riformistico
(Problemi storici italiani ed europei del XVIII e XIX secolo, 1937) sia quello diplomatico sabaudo (Lo Stato di Milano e la politica di Vittorio Amedeo II, 1940). Vivo interesse mostrò anche per la storia dei partiti politici nel Risorgimento e nel regno d’Italia (La Sinistra al potere, 1944; I partiti politici nella storia d’Italia, 1945) e per il rapporto fra l’Italia e l’Europa (L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX
secolo, 1948). Tratto dall’Enciclopedia Treccani, 2010
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conquista dell'Alsazia, la stessa pace dei Pirenei (1659) non lo avevano illuso: si trattava di
possessi ancora precarî, sempre contestati, che occorreva completare e garantire con una
politica di sicurezza. Ma la nazione era stanca e le classi inferiori avevano molto sofferto:
bisognava quindi "soulager les peuples", perché fossero poi in grado di rispondere all'appello del re. Non così per la nobiltà e il clero: il periodo della Fronda era ben vivo nel ricordo e
pieno d'insegnamenti; L. ne aveva tratto una più intima conoscenza degli uomini, schiva d'illusioni e di debolezze, e in pari tempo una cresciuta volontà di ordinato dominio. Richelieu e
Luigi XIII avevano lasciato, morendo, scarso rispetto per il re, avversione per il ministro;
anche ora affioravano le ambizioni dei cortigiani e i desiderî di potenti famiglie (Bouillon,
Montmorency), pronte a trarre profitto da un primo segno di debolezza monarchica. Speranze subito troncate: in L. l'istintiva avversione per "les rois fainéants" si tramutava in una
ferma volontà di governo, e questa si manifestò anzitutto nel ristabilirsi della preminenza regia e delle funzioni sovrane che, dopo il 1624, i due cardinali avevano troppo usurpato. Ma
non si tratta di un semplice ritorno al governo personale di Enrico IV: vi è qualcosa di più,
la creazione di una complessa struttura gerarchica, di cui tutti gli organi non solo ricevono
dal re l'impulso, ma lavorano sotto i suoi occhi e sotto il suo controllo. In tal senso L. proseguiva e perfezionava la tradizione dell'assolutismo monarchico. Egli d'altronde non aveva
bisogno di far appello a una dottrina politica: vinta la Fronda, ormai la regalità sentiva intorno a sé il tacito consenso dell'opinione pubblica che la sorreggeva e stimolava a una totalitaria affermazione. L'opera di L. doveva soddisfare quest'esigenza ed essere animata da un
solo proposito, l'unità politica e morale del regno, perseguito sino in fondo, con una consapevolezza quasi religiosa della missione sovrana.
Ciò traspare chiaramente dai Mémoires che, se furono in gran parte stesi dal Perigny e poi
da P. Pellisson, pure conservano quell'impronta personale che il Sainte-Beuve chiama la
"note royale" e certo esprimono assai bene il concetto ch'egli si formò dello stato e del
"métier de roi". L'idea nacque con l'inizio del regno; come ministro di sé stesso, L. volle dare
la giustificazione dei suoi atti; ma soprattutto questi Mémoires volevano raccogliere il frutto
delle riflessioni, il tesoro d'una ricca esperienza, e giovare così all'educazione politica del
Delfino. Emergono infatti i criterî direttivi del nuovo governo congiunti a una comprensione
notevolissima dello stato interno della Francia alla morte del Mazzarino. Il giudizio che ne
dà il sovrano ("le désordre régnait partout", Memoires, I) può apparire eccessivo a chi pensi
all'opera restauratrice intrapresa dal cardinale dopo il 1653, e a cui avevano contribuito P.
Séguier, M. Le Tellier e, in parte, lo stesso J.-B. Colbert. Pure molto restava a compiere: occorreva un'opera complessa di organizzazione che, partendo dal centro (governo e corte),
giungesse alla periferia attraverso una maggior disciplina degl'intendenti e un riassetto generale dell'amministrazione.
Il 9 marzo 1661 il re annunciava alla corte che ormai nulla si farebbe nello stato senza suo
ordine. Tutto il potere si doveva raccogliere nelle sue mani, e i ministri non dovevano essere
che fedeli collaboratori del sovrano. Il quale fissò i limiti delle loro attribuzioni, e cominciò
col ripristinare l'antico Conseil d'État, o Conseil d'en haut, ma ridotto a tre membri e con
esclusione dei familiari, dei principi del sangue e degli ecclesiastici; il che non gli impedì di
giovarsi, quando volle, di consiglieri estranei e massime del maresciallo di Turenne. Ma i
ministri vennero scelti con assoluta prevalenza tra i borghesi, e non ebbero "ni charge, ni
patente, ni serment" (Saint-Simon). L. mirava a impadronirsi degli strumenti che avevano già
fatto buona prova considerando i più diretti collaboratori come leve di comando.
Tuttavia la sua volontà trovò dei limiti nella realtà stessa delle cose. Quell'influenza politica
che egli cercò di togliere agli ecclesiastici, escludendoli dal Consiglio di stato, di fatto risorLiceo Montale San Dona’ di Piave
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geva attraverso lo stesso Conseil de conscience o l'autorità personale dei singoli confessori
(padre J. de La Chaise, padre M. Tellier); e i maggiori e più fortunati ministri furono quelli
(J.-B. Colbert, F.-M. de Louvois, J.-B. de Torcy) che seppero dare al re l'impressione di essere semplici esecutori d'ordini, mentre in realtà erano i loro progetti e le loro idee che trionfavano attraverso il crisma della volontà sovrana. Senza dubbio egli sapeva ascoltare con
molta pazienza prima di decidere con pari fermezza. Tutti gli affari dovevano essergli sottoposti: la vigoria fisica gli rendeva possibile un'attività instancabile e prodigiosa.
Profondo il contrasto tra i due aspetti della vita di corte: quello frivolo e galante delle feste e
degl'intrighi amorosi, e l'altro, denso di opere e di fatica, che si attuava nelle quotidiane cure
dello stato. Né il trasferimento da Parigi a Versailles era stato casuale, sibbene indice d'una
profonda mutazione di consuetudini e di norme. S'introdusse un cerimoniale solenne, sul tipo
spagnolo e austriaco, e si costituì una gerarchia regolata da un'etichetta severa. La persona
del re divenne il fulcro della vita della reggia, ove ogni atto e momento della giornata del sovrano dava origine a una cerimonia e dove il tono dell'ambiente e le costumanze dovevano
apparire come l'espressione perfetta della maestà regale: era veramente le Roi Soleil. In
quell'atmosfera le lodi diventavano inni, i consensi espressioni di servilismo. L'eco della vita
di corte giungeva al paese deformata e dava esca ai gazzettieri e ai libellisti, nei quali L. ebbe nemici ostinati, critici acerrimi, denigratori instancabili. Le stesse vicende private e familiari del re offrivano un facile bersaglio. Dopo l'amore giovanile per Maria Mancini, intelligente e ambiziosa nipote del Mazzarino, L. aveva sposato (1659) la figlia di Filippo IV, Maria Teresa d'Austria, con un'unione politica che doveva suggellare la pace dei Pirenei. Regina "sans aucun esprit", essa non riuscì a dominare, con la bontà e con la devota tenerezza di
moglie, la natura sensuale e avida d'affetti del re. Questi fu preso dalla grazia di Louise de
La Vallière e poi dalla bellezza altera di Françoise-Athénaïs de Rochechouart, marchesa di
Montespan. Passioni veementi, destinate a declinare con gli anni, per lasciar posto a un affetto più intimo e duraturo. Madame de Maintenon seppe conquistare il cuore del sovrano
che, poco dopo la morte della regina (1683), la sposò segretamente. Per quanto ella dichiarasse di non volersi immischiare negli affari politici verso cui nutriva avversione, sarebbe
certo eccessivo circoscriverne l'influenza nella sfera della vita privata. Troppo spesso nella
sua camera il re lavorava o riceveva i ministri, volgendosi a lei per consiglio; pure è probabile che ciò non fosse indice di debolezza, ma piuttosto di consapevole fiducia. La Maintenon
fu la grande compagna di L., la sola confidente che accolse per lunghi anni, con discrezione,
le speranze, le ansie e i segreti sfoghi del suo animo. Sugli altri membri della famiglia reale
L. faceva pesare la sua autorità dispotica. Il Delfino (Monseigneur), l'unico che visse (16611711) dei sei figli avuti da Maria Teresa, fu tardo e indolente; assai diverso dal padre crebbe
il duca di Borgogna, l'allievo prediletto di Beauvillier e di Fénelon, che morì di vaiolo (18
novembre 1712) in giovane età. Più numerosa e inquieta la schiera dei bastardi, che L. in
buona parte legittimò.
Ma di là dalla cerchia degl'interessi familiari c'era pur sempre lo stato con le sue esigenze
supreme, cui tutto bisognava sacrificare e posporre. Immenso il lavoro compiuto all'interno,
nonostante un quarantennio di lotte diplomatiche e di guerre che assorbirono danaro, uomini
ed energie. L. conosceva bene la Francia per averla percorsa più volte, a lungo; e non gli
erano sfuggiti i particolarismi, le disuguaglianze, gli abusi, tutto ciò che ancora rimaneva di
eterogeneo e di non assimilato nell'organismo statale. Pur senza ricorrere a mutamenti radicali e improvvisi, e spesso mantenendo gli antichi quadri amministrativi, riuscì a soffocare le
autonomie e a sostituirvi un sistema di rigorosa centralizzazione.
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Con l'istituzione progressiva degl'intendenti quali rappresentanti diretti dell'autorità monarchica nelle provincie, si videro esautorati i governatori militari. Insieme con le franchige
provinciali caddero quelle comunali; lo stesso simulacro delle elezioni municipali scomparve
e le cariche si trasformarono in uffici. Rimasero i parlamenti, ma svuotati d'ogni loro valore
e funzione, sottomessi agl'intendenti; e gli Stati Generali non vennero più convocati, lasciando che ne svanisse anche il ricordo. Innovazioni meno sensibili furono introdotte nell'amministrazione della giustizia, che faceva capo al re attraverso il Conseil de Parties: un'ordinanza del 1667 regolò la procedura civile e un'altra del 1670 quella penale. Personalmente L.
ebbe un senso austero, ma un po' rigido della giustizia; né gli fu sempre possibile evitare che
la sua autoritò degenerasse in arbitrio (come si vide nei casi del duca di Lauzun e di E. A.
Mattioli, da molti ritenuto la "Maschera di Ferro"), per impedire il diffondersi dei mezzi
abusivi di denuncia.
Un'attività ben più feconda fu svolta nel campo dell'economia nazionale, ove però è assai difficile scindere l'opera del sovrano da quella di J.-B. Colbert. Le finanze erano sconvolte dalle guerre, dalle lotte civili, dalle malversazioni dei funzionarî. La creazione del Conseil des
Finances (15 settembre 1661), il processo per peculato e la condanna di N. Fouquet, la nomina del Colbert a controllore generale delle finanze (1665), posero le basi di un nuovo ordinamento che consentì una provvida revisione fiscale. Tolti parecchi abusi, vigilati i metodi
di esazione, accresciuto il numero dei contribuenti, il gettito netto delle imposte salì da 32
milioni (1661) a 97 nel 1683. Il re verificava spesso i registri contabili, e firmava ogni anno
"l'état au vrai" controllando le modifiche apportate ai bilanci preventivi. Ma riponeva piena
fiducia nel Colbert.
Tutto il primo ventennio di regno è segnato da una vigorosa impronta costruttrice: nell'agricoltura con le ordinanze sulle acque e sulle foreste (1669), con il miglioramento del patrimonio zootecnico, con la distribuzione di sementì e di premî ai coltivatori; nell'industria con le
provvidenze dirette a favorire le manifatture nazionali; nei lavori pubblici con la costruzione
di strade, di ponti, di canali (Canal du Midi), con la creazione di Versailles e gli abbellimenti
di Parigi. Politica di efficienza e di prestigio che trovava nell'espansione commerciale e coloniale il suo naturale completamento.
Il re non ostacolò l'opera del Colbert, che fu il vero animatore dell'emancipazione economica
della Francia e che mirò a imprimere il massimo impulso all'esportazione mediante il controllo della produzione e il vasto impiego dei dazî protettivi. Fu creata quasi dal nulla la marina mercantile; ampliato il porto di Marsiglia, attrezzati gli arsenali di Brest, Rochefort, Tolone, accresciuti i possessi coloniali in America e in Africa e, soprattutto, valorizzati con la
formazione delle due compagnie (1664), una per le Indie occidentali e l'altra per le Indie
orientali, con la colonizzazione della Luisiana, col generale aumento dei traffici.
Politica di sviluppo delle forze nazionali che elevando la Francia al rango delle grandi potenze marittime, doveva fatalmente accrescere il numero dei suoi nemici, perché, insieme con
la rivalità tradizionale del blocco asburgico, suscitava le gelosie dell'Olanda e dell'Inghilterra. Di qui l'urgenza di un programma di organizzazione militare che L., assistito dal Louvois
e da S. de Vauban ideò e diresse con vigile cura e che, partendo da modifiche tecniche negli
armamenti terrestri e da un aumento dei mezzi offensivi della flotta, giungeva a un più vasto
concetto di difesa nazionale, imperniato sulla sicurezza dei confini e sulla copertura del paese mediante le linee fortificate di protezione e quelle "places de la frontière", il cui valore politico e strategico testimonia dell'intuizione esatta che L. aveva avuto del compito avvenire
della Francia.
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Ma nel complesso di tutta la politica interna è possibile scorgere l'affermarsi di due tendenze
diverse e quasi contraddittorie: da un lato l'accrescimento del potere personale del re,
dall'altro la formazione di una monarchia burocratica, ordinata nei nuovi quadri amministrativi. Queste linee direttrici coesistono e si equilibrano nei primi deeennî del regno e sono
rappresentate dalla stretta collaborazione del re e di Colbert. Attraverso l'organizzazione
dello stato la volontà sovrana penetra in ogni parte: non vi è cellula del corpo sociale che
non sia permeata di dispotismo. La nobiltà, da turbolenta e faziosa, ridotta a docile strumento della vita di corte; l'alto clero vincolato al re nella comune difesa delle libertà della chiesa
gallicana; la borghesia divenuta forza operante al servizio del monarca. Ma, d'altra parte, lo
sviluppo del sistema amministrativo crea nello stato istituzioni stabili che limitano, in virtù
della loro stessa esistenza, la volontà personale del re; e quando questi, negli ultimi decennî
del regno, sotto l'urto delle difficoltà esterne e interne, accentua il carattere personale del
proprio governo, tra le due forze già si delinea il futuro conflitto. Il dispotismo regio ha il
sopravvento, ma deve ricorrere all'esercito, alla polizia, alla censura per governare e, ciò
nonostante, vede crescere le correnti intellettuali d'opposizione (Fénelon, C. Saint-Simon, H.
de Boulainvilliers). Si rende più manifesta la contraddizione latente nella politica di L.: l'aver fatto appello all'iniziativa borghese, pure conservando la struttura tradizionale della società con i suoi privilegi e abusi, e limitandosi ad accentrarli nelle mani del sovrano con lo
scopo di renderli inoffensivi. Così di fronte ai sacrifici resi necessarî dalle guerre, dalle carestie, dal rapido crescere delle imposte (benché L. dichiarasse che la sola idea di dovere
elevare la tassazione gli causava "des peines infinies"), la nazione cominciò ad avvertire
profondamente il peso dell'arbitrio. La nobiltà resa inutile e dispendiosa fece di Versailles
una capitale falsa e fittizia, estranea alla vita del paese, e il re circondandosene parve solidarizzare con essa e allontanarsi dal popolo. La monarchia di L., dispotica e al tempo stesso
amministrativa, non poteva fruire che di un equilibrio precario: nell'urto delle due opposte
tendenze è già in germe la crisi dell'ancien régime.
Anche la politica religiosa condusse a risultati analoghi. Coerente ai principî generali del
suo governo, L. aveva mirato a tre scopi ben definiti: unità di culto, parziale autonomia della
chiesa francese dal papato, assoluta dipendenza del clero dal re. Nei confronti degli ugonotti
gli editti posteriori al 1661 segnarono una progressiva restrizione dei loro privilegi; alle tenaci resistenze si rispose con le dragonnades, finché nel 1685 la revoca dell'editto di Nantes,
attuata con estremo rigore, pose fine alla lotta. I protestanti erano, senza dubbio, una minoranza, ma ricca, attiva, intelligente: il loro annientamento ebbe profonde ripercussioni nella
vita economica sociale e intellettuale della nazione. Più grave, sotto certi aspetti, fu la lotta
contro i giansenisti, in quanto apriva un dissidio nelle stesse coscienze cattoliche. Ma L. aveva bisogno di cancellare ogni interno contrasto religioso e di circondarsi dell'aureola di Cristianissimo, per sostenere di fronte al pontefice, in un'alternativa di aspri conflitti e di non
durevoli accordi, la propria supremazia sulla chiesa gallicana. Sennonché la politica regia,
appoggiandosi ai vescovi e ai grandi prelati, finì con l'isolare, specie nelle campagne, la
massa ecclesiastica e con l'accrescre quel distacco morale e sociale tra alto e basso clero,
che, alla fine del sec. XVIII, sfocerà in aperto contrasto politico.
Pure, l'impronta unitaria data alla Francia dall'opera personale del re fu così forte da lasciare tracce indelebili e da reggere allo sforzo di un cinquantennio quasi ininterrotto di lotte
europee. L. è il continuatore della politica estera del Richelieu e del Mazzarino, ma si accinge a proseguirla con una preparazione più vasta e più organica. La diplomazia francese
compie, sotto la sua guida, un passo gigantesco; sviluppa una rete fittissima di relazioni, una
attività senza tregue. Il re ne difende gelosamente le prerogative dinnanzi alle corti straniere
(donde gli energici interventi presso Filippo IV nel 1662 e Alessandro VII nel 1664, per offeLiceo Montale San Dona’ di Piave
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se recate ai suoi ambasciatori), ma vuole che ogni ministro sia consapevole del valore della
propria missione.
L. s'avvantaggiò, in un primo tempo, della favorevole situazione europea: l'impero impegnato a fondo coi Turchi, parecchi principi tedeschi legati alla Francia, Carlo II d'Inghilterra
desideroso d'aiuto e così poco sollecito degl'interessi britannici da lasciarsi indurre alla
vendita di Dunkerque (1662), la Spagna indebolita, l'Olanda intesa a conservare la sua posizione commerciale. Furono anni di attesa e d'intensa preparazione diplomatica e militare. L.
maturava il primo disegno della sua politica estera: l'isolamento della Spagna; e alla morte
di Filippo IV, valendosi del cosiddetto diritto di devoluzione derivante da una consuetudine
del Brabante, si appoggiò al Portogallo e alla Lega renana e invase le Fiandre (1667). La
reazione europea fu pronta, ma non molto efficace; tuttavia la triplice alleanza dell'Inghilterra, Olanda e Svezia (23 gennaio 1668) indusse la Francia al trattato di Aquisgrana (2 aprile
1668), riconoscendole il possesso di dodici città fiamminghe e obbligandola a restituire la
Franca Contea. La pace, frutto della diplomazia dell'Aia, rivelò nell'Olanda l'ostacolo maggiore alle mire espansioniste francesi. Da questo momento la politica di L. fu rivolta a creare
il vuoto intorno all'Olanda, togliendole l'appoggio inglese e svedese. Ma la guerra, iniziata
nel 1672 con una marcia vittoriosa del Turenne, ebbe sviluppi impreveduti e, dopo il fallimento delle prime trattative di pace (1673), degenerò in una conflagrazione europea.
La Francia aveva manifestato la sua forza, ma anche una volontà aggressiva che suscitava
l'esigenza di una comune difesa. L. vide crescere nel giro di pochi anni il numero dei suoi
avversarî: l'impero, la Spagna, la Danimarca, gli elettori di Colonia e del Brandeburgo.
Perduta l'alleanza inglese, cercò nuovi aiuti legando a sé la Polonia e fomentando rivolte nei
paesi nemici, come in Ungheria e a Messina. Con la pace di Nimega (1678) dovette restituire
i territorî olandesi occupati, ma poté rifarsi sulla Spagna con l'annessione definitiva della
Franca Contea e di altre città delle Fiandre occidentali. Però l'Olanda, raccolta intorno a
Guglielmo d'Orange, aveva rivelato insospettate capacità di resistenza; ed ecco la diplomazia francese all'opera per allontanarla nuovamente dall'Inghilterra e per alterarne l'equilibrio politico interno con gl'intrighi dell'ambasciatore J.-A. d'Avaux presso i deputati degli
Stati generali. Per L. la pace si risolveva effettivamente in una preparazione politica, economica, militare, della guerra. Ciò si vide anche meglio con l'intenso lavorio rivolto a sistemare la zona alsaziana-lorenese: furono richiamati antichi diritti non bene definiti dai trattati di
Westfalia e convocate le "camere di riunione" che decisero in favore delle aspirazioni francesi. La politica dei confini al Reno si avvia a rapida attuazione con la presa di possesso di
Strasburgo (1681); poco dopo, col consenso del duca di Mantova, N. Catinat occupa Casale.
Clausa Germanis Gallia, mentre la porta d'Italia s'apre ai Francesi. È una tenaglia che mira
a stringere l'Austria e che L. cerca di rendere più pericolosa sollecitando una nuova avanzata turca su Vienna (1683). Nello stesso tempo s'impadronisce del Lussemburgo, di Courtrai e
Dixmude, costringendo la Spagna con la tregua di Ratisbona (1684) a riconoscere il fatto
compiuto.
La potenza di L. ha raggiunto l'apogeo: nelle sue mani la Francia è divenuta una grande
macchina in movimento, che avanza senza soste e minaccia di sommergere le potenze vicine
e lontane. Da questo momento la reazione europea s'intensifica sorretta e stimolata da un
vasto moto d'opinione pubblica, che accusa la volontà egemonica del Re Sole di tendere a
una nuova monarchia universale. L'umiliazione inflitta a Genova (1684), la persecuzione dei
protestanti, la pressione diplomatica esercitata sui grandi e sui piccoli stati (Spagna, Savoia,
Brandeburgo) affrettano il formarsi della Lega d'Augusta (1686). L. sperò di potere vincere i
nemici separatamente abbattendo le forze dell'impero, già impegnate dai Turchi, prima che
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gli altri collegati fossero in grado di agire. Ma soprattutto fece assegnamento sull'aiuto o
almeno sulla neutralità dell'Inghilterra, travagliata dalla crisi politica e dinastica. Invece la
rivoluzione del 1688 e l'ascesa al trono di Guglielmo d'Orange sconvolsero i suoi piani, isolarono la Francia e fecero sì che il blocco anglo-olandese divenisse il fulcro della Grande
alleanza (1690). L. non desiste dalla guerra; anche se l'iniziativa in parte gli sfugge e se si
trova costretto, su molti fronti, a mutare l'offesa in difesa. Ma non può nascondersi che la
sua politica estera ha urtato troppi interessi e li ha coalizzati invece di dissociarli. Particolarmente significativa l'adesione alla Grande alleanza dell'elettore di Brandeburgo e di Vittorio Amedeo II; il che dimostra che nel tradizionale antagonismo tra Borboni e Asburgo
s'inseriscono forze nuove, stati più giovani che tendono a salire e devono fatalmente affrontare la potenza che impedisce o limita il loro sviluppo. E accanto a essi ci sono l'Inghilterra e
l'Olanda, cioè gli stati che hanno debellato l'assolutismo monarchico e religioso e che esprimono le esigenze economiche e mercantili della nuova borghesia capitalistica. La guerra si
protrasse dal 1690 al '94 con alterne vicende, estendendosi anche alle colonie: i Francesi
vinsero a Fleurus, a Staffarda, a Marsaglia e a Neerwinden, ma furono nettamente battuti sul
mare a La Hougue. L'esercito era stanco, il paese esausto. Fallite le prime trattative di pace,
con la mediazione della Svezia e della Danimarca, L. preferì premere sul duca di Savoia per
staccarlo dalla Lega, e vi riuscì cedendo Pinerolo e restituendo le terre occupate (1696). Così cessarono in Italia le operazioni militari che da un biennio si trascinavano fiaccamente, e
gli allcati si videro costretti a riprendere trattative generali di accordo che si conclusero nella pace di Ryswyk (20 settembre 1697). Pace di compromesso che L. sottoscrisse con l'evidente proposito di non esasperare gli avversarî e di essere libero per imprimere un nuovo
orientamento alla sua diplomazia. Infatti il consolidamento della potenza anglo-olandese e la
migliorata situazione dell'Austria in Oriente precludevano alla espansione francese altri
sbocchi che non fossero i territorî della corona spagnola. Ciò rendeva assillante il problema
della successione di Carlo II, problema che senza dubbio L. ebbe presente fin dai primi anni
di regno e che segna, in un certo senso, il punto di partenza e di arrivo della sua politica
estera. Nell'inquieta atmosfera creata dalla lunga malattia del Re Cattolico, L. tenne a bada,
in Europa, le ambizioni dei pretendenti elaborando progetti di partizione. Ma intanto fece
svolgere nella corte di Madrid una finissima opera di penetrazione diplomatica; gli stessi
ambasciatori stranieri ebbero modo di constatare come l'opinione pubblica spagnola si
orientasse verso la Francia, mentre l'Austria s'illudeva di avere partita vinta mercé l'appoggio della regina. Il testamento di Carlo II, designando come successore il secondogenito del
delfino, Filippo d'Angiò, rappresentò il trionfo della politica di L.; ma questi, accettandolo e
delineando il compito del nuovo re come rivolto a "entretenir l'union entre les deux nations",
dava il segnale di un più vasto conflitto europeo.
Risorse, ingrandita, la coalizione del 1689. La Francia ebbe per alleati, oltre la Spagna, il
Portogallo, la Baviera e, per breve periodo, il Piemonte, che nel 1703 passò al nemico. Invano L. cercò altri appoggi minori, inviando in Italia (1701-02) un abile diplomatico come il
cardinale C. d'Estrées per promuovere una lega tra i principi della penisola contro l'Austria.
Dovette far conto sulle proprie forze: e ancora una volta il mirabile organismo militare resistette alla durissima prova. Dopo le sconfitte di Ramillies e di Torino (1706) e la perdita dei
dominî spagnoli in Italia, la Francia attraversò un periodo di crisi profonda; ma L. seppe
reagire, tenne testa al malcontento interno, rianimò l'esercito, avviò trattative diplomatiche
pure continuando a combattere. Riportò ancora una vittoria a Denain (1712) e poco dopo,
sfruttando i mutamenti politici europei (avvento dei tories al governo inglese, morte dell'imperatore Giuseppe I), concluse le paci di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714). La Francia fu
salva nelle sue migliori frontiere, che Vauban aveva rese quasi inviolabili; ma perdette l'egemonia politica, e vide ristabilirsi un nuovo equilibrio europeo a vantaggio dell'Inghilterra
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e dell'Austria. Anche più grave era il senso di profonda stanchezza, d'impoverimento, di ristagno delle energie, che traspariva dalla vita interna del paese.
Troppo tardi per ricominciare: L. è al tramonto del suo regno; pure fino all'ultimo vuole assolvere il compito di sovrano, e disporre ogni cosa per l'avvenire. Assalito dal male, affida al
duca del Maine l'educazione e la stessa persona fisica e morale del delfino; inoltre gli rimette il comando di tutte le forze militari di Parigi. L. sentiva l'approssimarsi di giorni oscuri e
il timore dei disordini lo tormentava; ancora, dal letto di morte, ammoniva: "ce qui importe..... c'est l'union". Spirò, dopo una lunga agonia, il 1 settembre 1715.
Si chiudeva così un regno durato più di mezzo secolo, nel corso del quale la Francia aveva
dominato nella vita politica e culturale europea. Il grande re aveva fuso l'idea religiosa e l'idea monarchica, aveva plasmato molte forze che, abbandonate, avrebbero finito col dissociarsi e disperdersi. Ma il suo regno ebbe un alto valore e un significato particolare anche
per la luce che da Versailles si diffuse nell'Europa del tempo: un'arte, una cultura, un costume di vita; il segno tangibile di un'influenza che giustificava e insieme accresceva il prestigio
della Francia. Tuttavia la fortuna di L. non fu grande negli anni che seguirono la morte, continuava il paese a vivere nel solco di quella tradizione, ma avvertiva in pari tempo gli aspetti
negativi dell'eredità del Re Sole. Fu il Voltaire che, creando l'espressione "siècle de Louis
XIV", diede rilievo e carattere proprio a un'epoca, accentuando l'identità tra il sovrano e il
suo tempo, tra l'impronta dell'uno e l'opera collettiva della Francia. Il regno di L. apparve
poi, nella storiografia romantica, come il momento tipico dell'ancien régime, nella sua fase
solare, non ancora avvolto dalle ombre del tramonto.
Fonti: Non è possibile indicare se non le fonti relative alla personalità di L., rinviando per
tutto ciò che si riferisce alle vicende generali del regno alla storia di Francia (v.) e anche ai
grandi avvenimenti e alle maggiori figure del tempo. Occupano il primo posto gli scritti di L.
e quelli da lui direttamente ispirati: Louis XIV, Œuvres, Parigi 1806, voll. 6; id., Mémoires, a
cura di C. Dreyss, Parigi 1860, voll. 2. L'ed. più recente dei Mémoires è quella a cura di J.
Longnon (Parigi 1927), non immune da mende sia per l'edizione del testo sia per i giudizî
espressi nell'introduzione, L'epistolario è ricchissimo, ma disperso, soprattutto per i carteggi
diplomatici, in molte opere. Si veda: Louis XIV, Lettres aux princes de l'Europe, à ses généraux, à ses ministres... recueillies par M. Rose, Parigi 1774, voll. 2; id., Lettres de L. XIV, du
Dauphin et d'autres princes adressées a M. de Maintenon, Parigi 1822. Tra le fonti narrative, spiccano per l'alto valore letterario e psicologico, ma non per l'imparzialità dei giudizî, i
suggestivi Mémoires di C. Saint-Simon (ed. A. e J. de Boislisle, voll. 22, Parigi 1878 segg.).
Inoltre: L'Abbé de Choisy, Mémoires pour servir à l'histoire de L. XIV, voll. 2, Parigi 1888;
Ph. Dangeau, Journal du marquis de Dangeau...., voll. 19, Parigi 1854-61; L. F. Du Bouchet
de Sourches, Mémoires, voll. 13, Parigi 1882-93; J. B. C. Torcy, Mémoires, Parigi 1850; T.
F. Saint-Maurice, Lettres sur la cour de Louis XIV, a cura di J. Lemoine, Parigi 1911-12,
voll. 2; J. D. de Vizé, Mémoires pour servir à l'histoire de L. le Grand, s. l. 1697-1703, voll.
10; Mad. de Sévigné, Lettres, Parigi 1861-66, voll. 14. Sempre utili le fonti di cui si giovò il
Ranke: la Correspondance di Elisabetta duch. d'Orléans (trad. francese di E. Jaeglé, voll. 3,
2ª ed., Parigi 1890), la Relation de la Cour de France en 1690 di É. Spanheim (Parigi 1900)
e le Relazioni degli.... Ambasciatori Veneti (a cura di N. Barozzi e G. Berchet, s. 2ª, III, Venezia 1863).
Sulla vita del re a Versailles: Mémoires du curé de Versailles, Français Hébert (1684-1704),
a cura di G. Girard, Parigi s. d.; M. Langlois, L. et la cour d'après trois témoins nouveaux:
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Bélise, Beauvillier, Chamillart, Parigi, s. d. Inoltre: J. A. Le Roi, Journal de la santé du roi
L. XIV (scritto dai suoi medici: Vallot, d'Aquin e Fagon), Parigi 1862.
Fonti documentarie per la politica interna: A.-M. de Boislisle, Correspondance des contrôleurs généraux des finances avec les intendants des provinces, voll. 2, Parigi 1874-83; A.
Depping, Correspondance administrative sous L. XIV, voll. 4, Parigi 1850-55.
Per la politica religiosa: Recueil des Édits, déclarations... rendus pour l'extirpation de la religion prétendue réformée..., Parigi 1686 (ed. completata di L. Pilatte, Parigi 1885).
Vastissimo il materiale documentario per la politica estera: Correspondance de L. XIV avec
Amelot... en Portugal (1685-88), Nantes 1863; Correspondance de L. XIV avec Amelot... en
Espagne (1705-9), Nantes 1863, voll. 2, J. A. D'Avaux, Négociations en Hollande (1679-88),
voll. 6, Parigi 1752; id., Négociations en 1693, 1697, 1698, a cura della Société historique
d'Utrecht, voll. 3, 1882-84; Letters of William III and Louis XIV and of theirs Ministers
(1697-1700), voll. 2, Londra 1848; G. d'Estrades, Lettres, mémoires, négociations, voll. 6,
L'Aia 1719 (e voll. 9, Londra 1743).
D'importanza fondamentale sono le istruzioni diplomatiche contenute nei 18 volumi finora
pubblicati del Recueil des instructions données aux ambassadeurs et ministres de France depuis les traités de Westphalie jusqu'à la Révolution, Parigi 1884 segg.
Come repertorio generale di fonti, v.: E. Bourgeois e L. André, Les sources de l'histoire de
France: XVIIe siècle (1610-1715), voll. 4, Parigi 1913-1924.
Uno strumento utile di ricerca, ma assai antiquato, è offerto da G. Monod, Bibliographie de
l'histoire de France, Parigi 1888, pp. 319-343 e 357 seg.
Tra le opere di carattere generale emerge quella del Voltaire, Siècle de Louis XIV, gioiello
della storiografia illuminista. Sempre da vedere: J. Michelet, Histoire de France, XIII e XIV,
Parigi 1871-74, e sopra tutto L. v. Ranke, Französische Geschichte im XVI. und XVII, Jahrh.,
Lipsia 1869. Ormai superato M. Philipson, Das Zeitalter L.s XIV., Berlino 1879. Inoltre: C.
Gaillardin, Histoire du règne de L. XIV, voll. 6, Parigi 1875-78; F. Boulanger, Le grand siècle, Parigi 1927; G. Mentz, L. XIV., sein Reich und seine Zeit, Bonn 1922.
Per i singoli aspetti della vita e dell'opera di L. XIV: su la giovinezza: P. H. Chérot, La première jeunesse de L. XIV, Parigi 1893; G. Lacour-Gayet, L'éducation politique de L. XIV,
Parigi 1898.
Sulla personalità di L., oltre le finissime pagine del Sainte-Beuve (Causeries du lundi, V), si
veda: A. Hassal, L. XIV, Londra 1895; W. Heinecker, Die Persönlichkeit L. XIV., Berlino
1915; L. Bertrand, L. XIV, Parigi 1923 (opera suggestiva e colorita che mira a un'appassionata difesa del re); D. Jackson, Le gran roi, Parigi 1929; L. Bertrand, L. XIV intime, Parigi
1932. Sulla corte e la vita privata: C. Saint-André, Henriette d'Angleterre et la cour de L.
XIV, Parigi 1933; P. Clément, Madame de Montespan et L. XIV, Parigi 1868; J. Lair, Louise
de la Vallière et la jeunesse de Louis XIV d'après des documents inédits, Parigi 1881; A.
Baudrillart, Madame de Maintenon. Son rôle politique pendant les dernières années du règne
de L. XIV, in Revue des questions historiques, 1890; C. Blennerhasset, L. and Madame de
Maintenon, Londra 1910; M.me Saint-René Tallandier, Le Grand Roi et sa cour, Parigi 1930
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(ricostruzione vivacemente drammatizzata); P. de Nolhac, Versailles résidence de L. XIV,
Parigi 1925.
Sulla politica interna: P. E. Lemontey, Essai sur l'établissement monarchique de L. XIV, Parigi 1818; P. Clement, La police sous L. XIV, Parigi 1866; A. Grün, Les États provinciaux
sous L. XIV, Parigi 1902; E. P. Beaulieu, Les gabelles sous L. XIV, Parigi 1903; G. Martin,
La grande industrie sous le règne de L. XIV, Parigi 1899; A. de Boislisle, Les Conseils sous
L. XIV, Parigi 1891. Una sintesi ricca di vigorose e acute osservazioni in: G. Pagès, La Monarchie d'ancien régime en France, Parigi 1928.
Sulla politica religiosa: R. Reuss, L. XIV et l'Église protestante de Strasbourg, au moment de
la Révocation, Parigi 1887; H. M. Baird, The Huguenots and the Revocation of the Edict of
Nantes, voll. 2, Londra 1895. Vedi, inoltre, alla voce ugonotti.
Per i rapporti col papato: L. Pastor, Storia dei papi, XIV, XV; C. de Moüy, L. XIV et le SaintSiège, voll. 2, Parigi 1893; C. Gérin, L. XIV et le Saint-Siège, voll. 2, Parigi 1894; M. D'Angelo, L. XIV e la Santa Sede (1689-93), Roma 1914.
Sugl'inizî della politica estera di L, si veda: P. A. Chéruel, La politique extérieure de L. XIV
au début de son gouvernement personnel, en Revue d'histoire diplomatique, 1890. Inoltre: N.
Japikse, L. XIV et la guerre anglo-hollandaise, in Revue historique, 1908; H. Reynald, L. XIV
et Guillaume III, voll. 2, Parigi 1883. Conserva il suo valore, pur essendo in più punti superata, l'opera di C. Rousset, Histoire de Louvois, 3ª ed., voll. 4, Parigi 1864. Utile per l'apporto documentario: C. F. Sirtéma De Grovestins, Guillaume III ... contre L. XIV, Parigi 1850.
Sulla politica di L. in Italia dal 1674 al 1678, vedi il recente lavoro di E. Laloy, La révolte de
Messine, l'Expédition de Sicile et la politique française en Italie, Parigi 1929-31, voll. 3.
Sulle origini della guerra per la successione di Spagna: F. Mignet, Négociations relatives à
la succession d'Espagne sous L. XIV, voll. 4, Parigi 1835-42; A. Legrelle, La diplomatie
francaise et la succession d'Espagne, voll. 4, Parigi 1888-92; e specialmente il vol. I di A.
Baudrillart, Philippe V et la Cour de France, Parigi 1889.
Degni di rilievo i due studî di G. Pagès: L. XIV et le Grand Électeur, Parigi 1905; Contributions à l'histoire de la politique française en Allemagne sous L. XIV, Parigi 1905. Da ricordare l'opera di E. Moret, Quinze années du règne de L. XIV, Parigi 1895, voll. 3, che abbraccia gli ultimi tre lustri. Di carattere generale: É. Waldteufel, La politique étrangère de L.
XIV, Parigi 1898; H. Vast, Les tentatives de L. XIV pour arriver a l'Empire, in Revue historique, LXV; e soprattutto gli ottimi saggi di G. Pagès, L'histoire diplomatique du règne de L.
XIV, in Revue d'histoire moderne et contemporaine, 1905-06.
Per le vicende militari è sempre utile il vasto lavoro del marchese De Quincy, Histoire militaire du règne de L. le Grand, voll. 7, 1726. Sui riflessi della politica di L. in Germania: H.
Gillot, Le règne de L. XIV et l'opinion publique en Allemagne, Nancy 1914. Infine, sull'organizzazione data da L. alla diplomazia, lo studio complessivo di G. C. Picavet, La diplomatie
française au temps de L. XIV, Parigi 1932.
Copiosa è l'iconografia di L. XIV: per un primo orientamento può giovare la colorita descrizione fattane da L. Bertrand, L. XIV (I, 1), cit.
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