Cronaca del convegno “The great War and the estreme violence: the turning pont of 1915”, Historial de la Grande guerre, Peronne (Haute Piccardie), 12-13 novembre 2005 Sulla scorta delle recenti tematizzazioni proposte da Stephane Audoin-Rouzeau e da Annette Becker relative alla “crociata” e alla “brutalizzazione” che caratterizzò il primo conflitto mondiale, il convegno organizzato dall’Historial de la Grande Guerre il 12 e 13 novembre 2005 aveva l’obbiettivo di esplorare l’escalation della violenza che si verificò nel corso del 1914-1915 nella sua triplice articolazione della guerra di trincea, della guerra ai civili e del genocidio, cercando di valutarne l’impatto sull’immaginario collettivo e sulle stesse politiche di condotta della guerra. L’introduzione di Jay Winter e di Audoin-Rouzeau si è soffermata sulle vecchie e nuove pratiche della violenza e sulle “culture di guerra”, in particolar modo coloniali, che rappresentano il background culturale e concettuale della maggior parte dei comandi in seguito impiegati nella guerra europea; Rouzeau ha sottolineato, sulla scorta di Norbert Elias, che la violenza bellica fu un esito irreversibile che accompagnò il processo di civilizzazione; il passaggio alla violenza estrema avvenne molto rapidamente, accompagnato dalla progressiva distruzione delle barriere psicologiche interiori, un processo anticipato rispetto ai tempi - più lenti - della mobilitazione generale (economica, militare, culturale) necessari alla guerra totale; l’intensificazione della violenza fu, secondo Winter, un portato dell’industrializzazione e della tecnologia: le norme vennero infrante e furono ricreate in un nuovo contesto bellico che però trovava le sue radici nella «brutalizzazione» delle guerre coloniali. Centrale in questo senso l’esperienza del fronte occidentale dove - come si è sottolineato - si verificò un impatto altamente distruttivo delle nuove tecnologia, in primis la mitragliatrice, le artiglierie e i gas, sperimentati dalle truppe tedesche a Ypres proprio nel 1915 (Oliver Lepick). In questa prospettiva la guerra di trincea fu la risposta alla crescente potenza distruttiva delle armi; gran parte degli interventi dedicati a questa problematica, incentrata sulle risposte date dai vari comandi alle nuove necessità strategiche, ha messo in luce l’impreparazione sia del comando tedesco (Anne Doumenil), sia di quello inglese di Douglas Haig, basato sul tradizionale controllo della disciplina e del morale delle truppe, del comando inglese di (Loyd); d’altro canto, John Horne ha sottolineato come il periodo che vede il passaggio dalla guerra di movimento a quella di trincea e di logoramento sia stato il momento in cui si registrarono - nell’esercito francese - il maggior numero di perdite e di feriti. Il periodo 1914-1915, caratterizzato da una relativa mobilità degli eserciti che ebbero modo, soprattutto sul fronte orientale, di operare vasti sfondamenti, solleva il problema delle relazioni tra combattenti e i civili considerati come “nemici”, nonché le diverse politiche adottate nei territori occupati. Per gli eserciti e le amministrazioni militari si aprirono una serie di nuove problematiche legate al trattamento della popolazione civile, al problema dell’approvvigionamento e dello sfruttamento della forza lavoro; il rapido delinearsi di una guerra totale, accelerato anche dalla decisione dell’Intesa di avviare il blocco navale, apriva la strada a nuove forme di violenza contro i civili. Le relazioni si sono soffermate sul fronte © DEP ISSN 1824 - 4483 Matteo Ermacora DEP orientale, delineando le politiche dell’occupazione russa in Galizia nel 1914-1915 (Peter Holquist), l’invasione austro-ungarica della Serbia (Jovana Knesevic), l’occupazione tedesca del Belgio (Sophie De Schaeprijver) e le problematiche legate alla gestione delle popolazioni occupate durante il blocco navale (Gerd Krumeich). Jovana Knesevic ha collegato le atrocità dell’esercito austro-ungarico in Serbia con gli scopi che l’Impero si poneva prima del conflitto: la conquista della Serbia, l’isolamento e la distruzione - presentata come difensiva dell’irredentismo serbo. Le atrocità perpetrate (uccisioni di civili, città bombardate e distrutte, massacri di soldati feriti, deportazioni e morte per fame, saccheggi, violenza sulle donne) richiamano quelle operate nel Belgio occupato e sembrano avere medesime cause: timore di franchi tiratori, sospetti contro i civili, scoperta di mutilati, diffusa ostilità, percezione di una costante minaccia; si è sottolineata la mancanza di fonti per poter stabilire un collegamento tra direttive degli alti comandi e l’interpretazione dei singoli ufficiali, la spedizione punitiva contro la Serbia sembra quindi essere stata condotta all’insegna dell’improvvisazione pertanto caratterizzata da alti tassi di violenza. Mentre l’Austria tentò di estendere, in maniera inclusiva, suoi ordinamenti giuridici sulla società serba, i bulgari adottarono una politica di vera e propria snazionalizzazione, spesso violenta che traeva origine dalla volontà di rivalsa, aspetto che sollecita l’analisi delle vicende belliche alla luce delle precedenti guerre balcaniche e la necessità di una nuova periodizzazione per meglio interpretare gli eventi. Analizzando il caso del Belgio occupato, Schaeprijver ha messo in luce i tentativi di resistenza della società civile (resistenza passiva, controinformazione, trafugamento di materiali necessari alle truppe tedesche): la popolazione, colpita dalla violazione della neutralità, sembrò quindi accettare l’occupazione ma non legittimò l’autorità dell’occupante costringendo i tedeschi a governare militarmente le zone occupate, ad operare deportazioni e punizioni collettive che spesso colpirono intere città; pesante e negativo fu l’impatto sull’opinione pubblica delle esecuzioni capitali effettuate dai tedeschi. L’analisi si è poi spostata sulla rappresentazione e l’utilizzo in chiave propagandistica delle violenze tedesche che furono sfruttate per motivare lo sforzo sino alla completa disfatta dell’occupante. Gerd Krumeich ha esaminato il rapporto tra guerra e blocco marittimo, mettendo in evidenza che questa decisione dell’Intesa rappresentò un innalzamento del grado di violenza, rendendo totale il conflitto dal momento che la crisi alimentare veniva percepita fortemente tra i civili tedeschi e, ancor di più, tra i civili delle zone occupate. Si dispongono, tuttavia, pochi studi organici sul blocco marittimo: i suoi effetti, inizialmente limitati, peraltro convinsero i tedeschi che potevano continuare lo sforzo bellico, mentre nel 1916 la situazione volse a favore dell’Intesa. L’acuirsi della crisi accrebbe il tasso di violenza: i primi a farne le spese furono i prigionieri di guerra, cui furono ridotte drasticamente le razioni alimentari; la morte dei prigionieri per malattia - come evidenziato anche da Jones in una analisi comparata sul trattamento dei prigionieri di guerra – non fu solamente negligenza, ma una forma di ritorsione contro il blocco marittimo. Nondimeno, le crescenti difficoltà sollecitarono i tedeschi a una forte campagna propagandistica, volta a dimostrare come l’esercito collaborasse al sostentamento delle popolazioni occupate; principali vittime di questa politica furono i civili 2 Matteo Ermacora DEP tedeschi e soprattutto quelli delle zone occupate, deportati e sfruttati brutalmente proprio in virtù del blocco produttivo. L’ultima sessione del convegno è stata dedicata alle minoranze interne e alle politiche adottate nei loro confronti nel momento in cui lo sviluppo della guerra totale richiese un’adesione senza riserve allo sforzo nazionale. Centrale in questo contesto, il caso del genocidio degli armeni, operato dal governo turco tra il 1915 e il 1916; Donald Bloxham ha evidenziato non solo come la comunità musulmana sia diventata preponderante all’interno dello stato turco ma anche come fosse diffuse quasi un’ideologia- la volontà di salvare l’impero ottomano ad ogni costo. Anche in questo caso il genocidio armeno va inquadrato nel periodo 1912-1916, all’interno delle guerre balcaniche dal momento che in questa occasione era stata la comunità mussulmana a subire una pulizia etnica. Con l’avvio del conflitto mondiale gli armeni furono quindi considerati alla stregua di traditori: fallita la via della nazionalizzazione forzata e punitiva, si diede avvio allo sterminio; è stato notato come, sia nei metodi che nelle strutture/personale, il genocidio tragga le sue radici e sia in continuità con le precedenti guerre balcaniche. Particolarmente importante, ma ancora da mettere a fuoco, poi il collegamento tra il fallimento della spedizione inglese nei Dardanelli per l’avvio delle deportazioni degli armeni. L’intervento di Claire Mouradian si è distinto all’interno del convegno per aver tentato di dare voce alle vittime del genocidio; il genocidio fu subito denunciato all’opinione pubblica ma subito negato con forza dai turchi; non fu solo una «rappresaglia etnica» ma anche una sorta di politica imperiale di stampo coloniale del governo turco contro la minoranza armena, nel silenzio delle grandi potenze, uno sterminio premeditato e di fatto impunito. La studiosa ha lamentato la difficoltà di studiare il fenomeno anche a causa della chiusura degli archivi turchi, aspetto che obbliga a studiare le fonti inglesi e russe; ancora poco conosciamo inoltre della percezione degli stessi armeni durante e dopo il genocidio. L’analisi di un corpus di lettere di sopravissuti, pubblicato nel 1922 a Parigi, è stato lo strumento per dare voce agli armeni che furono immediatamente consapevoli della catastrofe collettiva tanto che –in queste lettere - non dimostravano particolare attenzione per le proprie condizioni, pur difficili, ma esprimevano con forza preoccupazione per il destino del proprio popolo; allo sterminio infatti, come ha suggestivamente dimostrato attraverso una serie di immagini, seguì una generale «damnatio memoriae» religiosa e culturale degli armeni. Hamit Bozarslan ha ribadito la centralità del 1915 nella questione armena perché i burocrati dell’impero ottomano presero coscienza della possibilità dello sterminio e della possibilità di risolvere definitivamente il problema interno degli armeni. L’atteggiamento del governo turco è stato quello di negare, di relativizzare e marginalizzare lo sterminio, basti pensare che le cifre dei morti ammesse dal governo turco sono passate da 300 mila del 1918 alle attuali 560 mila; altro elemento importante è dato dal fatto che nel 1916 la questione era ben nota ai governi europei che scelsero il silenzio; da questo punto di vista la documentazione diplomatica non è ancora stata studiata sistematicamente, anzi questa fu manipolata dai turchi che cercarono di presentare le deportazioni come un evento necessario, dal momento che gli armeni si trovavano nella zona di guerra e costituivano un problema di carattere politico pressante in quanto “nemici” del governo nazionale. Emerge così, nella propaganda 3 Matteo Ermacora DEP turca non scevra da elementi di darwinismo sociale, la presunta “diversità” degli armeni che non potevano essere inclusi nella nazione, né accolti. Altresì lo sterminio venne utilizzato dalle potenze dell’intesa come argomento di propaganda per accomunare nella barbarie turchi e tedeschi (Annette Becker). Annie Deperchin ha infine fatto il punto della questione giudiziaria relativa al genocidio armeno fino ad oggi, delineando in maniera dettagliata il percorso giudiziario sino al trattato di Losanna. Alcune note in margine al convegno. Gran parte degli interventi era relativo al fronte occidentale, il fronte orientale e quello italiano sono, a discapito della loro importanza, scarsamente considerati. Positive invece le aperture ad una dimensione complessiva del conflitto, che vede in primo piano anche la guerra ai civili, le occupazioni, aspetti che rimandano ai caratteri della violenza che assumerà livelli estremi nel secondo conflitto mondiale. Apprezzabile e quanto mai opportuna inoltre la volontà degli organizzatori di inserire il genocidio armeno nel più ampio quadro della storia della grande guerra, un tema che attende ancora di essere indagato compiutamente e che si configura sempre di più come uno dei drammatici esiti del conflitto stesso. L’attenzione è stata posta in maniera particolare alle «politiche» condotte dai governi, mentre, salvo poche eccezioni,è stato dato spazio ai soldati, agli occupati, ai prigionieri, alle vittime dello sterminio, mutando quindi l’angolo visuale nell’esame del problema della violenza. Per alcuni versi se è vero che il 1914-15 segna un deciso punto di svolta – militare ma anche culturale – dell’intensificazione della violenza bellica, è altresì vero che nell’analisi dei vari settori - in particolare quello orientale - tale periodizzazione risulti sì valida per quanto riguarda gli effetti ma non nelle cause/modalità, tanto da risultare necessaria una collocazione degli eventi bellici in un quadro più ampio che risalga sino alle guerre balcaniche. Il convegno, incentrato sul tema della violenza bellica, sulle modalità e gli obbiettivi della stessa, ha eluso tuttavia l’interrogativo principale ovvero perché i soldati, gli uomini uccidono? Quali sono le strutture, le motivazioni e le condizioni che spingono e consentono tali atrocità? Matteo Ermacora 4