Il diritto ei diritti: origine, finalità e loro riconoscimento

annuncio pubblicitario
Ferrara, 22 gennaio 2014
Il diritto e i diritti: origine, finalità e loro
riconoscimento
- Relazione di S. E. Monsignor Luigi Negri -
Il Diritto non può non considerare alcuni nodi fondamentali della vita della persona,
della famiglia, della società e delle istituzioni e l’ho messo in questo ordine perché la
fonte del diritto non è nelle istituzioni. La fonte del diritto è nella coscienza della
persona e del popolo.
Il diritto dovrebbe costruire una trama preziosa e virtuosa, di strutture, di dettati che
rendano possibile la difesa del diritto. O meglio la difesa dei diritti, perché io ritengo
che il diritto abbia come preoccupazione fondamentale il riconoscimento, la
promozione e l’ordinato svolgimento dei diritti della persona e della società. La
condizione fondamentale per questa difesa e promozione sta nel confronto tra diritti e
doveri. Il diritto pertanto deve descrivere lo spazio anche normativo in cui diritti e
doveri collaborano a un ideale che supera il puro riconoscimento dei diritti e la pura
elencazione dei doveri per rendere possibile l’incremento di un’esperienza di libertà
adeguata. Il diritto è per la libertà. Il diritto è in funzione della libertà.
Allora per far questo ho fissato alcuni punti, alcune suggestioni, ma prima voglio dire
una cosa che può essere interessante, non so da quanti conosciuta. L’Ungheria che ha
raggiunto la conformazione di nazione e di Stato nel secolo XI, non ha avuto nessuna
legge scritta dal secolo XI fino alla invasione comunista, nessuna costituzione scritta.
La legge e la costituzione erano rappresentati da “Le esortazioni al figlio” che Re
Stefano aveva scritto per il figlio che si preparava a succedergli. Ed è qualche cosa di
straordinario, perché qui si vede che la legislazione ha il suo cuore in un’esperienza
di paternità e di figliolanza vissuta. Sono dei suggerimenti che il re dava a suo figlio,
invitandolo anche a far sì che questa esperienza da lui passasse a tutto il contesto del
popolo, o meglio, che la sua funzione di re sarebbe stata quella di difendere e di
promuovere questa esperienza di umanità buona.
Purtroppo il figlio morì prima di succedere al padre. Questo documento è stato
l’effettiva Costituzione, quella di cui si discute adesso anche a livello del diritto
internazionale accusandola di eccessivo integralismo. Quando ci fu l’invasione il
testo delle lettere de “Le esortazioni al figlio”, insieme alla corona di Santo Stefano,
attraverso l’imposizione della quale il re era costituito legittimo responsabile, furono
trasferiti, insieme al governo, in esilio a Londra e rimase lì fino alla caduta del
comunismo. Il primo gesto ufficiale della rinascita della democrazia in Ungheria, fu
la riposizione di questo testo nell’ambito del parlamento e la restituzione della corona
di Santo Stefano al primate d’Ungheria che aveva avuto sempre la responsabilità
d’incoronare il re.
Questo perché lo dico? Perché c’è un sostrato di vita con cui il diritto si deve
misurare. Non è un diritto adeguato se è auto-referenziale, se è autonomo, se è
autosufficiente. Un diritto che non si confronti rischia di rinchiudersi e di diventare
l’espressione di un potere non determinato dal riconoscimento popolare, ma che
finisce per imporsi. Ai tempi dei grandi feudatari inglesi, nello stesso periodo del re
Giovanni Senza Terra – re un po’ fasullo perché subiva il fratello che era in Terra
Santa per le crociate a cui misero di fronte il manifesto della “Magna Carta
Libertatum” cioè la difesa dei diritti delle realtà popolari, formatesi faticosamente nel
confronto/scontro tra etnie diverse (la lotta fra gli angli e i sassoni insanguinò almeno
per due secoli la vita di quella nazione che fu poi la nazione inglese) – ecco anche lì
si disse “il diritto deve misurarsi con”.
Questa è una prima osservazione generalissima, di cui adesso cercheremo di
ricostruire la traiettoria: al diritto appartiene il confronto con altro da sé e si potrebbe
dire che questa è un’analogia profonda con l’esperienza umana, perché anche
l’esperienza umana è un’esperienza autentica se l’uomo è in dialogo con altro da sé.
Un uomo chiuso in sé stesso non è neanche adeguatamente identificabile come
personalità umana. Questo mi ha sempre colpito tanto che quando insegnavo
“Introduzione alla teologia” in Cattolica, agli studenti che frequentavano il mio corso
a partire dalla Facoltà di Giurisprudenza, facevo sempre portare come testo a scelta,
“L’esortazione al figlio di Santo Stefano”.
Una prima osservazione generale che, se non ricordo male, collega quello che adesso
incominciamo ad aprire con quello che avevamo in qualche modo già individuato
negli altri incontri, è che non si può parlare né di diritti, né di Diritto. Il Diritto
difende i diritti. Si tratta poi di vedere a che titolo difende i diritti. Qual è la
legittimità del Diritto, perché il Diritto non nasce legittimo ma deve avere una sua
obiettiva legittimazione. Non esiste un diritto che non vincoli tutti coloro che si
riconoscono soggetti a questo diritto. Allora la prima osservazione ripropone la
questione antropologica. Se i diritti sono espressione della persona – e questa mi pare
una definizione su cui con una certa approssimazione si possa essere d’accordo tutti –
il problema diventa “Chi è la persona”, “Che cos’è la persona”, “A che condizioni
si pensa adeguatamente la persona”, “A che condizioni la persona adeguatamente
pensata può esprimere dei diritti”, “Può riconoscere di avere certi diritti e quindi
essere responsabile di esprimerli”? Cioè la grande questione antropologica. Non c’è
nessun discorso settoriale, per quanto poi la cultura sia fatta di ricerche settoriali e di
obiettivi settoriali che debbono e possono essere perseguiti attraverso metodologie
settoriali, c’è però una questione previa fondamentale: si possono affrontare le
questioni particolari se si ha di vista una questione sostanziale e universale. Dunque
dell’uomo si è tentato di dare una definizione adeguata e ahimè non è sempre stato
facile, perché questi tentativi di definire l’uomo nella sua umanità – così diceva
quando poneva la questione antropologica il Beato Giovanni Paolo II – emergono
differenze e contraddizioni. Per esempio si fa fatica a dare un’immagine chiara
dell’unità della persona. La persona che vive è evidentemente un’unità, è l’esperienza
di una unità. Ma quando si deve giustificare questa unità non è facile. Diceva San
Tommaso D’Aquino per affermare che la persona è una unità di dimensioni che
possono sembrare anche talvolta contrarie o contrastanti: “è la stessa persona, lo
stesso uomo che mangia, beve, veste panni e pensa Dio”. Indubbiamente il dualismo
ha teso a rendere difficile un’immagine adeguata d’uomo. L’uomo è spirito e materia,
come è esperienza della riflessione, non della riflessione soltanto filosofica, ma anche
della riflessione più immediata. È difficile pensare quale sia il fulcro, quanto meno si
deve pensare che ci sia fra i due fattori, un fattore che si impone sull’altro e che lo
governa. Ecco il grande passaggio antropologico che è stato certamente segnato dal
pensiero di San Tommaso d’Aquino e che vede la responsabilità positiva enorme
della tradizione cristiana: l’uomo è persona. Persona vuol dire unità di realtà che sono
distinte ma non confuse. L’anima, lo “spirito” e il “corpo”. L’anima non sta senza il
corpo, “Spiritus autem non est sine corpore”. Non c’è lo spirito senza il corpo, ma il
corpo non ha una sua giustificazione senza l’anima. La perdita del corpo non è la
perdita della totalità della persona umana.
Ecco su questo si è dibattuto molto, io credo che il pensiero greco si sia misurato con
questo problema senza trovare una adeguata soluzione. Dualismo metafisico,
dualismo antropologico.
Quindi difficoltà di individuare l’autentica identità dell’uomo e il luogo dove sta
l’autentica identità e i suoi diritti. I diritti sono l’espressione dell’identità. E questa mi
pare una definizione buona. I diritti dell’uomo, i diritti del padre, i diritti della madre,
i diritti del figlio, i diritti della famiglia, i diritti della vita familiare che si allarga e
diviene società: questi diritti sono l’espressione dell’identità. Dell’identità se ne vede
l’espressione prima di sapere dire che cosa sia veramente. La filosofia morale e greca
certamente ha scritto delle pagine significative sulla libertà come responsabilità,
sulla legge morale come inevitabile condizione dello sviluppo della personalità.
“Etica a Nicomaco”, la grande etica, e buona parte dei dialoghi di Platone, hanno
descritto i diritti in atto. L’espressione dei diritti umani. Non solo hanno descritto
l’espressione dei diritti umani, ma hanno anche descritto – come dire – il
confronto/scontro fra i diritti della persona per esempio i diritti della vita sociale.
Pensate a Socrate: Socrate è il martire di un’adeguata impostazione del problema dei
diritti umani a fronte di una struttura sociale e politica che reprime questa libertà.
Pensate alle grandi tragedie in cui il pensiero greco è andato descrivendo la tragedia
di una coscienza personale che viene negata da “la Ragione di Stato”. Però si è
lavorato molto, si è approfondito molto. Io credo che si possa fare credito, o
raccogliere, la grande lezione di Benedetto XVI soprattutto nella grande lezione
magistrale di Regensburg secondo cui la questione antropologica è quella
fondamentale. La questione antropologica significa identità e destino dell’uomo. E
siccome il destino si fa nella storia, nella storia di questa identità che vive, e questa
identità che vive ha di fronte delle precise responsabilità che deve assumersi,
l’assunzione dei propri diritti e l’obbedienza ai propri doveri costituisce l’espressione
normale dell’identità umana. Ora noi abbiamo avuto la grande lezione antropologica
che nasce secondo Benedetto XVI dal domandare greco, da questa continua apertura
della ragione a sfidare il mistero quindi ad andare a fondo del mistero che è insieme il
mistero dell’essere, il mistero di Dio e il mistero dell’uomo. Abbiamo, quindi, la
grande lezione del profetismo biblico. Benedetto XVI non equipara tutte le forme di
espressione della spiritualità ebraica, ma fa una scelta qualitativa. L’ebraismo è
innanzitutto il profetismo, e il profetismo è quello che riapre continuamente la
trascendenza dell’uomo su tutte le forme espressive dell’uomo. Il profeta è impegnato
contro l’idolatria. E l’idolatria è sempre il tentativo di ridurre l’uomo a un aspetto di
sé e quindi di consegnarlo poco o tanto ad una istanza che lo possiede. Il sacerdozio,
il rito, il potere e quant’altro. Dunque, il domandare greco, il profetismo biblico, la
tradizione cristiana. Alla fine io credo che si possa dire, attraverso un cammino
articolato, complesso, faticoso, in cui ci sono stati anche punti di confronto e anche di
dialettica, che la grande civiltà medioevale dal punto di vista teorico ha assicurato la
persona come una realtà irriducibile ad altro. Se non a Dio. L’uomo è persona perché
è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Essere fatti a immagine e somiglianza di
Dio, significa che nei confronti dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio,
nessuno può dire “tu mi appartieni”. L’uomo non è possesso di suo padre né di sua
madre. Non è possesso. La paternità e la maternità sono una funzione straordinaria, la
più alta funzione esistente sulla Terra, ma sono in funzione di Dio, della
comunicazione della vita, che solo Dio propizia. A maggior ragione la persona non è
a disposizione dello Stato, delle istituzioni, degli ambiti culturali, delle strutture
politiche, scientifiche o tecnologiche. Diceva Pascal – che è certamente una delle
personalità più straordinarie della nostra cultura cattolica e laica insieme – “l’uomo
supera infinitamente l’uomo.” Allora l’uomo è il soggetto della sua propria vita e
della storia, questa è la definizione che ne da Giovanni Paolo II nella “Redenptor
hominis” l’uomo è il soggetto della sua propria vita e della storia, ma l’uomo non è il
padrone della sua vita e della sua storia. Quindi l’uomo è teso a leggere il senso della
vita in un dialogo fra sé e ciò che lo eccede: è la definizione più antica di mistero.
Qualche cosa che precede e che eccede la storia dell’uomo. Allora l’uomo è un
lettore, è un interprete, è un esegeta della realtà. Non è un padrone. E in questa realtà
che legge, legge contemporaneamente il senso e l’articolarsi della sua vita e il senso è
l’articolarsi dell’essere di Dio. Dell’Essere.
Fermiamoci pure alla definizione più ampia di Dio che è quella che dobbiamo ad
Aristotele “l’atto puro”, l’atto della realtà che sussiste in modo autonomo “ipsum esse
subsistens”. Allora la vita è un dialogo fra l’uomo e la realtà, in questo dialogo tutto
ciò che l’uomo esprime, tutto ciò che l’uomo incontra, ha il carattere della scoperta e
dell’obbedienza.
L’essere è verità e nella verità l’uomo scopre, anche se approssimativamente, il senso
profondo della sua vita, ma questo essere che è verità esprime il volto di un ordine
etico, di una bontà. Esprime il volto di una giustizia, allora ecco la radice del diritto.
La radice del diritto è rintracciabile all’interno di questo dialogo. Il diritto è contenuto
privilegiato di un dialogo di cui la persona umana non è padrona. Come la verità
appartiene all’uomo pur non essendo prodotta dall’uomo; come il bene appartiene
all’uomo come grande e inesorabile esigenza del suo essere; così la giustizia
appartiene all’uomo come esperienza di un ordine: dell’ordine di sé con sé stesso,
dell’ordine di sé con gli altri uomini, dell’ordine con la realtà, dell’ordine col tempo e
con la storia. Ecco per dirla in termini esistenzialmente significativi, l’uomo che non
appartiene a sé stesso è in dialogo con la realtà. E scopre i valori più significativi
della sua vita in questo dialogo. Allora da questo punto di vista il diritto o la giustizia
sono equivalenti. Da questo punto di vista rigorosamente teorico, i due termini
possono essere assunti con una buona identificazione. La legge è sempre pensata in
questa sana antropologia come legge di Dio, come legge della natura, come legge
della storia e quindi come legge degli uomini. Non c’è una deduzione automatica, ma
c’è una compresenza, diciamo che c’è una analogia. La legge di Dio – che può essere
naturale o legge rivelata – costituisce l’intuizione profonda che la realtà è la realtà
umana, sociale e storica, e per essere veramente e autenticamente umana ha bisogno
dell’ordine.
Tale autentica antropologia è la base del diritto nelle varie forma di civiltà che si sono
succedute nella storia dell’Europa e quindi che sostanzialmente, con buona pace di
tutti, hanno influito in modo determinante anche sulle altre zone della società
internazionale, ad eccezione dell’oriente e dell’estremo oriente in cui questo tipo di
considerazione antropologica non è mai arrivata alla dignità della riflessione e che
spiega tante, tante fatiche e difficoltà. È perché manca l’esperienza di un’autentica
antropologia, che si può essere passati da un buddismo nichilistico a un comunismo
non meno nichilistico per popoli immensi come la Russia o la Cina.
Fermo restando l’eccezione difficilissima da comprendere, ma pure storicamente
inesorabile, che è l’esperienza islamica. Ma fuori da queste eccezioni storiche il filo
conduttore
della
riflessione
antropologica
è
stato
guidato
dall’occidente,
dall’occidente cristiano e laico insieme, con la centralità della persona umana, con
l’irriducibilità dell’uomo a qualsiasi istanza sua propria, o del contesto, e quindi con
la scoperta delle parole fondamentali di questa grammatica dell’uomo. La cultura
dell’occidente ha scritto una grammatica dell’uomo e una sintassi dell’uomo. E l’ha
scritta a partire dalla centralità della persona umana come soggetto autentico di vita e
di storia. Questa soggettività creatrice è tale perché l’uomo non si sente padrone, ma
si sente interlocutore – ho detto prima – interprete, esegeta del reale. L’uomo nella
sua coscienza, nel suo pensiero, nella sua ragione è chiamato non a inventare la
realtà, ma a leggerla e ad interpretarla ed a usarla in modo adeguato. Si potrebbe
leggere da questo punto di vista i due primi splendidi capitoli della “Genesi” per
rendersi conto che l’uomo è padrone della realtà perché figlio di Dio e intanto può
esercitare il suo dominio su tutte le cose, chiamarle per nome, ed essere, in qualche
modo, il vice Dio, perché non è Dio e perché riconosce che la radice ultima della sua
umanità non è la sua autonomia, ma la sua obbedienza da Dio. L’esito nefasto della
rottura originale è che l’uomo invece pretende di porsi al posto di Dio e con questo la
Bibbia rivela l’esito di tutto questo: l’inconsistenza dell’uomo. Nega Dio per essere
sé stesso, per mettersi al posto di Dio e l’esito è che perde la sua stessa consistenza
umana. E perde l’ordine della società. I capitoli dal IV all’XI della Genesi sono una
descrizione impietosa del disordine, nella vita familiare, nella vita sociale,
nell’applicazione delle regole, la lividura di uno viene compensata con l’uccisione di
decine, è descritta la società umana come purtroppo è stata ampiamente sperimentata
in questi millenni. Quindi i diritti si inseriscono come espressione di questo ordine
intuito. Di questo ordine intuito che si sente essenziale, si avverte come essenziale,
perché la personalità umana possa esprimersi adeguatamente. Nel mentre vengono
individuati i diritti che sono sentiti subito nella riflessione più alta della grecità, i
diritti della persona, diritti alla coscienza, alla libertà, diritti alla creatività, diritti alla
genitorialità, diritti alla mobilitazione della vita, diritti ad avere un certo peso nella
vita socio – politica. Pensiamo alla partecipazione allo Stato. Sono previste le
condizioni perché gli uomini liberi di Sparta, di Atene eccetera, siano anche
corresponsabili della vita politica. Certo questi diritti politici esercitati, intanto
possono essere esercitati perché sono diritti di una minoranza, di piccole minoranze
etniche-culturali. La maggior parte di tutti gli altri uomini, però, viene privata di
questi diritti per consentire a quelli che hanno questi diritti di poterli esercitare fino in
fondo. La grande e terribile separazione fra i Greci e i Barbari, che è stata una
divisione essenziale per la vita della grecità e della romanità. La grande divisione fra
schiavi e liberi, che è stata una condizione di carattere economico ratificata anche dal
diritto, perché consentiva l’ordine economico, l’ordine della vita sociale dal punto di
vista economico. Però i diritti sono l’espressione di questa identità. Leggendo sé, e
leggendo il mistero, diventando esegeta e interprete del mistero, la persona vede che
la sua vita e la sua personalità, è animata da certe responsabilità di espressione e di
obbedienza. Così la sua persona può essere adeguatamente riconosciuta ed attuata.
Quindi c’è una radice religiosa e antropologica dei diritti, per questo con buona pace
dello pseudo – diritto di oggi per millenni si sono sposati, non in chiesa cioè davanti
al parroco, ma il gesto che rendeva stabile la personalità dell’uomo e della donna e li
apriva a una responsabilità sociale aveva una caratteristica religiosa. Si sono sposati
davanti agli ufficiali di Stato civile dopo l’esperienza dello Stato illuministico e
l’impero bonapartiano. Prima di allora si sposavano davanti al padre di famiglia se
erano romani, si sposavano di fronte alla comunità religiosa e civile, ma non
pensavano che dovessero andare davanti al Granduca, neanche quello di Ferrara, per
farsi sposare. I Granduchi poi erano impegnati in ben altre cose che sposare la loro
popolazione. Ecco questo mi pare il primo filo conduttore. Il diritto appare allora
come l’insieme delle condizioni per rendere possibile il riconoscimento dei diritti e la
loro espressione, il riconoscimento dei doveri e la loro attuazione. Non nasce altrove
e bisognerà vedere quali sono le condizioni perché questo diritto non si muti
nell’opposto di sé. Il problema non è dove nasce il diritto, il diritto nasce nel cuore
dell’uomo. E il diritto nasce nel cuore dell’uomo che dialoga con la realtà che dialoga
col mistero. Lì nasce la verità, come il diritto. Il diritto dei diritti è il diritto alla verità.
E quindi sostanzialmente i diritti sono inesorabili espressioni di una personalità che
ha una sua autosufficienza non nel senso ontologico, ma nel senso etico. Io non mi
son fatto da solo, ma mi posso esprimere con totale responsabilità, la mia non è
un’autosufficienza ontologica, vengo da altro e vado verso altro, ma dopo che accetto
di venire da altro e di andare verso altro, lo spazio della mia storia dipende dalla mia
responsabilità. Non è la mia responsabilità che mi fa. Ma è la mia responsabilità che
matura. Ecco perché la vita, che è comunque un dono, una gratuità ha bisogno per
svolgersi di una responsabilità. Mettere al mondo i figli e non educarli è
assolutamente disumano. Il vertice della paternità e della maternità non sta nella
paternità e nella maternità genitale, ma nella capacità educativa.
Questo è il primo filone. Questo è un filone prezioso che deve essere recuperato a
fronte di un tecnicismo nel modo di affrontare il diritto. Ma è il tecnicismo nel modo
di affrontare la medicina, è il tecnicismo nel modo di affermare l’educazione, perché
l’educazione invece di situarla dentro questo cammino, la fate diventare come è
diventata nelle cosiddette scuole moderne, semplicemente l’incremento di cognizioni
umanistiche, tecnico-scientifiche che hanno come obiettivo l’istruzione, allora noi
perdiamo una grande occasione di educazione com’è testimoniato dalla condizione di
vita dalla maggior parte dei giovani della nostra società. Se ha votato l’80% è
democrazia anche se si è votato l’incesto. Mi spiego? Perché la sostanza della
democrazia è la sua radicazione nella vita del popolo e il suo confronto con la vita del
popolo, non è la sovrapposizione alla vita del popolo. Hannah Arend (Linden, 14
ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975, filosofa, storica e scrittrice tedesca
naturalizzata statunitense) ha parlato di “democrazia totalitaria”.
Ho grande rispetto, ma non posso dire che Hannah Arendt sia della mia
parrocchia, eppure Hannah Arendt ha fatto un esame impietoso di una
democrazia che, ridotta a pura procedura, diventa totalitarismo.
Dopo la premessa sulla questione antropologica ho tentato di leggere il
problema dei diritti e del diritto dentro questa ripresa di antropologia: il Papa
Giovanni Paolo II l’avrebbe chiamata antropologia adeguata, antropologia che
tiene il passo con la realtà. L’uomo totalmente perfetto non è un dato
antropologico, è una farneticazione che è costata milioni di morti. L’uomo
totalmente cattivo, negativo, irredimibile è un’altra farneticazione e, guarda
caso, l’uomo perfetto e l’uomo totalmente negativo hanno bisogno entrambi di
uno stato forte che li tenga sottomessi e che li cambi, per cui razionalismo e
protestantesimo fanno nasce il totalitarismo moderno.
Terzo passaggio. Il primo punto è la premessa. Il primo punto ha individuato le
linee di questa antropologia per cui i diritti esprimono la personalità e vengono
intuiti all’interno di questa esegesi del reale. L’uomo esegeta del mistero,
esegeta di sé ed esegeta di Dio. Esegeta della realtà. Non “fai” ma “leggi ciò che
è” e “fai ciò che leggi” “ascolta ciò che ti viene detto” e “abbi la forza di fare
quello che ti è stato detto”. Questo è l’uomo. Questo si espliciterà al massimo
nella tradizione cristiana, ma non è necessario, io sto utilizzando in questo primo
punto un uso corretto della ragione, che non vuole ingabbiare il reale o produrlo,
vuole leggerlo.
La cosa si complica gravissimamente per l’uomo, sotto tutti gli aspetti ma,
soprattutto, per quello che è l’oggetto del nostro lavoro di oggi. Viene a galla nel
corso della storia un’altra antropologia, un’altra concezione dell’uomo, che
risulta velocemente vincente. Vincente perché più immediatamente a contatto
non con le esigenze dell’uomo, ma con il potere dell’uomo. È l’antropologia
diremmo “antropocentrica” che mette l’uomo al centro della realtà e che non
riconosce altro nella realtà se non l’uomo e la realtà come oggetto di
conoscenza, di manipolazione. La realtà fuori dell’uomo esiste per essere
ricondotta all’uomo. Per poco che abbiate avuto frequentazioni con la filosofia o
con la storia della filosofia (nonostante il livello sempre più basso
dell’insegnamento della stessa nelle nostre scuole), l’idealismo rappresenta
questo principio fondamentale, la realtà esiste per essere ricompresa nell’uomo,
per cui l’oggetto esiste perché diventa parte del soggetto. Questo a tutti i livelli.
Livello etico vuol dire che l’altro è a disposizione mia, si chiami moglie, si
chiami figlio, si chiami collega, si chiami nemico. La guerra che è diventata la
grande – come dire – genesi positiva di tutte le questioni, mette d’accordo
Martinetti, Mussolini, Hitler, tutti quelli che hanno avuto questa concezione
deviata dell’uomo. L’altro, l’oggetto non è da leggere, da interpretare e da
comprendere. L’altro è da dominare. Modi diversi di dominio, ma pur sempre di
dominio. Ecco perché la famiglia tende a scomparire, perché la famiglia in una
struttura
come
quella
di
un’antropologia
sostanzialmente
egoistica
rappresenterebbe un tipo di gratuità incomprensibile, non assimilabile. Io non mi
devo misurare con l’altro. Devo vedere quanto benessere devo ricavare
dall’altro. E quando non ci ricavo più un benessere adeguato, sia di carattere
economico, sia psicologico, affettivo e anche sessuale, allora non ci sono più
ragioni per mantenere in vita il rapporto, che, per la verità, non è neanche un
rapporto, perché il rapporto implica l’apertura di un me a un altro sentito come
me, non per una identità astratta, ma per una scelta morale “Ama il prossimo tuo
come te stesso”.
Ecco, allora, che compare nella storia della cultura, e quindi della società, un tipo di
antropologia che parla di tutte le cose di cui parlava l’antica antropologia, ma con una
versione nuova, è questo secondo me l’aspetto acutissimo di studi anche specifici. Si
parla di diritti come espressioni della soggettività, cioè espressioni del potere
dell’individuo. Che l’individuo possa, si dimostra dal fatto che ha certi diritti e che
deve essere in grado di esprimere questi diritti in modo totale ed incondizionato. Ecco
che allora, nel pensiero moderno contemporaneo, il diritto e i diritti individuali
contestano la legge. La legge non è la condizione per riconoscere i propri diritti ed
esercitarli in sintonia con i propri doveri. La legge ha un condizionamento negativo,
per Kant “l’uomo diventa sé stesso perché supera ogni condizionamento legale”,
quindi si parla ancora di diritti, ma sono diritti che hanno una contestualizzazione
diversa. La soggettività individuale è caratterizzata dal potere e, per ciò, pensa e vive
i diritti come espressione del potere. Non è più l’uomo esegeta dell’essere, è l’uomo
padrone dell’essere, che esprime questo suo padronato attraverso l’espressione di
questi diritti che vengono individuati in maniera esaustiva nella pratica tacitazione dei
doveri, che sono normalmente correlati. Questa correlazione diritti – doveri, non ha
più il carattere di una riflessione ontologica ed etica che si chiede se esistono i doveri
e come esistono. Le società che nascono da concezioni antropologiche che sono così
radicalmente libertarie poi, creano strutture politiche che riempiono i popoli di
doveri. E di doveri che non si possono discutere, se non a caro prezzo. Per esempio,
pagandoli con la privazione della libertà, quanto non con la privazione della vita. Una
considerazione: sarebbe superficiale ed irrealistico non rendersi conto che dietro ad
una parola come “diritto”, dietro a domande su come e dove nasce il diritto, quali
sono le fonti del diritto, quali sono i limiti del diritto, esiste una dialettica, la dialettica
fra una concezione antropologica aperta e una concezione antropologica chiusa
nell’affermazione dell’assolutezza della persona umana. E questo viene a galla in
tutto. In tutto. Perché viene a galla innanzitutto immediatamente nel tentativo di
rispondere a domande come “perché il diritto?” e “come” i diritti personali, familiari,
sociali possano essere esercitati adeguatamente. Quindi il diritto è un insieme di
condizioni di tutela, d’incremento e di correzione. Perché si ottenga altro che
l’affermazione incondizionata del diritto. Non è incondizionato il diritto è
incondizionato l’obiettivo. E l’obiettivo è di fronte a tutti e si capisce se viene
realizzato o no, perché si capisce se la persona viene incrementata nella sua umanità o
se la sua umanità viene depressa. Quindi, questo, secondo me è un aspetto
interessantissimo da dibattere. Il peso di una antropologia o di un'altra o se volete
addirittura l’intersecarsi di una antropologia e di un’altra – come dire – è il punto che
rende particolarmente faticoso per me il recupero di certe nozioni fondamentali che
per secoli sono state assolutamente chiare. Non è che io stia suggerendo che si deve
semplicemente tornare al passato che non si può mai fare nulla. Vi sto dicendo
piuttosto che, nell’affronto dei problemi relativi ai diritti, al diritto e, quindi, alle
norme, quello che si deve considerare oggi è che c’è una compresenza, c’è un
pluralismo assolutista. È un pluralismo che rischia di modificare le caratteristiche
fondamentali e i contenuti fondamentali dei termini che si usano. Una società in cui
non si faccia posto in maniera determinante alla priorità della persona ed ai suoi
diritti fondamentali, personali e sociali non può creare un diritto adeguato. D’altra
parte un’antropologia e una società che nasca da un’antropologia adeguata, che non
arrivi a determinare oggettivamente le condizioni, le regole e gli strumenti perché
l’esercizio dei propri diritti possa essere attuato con il massimo di responsabilità e
con il massimo di ordine è una società barbarica, è una società inevoluta. Allora la
questione mi pare essere oggi questa. E mi pare una grande sfida. Forse la sfida che
ha di fronte la nostra società, non soltanto per questo problema, ma certamente anche
e forse soprattutto per questo problema. A quali condizioni non far prevalere in modo
ideologico nessuna delle due posizioni? A quali condizioni aprire un dibattito che
valorizzi degli aspetti positivi di queste prospettive antropologiche di fondo senza
sancirne egemonicamente il privilegio dell’una sull’altra? E questo, io credo che sia
una grande sfida. Perché indubbiamente chi difende una concezione antropologia,
diciamo tradizionale – tanto per intenderci – può correre la tentazione che si passi da
questa posizione alle strutture normative quasi meccanicamente. Dall’altra una
concezione antropologica di tipo alternativo alla prima tende a pensare al diritto come
espressione di forze, di forze sociali, di forze politiche. Il diritto nasce dalla forza di
chi ha in mano il potere. “I fatti politici hanno la forma del potere” è una tesi del
liberalismo antico condannata dal Beato Pio IX nel “Syllabus”, che seguiva
l’enciclica Quanta Cura del 1864. Il diritto è l’espressione delle forze che guidano la
società. È funzionale a questo potere e da al potere strumenti di carattere positivo e
coercitivo che regolano la vita della società molto di più come una soggezione che
come un’espressione libera dei loro diritti, ma questo è. Se la base del diritto è il
dialogo fra l’uomo e la realtà c’è un’immagine per cui la persona è al centro e diventa
oggetto di un rispetto assoluto. “Tratta l’altro diverso da te come te” come portatore
di un mistero che tu non riesci a dominare. È l’espressione non di un padre della
Chiesa, ma di Emanuele Kant. Se invece alla base attiva, propositiva – direi –
costruttiva dal punto di vista teorico-pratico c’è la concezione per cui l’antropologia è
un’antropologia dell’individuo, degli individui associati che vivono ed esercitano un
certo potere, il diritto nasce lì. Il diritto non nasce dalle istituzioni. Il diritto nasce
dalla vita del popolo. Le istituzioni lo leggono e lo esplicitano, lo promulgano. Ma è
inevitabile che il diritto nelle sue articolazioni fondamentali ha bisogno
necessariamente di una dialettica con la cultura, con le tradizioni, con le istituzioni di
un paese. E quindi va sempre verificato se le norme nuove, che vengono individuate
o promulgate, siano in linea con ciò che un popolo ritiene come parte essenziale e
irrinunciabile del proprio paese.
Vi faccio un esempio concreto: se voi leggete la storia dell’Ungheria moderna vedete
che i testi che hanno studiato durante il periodo comunista erano scritti da russi, ma i
testi ufficiali della cultura ungherese fanno finire lo stato ungherese nel 1948 e lo
fanno rinascere nel 1989. Perché? Perché mancava, secondo l’interpretazione tipica
dell’antropologia, ciò che l’Ungheria aveva ereditato da secoli di tradizione cristiana,
mancava quel fondamentale confronto tra le nuove istituzioni e la vita, le esigenze, i
valori del popolo. Il riferimento al popolo, alla tradizione e alla cultura popolare è
inevitabile per un diritto che voglia essere a servizio dello sviluppo organico della
persona e di tutte le realtà nelle quali, secondo la nostra costituzione, la persona
intende realizzare la sua personalità, prime fra tutte la famiglia. Ma se manca questo
confronto il diritto si rattrappisce e finisce per essere espressione meccanica e ,in
qualche modo, tecnica, di centri di potere che non hanno una legittimazione popolare.
Possono essere stati votati, ma la legittimazione popolare non è semplicemente una
legittimazione procedurale. È una legittimazione morale e culturale. Ecco io non
posso suggerire altro che questo, però questo mi pare un punto di vista che deve
essere approfondito. Noi dovremmo dare un contributo a costruire un crogiuolo di
quelle differenze che sono alle nostre spalle e individuare una linea di percezione del
diritto che serva all’ordine dell’uomo, all’ordine della persona, all’ordine della
società e che quindi costituisca l’insieme delle condizioni per cui la persona, messa al
centro della vita sociale, venga garantita nella individuazione dei suoi diritti,
nell’esercizio dei suoi diritti, nell’assunzione responsabile dei propri doveri, per la
creazione di quelle forme di vita di cui si arricchisce la società. E questo perché la
società non è un insieme di individui governati dalle istituzioni, per esempio statali, la
società è un insieme di eventi di vita, di storia, di cultura, di opzioni, di vita religiosa,
culturale e quant’altro che le istituzioni debbono servire. Il diritto è forma eminente
di questo servizio. Le due forme eminenti del servizio alla società sono: la politica,
nel senso vasto, definita da Papa Paolo VI come “forma esigente di carità” , e il
diritto, perché in modi diversi ma convergenti, la politica, nel senso proprio del
dibattito politico, del confronto politico, dello scontro, della dialettica politica,
consente alla società di esprimersi nelle sue articolazioni, e il diritto, di conseguenza,
serve questa libertà. Il diritto impedisce la sopraffazione degli uni sugli altri,
impedisce la sopraffazione dei diritti sui doveri o dei doveri sui diritti. I diritti sui
doveri significa la libertà come licenza. La sopraffazione dei doveri sui diritti implica
la perdita della libertà sociale.
Io faccio fatica a pensare che tutte le questioni relative allo sviluppo giuridico della
nostra società si debbano fermare agli aspetti tecnici. Gli aspetti tecnici implicano
anche la ripresa di queste tematiche che devono essere rilette e riformulate. Io penso
che la sfida che il pensiero giuridico riceve oggi consiste nel pensare in modo nuovo
le cose antiche. Tutte le cose antiche, anche quella forma di antichità che è la
modernità e che ha prodotto tanti problemi, perché è diventata antichità anch’essa,
ma che non può essere bypassata.
Ultima osservazione. Da questo punto di vista, e credo di aprire qui una questione che
forse dovremmo affrontare a suo tempo, va introdotto il concetto di “bene comune”,
perché in fondo la vita sociale, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue strutture, deve
aver di mira una cosa: il bene comune. Il bene comune della persona e delle realtà
sociali che nascono dalla persona, dal suo sacrificio, dalla sua fatica, dal suo lavoro,
dalla sua lotta. Ecco allora che il tecnicismo è sempre un fenomeno di astrazione. Il
tecnicismo è sempre un fenomeno di responsabilità. La legge non è una tecnica che si
deve applicare in modo meccanico e schematico. La legge è un’indicazione di
comportamenti normativi, ma che devono essere applicati a situazioni personali, e le
situazioni personali possono esigere non le eccezioni ma le modulazioni diverse di
diritti, di diritti che sono indicazioni normative. Insomma il “bene comune”
conferisce alla vita sociale un aspetto di “ethos”, di etica. Il tecnicismo riduce la vita
sociale a una serie di meccanismi che sono purtroppo in mano a chi possiede il
meccanismo. La vita sociale è una vita che liberamente sale dal basso, dall’impegno
della persona, della famiglia e tende ad esprimersi in una varietà di forme e di modi e
il diritto deve consentire che questo cammino, che questo sviluppo, sia fatto con il
massimo rispetto per la persona, per ciò che la persona crea, e deve chiedere alla
persona il sacrificio di non imporre il proprio punto di vista a nessuno. Il proprio
punto di vista deve essere testimoniato, ma non può essere imposto a nessuno. E'
una sfida grande. Mi auguro di avervi dato qualche spunto per un cammino che
dovete fare voi. Perché io, purtroppo per me, faccio un altro lavoro – dico purtroppo
per me perché è molto faticoso – ma ritengo che sia questa fatica che lo rende
affascinante. Ogni lavoro diventa affascinante se viene situato nel momento
antropologico e sociale in cui si vive. Un lavoro qualsiasi, anche il più grande,
diventa assolutamente sterile se viene – come dire – stralciato.
Concludo con un episodio che ha segnato la mia vita in maniera straordinaria.
Trent’anni fa, forse di più, alla fine di un anno accademico un mio allievo mi dice:
“mi hanno invitato ad andare a fare la specializzazione a Houston.” Perché era un
cardiologo e Houston è sempre stato un centro medico molto importante. Ho detto:
“Bravo! Vai. Vai. Beato te che vai a Houston.” Dopo due giorni mi arriva una
telefonata e mi dice: “Don Negri, torno indietro.” – “Eh! - gli ho detto - “sei appena
arrivato. Cosa vuol dire tornare indietro?” – “No. Ma qui, don Negri, sono matti!!
Qui non vediamo neanche il malato. Non sappiamo come si chiama. Noi vediamo il
caso, un numero, e il protocollo da applicare. E poi dobbiamo seguire l’attuarsi del
protocollo. E se finisce male, finisce male.” Ho detto: “Ma una persona è più grande
delle condizioni. Cerca di parlare. Una volta esprimi il desiderio di
vedere i
pazienti” insomma la sua presenza di cristiano – credo che adesso abbia un incarico
di primo livello e quindi deve essere bravo – e il suo modo non tecnico ha creato
dentro lui una realtà che ha messo un po’ in crisi il tecnicismo che dominava. Io
penso che in tutti gli ambienti e per tutti i lavori – credo anche per chi vende la frutta
– queste cose siano necessarie. E necessario un riscatto di umanità. È quello che ho
tentato di favorire, sperando di esserci riuscito. Grazie.
Scarica