Suggestioni sparse sull`impresa indiana di Alessandro Magno

Come è stato giustamente osservato la storia di Alessandro Magno in India attende ancora di essere
scritta. Nondimeno nulla impedisce di ricrearne alcune storie, magari il più possibile significative ed
essenziali.
L’invasione alessandrina dell’India si può collocare con una buona dose di precisione nel 328 a.C.
Sono ormai 6 anni che Alessandro ha lasciato il sicuro suolo della Macedonia per mettere in pratica
il suo sogno mostruoso, ovvero quello di conquistare il Mondo. Sotto il proposito di vendicare i torti
subiti dai Greci da parte dei Persiani più di 100 anni prima si nascondeva, neanche troppo
celatamente, il proposito di una personalità unica ed irripetibile, che intendeva fondere Occidente e
Oriente, in qualcosa che non era mai esistito prima. Così, dopo migliaia di chilometri, aver annesso
l’Impero Persiano ed aver fondato una dozzina di Alessandrie, il Conquistatore giunge finalmente
sulle rive del fiume Indo, da sempre porta d’ingresso del subcontinente indiano. Lo oltrepassa, sulla
scorta dei mitici passaggi di Dioniso ed Eracle sulle cui figure Alessandro per vari versi ha modellato
la sua esistenza e la sua iconografia e ai quali non hanno mancato di associarlo i suoi amici più
stretti, i suoi soldati ed i suoi sudditi, sia in vita che dopo la sua precocissima morte. E proprio le
tracce delle incursioni indiane di Dioniso ed Eracle, alle quali si aggiungevano forse anche quelle di
Giasone e Teseo, erano così presenti sullo sfondo della mitologia greca, che probabilmente
costituirono argomento quotidiano nelle lezioni che Aristotele teneva al giovane Alessandro, facendo
nascere in lui quelle idee che poi svilupperà una volta incoronato re al posto del padre Filippo, morto
assassinato. A loro volta forse, e qui entriamo nel campo delle suggestioni dello scrivente come da
titolo dell’articolo, tali mitiche imprese erano echi di una ancor più ancestrale calata nelle verdi
pianure del Gange da parte di tribù arie o indoeuropee (ma ovviamente non ancora tali, visto che
avranno ragione di acquisire il prefisso –indo solo in successione alla colonizzazione, appunto, dei
territori indiani…). Tale trasbordo, si badi bene, non rientra nelle suggestioni di prima, ma è un fatto
storicamente accertato, seppure difficilmente databile ma comunque inquadrabile tra il IV e il II
millennio a.C. Tali popolazioni (nello specifico il ramo occidentale dalle famiglia indoeuropea)
costituiscono i più diretti ascendenti degli attuali abitanti autoctoni dell’Europa, che talaltro
condividono per questo anche un origine linguistica comune, fatta eccezione per poche isole
alloglotte. E se ciò è vero oggi, lo era ancor di più ai tempi di Alessandro Magno. Alla luce di tali
ragionamenti, si può legittimamente interpretare l’avanzata di Iskandar (così lo chiamavano i suoi
nemici Persiani) verso Oriente per la sua storia individuale una scoperta degli ignoti confini del
Mondo (ai quali per l’ammutinamento dei suoi non arrivò mai) ma per vicende più grandi di lui fu il
ritorno verso luoghi già conosciuti dalla sua stirpe ancestrale, e che aveva in essi lasciato dei segni
come vedremo.
Quando gli Eteri dopo i lunghi attraversamenti dei deserti della Battriana e della Sogdiana
ritrovarono in India le verdi foglie dell’edera rimasero commossi ed incantati; non era solo il ricordo
di casa che li spingeva a raccoglierle e a farne ghirlande, l’edera infatti era la pianta di Dioniso.
Sorella della vite, simbolo anch’essa della suprema conoscenza e sacra al dio, per il mito ricopriva il
fatale monte che aveva dato i natali al figlio di Zeus, la montagna Meros. Il Meros, che in greco
significa coscia, veniva associato dagli Indiani, che ricordavano anche loro il passaggio di Dioniso, al
monte Meru, che aveva la sommità più larga della base, proprio come una coscia umana. Questi
riferimenti erano legati alla leggenda secondo la quale la madre di Dioniso, Semele, combusta dal
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fuoco prodotto dal fulmine di Zeus non poté portare a termine la gravidanza e allora Zeus si cucì il
feto nella coscia di una gamba. Tale montagna sarà poi identificata con la vetta himalayana Kailasha,
fortemente simbolica e sacra a vari culti euroasiatici. E’ poi forte di molteplici assonanze il
parallelismo tra Dioniso e Shiva, divinità induista, il cui pantheon si situa a pieno titolo tra quelli
indoeuropei: oltre ad aver entrambi la montagna cosmica come sede elettiva, li accomuna il
simbolismo del toro e soprattutto l’uso del vino come sostanza inebriante durante i riti. Non è
difficile immaginare lo stupore dei Macedoni giunti ai confini delle terre da loro conosciute quando
rilevarono tali analogie tra una delle principali manifestazioni tantriche e quello che per i misteri
dionisiaci ed orfici doveva essere il sesto sovrano del Mondo, il successore di Zeus.
Nella città di Tassila, prima della battaglia campale dell’Idaspè contro Poro ed i suoi elefanti,
Onecrisito, un luogotenente di Alessandro mandato in avanscoperta del re fece la conoscenza di
saggi yogi, Calano e Mandani, passati alla storia come i gimnosofisti. Praticavano pratiche ascetiche
e discutevano di filosofia nudi alternando esercizi fisici, mangiando su una gamba sola. Il Greco,
discepolo di Diogene di Sinope il cinico, ravvisò delle corrispondenze tra i dettami del suo maestro e
le asserzioni di Mandani: in particolare la distinzione tra convenzioni e natura (nomos e physis), e il
rifiuto delle prime a favore della seconda, che è idea tipicamente cinica. La vita migliore, la più felice
e la più virtuosa è per i cinici la vita secondo natura e non secondo convenzione. Tale felicità poteva
essere raggiunta tramite l’autosufficienza (autarchia) ottenuta da una condotta virtuosa (aretè). Il
metodo per esercitare la virtù è segnato da ‘esercizio’ (àskesis) e ‘fatica’ (pònos) e deve servire a
temprare il corpo ai disagi imposti dalla natura e lo spirito a dominare piaceri e dolori. Balza agli
occhi la simmetria con le pratiche ascetiche dei gimnosofisti. Uno di loro, Calano, riconoscendo
Alessandro come vero filosofo in armi lo seguirà nel suo viaggio a ritroso verso Occidente e morirà
ponendosi volontariamente su di una pira a Babilonia, accortosi di essere affetto di un male
incurabile e degenerativo e non volendo vivere impedito alla pienezza di sé. Aveva fatto in tempo
però a mostrare al figlio di Filippo come doveva reggere il suo impero: gettato a terra un pezzo di
cuoio raggrinzito, ne pestò una parte ad un’estremità e questa si abbassò, facendo sollevare il lembo
opposto, quindi ripetendo l’operazione sugli altri lembi ottenne lo stesso effetto, fino a quando
calcatolo nel mezzo ne fece star ferme tutte le parti. Così dimostrò ad Alessandro che era meglio per
lui starsene al centro dell’impero senza allontanarsene troppo. I magi indiani influenzarono anche
Pirrone di Elide, civile al seguito della spedizione militare, che introdusse per primo in Grecia i
concetti di acatalessia (inconoscibilità della vera natura delle cose) e la sospensione del giudizio
(epoché), capisaldi della filosofia scettica. Una nota curiosa, ma che va oltre il mero colore: nel 1949
nell’isola di Ceylon vennero ordinati novizi due inglesi, Osbert Moore e Harold Musson. Si trattava di
ex ufficiali inglesi, di stanza in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, dove avevano potuto
conoscere ed apprezzare La dottrina del risveglio, opera del filosofo tradizionalista Julius Evola. Tale
scritto contribuì in modo decisivo alla loro conversione al buddismo (Musson tradusse in inglese il
libro di Evola). Nanamoli e Nanavira (questi i nuovi nomi presi dai due inglesi dopo l’ordinamento)
come Calano e Mandani, tutti incuriositi ed affascinati da culture provenienti da estremità
geografiche opposte ma con un substrato comune, assai più saldo di quanto si possa immaginare,
che
va
ben
al
di
là
degli
anodini
innamoramenti
new
age.
Il tragitto di Alessandro si concluderà sulle rive del fiume Beas. Non riuscirà mai a vedere la fine del
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mondo, quel fiume Oceano che secondo Aristotele avvolgeva tutte le terre emerse ed alimentava il
Nilo. Quello che in realtà era l’Oceano Indiano orientale rimarrà a soli 3 mesi di distanza ma
irraggiungibile per il fermo rifiuto delle truppe di Alessandro ad andare avanti. Più di 8 anni di
viaggio, 18mila chilometri percorsi ed infinite battaglie e massacri (il conto ufficiale ammontava a
750000 Asiatici uccisi) avevano estenuato i suoi uomini, che ormai profondamente diversi da come
erano partiti avevano ormai un solo desiderio, l’opposto di quello di Alessandro il Grande: tornare a
casa. Le terre irrigate dal Gange saranno reclamate da un emulo dichiarato di Alessandro,
Candragupta per i Greci Sandrocotto, che tre anni dopo la morte del Conquistatore deporrà Dhana
Nanda e controllerà un territorio che andava dalla capitale Palimbotra sino alle frontiere col Punjab.
Il successore asiatico di Alessandro, Seleuco, gli cederà in cambio di 500 elefanti le provincie
indiane assoggettate dal Macedone dopo il sanguinoso e mitico scontro con Poro. Sandrocotto
dichiarerà: “Quando era giovane, guardai Alessandro. Alessandro era stato sul punto di conquistare
tutta l’India, perché il suo re era oggetto di odio e di disprezzo, vuoi per il suo carattere, vuoi per i
suoi umili natali.” Parlava di Xandrame, che si diceva fosse figlio di un barbiere. Così, per i bisogni
umani, troppo umani del suo esercito, che cozzavano contro gli intenti finali alessandrini che erano a
ben vedere sovrannaturali, le leggende greche che parlavano di oro scavato da enormi formiche e
sorvegliato da grifoni, di uomini con un unico, gigantesco piede o di altri con le estremità inferiori
voltate al contrario, di alberi di lana, di unicorni rossi e di infinite ricchezze, rimasero leggende.
Alessandro morirà nel 323 a.C. a soli 33 anni senza averle potute verificare; tuttavia il Regno IndoGreco fondato da Demetrio I, portato alla massima espansione da Menandro I (il re buddista) e
animato dai discendenti dei Greci che avevano partecipato alla sua spedizione sopravvivrà fino al 10
d.C. e produrrà fino alle sue estreme propaggini quella che verrà chiamata arte greco-buddista, tra
le espressioni più significative dell’umanità antica. Le statue del Budda dal profilo nordico stanno
ancora lì a testimoniarlo. Possiamo solo immaginare che piega avrebbero preso gli eventi del mondo
antico se Alessandro avesse attraversato il Beas e seguito il Gange fino alla sua foce. Tutto ci
autorizza a pensare che non si sarebbe fermato neanche lì, fedele ai precetti divini e a quelli del suo
sangue.
Giovanni Pucci
Ereticamente
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