Schiavina, scarsella, cappello a falde rialzate,
bordone, zucca e sandali: ecco il look e l’equipaggiamento consono per chi, animato da un autentico spirito di fede e della più grande apirazione
dell’esistenza per un cristiano (raggiungere,
appunto, i grandi luoghi della cristianità) volesse
percorrere una delle tre “classiche” vie del cielo,
quella che porta a Roma, dopo Gerusalemme e
Santiago di Compostela. Sono le “Mille Miglia
della fede”, battezzate, tout court, nel Medioevo,
Cammini, o Sacre Mete. Servivano e servono
(un recente pellegrinaggio ripreso dai media
europei è avvenuto nel 1996) a ridare tempra e
fiato allo spirito e nello stesso tempo, a ritornare
al Medioevo, ai tempi rarefatti, ai silenzi, al dialogo con se stessi ed alla solidarietà con i compagni di strada. E, cosa che non guasta, su queste
“strade territorio”, che sono le vie romee, si
mette alla prova il proprio corpo, imponendogli
una vita dura ma sana e naturale.
La Via Francigena, o Francesca, ma pure
Francisca di cui andremo ad approfondire il
tratto lombardo, è stata dichiarata dal Consiglio
d’Europa “Itinerario culturale di valenza europea”. Attorno ad essa sono sorte diverse iniziative
ed aggregazioni culturali: dalla Confraternità
dei Romei della Francigena alla Compagnia di
Sigerico di Calendasco (Piacenza). È un tratto
di 1.800 chilometri che partendo da Canterbury,
attraversando la Francia appunto, (da qui il
nome), e poi la Svizzera, passando poi per Aosta
ed Ivrea, via Vercelli, Pavia e Piacenza, dopo il
passo della Cisa, arrivava a Roma. Se ne ha menzione in documenti già nel IX secolo ed indica
più che altro una grande direttrice, una specie di
“A1” di camminatori della fede alla ricerca della
perduta patria celeste. I simboli ed i contrassegni
erano la conchiglia per Santiago di Compostela,
la croce per Gerusalemme e la chiave per San
Pietro a Roma. Non occorrevano prenotazioni;
nelle “mansiones” o submansiones” più che negli
hospitii o ospitali c’era sempre un posto per il
pellegrino fosse esso abate o chierico, vagante
ricco o povero, mercante o cavaliere, chi a piedi
e chi a cavallo, mescolati fra carovane di asini e
muli che assieme alle materie prime, alle richieste
commodity del tempo trasportavano anche
reliquie che avevano un lucroso commercio.
Inviato speciale della Francigena, da cui attingeremo, è l’arcivescovo di Canturbury Sigerico, che
affida ad un diario i suoi spostamenti, una scarna
cronaca trascritta in appendice ad un elenco di
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DE FRANCIGENA
ESTRADA
DI
A NTONIO P ELLEGRINO
Nel Medio Evo, la Via Francigena era tra i più
importanti percorsi della fede. Partendo da
Canterbury, i pellegrini attraversavano la Francia
e la Svizzera; entravano in Italia da Aosta,
scendendo a Ivrea, Vercelli, Pavia, Piacenza;
superavano l’Appennino al Passo della Cisa,
e finalmente raggiungevano Roma. In particolare,
a Pavia e nella Lomellina...
papi del X secolo e conservato alla British Library
di Londra. Lo scopo della “peregrinatio ad Roma”
era il ritiro da papa Giovanni VI del “pallium”,
un semplice panno di lana con la croce nel
mezzo: l’investitura, insomma. Correva, si fa
per dire, assieme a Sigerico l’anno 990.
La Lombardia era uno snodo importantissimo ed
obbligato di questa crociera sacra, collocata come
si trova fra Nord e Sud dell’Europa, fra Occidente
ed Oriente. Ne verificava già la centralità il buon
G.C. Bascapè nel 1936 nel suo “Le vie dei pellegrini medioevali attraverso le Alpi centrali e la
pianura padana”. Dei 1.800 km di Francigena
(sembrano tanti ma sono poi non grandissima
cosa rispetto ai 76 mila chilometri dell’impianto
viario romano) ne prenderemo in considerazione
circa 110 da Vercelli a Piacenza. Partiamo da
Vercelli, la “Vercel” di Sigerico (XLIII tappa del
suo viaggio di ritorno, ma la Frithsaela di Nikulas
di Munkathvera (anno 1.154) abate del monastero
di tale località sceso dalla lontana Islanda più che
la Werzeas citata da Filippo Augusto II di ritorno
dalla terza crociata nel 1.191 ma anche la già a
noi più familiare Vercellis di tal pellegrino
Alberto. Attraversata la Sesia, ci si portava a
Palestro (dopo tre soli chilometri siamo già in
Lombardia) dove era una “domus infirmorum”
tenuta dall’Ordine ospitaliero di Sant’Antonio
di Vienne. Ma visto che stiamo seguendo le orme
di un anglosassone non dobbiamo dimenticare
che Vercelli aveva creato l’ospedale degli Scoti,
realizzato per ospitare appositamente i viaggiatori
provenienti dalle isole britanniche. Se vi dovesse
capitare di passare da Palestro nel giorno di
Pentecoste potreste imbattervi in chi vi offre
minestra, pane e vino (benedetti ovviamente):
sono i “nipotini” della Confraternita della Carità
di S. Spirito sorta un paio di secoli dopo il
passaggio di Sigerico. Il passo successivo ci porta
a Robbio (Retovium dei romani, Roable per
Filippo Augusto). Castello, maschio quadrangolare,
il dosso del ricetto, un ricovero per gli abitanti
in caso di scorrerie, assieme all’abbazia di san
Valeriano (IX sec.) e la chiesa in cotto di fattura
romanica sono i blasoni di questo centro spesso
coinvolto nelle lotte fra Vercelli e Pavia.
Visto che prima di approdare alla più nota
Mortara attraversiamo il contado passando
accanto al santuario di Santa Maria del Campo
(nota come Santa Maria della pertica nel 1.145)
ci possiamo domandare che tipo di paesaggio
videro gli occhi cerulei dell’abate ed arcivescovo.
Paesaggi della
collina pavese.
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Certo che quando Sigerico attraversò per due
volte la pianura padana, scrivono Giancarlo
Corbellini geografo e giornalista e Luigi Grazioli
segretario della Confraternità dei Romei nel
volume edito da Giorgio Mondadori “Cammino
Europa 1, la Via Francigena” 48 mila lire,
il paesaggio era ben diverso dall’odierno; le zone
abitate e coltivate, raccordate dalla Francigena
dovevano apparirgli come isole tra fitte foreste
e zone acquitrinose create dalle periodiche
esondazioni dei fiumi; naturalmente mancavano
sia i campi di mais che le risaie. Prima di entrare
in Mortara si passava a guado il torrente Agogna
a Cerreto Lomellina. In questa località esisteva
un ordine dei canonici (sede presso la chiesa di
Santa Croce) da cui dipendevano vari ospedali
lungo la Francigena. Blasonatissima (protostorica,
romana, franca e Longobarda con il nome di
“Pulchra Silvia”) Mortara diventa “Mortes”
per il re francese. Tutto parla di Francia da
queste parti, in primis l’abbazia di San Albino,
il monaco Albino Alkwin, consigliere di Carlo
Magno. “Fatal” Mortara fu, però, per Desiderio
re dei Longobardi qui sconfitto da Carlo Magno.
Tanto più amara fu la sconfitta per Desiderio in
quanto vi perse due dei suoi più cari paladini,
il coppiere Amelio ed il tesoriere Amico, Amelie
ed Ami, venerati come santi i cui corpi riposano
in due loculi rinvenuti nel 1929 sotto l’altare
della chiesa del monastero posto sotto la diretta
giurisdizione del papa e che ospitò celebri pellegrini come papa Giovanni VIII, San Francesco
d’Assisi, San Carlo Borromeo ed il già noto reale
pellegrino Filippo Augusto. Storia vera al 100%
o parte di leggenda pellegrina? “Naturalmente”,
scrivono gli autori de “Cammino Europa 1,
la Via Francigena” – Amelio ed amico non sono
mai esistiti; forse si trattava di pellegrini morti qui
per eccesso di fatica” Sempre corpi santi.
Che sia il caso di intitolare la toma al pellegrino
ignoto visto che qui su una parte del chiostro
qualcuno non ha dimenticato di lasciare il proprio
nome. Ce n’è uno datato 1.100. Purtroppo
San Albino per il forte degrado non è visitabile.
Lasciamo Casoni di Sant’Albino (abbiamo percorso
circa un quarto del tratto ) per affrontare i prossimi 35 km che ci distanziano da Pavia.
Dopo 12 km incontriamo Taomello dove ancor
oggi esiste un rione denominato Borghetto o
Dosso nel quale poteva sorgere l’ospizio di
Sigerico. (submansio XLII). Ed eccoci alla località
“capoluogo” della Lomellina, l’antica Laumellum
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Sotto: vedute della
campagna e della
collina pavese;
a fianco, il Ponte di
Pavia.
dei romani, citata già come mansio (stazione)
nel diario scritto da un anonimo pellegrino
del 33 di ritorno dalla Terrasanta, l’Itinerario
Burdigalense. A Lomello si sposarono, secondo
Paolo Diacono, Agilulfo e Teodolinda. Citiamo
nelle vicinanze Scaldasole (sculdasioulus per gli
studiosi, cioè terra di uno sculdascio o funzionario amministrativo) solo perché nella facciata
della chiesa parrocchiale notiamo una settecentesca statua di San Giacomo in veste di pellegrino.
Sono alle viste ora Garlasco e Groppello Cairoli,
sedi castellane di una certa importanza nel
Medioevo. Ad un chilometro da Garlasco si
segnala il santuario della Madonna della Bazzola,
meta del pellegrinaggio e così chiamato perché
era circondato da siepi di biancospino, in dialetto
bouslon, da cui Bosla). Dopo Groppello sarà il
caso di spiegare l’etimologia di un paese ormai
alle porte di Pavia, San Martino Siccomario
(chiesa del XII secolo dedicata al protettore dei
viandanti), ebbene l’attributo deriva da “Sicut
Mare”, come il mare, in quanto spesso e volentieri le sue campagne erano il campo di scorreria
del Ticino in piena. Ci siamo prima ancora
lasciati alle spalle Carbonara Ticino dove nel
1.090 i già citati canonici di Mortara avevano
installato un ospedale per pellegrini. Ed è subito
Pavia. “O tu che entri in queste mura/ e che
passi toccando il limitare della porta:/ piega
il ginocchio e dì:/ Salve o novella Roma”.
Così recita una lapide murata a Borgo Ticino,
porta d’ingresso di Pavia (Ticinum per i romani,
a Sigerico piaceva più come Pamphica) (XLI
mansio) e poi via via Papia, Papey, Pauie a
seconda dei vari cronisti medioevali, ex capitale
del regno longobardo e centro del governo del
regno Italico fino all’XI secolo, circondata da
mura giusto anno prima che vi mettesse piede
Sigerico, in quanto l’invasione degli Ungari
l’aveva provata. L’afflusso, spesso notevolissimo,
di pellegrini, lo deduciamo dai molti ospizi
costruiti per lo più fuori dalle mura a fianco
delle strade. Bascapè ci fa sapere che gli ospizi
dei Templari, dei Gerolosomitani (detti anche
Ospedalieri di San Giovanni), dei Lazzariti e di
Santa Maria in Betlem erano a Levante o a sud
presso la “Porta romana”, quelli di Sant’Antonio
nelle vicinanze. Invece quelli di San Giacomo,
per i pellegrini diretti in Galizia, o di Sant’Egidio
(per quelli che andavano al santuario di St. Gilles,
alle bocche del Rodano) erano situati a Nord o
a Occidente sulla strada appunto detta Francisca
o Francigena. Scrive Renato Stopani, autore di
molti studi sulla via francigena e sulle vie di
pellegrinaggio nel Medioevo in “Guida ai percorsi
della Francigena in Emilia e Lombardia”:
“I templari in Pavia avevano due case, San
Donnino de Templo e Sant’Eustachio in Verzano.
Erano inoltre presenti gli Ospitalieri di Sant’Antonio
di Vienne; c’era l’ospedale di Santa Maria dei
Bretoni, l’ospedale di San Matteo, l’ospedale di
Carità, San Colombanao, San Bartolomeo.
“Pavia poi anche come crocevia di santi.
Nel 1963, pochi anni prima dunque dell’arrivo di
Sigerico a Pavia, si incontrano tre famosi santi in
viaggio da o per Roma: Gerardo, vescovo di Toul,
Alberto di Praga e Maiolo, abate di Cluny.
Sembra che la città ne guadagnasse... in miracoli.
Sigerico vi arriva all’apice del suo fulgore.
Sempre a Pavia incrociamo la più antica via
del Monte Bordone, volgarizzazione del
Mons. Longobardorum, cioè l’attuale passo della
Cisa che serviva ad unire i regni longobardi del
Nord con quelli del sud senza dover incrociare i
bizzantini, ancora controllori di vaste aree strategiche. Bordone per sostenersi, la bisaccia in pelle
per il pane, la zucca come borraccia ed eventualmente la conchiglia per raccogliere l’acqua il
pellegrino dopo Pavia, passando per l’abitato di
San Pietro, puntava verso Piacenza attraverso
il porto fluviale Ad Padum di Corte Sant’Andrea
Calendasco. Sono 42 chilometri circa.
Si attraversano nell’ordine (rifacendosi un po’
alla via regia longobarda un po’ gli antichi
tracciati dalla Via levata) Motta San Damiano
(chiesa romanica con ospedale questa volta degli
Olivetani prima, e dell’Ordine di Malta, poi),
San Leonardo, Ospitaletto Linarolo (nome omen)
indi con una leggera disgressione, San Giacomo
della Cerreta o Cereda con il famoso oratorio di
San Giacomo, un autentico florilegio di immagini
del santo con la firma per alcuni nientemeno
che di Giovanni da Caminata (metà del 40).
Lo vediamo effigiato in bordone, mantellina
corta, cappello a larghe tese e classica conchiglia.
Per chi volesse visitare questo stupendo gioiellino
in cotto, un tempo con anche il vicino ospizio
per pellegrini, bisognerà rivolgersi al vicino bar
tabaccheria o attendere a fine luglio il giorno
della festa del Santo.
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La chiesa nel tempo è stata adibita anche ad
ospedale per colerosi e gli infermieri del tempo
prudentemente avevano provveduto a dare una
mano di bianco calce ai pregevoli affreschi.
L’ospizio era significativamente intitolato al
“barone per cui la giù si visita Galizia”. Veniamo
a Santa Margherita, indi a Belgioioso (dove fu
tenuto prigioniero Francesco I), attraversiamo il
fiume Olona e giungiamo a Corteolona, “vecchia”
“curtis regia” che gli imperatori carolingi, prima,
ed i re italici poi forse anche a motivo delle acque
termali di Miradolo, usarono come residenza
rurale tenendovi le assemblee del Regno e promulgandovi i loro capitolari (Renato Stopani). Un
paio di chilometri avanti troviamo Santa Cristina,
dove Sigerico segnala un punto di sosta e dove
una vicina abbazia ospitò il re Corradino di
Svezia. Santa Cristina è la quinta essenza del “villaggio strada”. La sua famosa, ed un tempo anche
ricchissima abazia, rientra nella politica dei monasteri attuata dai re longobardi allo scopo di creare,
lungo la Via del Monte Bordone, una catena di
luoghi di preghiera ma anche ospizi per i pellegrini. I monaci ebbero in dono terreni perfino sul
lago di Como, il castello di Chignolo e relativi
possedimenti. Furono fattoria monasteriale, ricetto
fortificato anche per i “famuli supersedentess”,
cioè i coloni vincolati. Anche di Corte
Sant’Andrea e del suo porto fluviale furono
padroni i frati di Santa Cristina. Sant’Andrea è
luogo di tappa sigericiano (Sce Andrea).
Nelle vicinanze è Bosco Cusani che lambisce
il padre “padus”. Dalla parte opposta troviamo
i terreni alluvionali del Po di Soprarivo e la
“fiera” Calendasco. C’è da guadagnare il Po.
Nel Medioevo era senz’altro più facile in quanto
esisteva un porto ed un servizio-navetta per i
pellegrini. Oggi bisogna provvedere con barche
proprie o far ricorso alla cortesia delle varie
società sportive o di battellieri. Alla attiva
Compagnia di Sigerico va il merito di aver
costruito sull’argine del fiume una colonna a testimonianza dell’itinerario dell’arcivescovo inglese.
Da questo “guado-traghetto” Sigerico è passato
sicuramente. La Francigena a proposito, attraversa
fiumi come la Marna, il Rodano, il Ticino, il Po
appunto e l’Arno. La Confraternita di Sigerico,
che tanto sta facendo per rivitalizzare la storia del
territorio non solo di Calendasco (ripristino del
guado, storia ed archeologia dei luoghi, studio del
latino volgare) ha la benemeranza di aver piazzato
una completa e compiuta segnaletica francigeniana
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così come aveva già fatto per il resto del territorio
emiliano la Compagnia della Via Francigena fondata nel 1965 a Sala Braganza (PR).
Naturalmente il Po ed il Tidone si sono presi le
loro libertà negli ultimi secoli. Una volta la confluenza nel Po era a Soprarivo e non a Boscone.
Oggi esiste un centro “Ricerche Ad Padum”
appunto, un toponimo sopravvisuto e ricordato
anche nella tavola Peuntingeriana. Siamo ad Ovest
di Calendasco che possiede ancora oggi oltre ad
un bel castello anche un convento romitorio risalente all’XI secolo. “Qui scrivono Corbellini e
Grazioli si trovavano sia il “portus qui dicitur
Lambro et Placentia” che la dogana di
Liutprando, il re che aveva concesso ai canonici
della cattedrale piacentina il pedaggio del
traghetto ed i diritti di fune. Era usanza dei
traghettatori celebrare ogni anno, in onore di
San Cristoforo, la benedizione del pepe, antidoto
contro la peste e le malattie infettive Prima di
arrivare alla “Placentia” del pellegrino Alberto,
alla “Plazinza” di Muntkathvera o alla “Plesance”
di Filippo Augusto bisognava imbarcarsi in un
altro guado (più facile) quello del Trebbia, oggi
pure ben segnalato. L’avranno certo fatto viandanti di Dio nel Nord più che i futuri crociati
chiamati a raccolta proprio qui a Piacenza da
Urbano V che vi bandì la prima Crociata.
Tutta gente ricca di una volontà di potenza
collettiva ed individuale, protesa al sacro (si provvedeva, prudentemente, a dimenticare le cose
terrene con un bel testamento prima del viaggio)
estranea a se stessa che, visivamente, già realizzava la Chiesa militante su questa Francigena,
una delle tante direttrici degli itinerari delle fede
europea. Le sacre vie erano “metafora dell’unità
delle Res-Publica christiana, una koinè di valori
globali, dove tutto era simbolicamente e misteriosamente raccolto nel tutto, dove la strada non
era solo un mezzo si comunicazione concreto”.
“Questi uomini avevano fra le loro provviste
anche e soprattutto il timor di Dio. Erano spinti
da quel clima fantastico di devozione profonda
che coinvolge la persona umana in tutti i suoi
aspetti siano essi spirituali, morali, intellettuali o
fisici. Li attendeva il ristoro che dà la fede in Dio;
li aspettavano delle Mete che davano Certezze.
Uomini intrepidi che viaggiavano dentro e fuori
del tempo; prima che sulle strade nella ricerca
interiore della propria anima. Li ricorda anche il
grande Dante che dice nella sua Vita Nuova
“chianmasi romei perché vanno a Roma”.
Sulle rive del
Ticino.
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