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Dalla chimica
dei veleni
al risanamento
ambientale
Roma, 9 gennaio 2002
Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
INDICE
Premessa
2
Le bonifiche tra Stati Uniti e Italia
5
Porto Marghera
8
Mantova
17
Brescia
20
Pieve Vergonte
23
Cengio e Saliceto
26
Cogoleto
29
Ferrara e Ravenna
31
Ascoli Piceno
34
Manfredonia
38
Brindisi
40
Crotone
46
Augusta - Priolo - Melilli
49
1
Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
PREMESSA
Una nuova normativa ispirata al "Superfund" americano, per far pagare alle aziende
inquinanti gli interi costi di bonifica delle aree contaminate da produzioni nocive o da rifiuti
tossici; la definizione di una lista di priorità che scadenzi gli interventi di risanamento delle
aree a rischio e crei le premesse per l'immediata chiusura degli impianti per i quali è ormai
accertata la pericolosità sanitaria, la delocalizzazione o la riconversione di quelli che hanno
comunque un elevato grado di inquinamento e impatto ambientale. La creazione di nuove
figure professionali, che offra anche una opportunità di riqualificazione per gli addetti del
settore impiegandoli nei lavori di messa in sicurezza e di recupero delle aree recuperate per la
messa in sicurezza e il risanamento delle aree contaminate.
Partendo dall'allarmante analisi che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha
realizzato su 15 aree ad elevato rischio di crisi ambientale, Legambiente ha presentato un
ventaglio di proposte per "passare dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale" e alla
sicurezza sanitaria per le popolazioni che vivono a ridosso di aree industriali o depositi di
sostanze a rischio e tutelare i lavoratori impiegati in produzioni che utilizzano sostanze
pericolose. Sia i dati dell'OMS che la predisposizione di questo pacchetto di interventi
richiesto dall'associazione ambientalista si inseriscono tra l'altro, in una gigantesca partita
giudiziaria che ha messo alla sbarra tutta la vecchia chimica. Sotto accusa la pericolosità
sanitaria di un tipo di produzione che, ormai non ci sono dubbi, ha ucciso, causato malattie,
avvelenato l'ambiente, compromesso gli equilibri territoriali.
Già lo studio Ambiente e salute in Italia del 1995, coordinato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale
aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e
ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative. Gli ultimi studi dell'OMS, solo
considerando 15 aree a rischio di crisi ambientale, denunciano addirittura 800 morti in
eccesso ogni anno con un trend che purtroppo, a dispetto del ridimensionamento dell'industria
pesante, non accenna a diminuire. Decessi dovuti al contatto con sostanze inquinanti cui sono
sottoposti i lavoratori e alle emissioni inquinanti causate dai processi produttivi che
colpiscono anche i cittadini residenti in quelle aree.
Come dunque uscire dalla stagione dei veleni che ha lasciato in eredità aree minerarie,
centri siderurgici, complessi chimici e petrolchimici con un carico ad elevatissimo rischio di
contaminazione? Legambiente mette in campo le sue proposte che prendono in parte spunto
proprio da una delle nazioni che fanno del libero mercato la caratteristica principe della loro
economia, dove però, a differenza dell'Italia, l'onere della riqualificazione ambientale e del
recupero dei siti contaminati è totale carico dei privati.
Proprio partendo dall'esempio statunitense Legambiente propone infatti un
adattamento italiano del Superfund, ossia dell'insieme di norme che fissano le responsabilità
dell'imprese in caso di contaminazione ambientale, definiscono le procedure per la
valutazione del rischio, individuano una lista di priorità nazionali degli interventi di bonifica.
In particolare, il Superfund ha tre livelli di intervento che riveduti e corretti potrebbero
trovare applicazione anche in Italia. Il primo, un fund trust, ossia un fondo di sicurezza
finanziato dalla tassazione principalmente di prodotti chimici e petroliferi ma anche di altre
sostanze inquinanti, vincolato alla bonifica dei cosiddetti siti orfani (per i quali non è più
possibile riconoscere un proprietario responsabile). In secondo luogo, un'attività capillare di
analisi sui siti inquinati che consenta di stabilire la loro pericolosità e l'urgenza della bonifica
con la definizione appunto di una lista nazionale di priorità. In terzo luogo, l'obbligo
inderogabile per le aziende che gestiscono impianti ancora in attività, una volta accertata
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
l'eventuale pericolosità della produzione o delle scorie prodotte sia per l'ambiente che per la
salute della popolazione, di disporre immediati interventi di bonifica.
Una traduzione italiana di questo modello è possibile, a detta di Legambiente, se la
nostra normativa acquisisse proprio alcuni principi ispiratori del superfund che hanno reso
possibili in 15 anni la bonifica completa (nel 50% dei casi) o parziale delle emergenze più
gravi su tutto il territorio nazionale. Un esempio virtuoso, soprattutto se raffrontato alla realtà
italiana dove colossi inquinanti hanno fatto, e purtroppo continuano a fare, danni in attesa di
interventi di messa in sicurezza di cui si parla da anni ma che da anni tardano ad arrivare.
Prendendo ad esempio la necessità di un fondo di sicurezza pagato dai settori
produttivi inquinanti, vincolando a questo fine una parte della tassazione che già grava su
queste aziende, si potrebbero avviare anche da noi gli interventi su quella percentuale di siti
italiani (discariche abusive, terreni contaminati, depositi di rifiuti tossici e nocivi) per i quali
non è possibile riconoscere la responsabilità del danno. Nello stesso tempo, lo stesso fondo
potrebbe contribuire ad un capillare accertamento e ad un censimento completo di tutte le aree
a rischio. Una base fondamentale anche per la definizione di una lista di priorità e per stabilire
temporalmente l'inizio e la fine degli interventi. Infine, ma sicuramente prioritaria, è anche
l'idea che ha trovato spazio negli Usa ma che tarda a trovare applicazione da noi, che debbano
essere i privati responsabili dell'inquinamento e non già questi con il concorso dello stato a
pagare i danni provocati al territorio, all'ambiente, alle popolazioni.
Negli Stati Uniti, responsabile della gestione del Superfund, è l'Epa, l'agenzia per la
protezione dell'ambiente, che si occupa di identificare e selezionare i siti da bonificare, e che
nel 1985 ha segnalato 1500 siti. Siti che in 15 anni hanno visto conclusa l'opera di bonifica
ben nel 50% dei casi (750 zone), mentre altri 600 (il 40%) sono prossimi al completamento
delle operazioni di risanamento. Nello stesso periodo, sono stati pagati dalle aziende
inquinanti per la bonifica di aree contaminate su cui insistono impianti ancora in attività, ben
32mila miliardi, mentre le attente indagini condotte hanno portato all'identificazione di 41mila
siti a rischio.
Ovvio che, pur con le dovute proporzioni tra il caso Italia e quello statunitense, il
ritardo e l'inadeguatezza normativa del nostro paese appare evidente.
Gli stanziamenti previsti dall'ultima legge finanziaria prevedono infatti fondi
insufficienti ma comunque onerosi per le casse dello Stato (550 miliardi nel 2001, 150 nel
2002 e 200 nel 2003), poiché la responsabilità del danno dovrebbe ricadere sulle aziende.
L'attuazione del principio del "chi inquina paga", secondo Legambiente, dovrebbe
insomma diventare, anche in Italia, uno dei vincoli cui far riferimento per avviare finalmente
il piano delle bonifiche che dovrebbe interessare ben 15mila siti inquinati in Italia con
l'impiego stabile di 5mila nuovi supertecnici. E' questa infatti, la stima approssimativa
realizzata da Legambiente (manca peraltro sul tema un quadro di riferimento "istituzionale"
preciso) tra aree identificate dal piano nazionale di bonifica redatto alla fine del 2001 (40 siti),
i circa 6.000 serbatoi di carburante sparsi per il paese, i 4.500 siti identificati nelle regioni del
Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità
di intervento, le circa 2.500 discariche abusive della criminalità organizzata nel Centro-Sud (il
cui rischio reale è sconosciuto); le 1.000 o 2.000 zone potenzialmente inquinate dagli
insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate
prima della metà degli anni ’80 (ossia prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge
sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano
problemi di un certo rilievo per la bonifica. Pur se ogni paese classifica i siti contaminati in
maniera diversa, o censendo (ed è il caso della Germania) anche un solo bidone di rifiuti
nocivi come area a rischio o, ed è il caso di altri paesi, prendendo in considerazione solo le
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
emergenze più gravi, c'è un numero che può dare l'idea della gravità del problema anche a
livello europeo: secondo il programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti
inquinati, sono 150mila in Europa i siti sospetti di inquinamento e oltre 100 milioni gli ettari
definiti contaminati (pari a un miliardo di metri cubi di terreni e rifiuti). Tornando in Italia
invece, va anche sottolineato come nel 1995 la spesa calcolata per le bonifiche fosse pari a
30mila miliardi e dovesse interessare almeno 330mila ettari ossia un'estensione pari alle intere
provincie di Milano e Napoli messe insieme. Del resto, se il piano delle bonifiche riuscisse
finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe
estremamente positiva: in un settore peraltro afflitto da una costante emorragia di posti di
lavoro (meno 70mila operai impiegati in 20 anni), vecchie e nuove competenze sarebbero
infatti richieste da tutte le attività di bonifica e ripristino con un'offerta di lavoro specializzato
pari a oltre 5.000 posti, senza considerare l'indotto e le attività di contorno che potrebbero
garantire altre migliaia di occupati.
Ma chi dovrebbe pagare veramente in Italia? Soprattutto per quanto riguarda
EniChem, per la quale si parla negli ultimi mesi della vendita di parte dei suoi impianti alla
multinazionale araba Sabic, non si ha certezza sulla dismissione degli impianti obsoleti e della
bonifica dei siti contaminati.
D'altronde a rendere sempre più urgente un intervento di riqualificazione ambientale
delle aree più a rischio sono, di nuovo, i dati sanitari. Come detto, l’allarme per le
conseguenze derivanti da alcune produzioni chimiche, siderurgiche, minerarie e petrolifere è
al centro dello studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – Centro
Europeo Ambiente e Salute - su richiesta del Ministero dell’Ambiente. L’indagine è stata
commissionata per le 15 aree classificate come “ad alto rischio di crisi ambientale” con
Decreto Ministeriale dell’8.7.1986 n. 349 a causa della presenza di una o più potenziali fonti
di inquinamento ambientale legate alla presenza di importanti attività industriali. Va precisato
comunque che durante questi ultimi anni sono aumentati i siti industriali per cui è stato
evidenziato un rischio ambientale e sanitario.
L’OMS da anni effettua in Italia studi approfonditi, condotti attraverso l’elaborazione
di dati di mortalità disaggregati a livello comunale per un territorio vasto, che costituiscono
un importante contributo informativo a sostegno dell’intervento del Ministero dell’Ambiente.
Anche il dossier di Legambiente, come quello dell'Oms analizza il dettaglio delle
singole aree contaminate e, dunque sarà possibile avere un quadro completo ed aggiornato
delle singole situazioni che lungo l'intera penisola minacciano l'ambiente e la popolazione.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
LE BONIFICHE TRA STATI UNITI E ITALIA
Poli chimici, industrie a rischio, discariche abusive o autorizzate in tempi ormai
remoti, aree industriali dismesse: sono numerosissime le realtà dell'Italia da bonificare.
Oltre alle problematiche legate al rischio industriale e sanitario nelle aziende tuttora
funzionanti infatti, grave e tuttora irrisolto appare anche il rischio relativo agli impianti
dismessi e a quelli in via dismissione inseriti in progetti di bonifica. Progetti che si stanno
rivelando critici per le grandi quantità di materiali da trattare, la complessità delle
contaminazioni (molto spesso non ben conosciute) che oltre ai terreni hanno interessato le
falde acquifere, per il mancato utilizzo di tecnologie di trattamento ampiamente impiegate
all'estero.
Già lo studio Ambiente e salute in Italia, del 1995, coordinato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale
aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e
ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative.
Gli interventi della magistratura (alcuni ancora in corso) hanno poi confermato gli
studi che nel corso degli anni sono stati condotti per ricercare una correlazione tra ambiente di
lavoro e problemi sanitari, tra insorgenza di particolari tipi di tumore e l’aver maneggiato
certe sostanze, o addirittura solo per aver vissuto in prossimità dei camini delle aree
industriali.
Quel che è certo è che in Italia il sistema delle bonifiche è assolutamente bloccato. Dal
1998, anno in cui la legge 426 ha definito i primi 15 siti di interesse nazionale da bonificare
(tra cui Porto Marghera, Brindisi, il litorale domitio-flegreo con le discariche dell’ecomafia
campana, etc.), ben poco si è mosso, a parte qualche intervento a Cengio. L’unica grande
novità consiste nell’approvazione del decreto ministeriale 471/99 atteso da tempo. Alla fine
del 2001 è stato poi varato il piano nazionale di bonifica che porta a 40 il numero dei siti di
interesse nazionale, stanziando per essi circa 1000 miliardi di lire. Peccato che il numero delle
aree inquinate del Belpaese sia ben più nutrito. Una stima di massima sul numero dei siti
inquinati in Italia prevede infatti: i 40 siti già previsti nel piano nazionale delle bonifiche; tra i
5.000 e i 7.000 serbatoi di carburanti; circa 4.500 siti nelle regioni del Nord e in Toscana (tra
discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento; circa
2.500 discariche abusive nel Centro-Sud (il cui rischio reale è molto variabile); circa 1.000 2.000 siti potenzialmente inquinati dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud;
le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (prima
dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani
regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la
bonifica.
In totale si può azzardare una stima di almeno 15.000 siti da bonificare. Da qui la nota
dolente dei costi per le bonifiche. I 1.000 miliardi di lire stanziati dal Ministero dell’ambiente
per i siti previsti dal Piano nazionale di bonifica sono ovviamente insufficienti. La sola
caratterizzazione (analisi ambientale complessiva) del fiume Bormida inquinato dall’ACNA
di Cengio per esempio, è costata al Commissario delegato 4 miliardi di lire. E’ ovvio
sottolineare che tutti i siti di interesse nazionale hanno bisogno di questa caratterizzazione,
prevedendo per le situazioni gravi come quella di Porto Marghera costi ancora più elevati.
Ai 1.000 miliardi di lire per i siti nazionali vanno sommati comunque i soldi messi a
disposizione dalle Regioni per interventi su siti inquinati pubblici o senza più “padrone”. Per
cui, si può ipotizzare che il totale dei finanziamenti tra enti locali, Regioni, Province, Comuni
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
e ARPA, arriverà ai 10mila miliardi per i prossimi 2/3 anni, per un totale di finanziamento
pubblico pari a 11mila miliardi di lire.
Per quanto riguarda invece il finanziamento privato, obbligatorio
in caso di contaminazione in base al principio del "chi inquina paga", il
costo degli interventi limitato ai 40 siti nazionali, dovrebbe aggirarsi
intorno ad una cifra pari a circa 5-6 volte il finanziamento pubblico, e
quindi a oltre 5 -6.000 miliardi di lire. Le spese dei privati per i siti di
loro competenza che invece non rientrano nei 40 nazionali, possono
essere stimate in una cifra tra i 5.000 e i 10.000 Miliardi di lire, per un
totale di investimenti privati pari a circa 15.000 miliardi di lire.
Complessivamente, nei prossimi tre anni per gli oltre 15.000 siti inquinati stimati del
nostro Paese, verrebbero stanziati quindi circa 11.000 miliardi di lire di finanziamento
pubblico, a cui si dovrebbero aggiungere circa 15.000 miliardi di lire dagli industriali
responsabili della contaminazione, per un totale di spesa di oltre 25.000 miliardi di lire. Cifra
che difficilmente verrà raggiunta.
Del resto, se il progetto delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su
occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: si innescherebbe un
meccanismo virtuoso nelle attività di bonifica e ripristino (dalla consulenza alla progettazione
dell’intervento), nella costruzione di impianti di trattamento, nell’attività di controllo di
competenza del pubblico (verifiche sul campo, valutazione di istruttorie e attività di
laboratorio), nelle attività dei laboratori privati, che potrebbe muovere un mercato di oltre
5.000 posti di lavoro, tra tecnici e laureati.
Purtroppo, nonostante il numero dei siti inquinati sia fin troppo grande, le risorse
finanziarie disponibili risultano carenti.
Al riguardo, va segnalato che per gli interventi di bonifica e ripristino dei 40 siti
identificati dal ministero dell'Ambiente - il Petrolchimico di Porto Marghera, le raffinerie di
Gela, i poli industriali e petrolchimici di Brindisi, Taranto, Gela ma anche l’Acna di Cengio,
la discarica di Pitelli, solo per citare i più noti - la Finanziaria appena approvata, registra una
riduzione di circa 100 miliardi.
Per correre ai ripari sarebbe utile riproporre per le bonifiche in Italia un sistema simile
a quello del Superfund utilizzato negli Usa.
Nel 1980, in seguito a una serie di disastri ambientali, il governo degli Stati Uniti
d’America emanò infatti una legge per le bonifiche il cui fondo iniziale, il Superfund appunto,
era di circa 1,6 miliardi di dollari. Questo fondo fu creato grazie a una tassa speciale imposta
ai produttori di sostanze chimiche e petrolifere che, sei anni dopo, fu estesa a ogni tipo di
azienda che produceva rifiuti tossici, in percentuale dell’utile. Tutte le aziende quindi, se
superano certe dimensioni, devono pagare una quota per il fondo, anche se le aziende
petrolifere e chimiche hanno tassazioni maggiori.
Gli 8,5 miliardi di dollari del fondo attuale vengono usati per varie finalità: per
intervenire immediatamente nei casi di rischio per la salute umana, per le attività di
caratterizzazione iniziale dei siti in modo da stabilire le priorità d'intervento, per risanare i
cosiddetti siti “orfani”, cioè quelli in cui è davvero impossibile individuare un responsabile,
ma anche per recuperare i soldi, visto che quando si decide di partire subito con le operazioni
di bonifica e ricorrere poi in tribunale per il risarcimento, le spese legali sono notevoli.
Va sottolineato che i siti industriali in attività e quelli di gestione dei rifiuti pericolosi
non vengono inseriti nell’elenco del Superfund. In caso di contaminazione di tali siti infatti è
il responsabile della contaminazione a pagare di tasca propria la bonifica, senza alcun
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
finanziamento da parte dello Stato.
Se il sito di smaltimento è abbandonato, se quello industriale non è operativo oppure
se il sito è operativo ma l’azienda ha fallito, entra in gioco invece il Superfund.
Confrontando Usa e Italia sulla questione delle bonifiche, vediamo che negli Stati
Uniti c’è un sistema normativo flessibile e pragmatico, che fa la selezione dei siti mediante la
valutazione del rischio, per cui se l’area contaminata è gestita da un operatore in attività e la
contaminazione è attuale o pregressa, lo Stato non ci mette una lira e gli interventi sono
interamente a carico del privato. Quindi c’è più flessibilità nell’individuazione dei siti da
bonificare e degli interventi da realizzare, mentre c’è una piena responsabilità finanziaria del
privato.
Certo, il modello degli Stati Uniti funziona proprio grazie all’esistenza di una struttura
pubblica, l’Epa appunto, dotata di risorse finanziarie e competenze tecnico-scientifiche tali da
impedire scappatoie.
In Italia invece c’è una maggiore rigidità legislativa, poi però lo Stato interviene e
cofinanzia anche i casi in cui l’inquinamento è prodotto da un operatore ancora in attività. Qui
vale quindi uno strano meccanismo per cui alla rigidità burocratica non corrisponde una
severità tale da imporre al privato tutto l’onere economico del risanamento ambientale.
Per continuare il confronto, nel nostro Paese non esiste un’agenzia con la stessa
struttura, risorse e compiti dell’Epa statunitense.
L’ipotesi di ragionare anche in Italia su un meccanismo di finanziamento per i siti
dismessi, basato su un sistema fiscale simile a quello americano, faciliterebbe di molto il
risanamento delle aree inquinate del nostro Paese.
In conclusione, se l'obiettivo principe è quello di bonificare i siti contaminati del
nostro Paese riducendo i drammatici rischi ambientali e sanitari, riteniamo fondamentale
l'istituzione di un fondo nazionale, realizzato attraverso l'introduzione di un meccanismo tipo
quello statunitense che prevede la contribuzione ad un fondo nazionale finanziato mediante
tassazione diretta alle imprese, completamente diverso da quello attuale vigente in Italia. E'
necessario quindi aumentare il potere di controllo di un organismo terzo, di carattere
pubblico, a cui affidare il potere d’intervento nell’individuazione e nella selezione dei siti da
bonificare. Vanno poi modificate le procedure di intervento in modo da dividere i siti
dismessi e le discariche illegali, per i quali si attinge dal fondo nazionale finanziato dal mondo
dell’impresa, dai siti operativi, per i quali l’onere finanziario delle bonifiche sarebbe
completamente a carico dell’impresa.
Parallelamente, è necessario estendere gli studi sullo stato di salute della popolazione
anche a tutte le nuove aree considerate o sospettate a rischio, allargando l’osservazione
sanitaria anche all’incidenza di altre patologie (malformazioni croniche, funzione tiroidea,
et.), considerate attualmente come bio-indicatori e precursori di un possibile maggiore rischio
di effetti sanitari a più lunga latenza (morti per tumore, etc.).
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
PORTO MARGHERA
«Marghera sensa fabriche sarìa più sana,
‘na giungla de’ panoce, pomodori e marijuana»
(dalla canzone «Marghera» dei Pitura Freska)
Una sentenza di assoluzione a dir poco scandalosa. Non poteva che essere questo il
commento di Legambiente dopo la conclusione del processo ai vertici delle aziende del
petrolchimico di Porto Marghera, svoltosi per far luce sulle morti di alcuni operai del reparto
Cvm (Cloruro vinile monomero) e sul danno ambientale causato alla laguna di Venezia. Del
resto dopo circa quattro anni di processo e dopo le raccapriccianti deposizioni degli operai
sopravvissuti e dei familiari di quelli ormai deceduti, ci si aspettava un finale completamente
diverso. Soprattutto da parte di chi come Legambiente, parte civile al processo insieme ad
altre associazioni ambientaliste, per anni si è battuta contro la folle politica industriale delle
aziende del petrolchimico veneziano.
Sullo stato dell’arte delle bonifiche degli innumerevoli siti contaminati di Porto
Marghera il commento non è poi così diverso. Gli interventi di bonifica da tempo annunciati
non sono mai partiti per una serie di intoppi burocratici assolutamente privi di senso. Dalla
firma dell’Accordo di programma sulla chimica a Porto Marghera dell’ottobre ’98 sono
passati più di tre anni durante i quali in pratica nulla è stato fatto. Nel frattempo è stato
approvato il decreto ministeriale sulle bonifiche (dicembre ’99) e un’integrazione all’accordo
che comprendesse le novità inserite nel decreto (dicembre 2000), che doveva essere ratificata
da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ancora non è stato varato.
L’unica novità da segnalare è la transazione di oltre 271 milioni di euro conclusa tra
Montedison e Ministero dell’ambiente, a cui si è ipotizzato possa seguire quella con Enichem
di circa 206 milioni di euro. Facciamo fatica a capire il motivo per cui la transazione farà
desistere il Ministero dal ricorrere in appello contro la sentenza assolutoria del processo su
Porto Marghera, così come già dichiarato dallo stesso Ministro. Non è chiaro cosa centrino i
miliardi che Montedison ed Enichem devono pagare per risanare i siti contaminati dalle loro
attività produttive, con il ricorso in appello in un processo svoltosi non solo per i danni
arrecati all’ambiente, ma anche per determinare le eventuali responsabilità penali nelle morti
degli operai del petrolchimico.
La storia di Porto Marghera è tristemente nota all’Italia intera. Così come è noto
l’articolo 15, III comma, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia
del 1962, che condannò Marghera ad essere quel girone dantesco che è stato per decenni.
Secondo quell’articolo «...nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto
prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose
alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni o
rumori». E così in effetti è stato.
L’elenco delle attività produttive che nei trent’anni in cui è rimasta in vigore questa
norma sono state realizzate a Marghera è impressionante: uno dei più grandi poli chimici del
nostro paese, alluminio, cantieristica navale, petrolifero - raffinazione, siderurgia, energia
elettrica, commercio di prodotti petroliferi. Il polo chimico ha prodotto quasi tutte le sostanze
a partire dalle materie prime, prodotti intermedi, prodotti finali. A partire dal 1951 con i
reparti cloro - soda che producono cloro, soda caustica e ipoclorito. L’anno successivo inizia
la produzione di trielina, acetilene e quindi cloruro di vinile monomero (CVM) e
polivinilcloruro (PVC). E’ a Marghera che verrà avviata la produzione della plastica in Italia.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
Ma si producono per decenni anche fibre acriliche e fertilizzanti, ammoniaca ed etilene,
acido fosforico e fluoridrico, solo per citarne alcune.
Fino alla fine del 1988, lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è
avvenuto prevalentemente scaricando i cosiddetti gessi in mare. Dopo l’esportazione
internazionale di rifiuti con le «navi dei veleni», nello stabilimento Petrolchimico sono tuttora
stoccati in 6 zone all’aperto e senza particolari cautele circa 20.000 fusti di rifiuti tossici.
Il 21 giugno 1989 partecipano all’assemblea degli azionisti Montedison molti
rappresentanti di Legambiente. Una lunga discussione che inchioda l’assemblea per undici ore
ad ascoltare le ragioni del popolo inquinato.
Nell’esaminare le politiche Montedison i riferimenti a Marghera appaiono
nell’intervento di Ermete Realacci che cita i buoni risultati ottenuti con la fermata degli
scarichi a mare, frutto della pressione ambientalista, invita a destinare i dividendi dell’anno in
corso per risanare i problemi ambientali che gli impianti Montedison hanno determinato.
Renata Ingrao sottolinea la pericolosità del cloruro di vinile monomero come cancerogeno e
chiede che si intervenga sugli impianti. Duccio Bianchi richiama Montedison ad applicare le
leggi sullo smaltimento dei rifiuti, poiché è accertato che non le applica, chiede l’impegno a
regolarizzare lo smaltimento dei rifiuti e a bonificare le aree contaminate e chiede spiegazioni
sul perché Montedison continui ad investire in inceneritori piuttosto che in produzioni pulite.
Ivo Conti insiste sulla necessità di chiarire la situazione degli impianti di Marghera, poco
chiara in particolar modo per lo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi. Gianni Tamino esprime
preoccupazioni per la compatibilità di settori quali il cloro soda e le eccedenze di cloro.
Le forti preoccupazioni, i dubbi, gli interrogativi sui danni della chimica italiana
Legambiente li riaffermò nel maggio 1991, quando, con il dossier »Enichem. Ambiente,
sicurezza, salute dei cittadini. La faccia dimenticata dell’industria chimica italiana», ribadisce
che i passaggi da Montedison a Enichem attraverso Enimont hanno lasciato cittadini e
ambiente preda di un’industria chimica rovinosa e spendacciona.
Era già chiaro a Legambiente che «nelle industrie chimiche, ma non solo in queste, si
sono verificati negli scorsi decenni importanti fenomeni di contaminazione del suolo e del
sottosuolo. Nelle attuali aree industriali si trovano, spesso senza alcuna autorizzazione o
conoscenza, depositi o discariche di rifiuti tossici. I terreni, inoltre, sono stati contaminati da
sversamenti, perdite di routine, incidenti». In quell’occasione si affermò con forza la necessità
di misure legislative, finanziarie e tecniche per affrontare il problema delle bonifiche, che
avrebbero dovuto essere a carico dei proprietari delle aree e dei riutilizzatori.
Il quadro di Porto Marghera vedeva un settore chimico colpito dalla ristrutturazione
con un calo di oltre 5000 posti di lavoro fra il 1980 e il 1987 e quasi 7000 occupati nel 1990.
Le società principali insediate nel Petrolchimico erano EVC, Montedipe, Montefluos,
Enimont Anic, Crion, CPM, Marghera. Le produzioni «forti»: cracking (etilene e propilene),
PVC, isocianati, caprolattame, fibre. Un complesso che vedeva in funzione «circa 2.000
camini o sfiati che emettono 240.000 tonnellate all’anno di sostanze varie, tra cui alcune
riconosciute cancerogene dall’OMS (come CVM, nitrile acrilico, ammine aromatiche)».
«Attualmente soltanto pochi camini sono dotati di apparecchiature di controllo in continuo
delle emissioni, mentre sarebbe necessario estendere l’uso di strumenti di controllo con
blocco automatico degli impianti quando le emissioni superano i valori limite di legge».
Quanto a produzione e smaltimento di rifiuti il dossier notava che «fino a tutti gli anni
’70 lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è avvenuto in maniera molto
sbrigativa, prima scaricando tutto in mare, poi progressivamente sempre più lontano dalla
costa e poi scaricando a terra un po’ ovunque in una miriade di siti incontrollati. Una recente
indagine con fotografie da satellite ha consentito di individuare nella provincia di Venezia
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
circa 200 discariche abusive, alcune delle quali di grandi dimensioni e con rifiuti industriali.
Dei numerosi siti conosciuti come discariche abusive di rifiuti tossici non è mai stato avviato
un piano di bonifica». «Le emissioni in acqua attualmente ammontano a 20.000
tonnellate/anno e comprendono solventi clorurati, oli minerali, cianuri, solfiti, fluoruri, acido
cianidrico, fosfati, mercurio, piombo, zinco, cromo». «La regione Veneto nel Piano direttore
per il disinquinamento della laguna del dicembre 1989 riconosce che »l’inquinamento da
metalli pesanti e composti tossici (fenoli, cianuri, solfuri, tensioattivi) è oggi presente nei
sedimenti di tutta la laguna»».
Uno dei coautori del dossier per il capitolo di Marghera è Gabriele Bortolozzo, exoperaio del Petrolchimico che, accortosi della morte per cancro di quattro dei suoi cinque
compagni di lavoro addetti alla ripulitura delle autoclavi nella produzione del CVM, dedica
tutto se stesso alla ricostruzione dei disastri ambientali e dell’annientamento delle vite di tanti
operai.
Nel 1994 Gabriele Bortolozzo pubblica il dossier «Il cancro da cloruro di vinile al
Petrolchimico di Porto Marghera». Lo stesso dossier viene depositato come esposto-denuncia
presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Venezia.
«Gli operai delle imprese appaltatrici addetti all’insacco del PVC in polvere erano 98
tra il 1975 e il 1980, si tratta di una mansione estremamente gravosa e nociva. Nel giugno
1994, 28 di loro mancano all’appello: sono i morti per «tutte le cause», pari al 28,57% degli
addetti; 23 di essi sono deceduti per tumori di vario tipo: l’82,14% dei lavoratori deceduti nel
medesimo periodo nel gruppo a rischio. Molti sono stati colpiti all’apparato respiratorio
(laringe-polmoni). Più precisamente i tumori si riferivano: 10 ai polmoni, 3 alla laringe, 2 al
fegato, 1 al pancreas, 6 in sedi non precisate, 1 caso di leucemia…tra il 1975 e il 1980
l’organico al reparto CV6 era di 108 lavoratori. Ne sono deceduti, a tutto giugno 1994, per
«tutte le cause», 24, pari al 22,22% degli addetti, mentre 15 sono morti di tumore, il 62% di
tutti i lavoratori deceduti nel gruppo a rischio, prevalentemente colpiti al fegato». L’esposto di
Gabriele Bortolozzo trova pronto ad avviare le indagini il sostituto procuratore Felice Casson.
Mentre partono gli accertamenti per avvalorare le tesi di Bortolozzo, Legambiente nel
luglio 1996 ricorda il ventennale dall’incidente all’Icmesa con il dossier «A vent’anni
dall’incidente di Seveso. Industria, ambiente, salute». Un inevitabile posto fra le aree a rischio
esaminate lo trova Porto Marghera. Alla costante pericolosità delle produzioni, delle
emissioni in aria e acqua oggetto di «un’indagine della Magistratura di Venezia per appurare
se le morti per tumore si possano attribuire al ciclo di lavorazione PVC - CVM e se l’azienda
(allora Montedison), nonostante fossero noti i rischi per i propri dipendenti, non intervenne
per tutelarne la salute», vennero aggiunti i rischi di un transito intenso di navi con prodotti
chimici e petroliferi, «un traffico valutabile intorno ai 2 milioni di tonnellate/anno di prodotti
vari che sono quasi tutti o tossici o infiammabili o esplosivi».
Il 12 dicembre 1996 il giudice Casson deposita il rinvio a giudizio nei confronti di
Eugenio Cefis, Giuseppe Medici, Mario Schimberni, Alberto Grandi, Giorgio Porta, Pier
Giorgio Gatti, Italo Trapasso, Lorenzo Necci, Antonio Sernia e altri.
Ognuno imputato per reati diversi:
«…dal 1970 fino al 1988 effettuavano (o facevano effettuare) scavi e
realizzavano (o facevano realizzare) bacini e discariche, all’interno
dell’insediamento produttivo petrolchimico di Porto Marghera o in sua prossimità,
in cui venivano abusivamente smaltiti, abbandonati, scaricati, depositati e
comunque stoccati rifiuti di vario genere e in particolare rifiuti speciali tossiconocivi»;
»effettuavano lo scarico dei fanghi e degli altri sottoprodotti di risulta dei
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
trattamenti, attraverso gli scarichi 2 e 15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai
limiti previsti dal Dpr 962/73»;
«consentivano la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti di
sostanze tossico-nocive e di acque di rifiuto non trattate»;
«omettevano di adottare tutte le misure urgenti e necessarie al fine di
evitare il deterioramento della situazione igienico-sanitaria-ambientale di tutti i
siti… e comunque delle falde acquifere sottostanti e delle acque confinanti»;
«pur essendo consapevoli del grado elevatissimo di tossicità e nocività dei
residui scaricati, ma disinteressandosene ed anzi accettandone il rischio,
contribuivano a dare origine e ad incrementare il progressivo avvelenamento delle
acque di falda sottostanti la zona di Porto Marghera (acque utilizzate anche per uso
domestico e agricolo), in cui sono state rinvenute tracce di solventi clorurati,
solventi aromatici, idrocarburi aromatici, fenoli, ammoniaca, ammine aromatiche,
piombo, cadmio, zinco, mercurio e arsenico in valori superiori ai limiti consentiti e
determinavano altresì un inquinamento grave dei sedimenti e delle acque nei canali
e negli specchi lagunari e i conseguenti successivi adulterazione e avvelenamento
di ittiofauna e molluschi… con particolare riferimento alle tracce di sostanze
pericolose tossico-nocive e cancerogene nei medesimi rinvenute… con particolare
riferimento alle diossine»;
«con le aggravanti… per aver commesso i reati per motivi futili (il profitto
economico)»;
«con più azioni e omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
agendo nonostante la previsione dell’evento, per colpa cagionavano il delitto di
strage e disastro, mediante azioni e omissioni che cagionavano pericoli per la
pubblica incolumità, sia all’interno che all’esterno dei reparti CVM-PVC, tanto
che ne derivavano la morte e la malattia di un numero allo stato ancora
imprecisabile di persone»;
«gli imputati erano venuti a conoscenza dei risultati delle indagini
scientifiche a livello mondiale e dell’esito degli accertamenti sulla pericolosità del
CVM-PVC, riferito dal prof. Piero Luigi Viola della Solvay di Rosignano (fin dal
1969), nonché comunicato per iscritto (fin dall’ottobre 1972) e più volte
verbalmente dal prof. Cesare Maltoni di Bologna, accertamenti tutti che
segnalavano il pericolo tossicologico e anche cancerogeno derivante dalla
lavorazione e dalla trattazione in qualsiasi forma del CVM-PVC, pericolo
confermato successivamente nella G.u.c.e. del 10.12.76 e dall’indagine
epidemiologica effettuata dall’Università di Padova nel 1975-76 a Porto Marghera,
conclusasi con la relazione finale datata 12 marzo 1977, che segnalava una
«situazione sanitaria complessiva grave»;
«la colpa (progressiva nel tempo) è consistita in imprudenza, negligenza,
imperizia… per non aver - pur in presenza delle conoscenze mediche e scientifiche
di cui sopra - adottato nell’esercizio dell’impresa tutte e immediatamente le misure
necessarie per la tutela della salute dei lavoratori… per eliminare totalmente e
immediatamente le fughe di gas CVM e di dicloroetano nell’ambiente di lavoro e
nell’ambiente esterno… per non aver curato che i lavoratori usassero tutti i mezzi
necessari di protezione individuale… per non aver predisposto misure di sicurezza
per tutte le fasi del ciclo produttivo… per non aver fornito informazioni dettagliate
e tempestive ai propri dipendenti… per i periodi di tempo di rispettiva competenza
i dirigenti e amministratori della holding Enichimica-Enichem e delle sue varie
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
società «figlie», pur in presenza di sempre maggiori conoscenze mediche e scientifiche,
continuavano ad omettere di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure
necessarie per la tutela della salute dei lavoratori dipendenti e di quelli delle ditte
d’appalto».
Il 21 marzo 1997 si apriva il processo per la strage di lavoratori e il disastro
ambientale in laguna. Legambiente aveva aperto la discussione con il dossier «I crimini di
Porto Marghera». L’emergenza sanitaria veniva così delineata: «I lavoratori del petrolchimico
per primi sono stati sottoposti per anni ad esposizioni di cloruro di vinile che hanno
pesantemente sfondato i limiti di tollerabilità massima per il corpo umano, con concentrazioni
che sono arrivate oltre le 1.000 parti per milione. Tanto per avere un termine di raffronto si
può fare riferimento alle indicazioni dell’organismo americano che controlla gli ambienti di
lavoro (OSHA) che già nel 1974 imponeva concentrazioni massime di CVM di 1 ppm
nell’arco delle otto ore lavorative, mentre il legislatore italiano (e solo nel 1981) ha imposto il
limite di 3 ppm come media annuale, permettendo così esposizioni a picchi ben più alti. Gli
operai dei reparti CVM-PVC corrono un rischio 7,5 volte maggiore del normale di contrarre
un tumore al fegato e 600 volte più alto di contrarre una rara forma di tumore epatico,
l’angiosarcoma del fegato».
La questione «salute» viene ripresa dal dossier «Porto Marghera: la bonifica
innanzitutto. E dopo?» presentato all’apertura del processo. Le indagini di Gabriele
Bortolozzo, quelle della Procura, lo studio dell’Istituto Superiore di Sanità permettevano di
dare un quadro sanitario interno al Petrolchimico: «Non tutti gli operai segnalati lavoravano
effettivamente a contatto con il CVM, i morti segnalati alla magistratura erano 145 e, di
questi, 102 decessi possono essere correlati alla esposizione al CVM (si tratta infatti di tumori
del fegato, del cervello, del sistema linfoemopoietico e del polmone per i quali lo IARC
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce un rapporto diretto e dimostrato con
l’esposizione a CVM); compaiono fra le persone segnalate patologie che con ogni probabilità
sono causate dal lavoro a Marghera, anche se non legate direttamente al CVM. Ad esempio si
registra un eccesso di tumori vescicali (correlabile ad esposizione alle ammine aromatiche
utilizzate a Marghera nel reparto TDI e forse in altre lavorazioni) rispetto alla frequenza di
questa patologia nel resto del Veneto. Si notano anche alcuni casi di carcinoma alla pleura e al
polmone correlati con esposizione ad amianto. E ancora le conclusioni evidenziano che fra gli
insaccatori di CVM c’è un’anomala frequenza di tumore al polmone e che i casi di epatopatie
hanno una frequenza impressionante (ne sono stati accertati 189 su 571 persone di cui si è
esaminata la documentazione clinica)… Interessante il raffronto con i risultati delle indagini
epidemiologiche condotte dall’ISS… le persone prese in considerazione sono in tutto 1568
per la polimerizzazione e 208 per l’insacco. Al 1995 risultavano ancora vivi 1487
polimerizzatori e 166 insaccatori. I deceduti sono dunque rispettivamente 168 e 41 (mancano
tre polimerizzatori e un insaccatore di cui si è persa ogni traccia)». Il tasso di mortalità non
rivela molto, se si tiene conto di fenomeni ben conosciuti in epidemiologia, come il cosiddetto
«effetto lavoratore sano»: «Il discorso – continua il dossier – cambia molto se si verificano le
singole cause di morte. I decessi per tumore maligno sono 86 fra i polimerizzatori. Il loro
numero giunge addirittura ad essere pari a quello atteso a livello nazionale e soltanto poco più
basso di quello regionale. Se si sconta l’effetto lavoratore sano e si considera che un aumento
relativo dei morti per tumore è per forza parallelo ad una diminuzione relativa dei morti per
quell’altra grande causa che sono le malattie cardiovascolari, si può concludere che la
percentuale dei morti per tumore è in realtà aumentata o per lo meno che il profilo delle cause
di morte non è normale, essendo alterato il rapporto fra i tumori e malattie cardiovascolari a
favore dei tumori. In altre parole, aveva ragione Bortolozzo: quasi tutti gli operai, suoi
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
compagni di lavoro, morirono per tumore…».
«L’incidenza del tumore al fegato risulta aumentata in maniera statisticamente
significativa. La frequenza del tumore aumenta tra gli autoclavisti, i più esposti, ed è
particolarmente frequente una rara forma di epatocarcinoma, l’angiosarcoma epatico. Fra gli
autoclavisti l’SMR (il tasso standardizzato di mortalità) per angiosarcoma raggiunge la bella
cifra di 60.000; in altre parole, questi lavoratori muoiono per angiosarcoma al fegato con una
frequenza pari a 600 volte quella attesa. I morti, fra gli autoclavisti, sono 18 in tutto. Se se ne
verificano le cause, il risultato è sconvolgente: 9 sono morti per tumore al fegato, 3 per cirrosi
epatica, 4 per altri tumori. Uno infine, il cui certificato di morte denuncia un carcinoma allo
stomaco, era in realtà affetto da una grave forma di epatopatia. Soltanto uno è morto per cause
cardiache. Questi dati sono talmente clamorosi che non hanno bisogno neppure di
elaborazioni statistiche: aveva ragione Bortolozzo nell’affermare che i suoi amici autoclavisti
morivano tutti per cancro al fegato. Purtroppo Bortolozzo non avrà neppure la soddisfazione
di veder confermati i risultati delle sue indagini: morirà in uno strano incidente stradale, il 12
settembre 1995, investito da un camion».
Lo stesso dossier riprende dal rinvio a giudizio del Pubblico ministero Casson
l’inesistente attenzione alle questioni ambientali dimostrata dalle società presenti a Marghera
mediante la vicenda dell’incarico affidato da Montedison ed EniChem alla società American
Appraisal. Incarico dato per verificare lo stato degli impianti di Marghera, in occasione della
progettata costituzione di Enimont al fine dell’accertamento del rispetto delle normative
ambientali. L’American Appraisal fa le sue indagini, arriva a delle conclusioni, che mette per
iscritto: si scrive che l’Anic produce PVC, i reflui idrici sono acque clorurate, i rifiuti solidi
vengono inviati in discariche abusive, gli impianti emettono in atmosfera alte concentrazioni
di inquinanti. L’Anic possiede 57 effluenti (43 gassosi, 7 idrici, 2 per rifiuti liquidi, 2 per
rifiuti solidi), gli altri impianti di Marghera hanno 208 effluenti (tra cui 162 scarichi in
atmosfera) e i rifiuti solidi vengono in parte smaltiti in discariche interne agli stabilimenti (in
17 discariche ben 5 milioni di tonnellate), in parte incendiati, in parte esportati in Spagna e
nell’allora Ddr. L’American Appraisal aggiunge: «Situazioni di questo tipo possono causare
seri problemi economici e di responsabilità civile e penale per i futuri proprietari delle aree in
questione». La relazione di American Appraisal finisce naturalmente in un cassetto di
Enichem da dove uscirà solo per opera della magistratura.
A tre anni dall’avvio del processo, delle centinaia di lavoratori e familiari costituitisi,
solo alcuni rimangono come parti civili, con le associazioni ambientaliste, il Comune la
Provincia, la Regione e lo Stato. Per tutti gli altri Montedison e Enichem stanzia più di
sessanta miliardi per il risarcimento danni.
Ma a questo punto vale la pena riprendere alcune delle deposizioni dei consulenti del
pubblico ministero dalle quali emerge il quadro che per anni, invano, gli ambientalisti
avevano additato a istituzioni, imprese e sindacati di categoria.
La deposizione Spoladori è per certi versi illuminante: per i rifiuti delle lavorazioni
«aree interne del Petrolchimico furono utilizzate per lo smaltimento; nella zona adiacente ai
serbatoi di ammoniaca fredda vicino a gruppo di produzione AS vennero scaricate terre rosse
derivate dalla lavorazione dell’acido solforico. Altra zona segnalata fu quella adiacente agli
ex impianti TDI, quella del laboratorio e dell’ingresso 4 dove sorge l’eliporto. Qui vennero
coperti con terreni numerosi fusti, sostanze liquide e tossiche. Le fasi di smaltimento
avvennero tra gli anni ‘76 e ’89.
In aree esterne allo stabilimento, Lughetto di Campagna Lupia e lungo il canale
Petroli, sono stati rinvenuti fusti contenenti pece clorurata di derivazione industriale in una
vasta discarica nei pressi delle abitazioni. A Mirano sono confluiti rifiuti industriali compresi
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
quelli dell’impianto cloro-soda del Petrolchimico, contenenti alte percentuali di mercurio.
Malcontenta, via Molanzani, dove la Montefluos nell’anno ‘89 con autopompa scaricava più
volte al giorno gessi in vasche che poi furono interrate. Sotto le linee elettriche che corrono
tra Malcontenta e Fusina vennero scavate fosse profonde 3 o 4 metri, dentro le quali prima si
scaricavano acque inquinate da CVM, le stesse venivano quindi ricoperte da uno strato di
cenere della vicina centrale ENEL, e successivamente si sovrapponeva uno strato di pece del
TDI e così via, al fine di coprire il tutto con uno strato di terra. Ciò è continuato fino a
quando non è stato costruito il forno inceneritore di pece TDI, intorno agli anni ‘77 e ‘79,
anche se gli smaltimenti sono continuati fino al 1983.
Altra zona segnalata era tra le abitazioni tra la campagna coltivata e il naviglio
Brenta. I rifiuti solidi venivano utilizzati come materiali per imbonimenti delle zone
barenarie, che progressivamente venivano conglobate con l’espansione della zona
industriale. Raggiunta la massima espansione geografica, non avendo più siti interni di
rifiuti, venivano innalzati su tutto il territorio, interessando prima le aree limitrofe, poi i siti
più distanti, quindi scaricati a mare e anche inviati in paesi del terzo del mondo.
Altro sistema di smaltimento dei rifiuti di estrema nocività è stato quello di bruciarli
direttamente nelle centrali termoelettriche esistenti. Peci della peggiore specie venivano
aggiunte al combustibile o gettate nelle caldaie. In questo modo venivano eliminate: 500.000
tonnellate annue che venivano di fatto trasferite nel territorio, di cui in particolare code di
distillazione, peci di TDI ad altri impianti, 9.000 tonnellate annue, residui clorurati 11.000
tonnellate annue, ceneri di pirite 7.000 tonnellate annue, gessi da acido fluoridrico 400.000
tonnellate annue. Questo si rinviene soprattutto in particolare dal censimento delle discariche
nel territorio provinciale.
Praticamente questi residui di produzione provenivano dall’impianto del CVM,
dall’impianto TR, che tratta tetracloroetilene, TS, che è la trielina, e il DL2, che è la
produzione di ossido di carbonio. Poi ammine aromatiche e sempre impianto di produzione
del TDI, toluene di isocianato, processo di nitrazione del toluene per ottenere il disitoluene;
successivamente alla riduzione ottenevano la toluendiammina, fatta reagire con l’ossido di
carbonio ottengono il TDI, quindi anche qui c’è un forte residuo di produzione che veniva
smaltito nel territorio. Poi avevamo anche EPCB, che provenivano dal fluido elettrico dei
trasformatori, impianti, espurghi, trasformatori. Invece le diossine rinvenute nei rifiuti
soprattutto e in particolare i policloruribenzidiossine e i forani, comunque parliamo di
diossine... Policloruribenzidiossine, questa è una sostanza rinvenuta nei rifiuti. Proviene dal
CVM, ma anche da altre produzioni di cloroalifatici, impianti TR, TS, DL2 e di
cloroaromatici: cloruro di benzene e cloruro di benzale, presso l’impianto BC1.
Invece per quanto riguarda i metalli pesanti rinvenuti nei rifiuti da noi campionati, in
particolare il piombo, si può attribuire la produzione per la stabilizzazione del PVC usato
sotto forma di solfito bibasico, di piombo e stearato di piombo. Il mercurio presente in quasi
tutti i rifiuti rinvenuti, dall’impianto cloro-soda il cloruro mercurico era usato come
catalizzatore nella produzione di dicloroetano, CVM, e nella produzione degli acetati. Il ferro
invece, cloruro ferrico, catalizzatore dell’impianto TS e impianto TR. Il rame, catalizzatore
cloruro di rame usato nel TD2, produzione di ossido di carbonio. Infine l’arsenico, presente
nelle ceneri di pirite, da noi rinvenuto in maniera massiccia su aree che dopo andrò ad
elencare; produzione di acido fosforico da Enichem Agricoltura, in particolare Fertimont e
Agrimont.
Praticamente il rifiuto da noi rinvenuto in quelle aree era direttamente a contatto con
la falda freatica sia superficiale che sottostante.
Risulta evidente una contaminazione diffusa da ammoniaca in tutta l’area esaminata
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
Tale contaminazione interessa sia la prima falda sottostante il caranto che quella profonda
con una concentrazione dell’inquinante fino a tre ordini di grandezza superiori ai limiti di
legge. E’ particolarmente significativa la contaminazione diffusa da solventi clorurati, i quali
si rinvengono nella prima falda sottostante il caranto con concentrazioni localmente fino a
tre ordini di grandezza superiori ai limiti di legge anche nella falda profonda. Diffusa e
preoccupante soprattutto la contaminazione dovuta ad ammine aromatiche che si rinvengono
in tutta l’area esaminata. La concentrazione di questi inquinanti è di due ordini di grandezza
superiori ai limiti di legge
I solventi clorurati sono stati individuati sempre, anche a profondità superiore di 20
metri, quindi sotto sia la falda superficiale che la falda profonda. Poi abbiamo anche il
mercurio, anche in questo caso a 20 metri di profondità
Il canale Lusore Brentella nel suo tratto terminale scorre all’interno del
Petrolchimico sfociando nella laguna di Venezia attraverso la darsena della Rana. Sul fondo
del corso d’acqua mescolati a sedimenti giacciono rilevanti quantità di mercurio e
idrocarburi. Tali sostanze derivano dagli scarichi effettuati intorno agli anni Settanta dagli
impianti del Petrolchimico, in specie dell’impianto cloro-soda e cloruro di vinile monomero.
Gli idrocarburi clorurati sversati con gli altri residui si sono già diffusi nell’ecosistema
circostante. La lunghezza del canale inquinato è 800 metri circa, la quantità 15.000 metri
cubi, i materiali:fanghi di fondo canale contaminato da idrocarburi clorurati e mercurio.
Il profilo di contaminazione delle diossine, quello presente a più elevata
concentrazione, è l’octaclorodibenzofurano, e ha in questo campione un livello di
contaminazione, cioè una concentrazione analitica, di 15.000 picogrammi per grammo di
sedimento. Questo è il profilo di un rifiuto di un processo della produzione di idrocarburi
alifatici clorurati volatili, Quello che è importante è che non è un sedimento, questo è un
rifiuto industriale vero e proprio, non è un sedimento…».
Altrettanto si può dire per la deposizione Ferrari: «I livelli di PCB nei canali
industriali almeno per i sedimenti superficiali non erano molto differenti invece da quelli che
si trovavano nell’area urbana… i campioni di vongole dell’area industriale hanno un livello
di contaminazione da diossine più elevato, molto più elevato del campione prelevato in area
di allevamenti e la stessa cosa vale per i PCB… La contaminazione da metalli pesanti
raggiunge livelli eccezionali, a mio avviso, nei campioni in area industriale con alcuni punti
in cui la concentrazione del mercurio rende il sedimento tossico nocivo…anche in fase di
campionamento per gli stessi operatori ci sono dei rischi a manipolarlo un materiale di
questo tipo, in effetti, a mio avviso, con un contenuto di 2 e 300 milligrammi/chilo di
mercurio diventa un materiale anche difficilmente manipolabile per il quale esistono dei
rischi di manipolazione.
Non solo il mercurio comunque è stato rilevato a valori elevati, ma anche cadmio,
rame e piombo… una correlazione tra elementi ed eventuali processi industriali, a titolo di
esempio il mercurio, tutti sanno, relazionato agli impianti cloro-soda e a impianti correlati di
recupero del mercurio dai reflui del cloro-soda, o anche da catalizzatori di sintesi, abbiamo
trovato che veniva impiegato in vecchi processi di sintesi anche cloruro mercurico nella
sintesi del CVM… abbiamo trovato del sedimento con concentrazioni di mercurio fino a 370
milligrammi/chilo quando il vecchio limite del DPR 915 era di 100 milligrammi per chilo… Il
rame pure catalizzatore di sintesi, nell’ossiclorurazione per la produzione del CVM, per la
produzione di ossido di carbonio, e il piombo per esempio dall’uso di additivi fino a qualche
anno fa a base di piombo, stabilizzanti del PVC, in anni passati nel PVC vi erano quantità
massicce di piombo…
EVC è l’azienda che oggi specificamente produce il CVM, e i prelievi fatti da queste
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
vasche mostrano dei valori assoluti di tossicità equivalente che sono estremamente elevati.
Mentre prima eravamo su valori di qualche migliaio, qui arriviamo alle decine di migliaia….
Assodato che la diossina che si trova in laguna nella vicinanza della zona industriale
è proveniente in toto dalle attività di produzione dei clorurati che si sono svolte e che si
svolgono all’interno del Petrolchimico… quando passiamo a considerare la zona industriale
in termini di canali lagunari, notiamo che i valori di concentrazione di tossicità equivalente
aumentano di un ordine di grandezza, per quanto riguarda il canale industriale sud, il canale
Malamocco Marghera e il canale industriale Ovest, un ordine di grandezza significa almeno
10 volte. Esistono poi dei punti del canale industriale dove il livello di contaminazione è
sensibilmente più elevato, abbiamo un punto nel canale Lusore-Brentelle di 1.359
nanogrammi/chilo di tossicità equivalente, un punto nel canale industriale nord di 1712, in
testa al canale industriale nord, un punto nel canale Brentella di 2783 per il campione
superficiale che vuol dire i primi 3, 5 centimetri di sedimento, per salire ad un valore 64.000,
oltre 64.000 nanogrammi/chilo di tossicità equivalente in un campione più profondo ma
relativamente profondo, perché si tratta di un sedimento posizionato a circa 16, 20
centimetri. Questo valore mi risulta che sia il più alto valore in assoluto che è stato
riscontrato in un ambiente in termini di contaminazione di diossina».
Ma tutto ciò non è servito per giungere ad un esito diverso del primo grado del
processo. Staremo a vedere all’appello. Sperando che l’appello ci sia.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
MANTOVA
Per molti aspetti Mantova pùo essere paragonata a Venezia: è una fra le più belle città
d’arte del nord Italia; era anch’essa circondata dall’acqua sino a quando - a metà del secolo
scorso -non intervennero gli Austriaci a bonificarne una parte; ha dato i natali ad uno dei
nostri massimi poeti, Virgilio.
Purtroppo negli ultimi anni il paragone riguarda fatti non altrettanto ameni: si parla
infatti di disastro ambientale come a Porto Marghera, si confrontano le incidenze dei decessi
tra i lavoratori Enichem con quelli dei reparti di produzione CVM, si indaga sui vertici delle
società che si sono succedute nelle proprietà del petrolchimico con ipotesi di accusa identiche
a quelle che hanno colpito i vertici delle stesse società di Porto Marghera. Ma a Mantova è già
emerso che le vittime della chimica oltre ai lavoratori sono anche gli abitanti di un quartiere
vicino al petrolchimico. Non vorremmo che tale analogia si verificasse anche a Porto
Marghera.
«Per la popolazione residente entro 2 chilometri dall’inceneritore dei rifiuti industriali
del polo chimico di Mantova - si legge nelle considerazioni conclusive del lavoro condotto da
un gruppo di lavoro costituito da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, ASL di Mantova,
ISPESL, Università La Sapienza di Roma - lo studio caso controllo mostra un significativo
incremento del rischio di tutti i STM (Sarcomi dei Tessuti Molli)»: infatti la probabilità di
contrarre questo rarissimo tumore è risultata 25 volte superiore rispetto agli altri mantovani.
In questo tratto di territorio del raggio di due chilometri dai camini del petrolchimico
sorgono i quartieri di Frassino e Virgiliana, 1300 abitanti, gli stessi sui quali si era soffermata
l’attenzione della D.ssa Costani, medico di base che aveva notato una anomala frequenza di
una forma molto rara di tumori tra i suoi pazienti residenti in quel pezzo di città. Purtroppo
l’anomala incidenza di questo tipo di tumori era già stata evidenziata tra la popolazione
maschile residenti nella zona R, ovvero quella maggiormente colpita dal fallout di diossina in
seguito all’incidente all’Icmesa di Seveso nel ‘76.
Tra le raccomandazioni dello studio sopra citato si legge che il riscontro di una così
elevata incidenza di STM dovrebbe indurre ad attivare una indagine per valutare l’esposizione
attuale e pregressa della popolazione a TCDD - meglio nota come diossina di Seveso «agente atto a indurre STM e che può venire emesso dagli inceneritori di rifiuti, in particolare
di rifiuti industriali» e si legge inoltre che sarebbe necessario effettuare una valutazione
dell’incidenza di tutte le neoplasie «in quanto la TCDD è un agente cancerogeno
caratterizzato da un ampio spettro di organi bersaglio».
Il polo industriale attualmente è costituito da tre insediamenti, ovvero il polo chimico
EniChem che copre una superficie di 130 ettari, a circa 5 chilometri dal centro di Mantova,
che è al momento l’unico stabilimento attivo in Italia per la produzione di stirene a partire dal
benzene. Gli altri impianti del petrolchimico, cracking e clorosoda sono stati fermati
rispettivamente nel ‘74 e nel ‘91 e conseguentemente è stato dismesso il ciclo di produzione
del dicloroetano. Oltre al polo chimico sono presenti una raffineria ed uno stabilimento
metalmeccanico ed all’interno dell’insediamento industriale si trova un impianto di
incenerimento per rifiuti industriali di EniChem, che risale al 1974 e che ha operato in tal
modo sino al 1991. Da allora - in seguito ad un intervento della Regione Lombardia - sono
state apportate alcune modifiche per limitarne l’impatto ambientale e ne è stato ridotto
l’impiego allo smaltimento dei soli rifiuti EniChem.
La situazione di degrado ambientale prima ancora dei problemi alla salute dei
cittadini, era emersa in bella evidenza - alla fine del 1994 - dallo Studio di Impatto
Ambientale, redatto dalle cartiere Burgo in merito alla richiesta fatta al Comune di Mantova
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
per la realizzazione di un inceneritore dei fanghi di cartiera sulle rive del lago di Mezzo, a
distanza di circa 2 chilometri dall’area industriale EniChem. Da quello studio, grave appare il
quadro dell’inquinamento atmosferico - in particolare anidride solforosa e benzene - di
origine industriale; pessime le condizioni delle acque del Mincio in uscita dal Lago Inferiore.
Pesante inoltre il grado di inquinamento dei terreni e delle falde all’interno dell’area
industriale per la presenza di solventi organici aromatici, solventi clorurati, idrocarburi e
mercurio. Mercurio lo si ritrova anche nei sedimenti della prima parte del basso corso del
Mincio e nei tessuti dei pesci.
Nell’area oltre alle industrie del petrolchimico erano presenti tre centrali
termoelettriche, un inceneritore per rifiuti industriali da 12.000 tonn/anno, una discarica per
rifiuti speciali della capacità di 300.000 metri cubi sulle rive del lago di Mezzo e altre due abusive - sempre nell’ordine del milione di metri cubi sulle rive del Mincio..
Il quadro ambientale descritto venne però immediatamente contestato dal responsabile
chimico del PMP, il quale rivendica che «nelle zone industriali di Mantova ogni causa
d’inquinamento è stata intercettata e neutralizzata».
Sempre in quel periodo cominciano ad emergere dati che segnalavano anomale
frequenze di tumori al sistema linfoemopoietico (leucemie e linfomi) fra la popolazione
femminile: sino al 50% in più rispetto alla media regionale e oltre il 70% se rapportate alla
media nazionale. Anche in questo caso la reazione da parte degli enti preposti fu quella di
minimizzare. Addirittura, per evitare ingiustificati allarmismi tra la popolazione, venne
presentata dalla ASL una indagine epidemiologica condotta dalla stessa Asl e dallo IARC di
Lione, tra i lavoratori dell’impianto di produzione dello stirene. Questo studio relativo ad una
popolazione maschile di operai vennero presentati come risolutivi a tranquillizzare la
popolazione femminile. Ma i dati dimostravano, se letti correttamente, esattamente il
contrario: ovvero che tra gli operai EniChem - Montedison, impiegati dal 1957 al 1986 in vari
reparti, l’insorgenza di tumori era più alta del normale. In particolare tra gli operai del reparto
servizi generali e distribuzione liquidi, dove maggiormente vengono maneggiati benzene e
stirene, la situazione sanitaria risultava addirittura peggiore di quella riscontata tra gli addetti
del reparto CVM di Marghera. Si riscontrava infatti una probabilità di contrarre il linfoma di
Hodgkin molto superiore rispetto alla media. I dati di questa ricerca presentati ad un
convegno, non sono mai stati pubblicati, ma grazie ad una querela che il responsabile del
circolo Legambiente di Mantova - Paolo Rabitti - ha subito da parte della ASL, sono divenuti
di dominio pubblico.
Venne quindi presentato un esposto alla magistratura, da parte di due consiglieri
regionali (Monguzzi e Torri) assieme a Edoardo Bai, già consulente di Casson per la vicenda
di Porto Marghera, sulle cause delle morti emerse dallo studio sui lavoratori dello stirene.
Nell’esposto si chiedeva anche di indagare sulla vicenda dell’elevata insorgenza dei sarcomi
ai tessuti molli, che era stata segnalata dalla Dott.ssa Costani. A questo esposto ne seguirono
altri da parte dei familiari di ex dipendenti dello stabilimento chimico di Mantova morti o
ammalati di tumore, che chiedevano di fare chiarezza sull’aumento di incidenza di tumori e
linfomi tra i lavoratori che era emersa da uno studio messo a punto da Rabitti.
In seguito a questi esposti oltre alle inchieste della magistratura venne costituito un
tavolo istituzionale che dette il via alla attuazione di uno studio epidemiologico con
l’obiettivo di fornire una stima dell’incidenza dei sarcomi dei tessuti molli nel comune e nella
provincia di Mantova, e in particolare valutare l’incidenza di questo tipo di neoplasie tra la
popolazione residente nell’area a ridosso del polo industriale.
Lo studio, come sopra già riportato, ha purtroppo dato conferma a quanto osservato
dal 1984 al 1991 dal medico di base di questi quartieri, la Dott.ssa Costani e a quanto emerso
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
da un successivo studio relativo agli anni 84-96 che aveva stimato - sempre nella stessa area
- un rapporto standardizzato di morbosità per tutti i STM pari a 2.25, ovvero una probabilità
pari ad oltre il doppio rispetto al resto della popolazione di ammalarsi di queste rare neoplasie.
Come a Marghera, gli esposti e le indagini della magistratura hanno portato alle ipotesi
di accusa per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose per i vertici delle aziende
che hanno gestito il petrolchimico di Mantova. Come a Marghera ci sarà un processo che
stabilirà responsabilità civili e penali, verrà fatta piena luce sull’inquinamento prodotto
nell’area. Ma sarebbe ora che da Mantova si cominciasse a chiudere con il passato, si
cambiasse rotta con la chimica dei veleni e si mettesse finalmente mano alla bonifica delle
aree contaminate.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
BRESCIA
E' significativo che oggi, nella definizione del piano di caratterizzazione dell'area
inquinata esterna allo stabilimento si debba necessariamente tener conto della serie storica di
emergenze acclarate di inquinamenti di origine Caffaro, in particolare quella disastrosa di
benzolo (produzione del monoclorobenzolo per usi bellici) del 1916-1918, quelle
successivamente attestate da tetracloruro di carbonio nel 1980 e nel 1984 (allora non furono
incredibilmente cercati i PCB!), di quando cioè la Caffaro era di proprietà della Snia e ormai
circondata dai quartieri popolari della periferia di Brescia.
Dal 1950 ad oggi sono stati impiegati un migliaio di lavoratori, attualmente rimasti in
centocinquanta. La Caffaro ha prodotto, fin quando è stato legale, PCB per l'Italia e il mercato
estero (è stato molto usato nei trasformatori elettrici e in mille altri usi). Secondo
dichiarazioni di dirigenti della società stessa la produzione di Pcb iniziò a Brescia nel 1938 e
quando cessò nel 1983 la quantità totale prodotta ammontava a 38.380 tonnellate; su questa
valutazione non tutti sono d’accordo, parlando alcuni di oltre 100.000 tonnellate.
E i PCB sono, stando ad un recente documento dell'Istituto Superiore di Sanità,
sostanze molto tossiche, per le quali viene riportato un ampio spettro di effetti nocivi.
Intrinsecamente meno potenti delle diossine, i livelli di concentrazione con i quali i PCB
ricorrono negli alimenti, in genere molto più elevati di quelli presentati dalle prime, ne
innalzano tuttavia comparativamente la pericolosità. Alcuni PCB sono noti per produrre
effetti tossici con gli stessi meccanismi delle diossine (PCB diossina-simili).
Che la Caffaro abbia inquinato Brescia non c'era il minimo dubbio da anni. Ma quanto
e come nessuno lo ha appurato. Anche perchè tutta la città risulta oggi inquinata dalle sue
fabbriche storiche: quando tra il 1994 e il 1995 la municipalizzata di Brescia ha avviato la
prima analisi dell'inquinamento dei suoli per lo studio d'impatto del suo costruendo
inceneritore, su una settantina di carotaggi distribuiti in quasi cento chilometri quadrati di
territorio, in quasi tutti si è trovato tracce di diossina, concentrazioni rilevanti di metalli
pesanti, sostanze chimiche tossiche.
In particolare da analisi effettuate dal presidio multizonale di prevenzione di Milano
durante queste campagne dal 1994 al 1997 in cui sono stati analizzati 7 campioni di terreno
nella zona della Noce, il valore medio di PCB è risultato di 0,253 mg/Kg, contro un limite
accettabile dettato dal DM 471/99 di 0,001 mg/kg, e un valore medio di diossine e
dibenzofurani pari a 31,1 nanog/kg, contro il limite massimo accettabile di 10 (Dm 471/99).
Vicino alla Caffaro, c'erano anche le acciaierie del Comparto Milano con il loro
carico di metalli pesanti e diossina. Nell'area delle ex-fonderie Perani (alti livelli di Pcb e
metalli pesanti) parzialmente bonificate prima della costruzione del nuovo inceneritore, alla
località della Noce e delle Fornaci, un'area ex-industriale probabilmente inquinata dalla
Caffaro, nella zona S.Paolo-Boffalora (ancora metalli pesanti e Pcb), occupata da fonderie di
rame e ottone tra cui la Bonomi Metalli, già chiusa perché troppo inquinante dal sindaco
Corsini 12 anni fa, ma mai bonificata.
Nonostante tutto, non è mancata la sorpresa in pieno agosto 2001, quando è stata
depositata ai magistrati di Brescia la circostanziata denuncia di un sindacalista iscritto a
Legambiente, Marino Ruzzimenti e di due medici dell'ASL, fondata su alcune indagini
sanitarie e sulle analisi di contaminazione del suolo interno all'azienda. La stessa Caffaro
aveva denunciato un diffuso inquinamento del suolo, del sottosuolo (anche a decine di metri
di profondità) e delle acque sotterranee, con punte elevatissime, sia sotto e negli immediati
dintorni dei reparti produttivi, sia all'esterno dell'azienda. Tracce di PCB sono state trovate
dalla Centrale di Latte di Brescia anche nei prodotti di una azienda agricola appena sotto la
fabbrica.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
La ricerca di Pcb eseguita dall’istituto zooprofilattico dell’asl di Brescia, nei mesi di
settembre e ottobre 2001, sul latte e su alcuni capi di bestiame della zona, ha rintracciato
concentrazioni di tali sostanze al disopra del valore limite di 100 nanogrammi/ grammo di
grasso per il latte e di 200 nanogrammi/grammo per gli altri prodotti (raccomandazione UE
del giugno 2000). Nei 6 campioni di latte analizzati sono state rintracciate concentrazioni di
Pcb tra i 231 e i 504,3 ng/gr di grasso. Concentrazioni elevate sono state riscontrate anche in
campioni di uova (12754 ng/gr grasso, 2188,5 ng/g), di galline (23819 ng/g; 6869 ng/gr), e di
un toro (895,4 ng/g grasso).
Inoltre l’Istituto Superiore di Sanità ha effettuato un’indagine sull’eventuale presenza
di diossine e furani nel latte prodotto da vacche delle cascine a sud della Caffaro: la loro
presenza è stata rintracciata in concentrazioni pari a 8 e 11 picogrammi/grammo di grasso di
latte, ovvero due volte oltre il valore limite (5 picogrammi/grammo di grasso) Da
dichiarazioni apparse sulla stampa locale tutti gli animali delle cascine vicino alla Caffaro
sono stati abbattutti, e la giunta provinciale avrebbe approvato una delibera per lo
stanziamento di 100 milioni per il sostegno delle aziende in crisi.
Data la presenza di diossine nei prodotti agricoli, gli agricoltori e le loro famiglie sono
stati sottoposti dalla Asl di Brescia a controlli ematici di Pcb e mercurio. Su 15 persone
analizzate solo in due la concentrazione di Pcb è rientrata nel range di normalità (0,5-15
nanogrammi/ml) e in ben nove casi la concentrazione è risultata di 6 volte oltre il limite
massimo di normalità. Incredibilmente una bambina di 12 anni è stata riscontrata una
concentrazione di mercurio metà del limite massimo per l'esposizione professionale!
Da ricordare che già nel 1981 indagini della presenza di Pcb nel sangue dei lavoratori
della Caffaro, aveva dato risultati positivi in quaranta di loro, con concentrazioni medie dai
50 ai 500 nanogrammi/litro.
Quello che emerge da questa breve resoconto, è l’elevata eterogeneità dei dati
disponibili e la mancanza di un quadro organico della situazione ambientale dell’area e dei
possibili effetti sanitari sulla popolazione, da cui si evidenzia la necessità di realizzare al più
presto un vero piano di caratterizzazione di tutta la zona intorno la Caffaro, nonché dei
territori circostanti le discariche di Passirano e Castagnato. Infatti, seppure questi dati
richiedono ulteriori indagini ed approfondimenti dei possibili effetti sulla salute della
popolazione, la contaminazione ambientale di sostanze particolarmente tossiche nella zona
non può essere negata. Bisogna quindi verificare rapidamente se i dati fin qui emersi siano
indice di situazioni critiche puntuali, o di un inquinamento di tipo diffuso di tutta l’area
interessata, per intervenire in maniera mirata.
Il primo intervento da effettuare, sempre a salvaguardia della salute pubblica, riguarda
la protezione delle aree risultate inquinate, con l'immediata messa in sicurezza dei siti, e una
successiva bonifica definitiva.; queste aree dovrebbero essere chiuse al pubblico, per evitare
contatti con il terreno inquinato. Un intervento tanto più urgente, se pensiamo che tra gli
inquinanti vi sono miscele di composti di PCB, che l'ente americano per la protezione
dell'ambiente (EPA) ha suddiviso in classi di tossicità e la contaminazione presente a Brescia
riguarda in particolare quelli ad «alta» tossicità. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul
cancro (Iarc) ha classificato i Pcb nel gruppo 2A, ovvero quali «probabili cancerogeni per
l’uomo».
Ma oltre alla presenza di PCB, i terreni contengono altri composti, alcuni dei quali
sicuramente cancerogeni, quali arsenico, benzene, diossine, tetracloroetilene, cloroformio,
DDT, dicloroetano, policlorofenoli, idrocarburi clorurati .
L’esposizione a tali sostanze potrebbe rappresentare un serio rischio per la salute
della popolazione, in particolare per il rischio di contrarre alcune patologie, come tumori del
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
polmone, del sangue, del fegato, della pelle, della vescica. Ma già la presenza di alte
concentrazioni di PCB possono essere causa di patologie acute a carico del fegato e del
sistema immunitario con conseguente diminuzione delle difese dell'organismo. Proprio sugli
equilibri ormonali della popolazione , quali la funzione tiroidea e il bilancio ormonale, si sta
dirigendo l’attenzione della Commissione tecnico-scientifica istituita a Brescia, individuati
come bioindicatori e precursori di un possibile rischio a patologie a più lunga latenza (come
quelle tumorali), tanto che sta valutando di richiedere all’Iss uno studio epidemiologico in tal
senso.
Per queste ragioni il 16 ottobre 2001 Legambiente e Medicina Democratica hanno
costituito con i promotori della denuncia e una cinquantina di abitanti un comitato di aiuto e
controllo in una pubblica assemblea in quartiere. E' stata l'occasione per chiedere al sindaco di
ingiungere ai proprietari dell'azienda gli opportuni interventi di messa in sicurezza e di
bonifica dei terreni contaminati.
Già nell’agosto 2001 il Settore ambiente ed ecologia del Comune di Brescia, vista la
comunicazione dell’Asl relativa all’inquinamento del terreno nella zona intorno l’industria,
ha diffidato la società Caffaro s.p.a. ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza
d’emergenza, di bonifica e ripristino ambientale dei siti e il 26 ottobre il Sindaco - visti i
nuovi dati delle analisi dell’Asl sugli scarichi idrici - ha emesso un’ordinanza in cui si ordina
alla Caffaro s.p.a. di adottare, entro trenta giorni, idonei sistemi per l’eliminazione o il
contenimento degli inquinanti presenti nello scarico idrico. La società ha presentato ricorso al
Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha sospeso i termini dell’ordinanza sindacale
per l’adeguamento dello scarico, accettando la proposta della Caffaro che si è impegnata a
presentare nello stesso lasso di tempo un progetto di fattibilità per l’abbattimento dei livelli di
inquinamento da Pcb. Il Tar tornerà sulla questione il 25 gennaio 2002.
Nel frattempo, in mancanza di interventi, altre sostanze tossiche verranno trasportate
all'esterno delle aree inquinate, soprattutto attraverso la falda idrica sotterranea, che scorre
verso sud trascinando con sé i composti tossici.
A tale proposito un corposo documento tecnico di richieste e proposte è stato inviato
al Comune e al Presidente della Regione Lombardia, considerati i principali responsabili della
salute pubblica.
La questione appare piuttosto complicata in quanto la bonifica sarà miliardaria e gli
interessi immobiliari sull'area consistenti. Si comincia a parlare della necessità di una
interruzione dell'attività produttiva per rendere possibile non solo la bonifica, ma anche la
semplice messa in sicurezza dell'area. Per ora si è scongiurata la contrapposizione, in passato
accesa, tra lavoratori e abitanti. Ma è evidente che la bonifica del territorio contaminato dalla
Caffaro sta diventando il terreno di verifica e di prova per le istituzioni e la città di Brescia: un
modo per iniziare a fare i conti con il suo passato industriale.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
PIEVE VERGONTE
Un lago in cui è possibile fare il bagno, ma è vietato pescare. Meta turistica da cartolina che
custodisce, acquattate sul fondo, centinaia di tonnellate di scorie contenenti DDT. Senza
considerare le concentrazioni di mercurio sempre più preoccupanti. Un souvenir per ricordare
cinquant’anni di chimica a Pieve Vergonte, a monte del lago Maggiore.
Grazie a fabbriche come Rumianca prima, Sir ed Einchem poi, il DDT, insetticida
démodé, è finito nelle acque di scarico e ha reso non commestibili praticamente tutte le specie
ittiche pregiate del lago Maggiore. L’area è stata inserita dal ’98 nella lista dei quindici siti da
bonificare di interesse nazionale.
Sono i frutti amarissimi di una distrazione durata decenni, fino al ’96, quando gli
amministratori provinciali, seduti al tavolo della Commissione per la pesca nelle acque Italosvizzere, hanno ascoltato allibiti i risultati di una ricerca sulla presenza di DDT nei pesci del
lago Maggiore sul versante elvetico. Lo studio dimostrava in modo inequivocabile il
superamento dei pur permissivi limiti imposti oltreconfine. Immediatamente vennero ordinate
indagini sul pescato italiano, che confermarono il quadro desolante.
I referti documenteranno poi lo stato di obsolescenza degli impianti chimici, il degrado
del suolo, l’assenza di una rete fognaria, l’inquinamento del sottosuolo fino alla falda
acquifera collegata al Toce, lo sversamento di acque di lavorazione non depurate, ma
infinitamente diluite fino ad essere rese compatibili con la legge Merli, allora in vigore. Viene
accertata la presenza anche di altri inquinanti: arsenico (dalle ceneri di pirite accumulate sul
suolo), cloroderivati e soprattutto mercurio (dai fanghi delle celle elettroniche utilizzate per la
produzione del cloro).
L’allora ministro dell’ambiente Edo Ronchi, in un’assemblea dei Verdi a Torino
riferisce pubblicamente la notizia. Gli fa eco, da Verbania, una bordata campanilista di fischi
e insulti. Ma nello stesso anno, con un ordinanza del Ministero, viene bloccata di fatto la
produzione del DDT. Le autorità regionali intanto vietavano la pesca professionale e il
consumo di pesce del lago Maggiore. E’ fatta salva, con un sospiro di sollievo per gli
amministratori, la balneabilità delle acque, favorita dall’insolubilità del biocida che permane
nei fondali.
Il 4 dicembre 1998, inizia il processo contro i dirigenti Enichem. Legambiente è parte
civile. Il processo, che vede uno schieramento foltissimo di enti pubblici e privati, si conclude
con il riconoscimento della buona volontà della Enichem per la bonifica e la condanna degli
imputati a pene lievissime. Tutte le parti civili vengono largamente risarcite (soltanto
Legambiente tenta di opporsi).
Facendo il punto sullo stato di avanzamento dei lavori di bonifica per una spesa complessiva
di 91 miliardi nel sito di Pieve Vergonte e nel bacino del lago Maggiore, attualmente sono
stati portati a termine da EniChem (che ne ha dato notizia in un documento distribuito
localmente) i seguenti interventi:
- demolizione dell'impianto DDT e sala Krebbs e stoccaggio provvisorio delle
macerie;
- asfaltatura delle strade di accesso agli impianti ancora in funzione (produzione del
cloro per elettrolisi in celle ad amalgama di mercurio; produzione di cloroderivati del benzene
e del toluene; produzione di acido solforico da zolfo elementare);
- attivazione di una barriera idraulica costituita da 31 pozzi, che intercettano a meno
10 e a meno 20 metri di profondità, con un fronte di cattura di 700 metri, per una capacità di
emungimento pari a 850 mc/ora di acqua che viene inviata al trattamento di depurazione e
deviata nel Toce;
- attivazione di tecniche di "air sparging and soil venting" in alcuni punti del
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
sottosuolo della zona impianti.
Ancora tutto da definire resta il progetto di bonifica vero e proprio, che consisterà
probabilmente nella rimozione di uno strato di suolo dai piazzali liberi da impianti e da
sempre utilizzati come zone di stoccaggio per le scorie di lavorazione (cloroderivati alifatici e
aromatici, DDT, arsenico, mercurio), per stoccarlo poi in un "sarcofago" impermeabile da
mezzo milione di metri cubi. Legambiente aveva chiesto che lo stoccaggio fosse preceduto da
una detossificazione delle terre. Nello stesso senso si erano espresse Provincia e Regione. La
questione è ancora all'attenzione del Servizio VIA del Ministero, a causa dell'opposizione di
EniChem.
Il mezzo milione di metri cubi è stato calcolato considerando soltanto lo strato di suolo
nei piazzali di deposito delle scorie di lavorazione, mentre nulla è stato deciso ancora per il
terreno inquinato su cui insistono gli impianti. Si dovrebbero inoltre chiudere gli impianti
vecchi e obsoleti, fatiscenti, attualmente di proprietà Tessenderlo s.p.a., una multinazionale
dei cloroderivati e dei fertilizzanti, tuttora attiva a Pieve Vergonte, che lavora benzene e
toluene, notoriamente cancerogeni, che produce cloro e usa mercurio, famigerato elemento
chimico dagli effetti deleteri per il sistema nervoso.
Nel frattempo Enichem sembra stia per diventare di proprietà dell’araba Sabic. Visto
che Enichem a Pieve Vergonte è impegnata nel programma di bonifica del suolo e del
sottosuolo, inquinati da decenni di lavorazioni chimiche selvagge, la domanda che ci poniamo
è se la Sabic si farà carico della bonifica o se ancora una volta assisteremo al classico
scaricabarili delle responsabilità.
Per quanto riguarda la ricaduta nel bacino del lago Maggiore dell'inquinamento di
Pieve Vergonte, oggi è ancora in vigore il divieto di pesca della maggior parte dei pesci del
lago, a causa del livello di DDT costantemente al di sopra del limite di legge. In realtà il
divieto sembrerebbe valere soltanto sulla carta, visto che le barche dei pescatori continuano la
loro attività. Va inoltre segnalato come sia ancora accesa la diatriba tra esponenti politici
locali e Ministero della Sanità sull’adeguamento ai limiti di legge elvetici, molto più
permissivi di quelli italiani.
L'unica indagine ambientale in corso è stata promossa dal Settore epidemiologico
dell’Arpa Piemonte, per una ricerca sul latte materno delle puerpere che partoriscano presso
gli ospedali della zona. Visto che il pesce di lago è poco consumato dagli abitanti locali, il
tenore di DDT nel latte sembrerebbe in linea con quello nazionale, benché i campioni di latte
spontaneamente offerti per le analisi, siano troppo pochi per permettere di trarre conclusioni
complessive. Molto più interessante sarebbe un’indagine epidemiologica mirata sui lavoratori
di Pieve Vergonte e sulle loro famiglie, che tuttora manca e che è purtroppo osteggiata da
amministratori locali e sindacati.
In occasione della presenza a Pieve Vergonte, il 13 novembre scorso, del Ministro
dell’ambiente Altero Matteoli, Legambiente Verbano ha reso pubblico un appello al ministro,
in cui si chiedeva un impegno per la bonifica dell’area e per eliminare quantomeno il
mercurio dalle lavorazioni in corso.
Il circolo locale di Legambiente ha infine finanziato una Borsa di studio (tesi di laurea
in Scienze dell'ambiente presso l'Università di Milano) per una ricerca sul contenuto in
mercurio dei pesci del lago Maggiore. I dati ufficiali degli anni scorsi parlano di
concentrazioni di mercurio di una certa consistenza (negli agoni fino a un valore medio di 250
ug/Kg), seppure inferiori al limite di legge (500 ug/Kg). Va notata la grossa differenza tra i
risultati analitici riscontrati nel 2001 dal Laboratorio cantonale elvetico rispetto ai dati
dell’Arpa: il primo ha trovato concentrazioni di mercurio in costante crescita rispetto agli anni
passati, a differenza dell’Agenzia regionale protezione ambiente, che anzi ne constata la quasi
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
scomparsa. Anche per il mercurio, come per il DDT, non è tanto l'avvelenamento della
popolazione che preoccupa, quanto quello dell'ecosistema e la possibilità di intossicazione
cronica dei lavoratori e della popolazione residente.
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CENGIO E SALICETO
A Cengio sembra si sia imboccata la giusta direzione. E’ anche grazie al
Commissariamento che, dopo anni e anni di incertezze, si è cominciata a respirare aria nuova
in Val Bormida. Si sono compiuti dei primi passi in avanti, premessa indispensabile per
risolvere la vertenza Acna sotto tutti i punti di vista ambientale e occupazionale.
Ma veniamo alla storia «inquinata» di Cengio. L’Acna è stata per anni - e rimarrà per molto
tempo - il simbolo della prepotenza del sistema industriale verso l’ambiente e la salute dei
cittadini. Ma è anche il simbolo di come una industria non può restare sul mercato senza
sentire una responsabilità per l’ambiente.
Per far sopravvivere l’Acna un intero fiume, il Bormida, è stato sequestrato all’interno
del perimetro aziendale e restituito alla valle dopo che le sue acque sono state impiegate per le
attività di processo, di raffreddamento e di diluizione degli scarichi. L’Acna è stata
l’accumulo sul sito nel corso dei decenni di una enorme quantità di rifiuti e di terre
contaminate. L’Acna è stata l’uso di centinaia di sostanze pericolose alcune delle quali
mutagene e cancerogene, la presenza accertata nel fiume di micro-inquinanti, la saturazione
dei bacini di stoccaggio. E infine è stata una storia antica di conflitti con le popolazioni
contadine, che comincia con le proteste (represse) e le cause giudiziarie (perse) negli anni ’30,
proseguendo tra alti e bassi fino ai giorni nostri.
Il sito Acna copre oggi una superficie di circa 55 ettari, a cui vanno aggiunti le aree
pubbliche fuori dal muro di cinta dell’azienda e la discarica di Pian Rocchetta. Gli scarichi a
elevato contenuto di solfati non trattati dal depuratore, entrato in funzione a metà degli anni
Ottanta, vennero concentrati e lasciati decantare in bacini a cielo aperto (lagunaggi o
"lagoons"). Il rischio ambientale deriva quindi dall’inquinamento diffuso nel sottosuolo di
tutto lo stabilimento, dall’accumulo di rifiuti speciali e pericolosi derivanti da decenni di
attività, e dai depositi liquidi ad alto contenuto salino stoccati nei lagunaggi.
Nel corso degli anni ‘80 gli ambientalisti ne hanno ostinatamente chiesto la chiusura e
la bonifica. In quegli stessi anni, l’Enimont e tutte le rappresentanze della chimica e
dell’industria italiana, così come i sindacati e i governi che si succedettero, difesero altrettanto
ostinatamente l’attività dell’Acna. Chi in nome dei diritti dell’impresa, chi in nome della
possibilità di conciliare «ambiente e sviluppo».
Lo stabilimento dell’Acna ha rappresentato per circa 120 anni un insediamento ad alto
rischio ambientale per l’intera Val Bormida. E’ stato acquistato durante la sua attività da
diverse aziende. L’ultimo cambio di proprietà è del 1990, anno dell’acquisto da parte di
EniChem. Gli impatti ad essa attribuibili si riferiscono infatti a tutte le lavorazioni praticate
all’interno dell’azienda nel passato, visto che l’area industriale ospita i residui di lavorazione
di oltre un secolo di attività. In questo periodo sono state praticate lavorazioni ad alto rischio,
utilizzate sostanze ad alta pericolosità, che hanno generato residui liquidi, solidi e semisolidi
ancora stoccati in grandissime quantità, ed in condizioni assai precarie, nell’area industriale.
Dalle diverse indagini effettuate risulta la presenza nel sottosuolo dell'area industriale di una
quantità variabile, secondo le recenti stime del Commissario nominato nel 1999, da 1.500.000
a 2.000.000 mc di rifiuti speciali e pericolosi.
Nella zona interna allo stabilimento sono inoltre localizzati 10 lagoons che contengono
circa 300.000 mc di reflui costituiti prevalentemente da solfati, solfiti e carbonati di sodio e
potassio, oltre che da sostanze organiche quali solfonati della naftalina e del benzene. Sempre
nella zona interna risultano inoltre presenti quantità non trascurabili di altri rifiuti, molti dei
quali speciali pericolosi, oltre a notevoli quantità di manufatti contenenti amianto, stoccati in
maniera non conforme alla normativa vigente.
La situazione eterogenea dei rifiuti presenti nell'area determina da sempre una
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
complessa questione e una serie di rischi ambientali. L’area fu dichiarata nel 1986 «ad
elevato rischio di crisi ambientale».
Lo stabilimento Acna è da sempre sito in un ansa della sponda destra del fiume
Bormida, area di esondazione naturale dello stesso. L’allagamento dell’area sarebbe una vera
e propria catastrofe ambientale per la presenza dei lagoons, il cui sistema di tenuta è del tutto
precario. Va sottolineato inoltre che per consentire l'espansione dello stabilimento, negli anni
passati il corso del fiume è stato deviato e che nell'evento alluvionale del novembre 1994 si
sfiorò, per un caso del tutto fortuito, la tragedia. Si legge nella Relazione conclusiva della
Commissione parlamentare di inchiesta costituita ad hoc: «Statisticamente ogni 10 anni
l’insediamento Acna di Cengio può essere inondato». Nel malaugurato caso di un'inondazione
si potrebbe avere il trascinamento nel corso d’acqua e nell’intera Val Bormida dei reflui
contenuti nei lagoons, così come non si può escludere che analoga sorte toccherebbe ai residui
industriali presenti nel sottosuolo dell'insediamento Acna. A tutto questo va aggiunto il fatto
che l’area dove insiste lo stabilimento è classificata area sismica del 4° grado della scala
Mercalli.
Nel 1998 la legge 426 inserisce Cengio e Saliceto tra i 15 siti di interesse nazionale da
bonificare. Un anno dopo viene decisa la chiusura della fabbrica, con la messa in cassa
integrazione di circa 200 lavoratori.
Il 31 maggio 1999, visto l’immobilismo dimostrato dall’azienda nell’attivare
quantomeno le opere di messa in sicurezza d’emergenza del sito e dalle Regioni Piemonte e
Liguria nel risolvere la questione, con un’ordinanza del Dipartimento della protezione civile
della Presidenza del Consiglio dei Ministri viene nominato un Commissario governativo fino
al 31 dicembre 2000 (questo termine verrà poi prorogato successivamente al 31 dicembre
2002). Con dei compiti non da poco: avviare la bonifica delle aree inquinate per il loro
riutilizzo e controllarne l'esecuzione, avviare attività di ricerca e sperimentazione per
l'esecuzione degli interventi, formare personale specializzato nelle tecniche di bonifica e nella
ricerca avvalendosi dei dipendenti Acna.
Il 10 ottobre 1999 viene approvata la perimetrazione dell'area, che viene divisa in tre
zone: la zona A, ad elevato rischio, e cioè lo stabilimento, la discarica e i territori
immediatamente a valle; la zona B, a medio rischio, che comprende il corso d'acqua e le aree
esondabili; e un zona C, a basso rischio.
Nel frattempo si decide di completare la realizzazione di una barriera impermeabile
per evitare che la falda acquifera entri in contatto con l’area contaminata. Inoltre si è prevista
la costruzione di un muro, situato in corrispondenza del muro di cinta, con lo scopo di creare
un argine che contenga un’eventuale eccezionale ondata di piena del fiume, per una portata
stimata con un tempo di ritorno di 200 anni.
In seguito alla perimetrazione si è passati alla caratterizzazione del sito. Il piano di
caratterizzazione delle aree esterne è di competenza pubblica (sistema Anpa - Arpa Liguria Arpa Piemonte), mentre quello delle aree interne allo stabilimento ricade sotto la
responsabilità di Acna. La conclusione dei due piani di caratterizzazione consentirà di dare
inizio alla progettazione degli interventi di bonifica delle aree.
Dalla caratterizzazione delle aree interne è emersa la presenza, con concentrazioni
rilevanti, di metalli (in particolare arsenico, mercurio e rame), dicloroaniline, naftaline,
nitroderivati, ammine e cloroammine, fenoli e clorofenoli e solfonati. Le analisi delle acque
hanno confermato l'elevata concentrazione degli inquinanti in tutta l'area e la presenza di
concentrazioni elevate di inquinanti anche nelle aree esterne al muro di cinta, confermando la
presenza di residui industriali in quelle zone.
Il 4 dicembre 2000 viene firmato l’accordo di programma, nel quale vengono definiti:
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
la soluzione per lo smaltimento dei rifiuti stoccati nei lagunaggi, l’obiettivo della bonifica
per gran parte del sito e quello della messa in sicurezza per la parte residua, il
cofinanziamento degli oneri finanziari da parte del pubblico (nel dettaglio 300 miliardi di lire
stanziati da EniChem contro i 50 dallo Stato), la nascita di una società dedicata alla
reindustrializzazione e l’impegno a procedere alla reindustrializzazione in seguito alle
operazioni di bonifica
Il 29 marzo 2001 viene approvato il primo progetto finalizzato alla bonifica del sito: si
tratta di un progetto articolato che prevede lo svuotamento dei dieci lagunaggi dai 300mila
metri cubi di sali e la successiva rimozione degli stessi. Il progetto viene presentato da Acna il
2 febbraio 2001, come previsto dall’accordo di programma firmato a Palazzo Chigi nel
dicembre 2000.
Per ciò che riguarda i lagunaggi essi hanno costituito motivo di forte conflitto sociale
nell’area. Basti pensare al cosiddetto Re. Sol., l’impianto di incenerimento che l’azienda
voleva realizzare per gestire lo smaltimento di tali rifiuti e di quelli che avrebbe continuato a
produrre, essendo allora in corso l’attività produttiva. Dopo ben 12 anni la proposta
dell’inceneritore non aveva portato a nessuna soluzione, ma era solo riuscita a far aumentare i
problemi locali. Superati fortunatamente dalla bocciatura dell’impianto Re. Sol e
dall’approvazione di questo nuovo progetto.
Il progetto approvato prevede l’estrazione dei sali dai bacini, l’essiccamento dei sali in un
impianto che dovrà essere costruito appositamente, il confezionamento delle polveri saline in
big bags e il loro trasporto su rotaia in una o più miniere di salgemma in Germania, dove
verranno smaltiti definitivamente. I tempi previsti per l'intervento sono di circa 5 anni e
mezzo.
Vale la pena sottolineare che la soluzione del risanamento dell’Acna di Cengio non
potrà mai essere solo il trasporto su rotaia dei fanghi dei «lagoons» in Germania e di
quant’altro ha inquinato la Val Bormida.
Sui tempi della bonifica si stima che per le aree private le operazioni di bonifica si
concluderanno in circa 7-8 anni, mentre per quanto riguarda le aree pubbliche i tempi saranno
più lunghi, dato che le aree pubbliche sono costituite prevalentemente dal bacino del fiume
che si trova a valle dell’area dell’Acna. Quindi si rende necessario terminare preliminarmente
le operazioni nel sito industriale, prima di completare gli interventi che riguarderanno il
fiume.
Anche i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità rivelano l’urgente bisogno di
risanamento dell’area. L’intera area a rischio considerata nell’ultimo rapporto dell’Oms è la
Val Bormida, formata da 19 comuni liguri e da 20 piemontesi per un totale di circa 55.000
abitanti. La Val Bormida è interessata dalla presenza di inquinanti veicolati da due corsi
d’acqua, il Bormida di Millesimo e il Bormida di Spigno. Per la mortalità generale non si
osservano eccessi, né per i maschi né per le donne, mentre per i primi si trovano eccessi per il
tumore allo stomaco del 38% (82 casi osservati); tra le donne gli eccessi si hanno per il
tumore allo stomaco (55 casi osservati, pari ad un eccesso del 36%) e al fegato (46% in più,
con 37 casi). Per una migliore valutazione della possibile esposizione ad inquinanti presenti
nel fiume, è stata svolta un’analisi più puntuale per i comuni localizzati lungo il ramo
Millesimo. Da questa si evince una tendenza all’aumento della mortalità per tumore al fegato
nei comuni a rischio (Millesimo, Cosseria, Cengio, Saliceto, Camerana, Gottasecca,
Monesiglio), così come per il tumore allo stomaco.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
COGOLETO
La Luigi Stoppani S.p.A., azienda chimica che produce bicromati, è presente da oltre
100 anni nella Val Lerone, ai confine tra i comuni di Arenzano e Cogoleto (Provincia di
Genova) ed attualmente impiega 120 dipendenti.
Durante il suo lungo periodo di attività, e soprattutto negli ultimi decenni, sono
stati accertati gravi situazioni di inquinamento di aria, suolo, sottosuolo, sabbie delle spiagge
delle due località ed oltre, a ponente sino a Varazze nonché nei sedimenti e nella catena
alimentare (pesci, molluschi, crostacei) dovuti a Cromo esavalente (cancerogeno), Zinco nella
discarica dei fanghi di risulta in località Molinette), polveri, SO2, ecc. in atmosfera.
Recentemente (Febbraio 2001) la Stoppani, attraverso un emendamento alla
finanziaria del Governo Amato, è stata inserita nei siti da bonificare indicati dalla legge
426/98.
Questo obbiettivo era stato richiesto a gran voce da Legambiente Liguria, e raccolto
dalla Regione, dalla Provincia di Genova, e da alcuni consiglieri regionale e deputati liguri.
Infatti, numerosi sono le indicazioni che indicano uno stato ambientale a dir poco
allarmante della Val Lerone.
Dati della Regione Liguria parlano di 92000 m3 di fanghi tossici stoccati nella
discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre
l’agenzia regionale protezione ambiente (Arpal) ha trovato concentrazioni di cromo
esavalente nelle acque di falda 64000 volte superiore ai valori consentiti nelle acque
sotterranee in siti da bonificare (Dati ARPAL).
Per quanto riguarda l'area dello stabilimento la concentrazione media nei suoli
ritrovata nel'99 è stata di 28 milligrammi per chilo, quantità 140 volte più alta del limite
previsto per gli scarichi industriali e 5 mila volte superiore ai limiti per le acque sotterranee.
La concentrazione minore è stata rilevata sotto il silos soda; mentre i livelli più preoccupanti
sono stati registrati sotto le vasche e il reparto acido cromico (rispettivamente 3l2 e 322
milligrammi per chilo).
All'esterno della fabbrica le quantità di cromo diminuiscono, anche se restano molto
preoccupanti. Sotto il viadotto dell'Aurelia i milligrammi di cromo esavalente presenti nel
suolo risultano 2,03 per chilo. Vale a dire 10 volte in più che in uno scarico industriale e 400
volte in più del limite per le acque sotterranee.
Per quanto riguarda le acque di battigia in 16 casi negli ultimi tre anni sono state
rilevate concentrazioni di cromo superiori a 0,30 milligrammi per chilo.
Preoccupante anche l’inquinamento della discarica di Molinetto per la presenza di
metalli pesanti, soprattutto zinco, presente in quantità fino a 24 volte i limiti consentiti nelle
acque che filtrano dalla discarica. La sostanza nociva non rientra nel processo produttivo della
Stoppani ma non era presente a Molinetto prima dell'arrivo dei camion dell'azienda di
Cogoleto (fonte: Provincia di Genova). Il cromo, pur in concentrazioni altissime, non supera i
limiti consentiti per la discarica, 100 milligrammi su chilogrammo.
I limiti di legge sono stati invece superati più volte per quanto riguarda i valori di
c r o m o
e s a v a l e n t e
nell'aria della zona abitata prospiciente lo stabilimento. Tali esuberi, di cui si è venuto a
sapere solo di recente, sono stati registrati tra il settembre del 1998 e I'aprile del 1999 con
punte massime risalenti alla primavera dell'anno passato.
Recentemente sono stati diffusi dati sui campionamenti delle spiagge del ponente
ligure, dai quali si deduce che il litorale, sino al comune di Varazze è interessato a
inquinamento da cromati.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
Un accordo, mai trasformato in vero e proprio accordo di programma, tra Regione,
Comuni di Cogoleto e Arenzano, Sindacati e Azienda, prevedeva la chiusura della fabbrica e
la bonifica del sito entro il 2001, ma dopo un breve periodo di ristrutturazione (da agosto a
dicembre 1999), vi è stata una consistente ripresa delle attività a partire dal 1 gennaio 2000.
Nel 1997 è stato approvato un progetto di bonifica (Envireg) con finanziamento
europeo di 7 miliardi a Stoppani con scadenza entro il 2000, per il trattamento dei fanghi
tossici e conseguente inertizzazione; bonifica del torrente e dei canali di gronda per acque
piovane, nonché la bonifica dell’arenile. Di tali attività nessuna è stata portata al termine e
tranne l’ultima nemmeno iniziata.
Recentemente, nel 2001, l’azienda ha aperto l’esercizio di un forno sperimentale, cosa
che ha provocato reazioni negative da parte delle associazioni ambientaliste, delle
amministrazioni locali e dei cittadini
E’ altresì notizia di questi giorni l’accordo raggiunto tra Regione Liguria, Provincia di
Genova, Comuni di Arenzano e Cogoleto per arrivare al più presto ad un accordo di
programma con la società Stoppani per la chiusura, entro il 1/1 2003 e la successiva messa in
sicurezza, e bonifica del sito produttivo.
L’azienda contesta questa data proponendo scenari più prolungati (2005 o addirittura
2006).
Legambiente chiede la chiusura nei tempi più rapidi possibili dello stabilimento
Stoppani, ormai palesemente incompatibile con la zona e con le vocazioni economiche
specifiche che non sono certo quelle della produzione chimica, ma semmai turismo e tutela
dell’ambiente e valorizzazione del territorio.
Bisognerà arrivare ad un accordo di programma che contempli la chiusura totale entro
il 1/1/2003 e l’avvio di un progetto di messa in sicurezza e bonifica, ai sensi del Dm 471/99.
Comunque bisognerà da subito sospendere l’attività del forno sperimentale e chiudere
il forno 70, per la produzione di cromati, il più inquinante secondo i dati di Provincia e Arpal.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
FERRARA E RAVENNA
Sono due i poli chimici dell’Emilia Romagna: Ferrara e Ravenna. Impianti e fabbricati
che costituiscono il polo chimico industriale EniChem di Ravenna occupano un’area di 270
ettari, fra il porto e le aree naturali della Pineta S.Vitale e Pialassa della Baiona.
Dell’insediamento fa parte anche un bacino portuale, lungo il canale Candiano per l’attracco
di navi fino a 20.000 tonnellate di stazza, costituito da due banchine per un totale di 900 m;
una attrezzata per il carico/scarico di fertilizzanti e merci sfuse in sacchi, l’altra per la
movimentazione di prodotti liquidi e GPL. Una rete di pipe-lines collega il sito con gli
insediamenti EniChem di Ferrara e Porto Marghera, per il trasferimento di ammoniaca ed
etilene, con una potenzialità rispettivamente di 37 t/h e 18 t/h. Nella zona che va dalla linea
costiera alla città si trovano inoltre due centrali termoelettriche, un cementificio, due impianti
per la produzione dl nerofumo, una grande azienda siderurgica e numerose piccole e medie
industrie.
Nell’area del petrolchimico sono presenti 12 società: 3 EniChem (EniChem SpA,
EniChem Elastomeri Srl, Frene Srl); 2 Eni (Ambiente SpA, EniPower SpA); 7 società esterne
(Borregard Italia SpA, European Vinyls Coropration Italia SpA, Great Lakes Italia SpA,
Rivoira SpA, Vinavil SpA, Endura SpA, Hydro Agri Italia Srl) che non hanno una vera e
propria delimitazione spaziale all’interno del sito - suddiviso in isole e strade numerate - ma
sono integrate con le attività produttive EniChem.
La storia del polo di Ravenna risale al 1952, ovvero quando Agip iniziò le trivellazioni
a largo della costa romagnola per l’estrazione del metano; 3 anni dopo l’amministrazione
comunale ravennate firmò l’accordo con Anic - di proprietà ENI - per la cessione dei terreni
sui quali sarebbe sorto uno dei grandi petrolchimici italiani.
Le prime produzioni furono ammoniaca ed azotati, gomme e lattici ricavati
dall’acetilene e gomme del ciclo stirene-buTadiene (SBR).
Alla fine degli anni cinquanta si aggiunsero le produzioni di cemento, le resine
acrilonitrile-butadiene-stirene(ABS), il cloruro di vinile (PVC).
Dopo circa vent’anni - fine ’70 - il ciclo della gomma venne separato dal ciclo
dell’acetilene e furono introdotte nuove tecnologie per la produzione del butadiene, di
conseguenza iniziò la produzione una vasta gamma di gomme sintetiche.
Negli anni ottanta le attività si spostarono dalla chimica di base alla chimica fine e da
qui ha avuto inizio un processo di razionalizzazione che ha portato ad un decisivo
ridimensionamento del petrolchimico e all’ingresso di investitori stranieri, che adesso
rappresentano la maggioranza delle industrie presenti nell’area EniChem.
Gli incidenti avvenuti nel 2000 nel polo chimico industriale di Ravenna ovvero
all’impianto di depurazione di Ambiente SpA (18 settembre 2000), la fuga di gas di CVM
(Cloruro di Vinile Monomero) e Dicloroetano dall’impianto EVC, lo sversamento di
vinilcicloesano per un errore di manovra nell’impianto Butadiene (13 novembre 2000), pur
nella loro diversità e nel differente grado di pericolosità, sono la prova di una situazione di
grave rischio e della necessità ormai improrogabile di ridurlo.
L’incidente avvenuto alla fine del 2000 all’impianto EVC, che ha causato
l’immissione in atmosfera di una non ben precisata quantità (si stimano 4 tonnellate !!!) di
CVM è la dimostrazione dell’insufficienza dei sistemi di sicurezza e della incompatibilità di
questo tipo di produzioni .
E’ inoltre assolutamente inammissibile il fatto che non si possa nemmeno determinare
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
la quantità di polveri cancerogene emessa in atmosfera: questo pone in maniera urgente la
necessità di mettere in piedi un sistema di rilevamento atmosferico che possa dare
informazioni corrette su quante e quali sostanze vengono immesse nell’aria e sul terreno dalle
industrie presenti nell’area.
Dal punto di vista ambientale il pesante inquinamento atmosferico è uno dei principali
problemi per la popolazione e per il territorio ravennate, i cui effetti sulle zone naturali ed
umide sono difficilmente calcolabili. Certo le tante problematiche poste dalla presenza del
petrolchimico non si esauriscono con l’inquinamento atmosferico, ma questa è senz’altro la
meno difficile da contenere.
Attualmente è in vigore un accordo volontario siglato tra comune e provincia di
Ravenna e le principali aziende del polo chimico (EniChem, EVC, Borregard, Ambiente,
Ecofuel tra le altre) per limitare l’impatto ambientale proveniente dal complesso delle attività
svolte. Ma modeste sono state le modifiche migliorative sino ad ora effettuate alla rete di
rilevamento atmosferico e mancano totalmente sistemi di controllo in continuo nei punti di
emissione più significativi, in cui sarebbero necessarie centraline in grado di rilevare oltre ai
parametri standard, anche sostanze più complesse e maggiormente pericolose per la salute,
quali benzene, diossine, PCB e IPA.
Il 27 gennaio 2001, dopo la presentazione del dossier di Legambiente «La chimica dei
veleni» e in seguito all’esposto inoltrato da Legambiente Emilia-Romagna alla procura della
Repubblica, è stata aperta l’indagine sul petrolchimico di Ravenna. Dopo la sentenza di
Marghera il sostituto procuratore si è dissociato da quella sentenza, affermando che il caso di
Ravenna è di tutt’altro tipo. Ad oggi non si hanno ancora informazioni riguardo ad alcun
avviso di garanzia, per cui si presuppone che l’indagine sia ancora in corso.
Per quanto riguarda il polo di Ferrara nella primavera scorsa è stato presentato un esposto alla
procura della repubblica da parte di 35 persone tra familiari e lavoratori stessi, di cui 33
contro la Solvay e 2 per il petrolchimico. Ufficialmente l’inchiesta non è stata ancora aperta.
Legambiente ha consegnato il proprio dossier alla procura, annunciando la richiesta di
costituzione di parte civile, nel caso venga aperto il processo.
IL CASO CVM
Il caso CVM non è ancora esploso a Ravenna in modo cosi eclatante come a Porto
Marghera e a Brindisi dove si è arrivati ad incriminare i vertici delle aziende Montedison,
Enimont, EniChem che si sono succedute nella proprietà dei siti petrolchimici.
Uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato nel 2000, sui lavoratori esposti
a cloruro di vinile in 4 stabilimenti italiani considera anche Ravenna e la vicina Ferrara.
L’indagine ha preso in esame la mortalità di lavoratori di quattro stabilimenti italiani, esposti
a questa sostanza nella sintesi del monomero e nella polimerizzazione, al fine di meglio
conoscere il quadro della patologia associata all’esposizione al Cvm (Pirastu et al., 2000).
Lo studio inizia come sorveglianza epidemiologica per i lavoratori esposti al CVM
(DM.962/82) che viene però attivata concretamente dall’Istituto Superiore di Sanità dal 1983.
Il programma di sorveglianza comprendeva all’inizio circa 6.000 lavoratori impiegati
in 7 impianti per la lavorazione del PVC e successivamente è stato ridimensionato a quattro:
Porto Marghera, Ravenna, Ferrara e Rosignano. Tutti i lavoratori compresi nello studio erano
stati impiegati dall’apertura degli impianti sino al 1985 per quanto riguarda Marghera, Ferrara
e Ravenna e sino al 1978 per Rosignano. Le osservazioni arrivano al 1996 per la coorte
ferrarese e al 1997 per quella ravennate.
Tra gli stabilimenti analizzati, la coorte di Ravenna è la seconda nello studio per
dimensioni del campione esaminato: sono infatti 635 gli operai addetti alle varie mansioni
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
negli impianti di produzione di CVM, osservati fino al 1997 di cui 3 sono morti per tumore
al fegato rispetto ad un numero di casi attesi pari a zero. Praticamente assente il cancro al
polmone.
La coorte di Ferrara è composta da 418 lavoratori della Solvay e sono 104 i decessi
osservati, tra cui 45 per tumore - rispetto ai 30 attesi - suddivisi tra angiosarcomi, tumori
epatocellulari e carcinomi epatici e dell’apparato respiratorio.In particolare, è stato riscontrato
un aumento per tumori primari al fegato (4 casi osservati rispetto a 0 attesi) e all’apparato
respiratorio (69% in più), tra i quali i maggiori incrementi si riscontrano per i tumori alla
laringe (4 casi) e al polmone (14 casi). Significativo anche lo scostamento tra osservati e
attesi per decessi dovuti ad altre patologie, in particolare all’apparato digerente: 6 degli 11
decessi per queste patologie sono per cirrosi epatica, pari all’8% in più rispetto alla media
regionale.
«Lo studio - scrivono gli autori Pirastu, De Santis e Comba - conferma l’azione
cancerogena del CVM sul fegato, con induzione di angiosarcomi e carcinomi, anche a
concentrazioni più basse di quelle finora ritenute in grado di indurre tumori epatici, nonché
un’azione epatotossica che comporta un incremento della mortalità per cirrosi in alcuni
sottogruppi ad alta esposizione. Lo studio suggerisce inoltre un incremento del rischio di
cancro polmonare in lavoratori esposti a polveri di PVC».
A Ferrara la lavorazione del CVM - che proveniva inizialmente da altri stabilimenti
Solvay e poi dall’estero - è iniziata negli anni ‘50 ed è proseguita fino al 1998, quando
l’azienda ha deciso di chiudere l’impianto di produzione del PVC, mettendo in cassa
integrazione 150 persone, di cui 30 ancora oggi sono in mobilità.
A Ravenna la produzione del CVM inizia sempre negli anni 50 negli stabilimenti
Montedison, ma da qualche anno sino ad ora è la società EVC - la stessa che ha operato nei
petrolchimici di Porto Marghera e di Brindisi - che sintetizza il monomero e lo polimerizza a
PVC.
E proprio in un impianto EVC si è verificato il 28 settembre 2000 un incidente con la
fuoriuscita di quantità non ben precisate di CVM.
L’azienda ha dichiarato che l’incidente è stato causato da un blocco dell’alimentazione
elettrica che avrebbe provocato il blocco degli impianti con la conseguente apertura delle
valvole di sicurezza, da cui è fuoriuscita una quantità non precisata di CVM.
La stima che si può fare sulla base della produzione è di circa 4 tonnellate, ovvero
circa il quantitativo emesso in un anno calcolato in base alla capacità produttiva, ai sistemi di
sicurezza (!) e ai dati dei bilanci ambientali di EVC.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
ASCOLI PICENO
La città di Ascoli Piceno è costretta a convivere da decenni con una fabbrica, la
Elettrocarbonium (oggi SGL Carbon), che si trova a ridosso del suo centro storico. Arrivando
ad Ascoli ci si accorge immediatamente del contrasto tra il bellissimo centro storico e il
mastodonte industriale che sembrava quasi volerlo inglobare. Il vecchio stabilimento SICE
(Società Italiana Carboni Elettrici), poi Elettrocarbonium, produceva e produce carboni
elettrici per gli altiforni delle acciaierie. Si trovava negli anni ’20 in periferia, me nei decenni
successivi divenne, per lo sviluppo urbanistico di Ascoli, parte integrante della città. Per
ovviare a questa presenza ingombrante, il Piano regolatore generale di Ascoli Piceno, redatto
dagli architetti Benevolo e Zani e approvato nel 1972, stabilì il trasferimento della fabbrica
dall’area che attualmente occupa e la destinazione a verde pubblico attrezzato dell’intera
zona. Il Comune di Ascoli deliberò successivamente, nel 1980, di concedere la variante
urbanistica dell’area a zona industriale, e di stipulare una convenzione con l’Elettrocarbonium
che consentisse all’azienda di rimanere per altri 25 anni (fino al 2004). La città, per nulla
turbata dall’incredibile regalo che veniva fatto alla fabbrica, accettò (quasi) supinamente una
decisione che condizionava fortemente il suo futuro urbanistico.
Nel 1984 esplode la questione dell’inquinamento. Esce sulla stampa locale uno studio
della USL 24 nel quale si afferma che Ascoli è una della città più inquinate, e che «è bene e
prudenziale definire il territorio della USL 24 come area a rischio per la salute della
popolazione residente». Per la prima volta la cittadinanza viene messa al corrente del fatto che
la fabbrica immette nell’atmosfera di Ascoli concentrazioni preoccupanti dei famigerati IPA
(Idrocarburi Policiclici Aromatici), tra cui il benzene, il benzopirene, il fenatrene, l’antracene,
il pirene, il fluorocene, etc., di cui è stata accertata la cancerogenità. Nel frattempo la crisi del
settore siderurgico riduce notevolmente il numero dei lavoratori (da 750 operai all’inizio degli
anni ’80 ai 263 attuali, cui vanno sommati i circa 110 lavoratori dell’indotto). Ciononostante
la dirigenza dell’azienda continua a ribadire la sua ferma volontà di rimanere in città anche
dopo il 2004.
Il circolo Legambiente di Ascoli Piceno, nato nel 1989, è da sempre l’unico soggetto
cittadino che ha avuto il coraggio di rompere la cortina di silenzio che era calata, dopo le
polemiche del 1984-85, su tutta la vicenda Elettrocarbonium. Da dieci anni ormai porta avanti
una dura vertenza contro l’azienda (che dal 1992 è diventata una vera e propria
multinazionale, la SIGRI Great Lakes Carbon Gmbh, con sede a Wiesbaden) e contro le varie
Amministrazioni locali, ribadendo i valori irrinunciabili della salvaguardia dell’ambiente e
della salute dei cittadini e dei lavoratori. Tale vertenza è stata ostacolata in tutti i modi:
dapprima alimentando il clima di indifferenza e di rassegnazione della cittadinanza e cercando
di trasmettere un’immagine rassicurante attraverso i mass-media. In più occasioni alcuni
giornali locali, invece che contro la fabbrica che inquina Ascoli da più di settant’anni, si sono
scagliati contro Legambiente, accusandola di allarmismo ingiustificato. Un altro argomento
molto efficace utilizzato per mantenere tranquilla la città in questi anni è stata la
contrapposizione lavoro-ambiente, il cosiddetto ricatto occupazionale che ha consentito alla
fabbrica di operare pressoché indisturbata per decenni.
Questo clima soporifero si interrompe nell’autunno del 1993, quando la magistratura,
in base ai dati della USL, decide il sequestro dei forni 4 e 5 dello stabilimento. Sequestro che
viene riconfermato nel marzo del 1994. Inizia così un lungo braccio di ferro che vedrà le
ragioni dell’ambiente e quelle dell’occupazione contrapposte per l’ennesima volta. Lo stesso
sindacato si trova in difficoltà: l’Azienda è riuscita ad organizzare un proprio coordinamento
di quadri impegnati che contesta duramente il sindacato stesso e i provvedimenti della
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
magistratura. La protesta assume forme clamorose quando alcuni operai e quadri della SGL
Carbon salgono sulla ciminiera più alta dello stabilimento e si rifiutano di scendere. In seguito
a tali proteste, il Ministero della Sanità e quello dell’Ambiente emettono un decreto ad hoc
che concede una proroga per l’adeguamento delle emissioni inquinanti a tutti gli impianti
industriali che producono IPA. E’ una vittoria per l’azienda, che vede premiato il suo
atteggiamento di netto rifiuto della normativa in materia di inquinamento. Nei mesi successivi
al decreto la fabbrica riprende quindi a scaricare in atmosfera concentrazioni massicce di
inquinanti. Sulla vicenda è ancora in corso un processo.
Nel 1995 viene eletta al governo della città di Ascoli una giunta di centrosinistra che
ha nella risoluzione del problema SGL Carbon uno dei punti principali del suo programma
elettorale. Le speranze della cittadinanza vengono però disattese dall’assoluto immobilismo
dell’Amministrazione. L’unica novità è rappresentata dal nuovo PRG, la cui redazione viene
affidata al celebre urbanista Cervellati, che però sposa la tesi della «morte naturale»
dell’impianto e rimette in discussione la scadenza prevista per il 2004. E la storia continua…
Nel 1996 la Legambiente di Ascoli Piceno organizza un convegno sul futuro dell’area
Carbon, cui partecipano esperti ed amministratori coinvolti a vario titolo nella vicenda, per
fare il punto della situazione e per avanzare una serie di proposte sulla utilizzazione dell’area
dopo il 2004. Proposte che vengono in gran parte recepite dall’amministrazione comunale.
L’anno successivo scoppia il caso del sequestro del carico di grafite radioattiva al valico di
Gorizia, oggetto di un articolo pubblicato da La Repubblica nel marzo 1997 firmato da
Antonio Cianciullo. Successivamente, in seguito ad una segnalazione della RSU della
fabbrica, si arriva al ritrovamento e al sequestro da parte della magistratura di un carico di
grafite radioattiva all’interno dello stabilimento, che porta Legambiente a presentare nel
giugno ’97 un dossier dal titolo «L’affaire della grafite radioattiva». Il 1997 è stato
caratterizzato anche da tutta una serie di incidenti all’interno della fabbrica, dalla ricaduta di
polveri su alcune zone della città, e dalle polemiche che hanno preceduto e seguito le
celebrazioni del centenario della azienda.
Il 5 marzo 1998, gli operai della Carbon, preoccupati dai risultati di uno studio
condotto dall’Università di Perugia che evidenzia concentrazioni altissime di sostanze
inquinanti in alcuni reparti, proclamano uno sciopero a cui aderisce anche il Circolo
Legambiente di Ascoli. E’ forse la prima volta in Italia che ambientalisti ed operai
manifestano assieme contro una fabbrica altamente inquinante. L’indagine dell’Università di
Perugia è stata condotta su 150 lavoratori della SLG Carbon, che sono stati divisi in 8 gruppi
in base al reparto di appartenenza, misurando le concentrazioni nell’organismo dei seguenti
idrocarburi policiclici aromatici: Antracene, Benzoantracene, Benzofluorantene,
Dibenzoantracene, Benzoapirene, Fluorantene, Fluorene, Fenantrene, Pirene. Alcuni di questi,
come il Benzoapirene, sono considerati altamente tossici e particolarmente attivi nella
formazione di neoplasie. In base ai risultati delle analisi, i reparti «Crudo» e «Impregnazione»
risultano quelli in cui gli operai sono maggiormente esposti. Nel reparto «Crudo» le
concentrazioni più alte sono state rilevate negli addetti alle presse, ai carroponti, alle
motopale, alla vagliatura ed al lavoro battente. I valori di indrossipene urinario sono risultati
più elevati alla fine rispetto all’inizio del turno di lavoro o all’inizio della settimana
lavorativa. I risultati della ricerca, presentati l’11 marzo 1998 in un incontro con gli esperti
dell’Università di Perugia, dimostrano che presso lo stabilimento numerosi lavoratori sono
esposti a concentrazioni di IPA pericolosamente elevate. Tra i provvedimenti che l’azienda
dovrà adottare vengono segnalati l’installazione di efficienti impianti di aspirazione degli
inquinanti, una particolare attenzione alla cura e alla pulizia degli indumenti di lavoro, il
monitoraggio dell’esposizione agli IPA e controlli medici ogni sei mesi.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
I dati sulle concentrazioni di IPA emersi da questo studio e da uno studio analogo
condotto dalla USL (400 nanogrammi/mc, mentre il valore limite dovrebbe essere 2
nanogrammi/mc) non lasciano spazio a diverse interpretazioni: l’ambiente di lavoro
all’interno della SLG Carbon è altamente insalubre e pericoloso per la salute dei lavoratori,
che sono esposti a concentrazioni di IPA ben al di sopra dei limiti consentiti. A questo punto
spetta alle autorità competenti, in primo luogo al sindaco e ai responsabili della ASL,
intervenire per ristabilire un minimo di sicurezza per la salute all’interno dello stabilimento.
Finalmente anche gli operai sembrano aver capito la situazione e perciò decidono di
impegnarsi a fianco degli ambientalisti contro l’Azienda. Il dialogo tra operai e ambientalisti
produce i suoi frutti: il 5 giugno 1998 CGIL, CISL, UIL e Legambiente Marche sottoscrivono
ad Ancona un documento comune sulla vertenza SGL Carbon. La sconfitta per l’azienda è
così evidente che uno dei suoi massimi dirigenti, il direttore del personale a livello nazionale,
Francesco Natili, viene licenziato senza troppi complimenti. Gli operai e gli ambientalisti
esultano: Natili è stato per anni un noto «tagliatore di teste», governando un processo di
ristrutturazione dell’azienda che ha ridotto la popolazione operaia di centinaia di unità. La sua
politica aziendale si era da sempre distinta nel non cedere alle richieste del sindacato in
materia di salvaguardia dell’occupazione e nel non riconoscere gli ambientalisti come
interlocutori nella vertenza SGL Carbon.
Per la soluzione del problema SGL Carbon, Legambiente ha elaborato una sua
proposta articolata che coniuga occupazione e rispetto per l’ambiente. Si è prospettato un
tavolo di concentrazione locale, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati, che indichi
i tempi e le modalità di una riconversione dei posti di lavoro, la bonifica dell’area da parte
degli stessi operai ed una riqualificazione urbanistica che ne veda il recupero in parte a verde
attrezzato, come previsto dal vecchio PRG, ed in parte come zona archeologica industriale e
di spazi fieristici. Nel settembre 1999 Legambiente si è fatta promotrice, insieme ad altri, di
un referendum cittadino per chiedere la revoca della delibera del 1980 che concedeva
all’azienda 25 anni di tempo per la sua delocalizzazione. Il referendum consultivo, svoltosi
nel maggio 2001, è stato uno dei primi in Italia su un simile argomento, anche se purtroppo in
quella occasione non è stato raggiunto il quorum dei votanti.
L’esempio della vertenza Elettrocarbonium - SGL Carbon di Ascoli indica
chiaramente quale dovrà essere il modello di sviluppo nei prossimi anni. L’immenso valore
rappresentato dalle numerose aree industriali di industria pesante, la cui produzione sta
segnando ormai il passo, potrà essere riutilizzato ad Ascoli, come in molte altre località, per
far crescere la qualità della vita e cercare nuovi spazi per uno sviluppo armonico e più attento
ai valori della cultura e dell’ambiente.
Nel frattempo continua la battaglia degli ambientalisti. Nei primi mesi del 2001 l’Arpa
Marche invia al sindaco di Ascoli Piceno una relazione in cui si evidenzia un forte
inquinamento del terreno circostante lo stabilimento, circa 6 ettari, e densamente abitato, in
cui è stata riscontrata una notevole concentrazione di IPA. Lo scorso ottobre il Sindaco ha
finalmente emesso un’ordinanza in cui diffida l’Azienda a mettersi in regola per quanto
riguarda le emissioni, e a presentare entro 30 giorni un piano di caratterizzazione dell’area
inquinata sia all’esterno che all’interno dello stabilimento.
Il 9 ottobre 2001 infine si è aperto il processo per omicidio colposo contro 7 exdirigenti dell’azienda a causa della morte di 12 operai, in cui Legambiente si è costituita parte
civile. Il 14 gennaio 2002 ci sarà l’udienza conclusiva dell’indagine preliminare in cui il
giudice deciderà se procedere o archiviare il caso.
Per quanto riguarda gli effetti sanitari delle lavorazioni nello stabilimento SGL Carbon
basta citare i dati della perizia di parte del pubblico ministero riguardo i possibili collegamenti
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
eziologici tra esposizione lavorativa e morti per neoplasie a partire dal 1984 e le neoplasie
in evoluzione al novembre ’98. Dal 1984 risultano deceduti per neoplasie 58 dipendenti SGL,
mentre sono 16 i portatori di neoplasia ancora viventi al novembre ’98.
Dai dati delle indagini ambientali relative al periodo 1974-1993 risulta che nel passato,
almeno fino al 1989, si sono verificate, in alcuni reparti dell’azienda, esposizioni ad
Idrocarburi policiclici aromatici superiori a quelle attuali e presumibilmente a rischio vista
l’insorgenza di neoplasie. Non si ritiene rilevante nella SGL Carbon l’esposizione a silice e
benzene quali ulteriori agenti cancerogeni, come invece ipotizzato da alcuni. Relativamente
alle modalità di esposizione ad Ipa si individuano come reparti a rischio quelli nei quali si
realizzava un esposizione ad inquinanti volatili, in misura molto superiore rispetto a quelli
dove vi era un inquinamento da polveri. Viene escluso che importanti contaminazioni cutanee
con pece possano rappresentare una fonte di rischio per l’insorgenza di neoplasie cutanee,
peraltro non registrate nella casistica presa in esame.
Dall’analisi della letteratura emerge che le neoplasie compatibili con l’esposizione ad
Ipa sono quelle del polmone, della vescica e della cute. Anche per il tumore gastrico vi sono
alcune segnalazioni ma non ritenute sufficientemente consolidate dai periti, per cui per i 13
casi di neoplasie allo stomaco è stato espresso un giudizio di compatibilità dubbia, in rapporto
alle attuali conoscenze scientifiche, da rivedere eventualmente in rapporto a nuove e positive
incidenze. In letteratura la produzione di elettrodi in grafite è una lavorazione non associata ad
eccessi di neoplasie, ma i dati ambientali evidenziano, soprattutto per il passato, esposizioni
ad Ipa significative in alcuni reparti e anche superiori ai valori limite.
In conclusione i periti di parte hanno definito l’esistenza di compatibilità con
esposizione ad Ipa per 21 casi di tumori polmonari e 5 tumori vescicali, tutti riscontrati su
operai deceduti, per i quali, però, in assenza di informazioni circa l’esposizione al rischio e la
storia clinica non può essere dato il nesso causale. Viene invece riconosciuto il legame tra
esposizione agli Ipa e l’insorgenza di 12 neoplasie polmonari, di cui 11 in soggetti deceduti e
1 in un soggetto vivente.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
MANFREDONIA
Dopo quello di Porto Marghera anche il petrolchimico di Manfredonia è sotto processo
per alcune morti sospette tra i lavoratori e per i danni irreparabili procurati all’ambiente
circostante. Dopo cinque anni di indagini giudiziarie, numerosi interrogatori e testimonianze
riassunte in ben ottanta fascicoli lo scorso dicembre ha avuto inizio a Foggia l’udienza
preliminare del processo che dovrà decidere sul rinvio a giudizio di dodici dirigenti
dell’Enichem. Gli imputati saranno chiamati a rispondere dell’accusa di disastro colposo,
omicidio colposo plurimo, lesioni e omissioni di controllo, successivamente al grave incidente
del 26 settembre 1976 che liberò una nube tossica contenente carbonato di potassio e
arsenico, in seguito al quale negli anni successivi si registrarono 17 morti tra i lavoratori per
varie tipologie di tumori. Alcuni operai deceduti furono direttamente coinvolti nelle attività di
bonifica dell’area, mentre gli altri continuarono a svolgere le loro attività ordinarie all’interno
dell’area contaminata. Vale la pena ricordare che l’esplosione di una torretta dello
stabilimento fece disperdere 10 tonnellate di arsenico, 60 tonnellate d’acqua e 18 di ossido di
carbonio con la conseguente esposizione alle pericolosissime esalazioni di ben 1.889 operai.
Legambiente si è costituita parte civile al processo, chiedendo giustizia per gli operai morti.
I dati epidemiologici sulla popolazione nell’area di Manfredonia, comprendente i
comuni di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e San Giovanni Rotondo, per un totale di 97.000
abitanti, sono tutt’altro che rassicuranti. Qui il rischio di contrarre patologie anche tumorali è
pericolosamente alto e ciò è in buona parte riconducibile alla dissennata politica industriale
che ha coinvolto e sconvolto la città.
Dal recente studio dell’Oms, l’unico eccesso rispetto all’atteso provinciale per le cause
non tumorali si registra per le malattie urogenitali, del 53,8% (41 casi, contro i 26,6 attesi). Se
quindi la situazione in dati assoluti non è allarmante, i trend temporali dal 1981 al ’94 fanno
sorgere alcune preoccupazioni, visto che tutte le cause di morte considerate, tranne quelle del
sistema circolatorio, sono in aumento rispetto ai riferimenti nazionali. Lo stesso studio ritiene
che «gli eccessi riscontrati possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico, ed
in particolare all’emergere dei primi effetti a lunga latenza che potrebbero aggravarsi nel
corso degli anni successivi». Ad una bassa mortalità generale, comune a tutte le regioni del
Sud, si contrappone quindi un eccesso di mortalità per alcune patologie specifiche, con un
andamento temporale in aumento, specialmente per alcuni tumori, per cui, concludono gli
autori, «è possibile che si stia assistendo all’insorgere di rilevanti effetti a lungo termine sulla
salute»
La vicenda di Manfredonia è una tra le più classiche storie di industrializzazione
selvaggia nel nostro Paese. Il petrolchimico, situato in località Macchia del comune di Monte
S. Angelo ed entrato in funzione nel 1971 per produrre fertilizzanti, ammoniaca anidra, urea,
caprolattame e solfato ammonico, è diviso in 17 aree (isole) delimitate da strade e dista dalla
città di Manfredonia circa un chilometro.
La città ha subìto nel corso degli anni gli effetti devastanti dell’inquinamento
atmosferico, del suolo e del sottosuolo e corso in più occasioni gravi pericoli a causa delle
ripetute fughe di gas tossici e degli incendi. Nello stabilimento esistono tuttora discariche
contenenti materiale contaminato da arsenico in attesa di essere rimosso.
L’incapacità dell’azienda di smaltire correttamente le ingenti quantità di sali sodici,
per anni scaricati in mare, ha portato alla sospensione nel 1988 della produzione di
caprolattame. Attualmente lo stabilimento ha cessato la produzione.
La legge n. 426/98 ha inserito l’area di Manfredonia, con i suoi 306 ettari di superficie
a terra e 859 ettari a mare inquinati da scarico non controllato di rifiuti speciali e pericolosi,
tra i 15 siti di interesse nazionale, nei quali sono più urgenti le operazioni di bonifica e di
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
risanamento ambientale.
Le caratterizzazioni delle aree di Manfredonia, eseguite dalla commissione tecnica
della Provincia e dalla società Agricoltura, hanno evidenziato inquinamento diffuso delle
falde acquifere con superamento dei limiti di legge, previsti nel decreto ministeriale 471/99,
attribuito ad una serie di sostanze strettamente connesse ai cicli di produzione Enichem. In
particolare l’indagine dell’azienda ha evidenziato nelle isole 3 e 7 il superamento del limite di
arsenico lungo il muro di cinta della strada statale garganica, nonché contaminazione da
mercurio nell’isola 12, con valori che arrivano fino a 176 mg/Kg contro un limite di legge di 5
mg/kg.
Nel Programma nazionale delle bonifiche, che il Ministero dell’Ambiente ha
recentemente varato, è previsto per la Puglia un finanziamento statale di 120 miliardi che
andranno a cofinanziare gli interventi dei privati per la bonifica di tutti i siti contaminati di
Manfredonia, Brindisi, Bari e Taranto. Da una recente stima del Ministero dell’ambiente
risulta però che solo per la bonifica dell’area di Manfredonia sarebbero necessari 200 miliardi
circa.
Al momento, ottanta dei centoventi ettari dell’area del petrolchimico si trovano sotto
sequestro penale preventivo, disposto dal Tribunale di Foggia per inosservanza della
normativa sullo smaltimento dei rifiuti. La magistratura foggiana, ritenendo irregolari le
operazioni di disinquinamento condotte dall'Enichem Agricoltura, ha condizionato la
prosecuzione al controllo diretto dei Carabinieri del Comando tutela ambiente (l’ex Nucleo
operativo ecologico dell’Arma). Per le stesse ragioni la Commissione Europea ha aperto una
procedura di infrazione comunitaria.
All’interno dell’area industriale è stato avviato, prima ancora di bonificare e risanare
le aree inquinate, un complesso processo di re-industrializzazione rientrante tra le iniziative
del «contratto d’area» di Manfredonia. Sono già in esercizio impianti per la produzione di
alluminio e batterie industriali, mentre è in corso di costruzione una grande vetreria del
Gruppo Sangalli della capacità produttiva di 185.000 tonnellate annue di lastre di vetro,
autorizzata inspiegabilmente senza la necessaria procedura di Valutazione di impatto
ambientale. Presso il Tar Puglia di Bari pende un ricorso popolare per l’annullamento del
provvedimento regionale che esonera l’impianto dalla Via.
Nello scorso settembre il Ministero per la Attività Produttive ha autorizzato l’esercizio
definitivo della centrale termoelettrica Enichem da 420 megawatt, ferma da anni e che il 30
ottobre scorso è stata ceduta alla società Elettra Srl del gruppo Api Holding. Inoltre, la
«Agricoltura s.p.a.«, azienda Enichem in liquidazione, ha ceduto alla Atriplex alcuni serbatoi
di grandi dimensioni da utilizzare come deposito di idrocarburi. Come se non bastasse
incombe il pericolo dell’insediamento nei pressi di Manfredonia dell’Isosar, mega deposito di
Gpl, che avrebbe un impatto territoriale significativo. Nel frattempo si paventa la minaccia
dell’Enviroil, industria per il trattamento di 2000 tonnellate annue di oli esausti. Va infine
segnalato che alcune iniziative del «contratto d’area» ricadenti nell’area industriale di
Manfredonia (fuori dall’area ex Enichem) sono state oggetto di una procedura di infrazione
comunitaria per essere state insediate in zone SIC e ZPS, in quanto mancanti della valutazione
di incidenza e di impatto ambientale obbligatorie per legge.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
BRINDISI
Era il 1959 quando l’allora Presidente del Consiglio, Antonio Segni, posava la prima
pietra del Petrolchimico, magnificando «i cerchi concentrici di benessere» che ne sarebbero
derivati; al contempo due famosi esponenti della politica e della società brindisina si
chiedevano perplessi che fine avrebbero fatto i rigogliosi terreni agricoli e la costa
incontaminata che si stendeva, tra dune di sabbia e macchia mediterranea, tra Fiume Grande e
Punta Cavallo sino alle Saline. Era quello - secondo Montedison - «un paesaggio arcaico,
immutabile, forse lo stesso che contemplò Diomede», il quale sempre secondo Montedison,
dopo il 1959, non avrebbe potuto che ammirare quanto era stato realizzato in 44 mesi, cioè
«torri, serbatoi, impianti industriali: un paesaggio del nostro tempo, forse meno poetico, ma
ricco di promesse per il futuro».
In realtà il Petrolchimico di Brindisi è l’emblema di quel genere di insediamenti che come scrisse il meridionalista Petriccione - «si sono rivelati completamente antagonisti a
qualsiasi tentativo di emancipazione e di sviluppo del Mezzogiorno». Un tipico insediamento
«capital intensive», nato e tenuto in vita drenando denaro pubblico in gran quantità ed
aumentando il potere clientelare attraverso cui si è costruito il consenso verso l’azienda e
verso i notabili politici.
I Brindisini, come scrisse The Economist in un articolo del 22 maggio 1964,
riferendosi agli Italiani, si gettarono « nell’industrializzazione con l’incoscienza dei bambini
che arrivano tardi ad una festa...In breve tempo sono riusciti a distruggere parte del loro
paesaggio, le loro città sono afflitte da una crescita cancerosa...». Il cancro a Brindisi il
Petrolchimico non lo ha portato solo metaforicamente, purtroppo lo ha lasciato come triste
eredità a tanti lavoratori e forse anche all’intera popolazione. Oltre ad aver contribuito a
distruggere l’identità di comunità contadine e quel «paesaggio arcaico», di cui con disprezzo
parlava Montedison e che era invece la principale risorsa ad alto valore aggiunto da tutelare e
promuovere.
Nel petrolchimico si trasforma la materia prima, virgin nafta, nei composti intermedi
etilene, propilene, frazione C4 che a loro volta saranno convertiti nei prodotti finali: la
Polimeri Europa produce polietilene a bassa ed alta densità; l’EniChem butadiene e butene;
l’EVC fino al 1998 policloruro di vinile (PVC); la Montell propilene. L’EniChem inoltre
trasforma metano, aria, soda, anilina, formaldeide e cloro in MDI (Metil Diamminofenil
Isocianato), acido cloridrico e ipoclorito di sodio.
Il ciclo della produzione del PVC venne avviato a Brindisi nel 1962 e ben presto si
espanse grazie al basso costo della manodopera e grazie al fatto che i costi sanitari e
ambientali potevano essere riversati sulla collettività in cambio di un progressivo aumento
occupazionale: sino a 5000 persone furono in effetti a vari livelli occupate nell’area
industriale. Ma oltre al petrolchimico nell’area brindisina si concentrano altre industrie
chimiche, metalmeccaniche e manifatturiere, attività marittime - portuali e un rilevante polo
energetico con le due centrali ENEL pari a circa 1000 MW di potenza, alimentate a carbone e
orimulsion.
L’area dichiarata ad elevato rischio di crisi ambientale nel 1990 comprende i comuni
di Brindisi, Carovigno, San Pietro Vernotico e Torchiarolo e vi si individuano circa 70
industrie insalubri di I classe e 7 ad alto rischio di incidente rilevante. I limiti profondi nella
sicurezza degli impianti e nella tutela dei lavoratori, sono testimoniati dai tanti incidenti e dai
tanti episodi di intossicazioni troppo frettolosamente dimenticate dagli organi istituzionali di
controllo e dalle rappresentanze sindacali aziendali.
Sin dal 1982, il circolo di Legambiente ha segnalato l’alto impatto ambientale e
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
sanitario prodotto dagli impianti del Petrolchimico, anche grazie all’esercizio incontrollato
di essi. Segnalazioni e denunce sono rimaste per lungo tempo inascoltate ed anzi, nonostante
le ordinanze sindacali di sgombero di civili abitazioni nell’area industriale e nell’area di
Fiume Piccolo a causa dell’inquinamento prodotto da CVM, dicloroetano e acido cloridrico,
per la polvere di cloruro di vinile e per il fosgene, lo stabilimento di Brindisi è stato scelto per
lo stoccaggio delle 35000 tonnellate di caprolattame provenienti dall’impianto dismesso di
Manfredonia.
Per denunciare la trasformazione di Brindisi in città pattumiera Legambiente
organizzò - nel febbraio 1990 - una manifestazione ed inviò un articolato esposto alla
magistratura e alle autorità competenti, con primario riferimento ai problemi connessi con il
ciclo del CVM e del MDI. Veniva anche sottolineata la mancata procedura di valutazione di
impatto ambientale sulle discariche di EniChem e Montedison approvate dall’autorità
provinciale. Inoltre veniva segnalato un progetto di ricostruzione del cracking P2T - la cui
esplosione nel 1977 causò la morte di 3 operai ed il ferimento di altri 53 - per una produzione
annua di 350.000 tonnellate, quando nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale si
imponeva la procedura di riduzione del 30% delle produzioni pericolose.
Intanto, sempre nel 1990, prese fuoco la gasiera «Val Rosandra» mentre scaricava
propilene ormeggiata al molo petroli, e soltanto la professionalità dei soccorritori che
trascinarono al largo l’imbarcazione impedì un ritorno di fiamma verso il Petrolchimico ed
una tragedia di dimensioni facilmente immaginabili.
Ma solo dopo 3 anni divenne operativa la struttura comunale di protezione civile,
tramite la quale cominciare a costruire una banca dati sulle attività a rischio e sulle loro
correlazioni. Subito apparve evidente la reticenza dei grandi gruppi industriali ben poco
disponibili - nonostante l’obbligo di legge - a mettere a disposizione tutte le notizie necessarie
per predisporre i piani di protezione civile.
Dopo la frammentazione della proprietà EniChem è divenuta sempre più forte la
tendenza alla smobilitazione. Nonostante Enichem formalmente non sia più proprietaria di
alcun impianto nel petrolchimico, rimane ancora la società con il numero maggiore di
lavoratori, gestendo ancora le attività di servizio. Attualmente gli addetti in totale sono 1450,
ripartititi tra EniChem (790 dipendenti), Eni power (160), Montell (170), Polimeri Europa
(300), EniChem Gas (30), ai quali vanno aggiunti circa 450 dipendenti di ditte esterne. Sono
inoltre 160 i dipendenti in cassa integrazione EVC dal momento della chiusura del ciclo di
produzione; questi dovrebbero in parte passare alla Powerco della Celtica ambiente, per
l’esercizio di una torcia al plasma con combustione di CDR, biomasse e pulper da cartiere. La
situazione della proprietà degli impianti diviene sempre più ingarbugliata considerando le
recenti notizie sulla vendita di un pezzo importante dell’attuale EniChem alla multinazionale
araba Sabic.
L’approccio dell’ENEA che nel corso degli anni ha avuto prima incarichi per il
monitoraggio dell’area e poi per la redazione di un piano di risanamento non ha mai dato
risultati apprezzabili. Nell’esaminare le emissioni globali del Petrolchimico, definiva
significative quelle dei composti organici volatili (COV) nelle condizioni ordinarie di
esercizio degli impianti, e nelle attività di travaso e stoccaggio; sottovalutava gli scarichi in
torcia e si limitava a prendere atto dell’uso - nella centrale termoelettrica - di olio
combustibile ad alto tenore di zolfo (ATZ), ricavato sia dall’esterno che da oli di processi
chimici interni, con maggior impatto ambientale. Nella fase di monitoraggio, quantificava le
emissioni di SO2 su base annua in 30.000 tonnellate, quelle di NOx in 6300 tonnellate, di
COV in 700 ton, di polveri in 2000 tonnellate, definendo genericamente notevoli le emissioni
di composti organici e clorurati, anilina, ammoniaca, acido solfidrico e polveri di polimeri.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
Nel piano di risanamento, redatto anch’esso dall’ENEA, vengono accolti
acriticamente programmi assunti o ipotizzati dalle imprese: la revisione o la chiusura di linee
produttive si è realizzata soltanto per una scelta aziendale (è il caso di EVC per la produzione
del PVC). Dismissioni e bonifiche di aree e discariche inquinate non sono mai state
realizzate.
Brindisi è uno dei 15 siti da bonificare di interesse nazionale previsti dalla legge
426/98, con una perimetrazione di 5807 ettari di superficie terrestre e di 5.662 di aree marine.
Una prima stima sui costi di bonifica ha valutato l’intervento in circa 115 miliardi di lire.
Oltre 200 sono stati i soggetti coinvolti nella perimetrazione dei siti inquinati, ma solo le nove
aziende più grandi hanno presentato il piano.
Il ciclo del MDI, nonostante il forte impatto per l’ambiente e per la salute dei
lavoratori addetti, grazie a minimi interventi di adeguamento tecnologico è stato giudicato
compatibile con un’area ad elevato rischio di crisi ambientale, dove l’incidenza di mortalità
per tumore negli uomini è il doppio rispetto alla media regionale.
Legambiente ha richiesto ed ottenuto la realizzazione di un registro tumori, un
osservatorio epidemiologico e lo screening dei lavoratori del Petrolchimico: l’augurio è che
almeno questa volta venga dato seguito alle promesse fatte.
Gli ultimi dati epidemiologici pubblicati su Brindisi sono tutt’altro che rassicuranti.
Dai dati più recenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità sulla mortalità nell’area di
Brindisi (comprendente i comuni di Brindisi, Carovigno, S. Pietro Vernotico e Torchiarolo,
per il periodo 1990-1994) risulta che per quanto riguarda gli uomini tutte le cause analizzate
risultano significativamente superiori all’atteso regionale: mortalità generale (+7.2%),
mortalità per tutti i tumori (+13.6%) e per il tumore polmonare (255 casi riscontrati pari ad un
surplus del 18.8% rispetto all’atteso regionale); inoltre la mortalità per tumore al sistema
linfoemopoietico ha fatto registrare 55 casi, il 32,8% in più rispetto agli attesi regionali,
particolarmente interessante se si confronta con il –14% del periodo 1980-87 riportato
dall’Oms nel lavoro del 1997.
Nell’ottobre 2001, durante la XXV riunione dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, a
Venezia è stato presentato dall’Istituto Superiore della Sanità un’indagine di mortalità sulla
popolazione residente nei 4 comuni dell’area (Brindisi, Carovigno, S.Pietro Vernotico e
Torchiarolo) ed ivi deceduti nel periodo 1996-1997, per la valutazione dell’associazione tra la
mortalità per tumori polmonari, pleurici, vescicali e linfoemopoietici e la residenza in
prossimità del polo petrolchimico di Brindisi. La residenza entro 2 chilometri dal punto
centrale del petrolchimico è risultata associata ad una triplicazione del rischio di cancro
polmonare (OR 3,1); un incremento del rischio per il tumore maligno della vescica (OR 3,9),
e del sistema linfoemopoietico (OR 2,7). Seppure tali aumenti non raggiungono la piena
significatività statistica, a causa dell’eseguità numerica della popolazione studiata, affermano
gli autori, tali aumenti sussistono e sono compatibili con le indicazioni provenienti da altri
paesi; il problema è che ci può essere stata una sottostima del rischio relativo, e non una
sovrastima, per cui ritengono opportuno di prevedere un ampliamento del lavoro con
riferimento anche agli anni 1998-2000.
IL CASO CVM
Come a Porto Marghera anche a Brindisi, l’inchiesta che ha coinvolto i vertici
EniChem sulle correlazioni tra insorgenza di alcuni tumori tra gli addetti alla lavorazione nel
ciclo del PVC e la sostanza lavorata è stata possibile grazie alle testimonianze e alle denunce
di un operaio.
Nel 1996 Luigi Caretto, dipendente EVC in pensione che nel 1994 aveva scoperto di
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
avere un tumore ai polmoni, consegnò al giudice Casson, titolare dell’inchiesta su Porto
Marghera e sulle morti causate dal ciclo di produzione del PVC nel Veneto, un esposto ben
documentato. Un agghiacciante resoconto dei fatti che erano stati tenuti nascosti o
sottovalutati, di omissioni di controlli, di mancati interventi per tutelare la salute degli addetti
a quel tipo di produzione. Il coraggio e la disperazione di Luigi Caretto sono tanto più
significativi se rapportati all’ostilità che ha dovuto affrontare e alla solitudine in cui a lungo
ha condotto la sua battaglia, tanto che l’INAIL non ha nemmeno riconosciuto la causa di
servizio per una patologia che lo ha portato alla morte nel 1998.
Luigi Caretto a Brindisi, come Gabriele Bortolozzo a Porto Marghera era un addetto
alla lavorazione del PVC. La polimerizzazione del CVM a PVC avveniva in autoclavi e
proprio nelle autoclavi e nelle fase di insaccaggio che si presentavano i maggiori rischi per i
lavoratori, gli addetti alla manutenzione e alle pulizie. Mai è stato effettuato uno screening fra
i dipendenti delle ditte appaltatrici, che effettuavano manualmente la pulizia calandosi nelle
autoclavi per togliere residui di CVM non polimerizzato. E nemmeno fra i lavoratori anch’essi spesso appartenenti a ditte appaltatrici - addetti all’essiccamento ed insaccaggio del
PVC che operavano in ambienti in cui la presenza di polvere di cloruro di vinile era spesso
massiccia.
Le principali attività che esponevano a rischio i lavoratori sono rimaste tali sino alla
chiusura degli impianti nel 1998 e non è mai stato realizzato nemmeno un monitoraggio in
continuo della presenza di CVM nei luoghi di lavoro.
Per una tragica coincidenza la morte di Caretto è avvenuta nello stesso periodo in cui
finiva il ciclo di produzione del PVC: in molti hanno sperato che con la chiusura degli
impianti, si potesse mettere una pietra sopra anche all’inchiesta che, trasmessa per
competenza a Brindisi, il giudice Piacente aveva nel frattempo avviato. Indagine che ha
portato all’invio di 68 avvisi di garanzia a dirigenti ed ex-dirigenti delle società Montedison,
EniChem, Evc e Celtica Ambiente in relazione a numerose morti per tumore che hanno
colpito gli operai del Petrolchimico di Brindisi.
Oggi, mentre tutti accolgono con favore l’epilogo dell’inchiesta avviata con fermezza
dal giudice Piacente e dalla Polizia di Stato, Legambiente vede confermato quanto denuncia
da anni, ma ancora non basta. Legambiente chiede infatti che si facciano finalmente i conti
con responsabilità non ancora del tutto svelate e con scelte che si sono rivelate del tutto errate
e dannose e che si dimostri con atti concreti la volontà di attuare seri interventi di risanamento
dell’area. È necessario chiudere tutti gli impianti che rappresentano un serio pericolo per la
salute e per l’ambiente, a partire dal reparto MDI del petrolchimico, in cui ripetute sono state
le fughe di fosgene e in cui si utilizza una sostanza altamente cancerogena come l’anilina.
Così come è necessario bloccare l’avvio della realizzazione di un impianto di
trattamento rifiuti nello stesso sito dove avveniva il ciclo CVM - PVC dismesso dall’EVC,
senza alcun intervento preliminare di bonifica. L’impianto, una torcia al plasma per produrre
energia elettrica bruciando CDR, pulper di cartiera e biomasse, è proposto dalla Celtica
Ambiente e Powerco, società correlate ad EVC, note sinora più che per capacità
imprenditoriali, per gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e
per intricate vicende giudiziarie all’attenzione anche di tribunali esteri. Le vicende della torcia
al plasma o del polo energetico ENEL sono pagine attuali di questa storia fatta di modelli di
sviluppo sbagliati, di metodi a dir poco disinvolti di gestione della cosa pubblica, a danno
della collettività.
I troppi morti per responsabilità dirette o indirette di chi doveva tutelare lavoratori e
cittadini pesano sulla coscienza di tutti noi e ad essi non si può garantire giustizia postuma
con dichiarazioni di principio o con atti demagogici, ma chiudendo una volta per tutte questa
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
storia sbagliata.
IL POLO ENERGETICO
Per ciò che concerne la questione energetica non si può non parlare della centrale di
Brindisi nord. L’autorizzazione ministeriale per l’avvio dei lavori di costruzione della nuova
centrale termoelettrica a ciclo combinato di Brindisi nord è stata giudicata negativamente da
Legambiente per diverse ragioni:
- il decreto Ministeriale sostanzialmente autorizza la proroga di un anno dell’esercizio di un
gruppo dell’attuale centrale a carbone, consentendo, in assenza totale di impianti di
abbattimento, limiti di emissione in atmosfera di SO2 ed NOX sensibilmente superiori a quelli
di legge;
- il decreto non contiene disposizioni precise in merito all’attività di repowering e quindi
alla realizzazione di turbine alimentate dal vapore. Molte questioni inoltre lasciano a dir poco
sconcertanti: il decreto non contiene indicazioni sulla fonte e sul sistema di fornitura del
metano, autorizza l’inizio dei lavori di costruzione di un impianto di cui non è chiaro
l’approvvigionamento del combustibile, fa riferimento agli 1,2 miliardi di metri cubi annui di
gas previsti nella convenzione del 1996 sul polo energetico, assolutamente insufficienti in
quanto destinati dal 2004 alla centrale termoelettrica di Brindisi Sud;
- il decreto non dice nulla in merito al futuro dei lavoratori nel periodo che intercorre tra il
presunto imminente avvio dei lavori e l’inizio dell’esercizio dell’impianto a ciclo combinato,
previsto per giugno 2004. Dovranno essere rispettati gli impegni assunti a favore dei
lavoratori nell’art.10 della convenzione e nel protocollo d’intesa del novembre 1996 tra
governo, enti locali ed Enel;
- la realizzazione della centrale a ciclo combinato di Eurogen e di una simile di Enipower
nel petrolchimico richiederebbero circa 3,5 miliardi di metri cubi di metano all'anno, oggi non
disponibili e non trasportabili con la bretella metanifera quasi ultimata. Ciò inoltre renderebbe
impossibile rispettare l’impegno di fornire metano alla centrale di Brindisi Sud, che
continuerebbe ad essere alimentata dai ben più inquinanti orimulsion e carbone, ancora oggi
trasportato su normalissimi camion. Il dubbio inquietante è che a tutto questo potrebbero far
seguito ben presto gli inaccettabili terminal metanifero e rigassificatore, anche al fine di
aumentare le nuove centrali.
- Legambiente ribadisce la richiesta di provvedimenti d’urgenza per chiudere
definitivamente la centrale Brindisi nord e bonificare l’area da restituire ad attività portuali,
disponendo soltanto la realizzazione, come previsto nel piano di risanamento per l’area ad
elevato rischio di crisi ambientale, di 400 Mw a ciclo combinato nel petrolchimico, in
aggiunta alla centrale di Brindisi sud.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
Per ciò che concerne la centrale di Brindisi nord, Legambiente avvierà numerose
iniziative, anche in sede giudiziaria, per fermare un disastro più volte annunciato. La notifica
ad Eurogen dell’ordinanza del Sindaco di blocco dell’esercizio a carbone della centrale
termoelettrica di Brindisi nord, ha rappresentato per gli ambientalisti e per tutta la
popolazione una decisione profondamente apprezzata ed attesa. E’ assolutamente
inaccettabile che Eurogen cerchi di mantenere l’impianto in esercizio con pretestuose
argomentazioni. E’ inoltre sorprendente che il Ministero delle attività produttive, che non ha
emesso alcun atto di autorizzazione di un eventuale esercizio straordinario, non abbia assunto
alcuna decisione ufficiale per chiudere definitivamente l’esercizio ordinario di un impianto
finora attivo senza opere di abbattimento delle emissioni inquinanti e più volte in violazione
dei limiti di scarico in atmosfera.
Sembra arrivato il momento di compiere atti concreti, anche utilizzando la via
giudiziaria, per farla finita definitivamente con l’alimentazione a carbone della centrale e in
tale direzione Legambiente si muoverà, in tutte le sedi che riterrà opportune.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
CROTONE
L’area industriale di Crotone è divenuta uno dei 40 siti di interesse nazionale da
bonificare. Questo è quanto deciso dal Ministero dell’ambiente, su iniziativa della Regione
Calabria, con l’approvazione del decreto ministeriale che vara il piano nazionale delle
bonifiche. Si è finalmente preso atto della preoccupante situazione ambientale della area del
crotonese, denunciata ormai da molti anni da Legambiente.
Una superficie di oltre 15 ettari da decenni interessata da una selvaggia politica
industriale che ha lasciato una pesante eredità: diversi siti industriali dismessi inquinati da
ferriti di zinco e cromo, una fascia costiera demaniale interessata dalla presenza di diverse
discariche abusive di rifiuti speciali e pericolosi, derivanti principalmente da attività
siderurgica e chimica. Per un costo complessivo degli interventi di bonifica stimato in circa
82 miliardi di lire.
La storia dell’area industriale di Crotone inizia nel 1962 quando viene costituito il
Nucleo di Industrializzazione all’interno del quale hanno operato 45 piccole e medie industrie
del settore meccanico e alimentare. Le tre più importanti erano la Cellulosa Calabra, la
Pertusola Sud e lo stabilimento ex Enichem, divenuto poi della Condea Augusta.
Dopo la dismissione di quasi tutti gli impianti industriali e dopo aver «scampato» il
pericolo dell’insediamento di un nuovo stabilimento Stoppani, azienda tristemente nota per i
danni ambientali causati in Liguria dal suo stabilimento di Cogoleto - Arenzano, si è
cominciato a fare i conti con il passato.
Il palese degrado dell'area - dove per anni le industrie presenti hanno smaltito più o
meno legalmente rifiuti di ogni tipo e rilasciato nelle acque e in atmosfera emissioni
inquinanti - e le inevitabili ricadute sulla salute di lavoratori e popolazione residente hanno
interessato anche l’Organizzazione mondiale della sanità, che nel Rapporto annuale su Salute
ed Ambiente in Italia del 1997 scriveva a proposito: «In sintesi, il quadro di mortalità rilevato
nell'area di Crotone risulta caratterizzato da eccessi per diversi tipi di patologie tumorali e
non, che possono venire indotte da esposizioni di tipo occupazionale ed ambientale». Da qui
la classificazione di Crotone come uno dei 40 siti italiani più urgenti da risanare.
L’area di studio dell’ultimo rapporto Oms è costituita dal solo comune di Crotone, con
una popolazione di 59.000 abitanti. Si rilevano tra gli uomini eccessi significativi, rispetto al
resto della regione, della mortalità generale, e per tutti i tipi di tumore (rispettivamente, del
13% e del 23%). Tra i tumori i maggiori eccessi si osservano per il tumore polmonare (44%,
casi 75), quello alla prostata (70%, casi 25) e per il tumore al fegato (84.8%, casi 20). Per le
donne gli eccessi sono minori e l’insieme di tutte le malattie dell’apparato digerente e la
cirrosi epatica presentano degli eccessi significativi (rispettivamente, 43,5% con 49 casi, e
83.45% con 35 casi).
Lo stesso studio suggerisce una possibile associazione alle attività industriali dell’area
in particolare per i tumori polmonari degli uomini e segnala l’eccesso di mortalità totale
intorno al 10% in entrambi i sessi, quale indicatore di un carico negativo non trascurabile
sulla salute.
Attualmente delle grandi aziende che costituivano il Polo industriale di Crotone sono
rimaste solo la Cellulosa Calabra, che produce pasta semichimica per carta, e la Condea
Augusta, che, dopo il passaggio di proprietà alla società sudafricana che ha acquistato il
pacchetto di maggioranza dell’azienda chimica, ha cambiato nome in Sasol Italy Spa.
L’azienda continuerà comunque a produrre zeoliti per la detergenza.
Per quanto riguarda la Pertusola Sud lo stabilimento ha cessato la produzione e
resteranno in fabbrica venti unità lavorative solo per completare lo smaltimento delle ferriti.
Entro l’inizio del 2003 la fabbrica sarà avviata al suo definitivo smantellamento e,
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
successivamente, alla bonifica integrale del sito.
Si prevede comunque un utilizzo del sito con nuove iniziative imprenditoriali che
vanno dalla stessa metallurgia non ferrosa alla floricultura e alla industria agroalimentare, a
cui si affiancherà l’attività della centrale a turbogas da 800 megawatt localizzata in territorio
di Scandale.
Sono inoltre in fase di realizzazione numerose altre attività imprenditoriali nate attraverso i
finanziamenti gestiti da «Crotone Sviluppo». Nata nel dicembre 1993, Crotone Sviluppo,
società consortile per azioni, già pensata e progettata per accedere ai nuovi strumenti di
finanziamento delle aree in crisi, si è trovata a gestire la crisi occupazionale dell’Enichem.
Nel 2002 tutti gli investimenti dovrebbero andare a regime e, conseguentemente,
dovrebbero essere creati 512 nuovi posti di lavoro (circa 350 sono già in essere) con 93
miliardi di contributi erogati a fronte di 125 miliardi di investimenti.
Tra le nuove attività produttive che stanno per sorgere le più importanti saranno
- la Mct del gruppo ceramico «Gambini « che produrrà piastrelle di ceramica e occuperà
340 dipendenti con un investimento previsto di 143 miliardi di lire;
- la De Tomaso e la Uaz-Europa che stanno per realizzare lo stabilimento che produrrà, a
regime, ventimila fuoristrada della casa russa, per un fatturato annuo di circa settecento
miliardi di lire. L’investimento previsto è di 43 miliardi ed occuperà 170 addetti.
- la «Biomasse Spa Italia» che realizzerà una centrale elettrica a biomasse della potenza
nominale di 40 Mw nell’area dell’ex zuccherificio a Strongoli e un’altra prevista a
Crotone di 20 Mw. I combustibili che saranno adoperati deriveranno dai rifiuti agricoli.
L’attività di Biomasse Italia dovrebbe rientrare nel Pen (Piano energetico nazionale 2000)
per l’incremento delle fonti di energia rinnovabili.
Vi sono inoltre numerose altre iniziative la cui realizzazione è prevista nell’area
industriale del comune di Cutro:
- un laminatoio, con 70 addetti e 50 miliardi di investimenti;
- un’industria di confezioni, con 120 addetti e 30 miliardi di investimenti;
- la Coatek, azienda per la produzione di nastri adesivi che occuperà 48 addetti;
- la Kriss, industria per la produzione di buste e contenitori vari, che occuperà 35 addetti;
- la Edil Costruzion 5 P, che occuperà 12 dipendenti e produrrà prefabbricati per l’edilizia;
- la Koper, dieci addetti, per la produzione di tegole;
- la LBMM che produrrà lattonerie per l’edilizia ed assumerà 17 dipendenti;
- la Euro Energy Group, del gruppo Marcegaglia, con 35 addetti per la costruzione di una
centrale elettrica alimentata da biomasse;
- la Crpown per la produzione di ingranaggi di precisione con 100 addetti;
- la Proema che produrrà componenti per auto, 240 addetti;
- la Plastiva, produzione di articoli in materiale plastico con 40 addetti;
- la Piadina, prodotti alimentari con 30 addetti.
Non è certo che tutti gli impianti previsti entrino realmente in fase di produzione con
risvolti positivi per l’occupazione e lo sviluppo dell’area. Quello che è certo è che il Ministero
dell’ambiente ha recentemente dato il via libera alla costruzione di una nuova discarica per
rifiuti speciali in località Giammiglione. La struttura, progettata dal Consorzio per il Nucleo
di Industrializzazione, dovrebbe garantire lo stoccaggio dei rifiuti delle lavorazioni industriali
di tutta la provincia per altri vent’anni, considerato che la vecchia discarica consortile, in
funzione da oltre un decennio, ha ormai raggiunto la sua capacità limite e si avvia alla
chiusura definitiva.
La realizzazione di questa discarica, pensata soprattutto per sostenere il rilancio
produttivo della Pertusola Sud, ormai chiusa, a questo punto non ha più molto senso. Tuttavia
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
il Consorzio ne sostiene l’utilità per la bonifica del sito di Pertusola Sud e dell’ex
zuccherificio di Strongoli. Nel frattempo continuano ad essere in attività nel crotonese la
discarica comunale per rifiuti urbani in località Tufolo; la discarica per rifiuti speciali e il
depuratore del Nucleo Industriale; l’impianto di termodistruzione per rifiuti ospedalieri in
località Passovecchio della società Salvaguardia Ambientale, autorizzato a smaltire rifiuti
speciali ospedalieri di tutte le regioni meridionali; la discarica per rifiuti urbani e quella per
rifiuti speciali in località Columbra (Poggio Pudano) della società Sovreco.
.
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
AUGUSTA-PRIOLO-MELILLI
La zona industriale ad elevato rischio di crisi ambientale che interessa, oltre i Comuni
di Augusta, Priolo, Melilli, anche quelli di Siracusa, Floridia e Solarino, è stata decretata dal
Ministero dell’Ambiente nel 1990, dopo un decennio di battaglie delle Associazioni
ambientaliste. Quasi dieci anni di lotte per far prendere atto alle Amministrazioni comunali e
regionali e alle Istituzioni nazionali che esisteva una gravissima situazione di rischio e che
dovevano essere presi immediati provvedimenti per evitare l’ulteriore aggravamento della
crisi ambientale.
La zona industriale dell’area di Augusta - Priolo - Melilli occupa circa il 3% del
territorio e vi trovano sede 5 raffinerie: Esso, Agip (ex Montedison - Praoil), EniChem, Isab
(gruppo ERG) e Condea (ex EniChem Augusta Spa). Due sono le centrali ENEL: Tifeo
Augusta e Priolo. A queste aziende si aggiungono poi l’impianto di gassificazione e
cogenerazione Isab Energy, la fabbrica di magnesite Sardamag, la cementeria Augusta e il
depuratore di reflui industriali e civili IAS. Risulta facilmente intuibile come una
concentrazione così grande di aziende chimiche e petrolifere in una esigua porzione di
territorio ponga serissimi problemi di inquinamento dell’ambiente circostante ed esponga la
poplazione a rischio di incidenti di rilevante gravità .
Le cause del degrado ambientale dell’area e del rischio per la popolazione che vi abita
possono essere sintetizzate in alcune principali problematiche:
il depauperamento della falda idrica, a causa dei massicci emungimenti da
parte delle aziende del polo petrolifero, tanto che si è verificato un forte
abbassamento del livello piezometrico con punte fino a 200 metri rispetto al suo
valore iniziale. La conseguente intrusione di acqua di mare ha notevolmente
innalzato la salinità delle acque rendendo inutilizzabili molti pozzi a scopo
potabile;
il degrado della qualità dell’aria a causa delle grandi quantità di macro e
micro inquinanti (idrocarburi, polveri, sostanze organiche e inorganiche) emessi
dai camini delle industrie del polo petrolchimico. Ciò determina il verificarsi di
frequenti fenomeni di smog fotochimico con relative alte concentrazioni di ozono;
elevata presenza di discariche, sia all’interno dell’area industriale sia sul
territorio - di cui molte abusive- per lo smaltimento di rifiuti speciali, in gran parte
pericolosi. Le aziende del polo petrolchimico producono circa 170.000 tonnellate
annue di rifiuti di cui circa 1.300 tonnellate sono costituite da rifiuti classificati
come pericolosi e non esistono adeguati sistemi di smaltimento;
problemi di salute per gli addetti del sistema industriale, ma anche per la
popolazione che vive in quest’area.
La presenza nell’area di Augusta, Priolo e Melilli, caratterizzata da un elevato grado di
sismicità (categoria S=9), di una notevole concentrazione di insediamenti produttivi ad alto
rischio e la loro compenetrazione con un tessuto urbano a forte sviluppo, come il centro
abitato di Priolo e le principali infrastrutture di collegamento tra Siracusa e Catania,
aggravano la problematica del rischio industriale. L’ingente flusso di vettori di trasporto, la
tipologia e la quantità delle merci pericolose movimentate, la vicinanza degli insediamenti
urbani, e le caratteristiche delle vie di comunicazione, che per ampi tratti costeggiano se non
sono addirittura interne alle industrie a rischio, contribuiscono ad aggiungere al rischio
sanitario per la popolazione, quello del disastro in caso di incidenti.
Nel DPR 17/1/95 con il quale viene approvato il Piano di Risanamento dell’area, si
legge: «Le attività produttive del Polo petrolchimico (...) ed i relativi stoccaggi di sostanze
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
pericolose per caratteristiche di tossicità e/o infiammabilità risultano concentrati in una
ristretta fascia di territorio dislocata lungo la costa. Tali insediamenti sono classificabili
industrie a rischio ai sensi del DPR 175/88, in quanto fonti di rischio di eventi incidentali
significativi in termini di estensioni areali e gravità delle conseguenze per la popolazione e le
strutture esterne agli stabilimenti, quali rilasci tossici (soprattutto ammoniaca, acido
fluoridrico, cloro e idrogeno solforato) e BLEVE - Fireball di GPL. Le sostanze in ingresso ed
in uscita sono inoltre movimentate attraverso decine di migliaia di autobotti e ferrocisterne
(nel 1991 circa 65000 automezzi e 2000 ferrocisterne) e migliaia di navi (nel 1991 circa 4300
unità. Per quanto riguarda gli eventi principali di incendio ed esplosione esaminati (Pool Fire,
UVCE, BLEVE - Fireball) possono determinare effetti assai gravi soprattutto sulle aree
urbanizzate circostanti agli insediamenti industriali ed in particolare appaiono interessate in
modo rilevante le principali infrastrutture di comunicazione.»
Eppure quasi nulla si è mosso in 10 anni dalla dichiarazione di area a rischio con
Decreto del Ministero dell’Ambiente (Novembre 90) e 5 dall’approvazione del Piano di
Risanamento (Gennaio 95). Nessuno dei rischi connessi con gli impianti industriali è stato
depotenziato; paradossalmente in alcuni casi il rischio è aumentato. Infatti nonostante la
dismissione dell’attività di Agrimont, sono rimasti i serbatoi di stoccaggio dell’ammoniaca per il rifornimento di Gela - proprio nell’area SG14 dove lo spostamento dei serbatoi, più
volte richiesto da Legambiente e sancito dal 1991, non è mai stato nemmeno avviato. Nulla si
è fatto per la sostituzione delle celle a mercurio con celle a membrana dell’impianto cloro soda, che da solo produce 1.100 t/anno delle 1.300 t/anno prodotte in tutta l’area.
Nulla dal punto di vista della sicurezza delle popolazioni. Le disposizioni della legge
175/88 prima e della legge di recepimento della Direttiva Seveso II poi, rimangono del tutto
inapplicate. Il piano d’emergenza non è mai stato predisposto, l’informazione ai cittadini, non
è stata neppure avviata, e la popolazione rimane completamente inconsapevole dei rischi
possibili e del comportamento da tenere in caso di incidente, tanto che la fuoriscita di gas
dalla valvola di sicurezza di una nave nel 1999, provocò un grave allarme nella popolazione e
gli incidenti della scorsa estate hanno letteralmente gettato nel panico centinaia di cittadini.
Ma anziché mettere mano ad interventi per ridurre la probabilità di rischio, nel raggio di
possibile azione degli incidenti rilevanti sono state recentemente costruite scuole e nelle
immediate vicinanze è stato realizzato il nuovo impianto Air liquid, che produce 2000
tonnellate al giorno di ossigeno liquido, sostanza altamente infiammabile. Vale la pena
sottolineare che il reparto rianimazione dell’ospedale di Siracusa è dotato di 8 posti letto a
disposizione per tutta la popolazione dell’intera provincia.
Recentemente è stato presentato un progetto che riguarda la realizzazione di un
impianto nel comune di Melilli, per il recupero dei metalli pesanti Nichel e Vanadio dal
cosiddetto filter cake, ovvero il rifiuto tossico della lavorazione del vanadio dell’Isab Energy
di Priolo e non solo. L’impianto è progettato infatti per recuperare metalli pesanti da 18.000
tonnellate annue di filter cake, quando nell’area ne vengono prodotte solo 3.900. E neanche a
dirlo senza nemmeno prevedere di procedere ad una valutazione di impatto ambientale, come
sarebbe ovvio ancorché richiesto dalle normative, in un area in cui da anni ormai si è accertato
che vi sono seri rischi ambientali, sanitari e di gravissimi danni in caso di incidenti.
Ma è questo purtroppo l’ennesimo episodio di una lunga sequenza, che dimostra
l’assoluta mancanza di volontà da parte di chi amministra di impostare un futuro basato su
uno sviluppo alternativo al vecchio modello del passato. E le vittime dei recenti incidenti agli
stabilimenti Isab e Condea e le innumerevoli fughe di gas dagli impianti non sono imputabili
al destino cinico e baro o all’errore statistico in impianti di questo genere. Sono il segno di
una politica che ormai ha dato i suoi frutti, che ha saccheggiato un territorio, che ha leso la
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Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale
salute della popolazione e che lascia in eredità rifiuti, disoccupati e siti da bonificare.
Per quanto riguarda i dati epidemiologici, nel recente studio sulla mortalità negli anni
1990-’94 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha ritrovato tra la popolazione
residente nei 6 comuni nel raggio di 39 chilometri dell’area Augusta-priolo, eccessi di
mortalità tra gli uomini per tutte le cause tumorali pari al 10% in più rispetto alla media
regionale (1127 casi osservati, contro i 1024,5 attesi). In particolare, per il tumore polmonare
l’eccesso è pari a circa il 20% (340 casi osservati, rispetto ai 284,3 attesi) e significativo è
anche l’eccesso per il tumore alla pleura (più del doppio, con 17 casi osservati). L’analisi dei
trend temporali dal 1981 al 1994 mette in evidenza un aumento degli eccessi rispetto ai
riferimenti nazionali, sia per la mortalità generale che per alcune patologie, come tutti i
tumori, e il tumore polmonare; in particolare gli eccessi di mortalità per tumore pleurico
raddoppia per gli uomini e triplica per le donne. Per quanto riguarda gli studi generazionali,
sia per le donne che per gli uomini, si rileva per la mortalità per tumori polmonari un rischio
cumulativo quasi raddoppiato dalla generazione del 1920 a quella del 1940 (dal 3,35% al
6,58%), fatto che, come dichiarato nello stesso studio «fa prevedere il persistere di rischi
elevati negli anni futuri».
Nonostante tutto questo, non è mai stata impostata alcuna indagine epidemiologica,
neppure quella prevista dal piano di risanamento approvato da oltre 5 anni. E nel frattempo
l’Ufficio di Medicina del lavoro di Messina ha riscontrato nelle urine dei lavoratori della
Coemi, addetti all’impianto cloro-soda, concentrazioni di mercurio molto al di sopra del
limite massimo consentito.
Ma ad Augusta l’allarme non è solo per la mortalità. Dal 1980 cominciano le prime
segnalazioni di nascita di bambini malformati: in quell’anno su 600 nati si ebbero 13 bambini
con malformazioni congenite di diverso tipo, di cui sette non sono sopravvissuti. Scattò
l’allarme, visto il sospetto effetto teratogeno delle scorie tossiche industriali, per cui il
Ministero dell’Ambiente istituitì nell’ospedale di Augusta un Centro di monitoraggio. Dal
1980 al 1989 la percentuale dei nati malformati ad Augusta è stata dell’1,9% (140 casi su
6984 nati), contro una media nazionale dell’1,54% e una percentuale per l’Italia meridionale
dell’1,18%. Nel decennio successivo, dal 1990 al 2000, la percentuale ad Augusta aumenta
fino ad una media dell’intero decennio del 3,18% (221 casi di malformati su 6945 nati), con
un picco nell’anno 2000 con il 5,6% dei nati malformati. Nell’anno 2001, dato elaborato in
questi giorni dall’ospedale civile di Augusta, si sono avuti 22 casi di malformati su 573 nati
(3,8% dei nati).
Da un raffronto tra i dati di Augusta e quelli del registro siciliano per la Sicilia
orientale, circa le singole malformazioni, risulta un eccesso ad Augusta per quanto riguarda le
cardiopatie congenite (235 per mille ad Augusta, contro il 196 del resto dell’area) e l’apparato
urinario (59 per mille contro il 46).
Ad Augusta risulta un eccesso anche per quanto riguarda le malformazioni genitali:
negli anni 1980-89 interessavano il 214 per mille dei nati (quando la media nazionale era del
100 per mille), mentre nel decennio 1990-2000 i casi sono aumentati al 303 per mille. In
particolare, tra le malformazioni dell’apparato genitale, l’ipospadia nel periodo 1990-’98 in
Augusta ha interessato il 132 per mille dei nati, contro un 79 per mille nella Sicilia Orientale.
In base a queste segnalazioni e alla denuncia presentata dal primario di pediatria
dell’ospedale civile di Augusta la Procura della repubblica ha aperto un’inchiesta per
verificare il possibile legame tra alcune industrie dell’area e le anomalie congenite riscontrate.
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IL "CHI E'" DI LEGAMBIENTE
LEGAMBIENTE è l'associazione ambientalista italiana con la diffusione più capillare sul territorio (1000
gruppi locali, 20 comitati regionali, 110000 tra soci e sostenitori). Nata nel 1980 sull’onda delle prime
mobilitazioni antinucleari, LEGAMBIENTE è un'associazione completamente apartitica, aperta ai cittadini di
tutte le idee politiche democratiche, religiose, morali, che si finanzia con i contributi volontari dei soci e dei
sostenitori delle campagne. E' riconosciuta dal Ministero dell'Ambiente come associazione d'interesse
ambientale, fa parte del "Bureau Européen de l'Environnement", l'unione delle principali associazioni
ambientaliste europee, e della “International Union for Conservation of Nature”.
Campagne e iniziative
Tra le iniziative più popolari di LEGAMBIENTE vi sono grandi campagne di informazione e sensibilizzazione
sui problemi dell’inquinamento: "Goletta Verde", il “Treno Verde”, “Salvalarte” e “Mal’aria”.
LEGAMBIENTE promuove anche grandi appuntamenti di volontariato ambientale e di gioco che coinvolgono
ogni anno centinaia di migliaia di persone (“Clean-up the World/Puliamo il Mondo”, l’operazione “Spiagge
Pulite”, i campi estivi di studio e recupero ambientale, “Caccia ai tesori d’Italia”, ed è fortemente impegnata per
diffondere l'educazione ambientale nelle scuole e nella società attraverso le Bande del Cigno.
L’azione sui temi dell’economia e della legalità
Da alcuni anni LEGAMBIENTE dedica particolare attenzione ai temi della riconversione ecologica
dell’economia e della lotta all’illegalità: sono state presentate proposte per rinnovare profondamente la politica
economica e puntare per la creazione di nuovi posti di lavoro e la modernizzazione del sistema produttivo su
interventi diretti a migliorare la qualità ambientale del Paese nei campi della manutenzione urbana e territoriale,
della mobilità, del risanamento idrogeologico, della gestione dei rifiuti; è stato creato un osservatorio su
“ambiente e legalità” che ha consentito di alzare il velo sul fenomeno delle “ecomafie”, branca recente della
criminalità organizzata che sull’ambiente specula e guadagna.
Gli strumenti
Strumenti fondamentali dell'azione di LEGAMBIENTE sono il Comitato Scientifico, composto di oltre
duecento esperti nelle discipline ambientali; i Centri di Azione Giuridica, a disposizione dei cittadini per
promuovere iniziative giudiziarie di difesa e tutela dell'ambiente e della salute; l'Istituto di Ricerche Ambiente
Italia, impegnato nel settore della ricerca applicata alla concreta risoluzione delle emergenze ambientali.
LEGAMBIENTE pubblica ogni anno "Ambiente Italia", rapporto sullo stato di salute ambientale del nostro
Paese, e invia a tutti i suoi soci il mensile “La Nuova Ecologia”, “voce” storica dell’ambientalismo italiano.
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