Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Roma, 9 gennaio 2002 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale INDICE Premessa 2 Le bonifiche tra Stati Uniti e Italia 5 Porto Marghera 8 Mantova 17 Brescia 20 Pieve Vergonte 23 Cengio e Saliceto 26 Cogoleto 29 Ferrara e Ravenna 31 Ascoli Piceno 34 Manfredonia 38 Brindisi 40 Crotone 46 Augusta - Priolo - Melilli 49 1 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale PREMESSA Una nuova normativa ispirata al "Superfund" americano, per far pagare alle aziende inquinanti gli interi costi di bonifica delle aree contaminate da produzioni nocive o da rifiuti tossici; la definizione di una lista di priorità che scadenzi gli interventi di risanamento delle aree a rischio e crei le premesse per l'immediata chiusura degli impianti per i quali è ormai accertata la pericolosità sanitaria, la delocalizzazione o la riconversione di quelli che hanno comunque un elevato grado di inquinamento e impatto ambientale. La creazione di nuove figure professionali, che offra anche una opportunità di riqualificazione per gli addetti del settore impiegandoli nei lavori di messa in sicurezza e di recupero delle aree recuperate per la messa in sicurezza e il risanamento delle aree contaminate. Partendo dall'allarmante analisi che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha realizzato su 15 aree ad elevato rischio di crisi ambientale, Legambiente ha presentato un ventaglio di proposte per "passare dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale" e alla sicurezza sanitaria per le popolazioni che vivono a ridosso di aree industriali o depositi di sostanze a rischio e tutelare i lavoratori impiegati in produzioni che utilizzano sostanze pericolose. Sia i dati dell'OMS che la predisposizione di questo pacchetto di interventi richiesto dall'associazione ambientalista si inseriscono tra l'altro, in una gigantesca partita giudiziaria che ha messo alla sbarra tutta la vecchia chimica. Sotto accusa la pericolosità sanitaria di un tipo di produzione che, ormai non ci sono dubbi, ha ucciso, causato malattie, avvelenato l'ambiente, compromesso gli equilibri territoriali. Già lo studio Ambiente e salute in Italia del 1995, coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative. Gli ultimi studi dell'OMS, solo considerando 15 aree a rischio di crisi ambientale, denunciano addirittura 800 morti in eccesso ogni anno con un trend che purtroppo, a dispetto del ridimensionamento dell'industria pesante, non accenna a diminuire. Decessi dovuti al contatto con sostanze inquinanti cui sono sottoposti i lavoratori e alle emissioni inquinanti causate dai processi produttivi che colpiscono anche i cittadini residenti in quelle aree. Come dunque uscire dalla stagione dei veleni che ha lasciato in eredità aree minerarie, centri siderurgici, complessi chimici e petrolchimici con un carico ad elevatissimo rischio di contaminazione? Legambiente mette in campo le sue proposte che prendono in parte spunto proprio da una delle nazioni che fanno del libero mercato la caratteristica principe della loro economia, dove però, a differenza dell'Italia, l'onere della riqualificazione ambientale e del recupero dei siti contaminati è totale carico dei privati. Proprio partendo dall'esempio statunitense Legambiente propone infatti un adattamento italiano del Superfund, ossia dell'insieme di norme che fissano le responsabilità dell'imprese in caso di contaminazione ambientale, definiscono le procedure per la valutazione del rischio, individuano una lista di priorità nazionali degli interventi di bonifica. In particolare, il Superfund ha tre livelli di intervento che riveduti e corretti potrebbero trovare applicazione anche in Italia. Il primo, un fund trust, ossia un fondo di sicurezza finanziato dalla tassazione principalmente di prodotti chimici e petroliferi ma anche di altre sostanze inquinanti, vincolato alla bonifica dei cosiddetti siti orfani (per i quali non è più possibile riconoscere un proprietario responsabile). In secondo luogo, un'attività capillare di analisi sui siti inquinati che consenta di stabilire la loro pericolosità e l'urgenza della bonifica con la definizione appunto di una lista nazionale di priorità. In terzo luogo, l'obbligo inderogabile per le aziende che gestiscono impianti ancora in attività, una volta accertata 2 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale l'eventuale pericolosità della produzione o delle scorie prodotte sia per l'ambiente che per la salute della popolazione, di disporre immediati interventi di bonifica. Una traduzione italiana di questo modello è possibile, a detta di Legambiente, se la nostra normativa acquisisse proprio alcuni principi ispiratori del superfund che hanno reso possibili in 15 anni la bonifica completa (nel 50% dei casi) o parziale delle emergenze più gravi su tutto il territorio nazionale. Un esempio virtuoso, soprattutto se raffrontato alla realtà italiana dove colossi inquinanti hanno fatto, e purtroppo continuano a fare, danni in attesa di interventi di messa in sicurezza di cui si parla da anni ma che da anni tardano ad arrivare. Prendendo ad esempio la necessità di un fondo di sicurezza pagato dai settori produttivi inquinanti, vincolando a questo fine una parte della tassazione che già grava su queste aziende, si potrebbero avviare anche da noi gli interventi su quella percentuale di siti italiani (discariche abusive, terreni contaminati, depositi di rifiuti tossici e nocivi) per i quali non è possibile riconoscere la responsabilità del danno. Nello stesso tempo, lo stesso fondo potrebbe contribuire ad un capillare accertamento e ad un censimento completo di tutte le aree a rischio. Una base fondamentale anche per la definizione di una lista di priorità e per stabilire temporalmente l'inizio e la fine degli interventi. Infine, ma sicuramente prioritaria, è anche l'idea che ha trovato spazio negli Usa ma che tarda a trovare applicazione da noi, che debbano essere i privati responsabili dell'inquinamento e non già questi con il concorso dello stato a pagare i danni provocati al territorio, all'ambiente, alle popolazioni. Negli Stati Uniti, responsabile della gestione del Superfund, è l'Epa, l'agenzia per la protezione dell'ambiente, che si occupa di identificare e selezionare i siti da bonificare, e che nel 1985 ha segnalato 1500 siti. Siti che in 15 anni hanno visto conclusa l'opera di bonifica ben nel 50% dei casi (750 zone), mentre altri 600 (il 40%) sono prossimi al completamento delle operazioni di risanamento. Nello stesso periodo, sono stati pagati dalle aziende inquinanti per la bonifica di aree contaminate su cui insistono impianti ancora in attività, ben 32mila miliardi, mentre le attente indagini condotte hanno portato all'identificazione di 41mila siti a rischio. Ovvio che, pur con le dovute proporzioni tra il caso Italia e quello statunitense, il ritardo e l'inadeguatezza normativa del nostro paese appare evidente. Gli stanziamenti previsti dall'ultima legge finanziaria prevedono infatti fondi insufficienti ma comunque onerosi per le casse dello Stato (550 miliardi nel 2001, 150 nel 2002 e 200 nel 2003), poiché la responsabilità del danno dovrebbe ricadere sulle aziende. L'attuazione del principio del "chi inquina paga", secondo Legambiente, dovrebbe insomma diventare, anche in Italia, uno dei vincoli cui far riferimento per avviare finalmente il piano delle bonifiche che dovrebbe interessare ben 15mila siti inquinati in Italia con l'impiego stabile di 5mila nuovi supertecnici. E' questa infatti, la stima approssimativa realizzata da Legambiente (manca peraltro sul tema un quadro di riferimento "istituzionale" preciso) tra aree identificate dal piano nazionale di bonifica redatto alla fine del 2001 (40 siti), i circa 6.000 serbatoi di carburante sparsi per il paese, i 4.500 siti identificati nelle regioni del Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento, le circa 2.500 discariche abusive della criminalità organizzata nel Centro-Sud (il cui rischio reale è sconosciuto); le 1.000 o 2.000 zone potenzialmente inquinate dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (ossia prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la bonifica. Pur se ogni paese classifica i siti contaminati in maniera diversa, o censendo (ed è il caso della Germania) anche un solo bidone di rifiuti nocivi come area a rischio o, ed è il caso di altri paesi, prendendo in considerazione solo le 3 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale emergenze più gravi, c'è un numero che può dare l'idea della gravità del problema anche a livello europeo: secondo il programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, sono 150mila in Europa i siti sospetti di inquinamento e oltre 100 milioni gli ettari definiti contaminati (pari a un miliardo di metri cubi di terreni e rifiuti). Tornando in Italia invece, va anche sottolineato come nel 1995 la spesa calcolata per le bonifiche fosse pari a 30mila miliardi e dovesse interessare almeno 330mila ettari ossia un'estensione pari alle intere provincie di Milano e Napoli messe insieme. Del resto, se il piano delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: in un settore peraltro afflitto da una costante emorragia di posti di lavoro (meno 70mila operai impiegati in 20 anni), vecchie e nuove competenze sarebbero infatti richieste da tutte le attività di bonifica e ripristino con un'offerta di lavoro specializzato pari a oltre 5.000 posti, senza considerare l'indotto e le attività di contorno che potrebbero garantire altre migliaia di occupati. Ma chi dovrebbe pagare veramente in Italia? Soprattutto per quanto riguarda EniChem, per la quale si parla negli ultimi mesi della vendita di parte dei suoi impianti alla multinazionale araba Sabic, non si ha certezza sulla dismissione degli impianti obsoleti e della bonifica dei siti contaminati. D'altronde a rendere sempre più urgente un intervento di riqualificazione ambientale delle aree più a rischio sono, di nuovo, i dati sanitari. Come detto, l’allarme per le conseguenze derivanti da alcune produzioni chimiche, siderurgiche, minerarie e petrolifere è al centro dello studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – Centro Europeo Ambiente e Salute - su richiesta del Ministero dell’Ambiente. L’indagine è stata commissionata per le 15 aree classificate come “ad alto rischio di crisi ambientale” con Decreto Ministeriale dell’8.7.1986 n. 349 a causa della presenza di una o più potenziali fonti di inquinamento ambientale legate alla presenza di importanti attività industriali. Va precisato comunque che durante questi ultimi anni sono aumentati i siti industriali per cui è stato evidenziato un rischio ambientale e sanitario. L’OMS da anni effettua in Italia studi approfonditi, condotti attraverso l’elaborazione di dati di mortalità disaggregati a livello comunale per un territorio vasto, che costituiscono un importante contributo informativo a sostegno dell’intervento del Ministero dell’Ambiente. Anche il dossier di Legambiente, come quello dell'Oms analizza il dettaglio delle singole aree contaminate e, dunque sarà possibile avere un quadro completo ed aggiornato delle singole situazioni che lungo l'intera penisola minacciano l'ambiente e la popolazione. 4 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale LE BONIFICHE TRA STATI UNITI E ITALIA Poli chimici, industrie a rischio, discariche abusive o autorizzate in tempi ormai remoti, aree industriali dismesse: sono numerosissime le realtà dell'Italia da bonificare. Oltre alle problematiche legate al rischio industriale e sanitario nelle aziende tuttora funzionanti infatti, grave e tuttora irrisolto appare anche il rischio relativo agli impianti dismessi e a quelli in via dismissione inseriti in progetti di bonifica. Progetti che si stanno rivelando critici per le grandi quantità di materiali da trattare, la complessità delle contaminazioni (molto spesso non ben conosciute) che oltre ai terreni hanno interessato le falde acquifere, per il mancato utilizzo di tecnologie di trattamento ampiamente impiegate all'estero. Già lo studio Ambiente e salute in Italia, del 1995, coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative. Gli interventi della magistratura (alcuni ancora in corso) hanno poi confermato gli studi che nel corso degli anni sono stati condotti per ricercare una correlazione tra ambiente di lavoro e problemi sanitari, tra insorgenza di particolari tipi di tumore e l’aver maneggiato certe sostanze, o addirittura solo per aver vissuto in prossimità dei camini delle aree industriali. Quel che è certo è che in Italia il sistema delle bonifiche è assolutamente bloccato. Dal 1998, anno in cui la legge 426 ha definito i primi 15 siti di interesse nazionale da bonificare (tra cui Porto Marghera, Brindisi, il litorale domitio-flegreo con le discariche dell’ecomafia campana, etc.), ben poco si è mosso, a parte qualche intervento a Cengio. L’unica grande novità consiste nell’approvazione del decreto ministeriale 471/99 atteso da tempo. Alla fine del 2001 è stato poi varato il piano nazionale di bonifica che porta a 40 il numero dei siti di interesse nazionale, stanziando per essi circa 1000 miliardi di lire. Peccato che il numero delle aree inquinate del Belpaese sia ben più nutrito. Una stima di massima sul numero dei siti inquinati in Italia prevede infatti: i 40 siti già previsti nel piano nazionale delle bonifiche; tra i 5.000 e i 7.000 serbatoi di carburanti; circa 4.500 siti nelle regioni del Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento; circa 2.500 discariche abusive nel Centro-Sud (il cui rischio reale è molto variabile); circa 1.000 2.000 siti potenzialmente inquinati dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la bonifica. In totale si può azzardare una stima di almeno 15.000 siti da bonificare. Da qui la nota dolente dei costi per le bonifiche. I 1.000 miliardi di lire stanziati dal Ministero dell’ambiente per i siti previsti dal Piano nazionale di bonifica sono ovviamente insufficienti. La sola caratterizzazione (analisi ambientale complessiva) del fiume Bormida inquinato dall’ACNA di Cengio per esempio, è costata al Commissario delegato 4 miliardi di lire. E’ ovvio sottolineare che tutti i siti di interesse nazionale hanno bisogno di questa caratterizzazione, prevedendo per le situazioni gravi come quella di Porto Marghera costi ancora più elevati. Ai 1.000 miliardi di lire per i siti nazionali vanno sommati comunque i soldi messi a disposizione dalle Regioni per interventi su siti inquinati pubblici o senza più “padrone”. Per cui, si può ipotizzare che il totale dei finanziamenti tra enti locali, Regioni, Province, Comuni 5 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale e ARPA, arriverà ai 10mila miliardi per i prossimi 2/3 anni, per un totale di finanziamento pubblico pari a 11mila miliardi di lire. Per quanto riguarda invece il finanziamento privato, obbligatorio in caso di contaminazione in base al principio del "chi inquina paga", il costo degli interventi limitato ai 40 siti nazionali, dovrebbe aggirarsi intorno ad una cifra pari a circa 5-6 volte il finanziamento pubblico, e quindi a oltre 5 -6.000 miliardi di lire. Le spese dei privati per i siti di loro competenza che invece non rientrano nei 40 nazionali, possono essere stimate in una cifra tra i 5.000 e i 10.000 Miliardi di lire, per un totale di investimenti privati pari a circa 15.000 miliardi di lire. Complessivamente, nei prossimi tre anni per gli oltre 15.000 siti inquinati stimati del nostro Paese, verrebbero stanziati quindi circa 11.000 miliardi di lire di finanziamento pubblico, a cui si dovrebbero aggiungere circa 15.000 miliardi di lire dagli industriali responsabili della contaminazione, per un totale di spesa di oltre 25.000 miliardi di lire. Cifra che difficilmente verrà raggiunta. Del resto, se il progetto delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: si innescherebbe un meccanismo virtuoso nelle attività di bonifica e ripristino (dalla consulenza alla progettazione dell’intervento), nella costruzione di impianti di trattamento, nell’attività di controllo di competenza del pubblico (verifiche sul campo, valutazione di istruttorie e attività di laboratorio), nelle attività dei laboratori privati, che potrebbe muovere un mercato di oltre 5.000 posti di lavoro, tra tecnici e laureati. Purtroppo, nonostante il numero dei siti inquinati sia fin troppo grande, le risorse finanziarie disponibili risultano carenti. Al riguardo, va segnalato che per gli interventi di bonifica e ripristino dei 40 siti identificati dal ministero dell'Ambiente - il Petrolchimico di Porto Marghera, le raffinerie di Gela, i poli industriali e petrolchimici di Brindisi, Taranto, Gela ma anche l’Acna di Cengio, la discarica di Pitelli, solo per citare i più noti - la Finanziaria appena approvata, registra una riduzione di circa 100 miliardi. Per correre ai ripari sarebbe utile riproporre per le bonifiche in Italia un sistema simile a quello del Superfund utilizzato negli Usa. Nel 1980, in seguito a una serie di disastri ambientali, il governo degli Stati Uniti d’America emanò infatti una legge per le bonifiche il cui fondo iniziale, il Superfund appunto, era di circa 1,6 miliardi di dollari. Questo fondo fu creato grazie a una tassa speciale imposta ai produttori di sostanze chimiche e petrolifere che, sei anni dopo, fu estesa a ogni tipo di azienda che produceva rifiuti tossici, in percentuale dell’utile. Tutte le aziende quindi, se superano certe dimensioni, devono pagare una quota per il fondo, anche se le aziende petrolifere e chimiche hanno tassazioni maggiori. Gli 8,5 miliardi di dollari del fondo attuale vengono usati per varie finalità: per intervenire immediatamente nei casi di rischio per la salute umana, per le attività di caratterizzazione iniziale dei siti in modo da stabilire le priorità d'intervento, per risanare i cosiddetti siti “orfani”, cioè quelli in cui è davvero impossibile individuare un responsabile, ma anche per recuperare i soldi, visto che quando si decide di partire subito con le operazioni di bonifica e ricorrere poi in tribunale per il risarcimento, le spese legali sono notevoli. Va sottolineato che i siti industriali in attività e quelli di gestione dei rifiuti pericolosi non vengono inseriti nell’elenco del Superfund. In caso di contaminazione di tali siti infatti è il responsabile della contaminazione a pagare di tasca propria la bonifica, senza alcun 6 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale finanziamento da parte dello Stato. Se il sito di smaltimento è abbandonato, se quello industriale non è operativo oppure se il sito è operativo ma l’azienda ha fallito, entra in gioco invece il Superfund. Confrontando Usa e Italia sulla questione delle bonifiche, vediamo che negli Stati Uniti c’è un sistema normativo flessibile e pragmatico, che fa la selezione dei siti mediante la valutazione del rischio, per cui se l’area contaminata è gestita da un operatore in attività e la contaminazione è attuale o pregressa, lo Stato non ci mette una lira e gli interventi sono interamente a carico del privato. Quindi c’è più flessibilità nell’individuazione dei siti da bonificare e degli interventi da realizzare, mentre c’è una piena responsabilità finanziaria del privato. Certo, il modello degli Stati Uniti funziona proprio grazie all’esistenza di una struttura pubblica, l’Epa appunto, dotata di risorse finanziarie e competenze tecnico-scientifiche tali da impedire scappatoie. In Italia invece c’è una maggiore rigidità legislativa, poi però lo Stato interviene e cofinanzia anche i casi in cui l’inquinamento è prodotto da un operatore ancora in attività. Qui vale quindi uno strano meccanismo per cui alla rigidità burocratica non corrisponde una severità tale da imporre al privato tutto l’onere economico del risanamento ambientale. Per continuare il confronto, nel nostro Paese non esiste un’agenzia con la stessa struttura, risorse e compiti dell’Epa statunitense. L’ipotesi di ragionare anche in Italia su un meccanismo di finanziamento per i siti dismessi, basato su un sistema fiscale simile a quello americano, faciliterebbe di molto il risanamento delle aree inquinate del nostro Paese. In conclusione, se l'obiettivo principe è quello di bonificare i siti contaminati del nostro Paese riducendo i drammatici rischi ambientali e sanitari, riteniamo fondamentale l'istituzione di un fondo nazionale, realizzato attraverso l'introduzione di un meccanismo tipo quello statunitense che prevede la contribuzione ad un fondo nazionale finanziato mediante tassazione diretta alle imprese, completamente diverso da quello attuale vigente in Italia. E' necessario quindi aumentare il potere di controllo di un organismo terzo, di carattere pubblico, a cui affidare il potere d’intervento nell’individuazione e nella selezione dei siti da bonificare. Vanno poi modificate le procedure di intervento in modo da dividere i siti dismessi e le discariche illegali, per i quali si attinge dal fondo nazionale finanziato dal mondo dell’impresa, dai siti operativi, per i quali l’onere finanziario delle bonifiche sarebbe completamente a carico dell’impresa. Parallelamente, è necessario estendere gli studi sullo stato di salute della popolazione anche a tutte le nuove aree considerate o sospettate a rischio, allargando l’osservazione sanitaria anche all’incidenza di altre patologie (malformazioni croniche, funzione tiroidea, et.), considerate attualmente come bio-indicatori e precursori di un possibile maggiore rischio di effetti sanitari a più lunga latenza (morti per tumore, etc.). 7 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale PORTO MARGHERA «Marghera sensa fabriche sarìa più sana, ‘na giungla de’ panoce, pomodori e marijuana» (dalla canzone «Marghera» dei Pitura Freska) Una sentenza di assoluzione a dir poco scandalosa. Non poteva che essere questo il commento di Legambiente dopo la conclusione del processo ai vertici delle aziende del petrolchimico di Porto Marghera, svoltosi per far luce sulle morti di alcuni operai del reparto Cvm (Cloruro vinile monomero) e sul danno ambientale causato alla laguna di Venezia. Del resto dopo circa quattro anni di processo e dopo le raccapriccianti deposizioni degli operai sopravvissuti e dei familiari di quelli ormai deceduti, ci si aspettava un finale completamente diverso. Soprattutto da parte di chi come Legambiente, parte civile al processo insieme ad altre associazioni ambientaliste, per anni si è battuta contro la folle politica industriale delle aziende del petrolchimico veneziano. Sullo stato dell’arte delle bonifiche degli innumerevoli siti contaminati di Porto Marghera il commento non è poi così diverso. Gli interventi di bonifica da tempo annunciati non sono mai partiti per una serie di intoppi burocratici assolutamente privi di senso. Dalla firma dell’Accordo di programma sulla chimica a Porto Marghera dell’ottobre ’98 sono passati più di tre anni durante i quali in pratica nulla è stato fatto. Nel frattempo è stato approvato il decreto ministeriale sulle bonifiche (dicembre ’99) e un’integrazione all’accordo che comprendesse le novità inserite nel decreto (dicembre 2000), che doveva essere ratificata da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ancora non è stato varato. L’unica novità da segnalare è la transazione di oltre 271 milioni di euro conclusa tra Montedison e Ministero dell’ambiente, a cui si è ipotizzato possa seguire quella con Enichem di circa 206 milioni di euro. Facciamo fatica a capire il motivo per cui la transazione farà desistere il Ministero dal ricorrere in appello contro la sentenza assolutoria del processo su Porto Marghera, così come già dichiarato dallo stesso Ministro. Non è chiaro cosa centrino i miliardi che Montedison ed Enichem devono pagare per risanare i siti contaminati dalle loro attività produttive, con il ricorso in appello in un processo svoltosi non solo per i danni arrecati all’ambiente, ma anche per determinare le eventuali responsabilità penali nelle morti degli operai del petrolchimico. La storia di Porto Marghera è tristemente nota all’Italia intera. Così come è noto l’articolo 15, III comma, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia del 1962, che condannò Marghera ad essere quel girone dantesco che è stato per decenni. Secondo quell’articolo «...nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni o rumori». E così in effetti è stato. L’elenco delle attività produttive che nei trent’anni in cui è rimasta in vigore questa norma sono state realizzate a Marghera è impressionante: uno dei più grandi poli chimici del nostro paese, alluminio, cantieristica navale, petrolifero - raffinazione, siderurgia, energia elettrica, commercio di prodotti petroliferi. Il polo chimico ha prodotto quasi tutte le sostanze a partire dalle materie prime, prodotti intermedi, prodotti finali. A partire dal 1951 con i reparti cloro - soda che producono cloro, soda caustica e ipoclorito. L’anno successivo inizia la produzione di trielina, acetilene e quindi cloruro di vinile monomero (CVM) e polivinilcloruro (PVC). E’ a Marghera che verrà avviata la produzione della plastica in Italia. 8 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Ma si producono per decenni anche fibre acriliche e fertilizzanti, ammoniaca ed etilene, acido fosforico e fluoridrico, solo per citarne alcune. Fino alla fine del 1988, lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è avvenuto prevalentemente scaricando i cosiddetti gessi in mare. Dopo l’esportazione internazionale di rifiuti con le «navi dei veleni», nello stabilimento Petrolchimico sono tuttora stoccati in 6 zone all’aperto e senza particolari cautele circa 20.000 fusti di rifiuti tossici. Il 21 giugno 1989 partecipano all’assemblea degli azionisti Montedison molti rappresentanti di Legambiente. Una lunga discussione che inchioda l’assemblea per undici ore ad ascoltare le ragioni del popolo inquinato. Nell’esaminare le politiche Montedison i riferimenti a Marghera appaiono nell’intervento di Ermete Realacci che cita i buoni risultati ottenuti con la fermata degli scarichi a mare, frutto della pressione ambientalista, invita a destinare i dividendi dell’anno in corso per risanare i problemi ambientali che gli impianti Montedison hanno determinato. Renata Ingrao sottolinea la pericolosità del cloruro di vinile monomero come cancerogeno e chiede che si intervenga sugli impianti. Duccio Bianchi richiama Montedison ad applicare le leggi sullo smaltimento dei rifiuti, poiché è accertato che non le applica, chiede l’impegno a regolarizzare lo smaltimento dei rifiuti e a bonificare le aree contaminate e chiede spiegazioni sul perché Montedison continui ad investire in inceneritori piuttosto che in produzioni pulite. Ivo Conti insiste sulla necessità di chiarire la situazione degli impianti di Marghera, poco chiara in particolar modo per lo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi. Gianni Tamino esprime preoccupazioni per la compatibilità di settori quali il cloro soda e le eccedenze di cloro. Le forti preoccupazioni, i dubbi, gli interrogativi sui danni della chimica italiana Legambiente li riaffermò nel maggio 1991, quando, con il dossier »Enichem. Ambiente, sicurezza, salute dei cittadini. La faccia dimenticata dell’industria chimica italiana», ribadisce che i passaggi da Montedison a Enichem attraverso Enimont hanno lasciato cittadini e ambiente preda di un’industria chimica rovinosa e spendacciona. Era già chiaro a Legambiente che «nelle industrie chimiche, ma non solo in queste, si sono verificati negli scorsi decenni importanti fenomeni di contaminazione del suolo e del sottosuolo. Nelle attuali aree industriali si trovano, spesso senza alcuna autorizzazione o conoscenza, depositi o discariche di rifiuti tossici. I terreni, inoltre, sono stati contaminati da sversamenti, perdite di routine, incidenti». In quell’occasione si affermò con forza la necessità di misure legislative, finanziarie e tecniche per affrontare il problema delle bonifiche, che avrebbero dovuto essere a carico dei proprietari delle aree e dei riutilizzatori. Il quadro di Porto Marghera vedeva un settore chimico colpito dalla ristrutturazione con un calo di oltre 5000 posti di lavoro fra il 1980 e il 1987 e quasi 7000 occupati nel 1990. Le società principali insediate nel Petrolchimico erano EVC, Montedipe, Montefluos, Enimont Anic, Crion, CPM, Marghera. Le produzioni «forti»: cracking (etilene e propilene), PVC, isocianati, caprolattame, fibre. Un complesso che vedeva in funzione «circa 2.000 camini o sfiati che emettono 240.000 tonnellate all’anno di sostanze varie, tra cui alcune riconosciute cancerogene dall’OMS (come CVM, nitrile acrilico, ammine aromatiche)». «Attualmente soltanto pochi camini sono dotati di apparecchiature di controllo in continuo delle emissioni, mentre sarebbe necessario estendere l’uso di strumenti di controllo con blocco automatico degli impianti quando le emissioni superano i valori limite di legge». Quanto a produzione e smaltimento di rifiuti il dossier notava che «fino a tutti gli anni ’70 lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è avvenuto in maniera molto sbrigativa, prima scaricando tutto in mare, poi progressivamente sempre più lontano dalla costa e poi scaricando a terra un po’ ovunque in una miriade di siti incontrollati. Una recente indagine con fotografie da satellite ha consentito di individuare nella provincia di Venezia 9 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale circa 200 discariche abusive, alcune delle quali di grandi dimensioni e con rifiuti industriali. Dei numerosi siti conosciuti come discariche abusive di rifiuti tossici non è mai stato avviato un piano di bonifica». «Le emissioni in acqua attualmente ammontano a 20.000 tonnellate/anno e comprendono solventi clorurati, oli minerali, cianuri, solfiti, fluoruri, acido cianidrico, fosfati, mercurio, piombo, zinco, cromo». «La regione Veneto nel Piano direttore per il disinquinamento della laguna del dicembre 1989 riconosce che »l’inquinamento da metalli pesanti e composti tossici (fenoli, cianuri, solfuri, tensioattivi) è oggi presente nei sedimenti di tutta la laguna»». Uno dei coautori del dossier per il capitolo di Marghera è Gabriele Bortolozzo, exoperaio del Petrolchimico che, accortosi della morte per cancro di quattro dei suoi cinque compagni di lavoro addetti alla ripulitura delle autoclavi nella produzione del CVM, dedica tutto se stesso alla ricostruzione dei disastri ambientali e dell’annientamento delle vite di tanti operai. Nel 1994 Gabriele Bortolozzo pubblica il dossier «Il cancro da cloruro di vinile al Petrolchimico di Porto Marghera». Lo stesso dossier viene depositato come esposto-denuncia presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Venezia. «Gli operai delle imprese appaltatrici addetti all’insacco del PVC in polvere erano 98 tra il 1975 e il 1980, si tratta di una mansione estremamente gravosa e nociva. Nel giugno 1994, 28 di loro mancano all’appello: sono i morti per «tutte le cause», pari al 28,57% degli addetti; 23 di essi sono deceduti per tumori di vario tipo: l’82,14% dei lavoratori deceduti nel medesimo periodo nel gruppo a rischio. Molti sono stati colpiti all’apparato respiratorio (laringe-polmoni). Più precisamente i tumori si riferivano: 10 ai polmoni, 3 alla laringe, 2 al fegato, 1 al pancreas, 6 in sedi non precisate, 1 caso di leucemia…tra il 1975 e il 1980 l’organico al reparto CV6 era di 108 lavoratori. Ne sono deceduti, a tutto giugno 1994, per «tutte le cause», 24, pari al 22,22% degli addetti, mentre 15 sono morti di tumore, il 62% di tutti i lavoratori deceduti nel gruppo a rischio, prevalentemente colpiti al fegato». L’esposto di Gabriele Bortolozzo trova pronto ad avviare le indagini il sostituto procuratore Felice Casson. Mentre partono gli accertamenti per avvalorare le tesi di Bortolozzo, Legambiente nel luglio 1996 ricorda il ventennale dall’incidente all’Icmesa con il dossier «A vent’anni dall’incidente di Seveso. Industria, ambiente, salute». Un inevitabile posto fra le aree a rischio esaminate lo trova Porto Marghera. Alla costante pericolosità delle produzioni, delle emissioni in aria e acqua oggetto di «un’indagine della Magistratura di Venezia per appurare se le morti per tumore si possano attribuire al ciclo di lavorazione PVC - CVM e se l’azienda (allora Montedison), nonostante fossero noti i rischi per i propri dipendenti, non intervenne per tutelarne la salute», vennero aggiunti i rischi di un transito intenso di navi con prodotti chimici e petroliferi, «un traffico valutabile intorno ai 2 milioni di tonnellate/anno di prodotti vari che sono quasi tutti o tossici o infiammabili o esplosivi». Il 12 dicembre 1996 il giudice Casson deposita il rinvio a giudizio nei confronti di Eugenio Cefis, Giuseppe Medici, Mario Schimberni, Alberto Grandi, Giorgio Porta, Pier Giorgio Gatti, Italo Trapasso, Lorenzo Necci, Antonio Sernia e altri. Ognuno imputato per reati diversi: «…dal 1970 fino al 1988 effettuavano (o facevano effettuare) scavi e realizzavano (o facevano realizzare) bacini e discariche, all’interno dell’insediamento produttivo petrolchimico di Porto Marghera o in sua prossimità, in cui venivano abusivamente smaltiti, abbandonati, scaricati, depositati e comunque stoccati rifiuti di vario genere e in particolare rifiuti speciali tossiconocivi»; »effettuavano lo scarico dei fanghi e degli altri sottoprodotti di risulta dei 10 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale trattamenti, attraverso gli scarichi 2 e 15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti previsti dal Dpr 962/73»; «consentivano la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti di sostanze tossico-nocive e di acque di rifiuto non trattate»; «omettevano di adottare tutte le misure urgenti e necessarie al fine di evitare il deterioramento della situazione igienico-sanitaria-ambientale di tutti i siti… e comunque delle falde acquifere sottostanti e delle acque confinanti»; «pur essendo consapevoli del grado elevatissimo di tossicità e nocività dei residui scaricati, ma disinteressandosene ed anzi accettandone il rischio, contribuivano a dare origine e ad incrementare il progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti la zona di Porto Marghera (acque utilizzate anche per uso domestico e agricolo), in cui sono state rinvenute tracce di solventi clorurati, solventi aromatici, idrocarburi aromatici, fenoli, ammoniaca, ammine aromatiche, piombo, cadmio, zinco, mercurio e arsenico in valori superiori ai limiti consentiti e determinavano altresì un inquinamento grave dei sedimenti e delle acque nei canali e negli specchi lagunari e i conseguenti successivi adulterazione e avvelenamento di ittiofauna e molluschi… con particolare riferimento alle tracce di sostanze pericolose tossico-nocive e cancerogene nei medesimi rinvenute… con particolare riferimento alle diossine»; «con le aggravanti… per aver commesso i reati per motivi futili (il profitto economico)»; «con più azioni e omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo nonostante la previsione dell’evento, per colpa cagionavano il delitto di strage e disastro, mediante azioni e omissioni che cagionavano pericoli per la pubblica incolumità, sia all’interno che all’esterno dei reparti CVM-PVC, tanto che ne derivavano la morte e la malattia di un numero allo stato ancora imprecisabile di persone»; «gli imputati erano venuti a conoscenza dei risultati delle indagini scientifiche a livello mondiale e dell’esito degli accertamenti sulla pericolosità del CVM-PVC, riferito dal prof. Piero Luigi Viola della Solvay di Rosignano (fin dal 1969), nonché comunicato per iscritto (fin dall’ottobre 1972) e più volte verbalmente dal prof. Cesare Maltoni di Bologna, accertamenti tutti che segnalavano il pericolo tossicologico e anche cancerogeno derivante dalla lavorazione e dalla trattazione in qualsiasi forma del CVM-PVC, pericolo confermato successivamente nella G.u.c.e. del 10.12.76 e dall’indagine epidemiologica effettuata dall’Università di Padova nel 1975-76 a Porto Marghera, conclusasi con la relazione finale datata 12 marzo 1977, che segnalava una «situazione sanitaria complessiva grave»; «la colpa (progressiva nel tempo) è consistita in imprudenza, negligenza, imperizia… per non aver - pur in presenza delle conoscenze mediche e scientifiche di cui sopra - adottato nell’esercizio dell’impresa tutte e immediatamente le misure necessarie per la tutela della salute dei lavoratori… per eliminare totalmente e immediatamente le fughe di gas CVM e di dicloroetano nell’ambiente di lavoro e nell’ambiente esterno… per non aver curato che i lavoratori usassero tutti i mezzi necessari di protezione individuale… per non aver predisposto misure di sicurezza per tutte le fasi del ciclo produttivo… per non aver fornito informazioni dettagliate e tempestive ai propri dipendenti… per i periodi di tempo di rispettiva competenza i dirigenti e amministratori della holding Enichimica-Enichem e delle sue varie 11 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale società «figlie», pur in presenza di sempre maggiori conoscenze mediche e scientifiche, continuavano ad omettere di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie per la tutela della salute dei lavoratori dipendenti e di quelli delle ditte d’appalto». Il 21 marzo 1997 si apriva il processo per la strage di lavoratori e il disastro ambientale in laguna. Legambiente aveva aperto la discussione con il dossier «I crimini di Porto Marghera». L’emergenza sanitaria veniva così delineata: «I lavoratori del petrolchimico per primi sono stati sottoposti per anni ad esposizioni di cloruro di vinile che hanno pesantemente sfondato i limiti di tollerabilità massima per il corpo umano, con concentrazioni che sono arrivate oltre le 1.000 parti per milione. Tanto per avere un termine di raffronto si può fare riferimento alle indicazioni dell’organismo americano che controlla gli ambienti di lavoro (OSHA) che già nel 1974 imponeva concentrazioni massime di CVM di 1 ppm nell’arco delle otto ore lavorative, mentre il legislatore italiano (e solo nel 1981) ha imposto il limite di 3 ppm come media annuale, permettendo così esposizioni a picchi ben più alti. Gli operai dei reparti CVM-PVC corrono un rischio 7,5 volte maggiore del normale di contrarre un tumore al fegato e 600 volte più alto di contrarre una rara forma di tumore epatico, l’angiosarcoma del fegato». La questione «salute» viene ripresa dal dossier «Porto Marghera: la bonifica innanzitutto. E dopo?» presentato all’apertura del processo. Le indagini di Gabriele Bortolozzo, quelle della Procura, lo studio dell’Istituto Superiore di Sanità permettevano di dare un quadro sanitario interno al Petrolchimico: «Non tutti gli operai segnalati lavoravano effettivamente a contatto con il CVM, i morti segnalati alla magistratura erano 145 e, di questi, 102 decessi possono essere correlati alla esposizione al CVM (si tratta infatti di tumori del fegato, del cervello, del sistema linfoemopoietico e del polmone per i quali lo IARC dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce un rapporto diretto e dimostrato con l’esposizione a CVM); compaiono fra le persone segnalate patologie che con ogni probabilità sono causate dal lavoro a Marghera, anche se non legate direttamente al CVM. Ad esempio si registra un eccesso di tumori vescicali (correlabile ad esposizione alle ammine aromatiche utilizzate a Marghera nel reparto TDI e forse in altre lavorazioni) rispetto alla frequenza di questa patologia nel resto del Veneto. Si notano anche alcuni casi di carcinoma alla pleura e al polmone correlati con esposizione ad amianto. E ancora le conclusioni evidenziano che fra gli insaccatori di CVM c’è un’anomala frequenza di tumore al polmone e che i casi di epatopatie hanno una frequenza impressionante (ne sono stati accertati 189 su 571 persone di cui si è esaminata la documentazione clinica)… Interessante il raffronto con i risultati delle indagini epidemiologiche condotte dall’ISS… le persone prese in considerazione sono in tutto 1568 per la polimerizzazione e 208 per l’insacco. Al 1995 risultavano ancora vivi 1487 polimerizzatori e 166 insaccatori. I deceduti sono dunque rispettivamente 168 e 41 (mancano tre polimerizzatori e un insaccatore di cui si è persa ogni traccia)». Il tasso di mortalità non rivela molto, se si tiene conto di fenomeni ben conosciuti in epidemiologia, come il cosiddetto «effetto lavoratore sano»: «Il discorso – continua il dossier – cambia molto se si verificano le singole cause di morte. I decessi per tumore maligno sono 86 fra i polimerizzatori. Il loro numero giunge addirittura ad essere pari a quello atteso a livello nazionale e soltanto poco più basso di quello regionale. Se si sconta l’effetto lavoratore sano e si considera che un aumento relativo dei morti per tumore è per forza parallelo ad una diminuzione relativa dei morti per quell’altra grande causa che sono le malattie cardiovascolari, si può concludere che la percentuale dei morti per tumore è in realtà aumentata o per lo meno che il profilo delle cause di morte non è normale, essendo alterato il rapporto fra i tumori e malattie cardiovascolari a favore dei tumori. In altre parole, aveva ragione Bortolozzo: quasi tutti gli operai, suoi 12 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale compagni di lavoro, morirono per tumore…». «L’incidenza del tumore al fegato risulta aumentata in maniera statisticamente significativa. La frequenza del tumore aumenta tra gli autoclavisti, i più esposti, ed è particolarmente frequente una rara forma di epatocarcinoma, l’angiosarcoma epatico. Fra gli autoclavisti l’SMR (il tasso standardizzato di mortalità) per angiosarcoma raggiunge la bella cifra di 60.000; in altre parole, questi lavoratori muoiono per angiosarcoma al fegato con una frequenza pari a 600 volte quella attesa. I morti, fra gli autoclavisti, sono 18 in tutto. Se se ne verificano le cause, il risultato è sconvolgente: 9 sono morti per tumore al fegato, 3 per cirrosi epatica, 4 per altri tumori. Uno infine, il cui certificato di morte denuncia un carcinoma allo stomaco, era in realtà affetto da una grave forma di epatopatia. Soltanto uno è morto per cause cardiache. Questi dati sono talmente clamorosi che non hanno bisogno neppure di elaborazioni statistiche: aveva ragione Bortolozzo nell’affermare che i suoi amici autoclavisti morivano tutti per cancro al fegato. Purtroppo Bortolozzo non avrà neppure la soddisfazione di veder confermati i risultati delle sue indagini: morirà in uno strano incidente stradale, il 12 settembre 1995, investito da un camion». Lo stesso dossier riprende dal rinvio a giudizio del Pubblico ministero Casson l’inesistente attenzione alle questioni ambientali dimostrata dalle società presenti a Marghera mediante la vicenda dell’incarico affidato da Montedison ed EniChem alla società American Appraisal. Incarico dato per verificare lo stato degli impianti di Marghera, in occasione della progettata costituzione di Enimont al fine dell’accertamento del rispetto delle normative ambientali. L’American Appraisal fa le sue indagini, arriva a delle conclusioni, che mette per iscritto: si scrive che l’Anic produce PVC, i reflui idrici sono acque clorurate, i rifiuti solidi vengono inviati in discariche abusive, gli impianti emettono in atmosfera alte concentrazioni di inquinanti. L’Anic possiede 57 effluenti (43 gassosi, 7 idrici, 2 per rifiuti liquidi, 2 per rifiuti solidi), gli altri impianti di Marghera hanno 208 effluenti (tra cui 162 scarichi in atmosfera) e i rifiuti solidi vengono in parte smaltiti in discariche interne agli stabilimenti (in 17 discariche ben 5 milioni di tonnellate), in parte incendiati, in parte esportati in Spagna e nell’allora Ddr. L’American Appraisal aggiunge: «Situazioni di questo tipo possono causare seri problemi economici e di responsabilità civile e penale per i futuri proprietari delle aree in questione». La relazione di American Appraisal finisce naturalmente in un cassetto di Enichem da dove uscirà solo per opera della magistratura. A tre anni dall’avvio del processo, delle centinaia di lavoratori e familiari costituitisi, solo alcuni rimangono come parti civili, con le associazioni ambientaliste, il Comune la Provincia, la Regione e lo Stato. Per tutti gli altri Montedison e Enichem stanzia più di sessanta miliardi per il risarcimento danni. Ma a questo punto vale la pena riprendere alcune delle deposizioni dei consulenti del pubblico ministero dalle quali emerge il quadro che per anni, invano, gli ambientalisti avevano additato a istituzioni, imprese e sindacati di categoria. La deposizione Spoladori è per certi versi illuminante: per i rifiuti delle lavorazioni «aree interne del Petrolchimico furono utilizzate per lo smaltimento; nella zona adiacente ai serbatoi di ammoniaca fredda vicino a gruppo di produzione AS vennero scaricate terre rosse derivate dalla lavorazione dell’acido solforico. Altra zona segnalata fu quella adiacente agli ex impianti TDI, quella del laboratorio e dell’ingresso 4 dove sorge l’eliporto. Qui vennero coperti con terreni numerosi fusti, sostanze liquide e tossiche. Le fasi di smaltimento avvennero tra gli anni ‘76 e ’89. In aree esterne allo stabilimento, Lughetto di Campagna Lupia e lungo il canale Petroli, sono stati rinvenuti fusti contenenti pece clorurata di derivazione industriale in una vasta discarica nei pressi delle abitazioni. A Mirano sono confluiti rifiuti industriali compresi 13 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale quelli dell’impianto cloro-soda del Petrolchimico, contenenti alte percentuali di mercurio. Malcontenta, via Molanzani, dove la Montefluos nell’anno ‘89 con autopompa scaricava più volte al giorno gessi in vasche che poi furono interrate. Sotto le linee elettriche che corrono tra Malcontenta e Fusina vennero scavate fosse profonde 3 o 4 metri, dentro le quali prima si scaricavano acque inquinate da CVM, le stesse venivano quindi ricoperte da uno strato di cenere della vicina centrale ENEL, e successivamente si sovrapponeva uno strato di pece del TDI e così via, al fine di coprire il tutto con uno strato di terra. Ciò è continuato fino a quando non è stato costruito il forno inceneritore di pece TDI, intorno agli anni ‘77 e ‘79, anche se gli smaltimenti sono continuati fino al 1983. Altra zona segnalata era tra le abitazioni tra la campagna coltivata e il naviglio Brenta. I rifiuti solidi venivano utilizzati come materiali per imbonimenti delle zone barenarie, che progressivamente venivano conglobate con l’espansione della zona industriale. Raggiunta la massima espansione geografica, non avendo più siti interni di rifiuti, venivano innalzati su tutto il territorio, interessando prima le aree limitrofe, poi i siti più distanti, quindi scaricati a mare e anche inviati in paesi del terzo del mondo. Altro sistema di smaltimento dei rifiuti di estrema nocività è stato quello di bruciarli direttamente nelle centrali termoelettriche esistenti. Peci della peggiore specie venivano aggiunte al combustibile o gettate nelle caldaie. In questo modo venivano eliminate: 500.000 tonnellate annue che venivano di fatto trasferite nel territorio, di cui in particolare code di distillazione, peci di TDI ad altri impianti, 9.000 tonnellate annue, residui clorurati 11.000 tonnellate annue, ceneri di pirite 7.000 tonnellate annue, gessi da acido fluoridrico 400.000 tonnellate annue. Questo si rinviene soprattutto in particolare dal censimento delle discariche nel territorio provinciale. Praticamente questi residui di produzione provenivano dall’impianto del CVM, dall’impianto TR, che tratta tetracloroetilene, TS, che è la trielina, e il DL2, che è la produzione di ossido di carbonio. Poi ammine aromatiche e sempre impianto di produzione del TDI, toluene di isocianato, processo di nitrazione del toluene per ottenere il disitoluene; successivamente alla riduzione ottenevano la toluendiammina, fatta reagire con l’ossido di carbonio ottengono il TDI, quindi anche qui c’è un forte residuo di produzione che veniva smaltito nel territorio. Poi avevamo anche EPCB, che provenivano dal fluido elettrico dei trasformatori, impianti, espurghi, trasformatori. Invece le diossine rinvenute nei rifiuti soprattutto e in particolare i policloruribenzidiossine e i forani, comunque parliamo di diossine... Policloruribenzidiossine, questa è una sostanza rinvenuta nei rifiuti. Proviene dal CVM, ma anche da altre produzioni di cloroalifatici, impianti TR, TS, DL2 e di cloroaromatici: cloruro di benzene e cloruro di benzale, presso l’impianto BC1. Invece per quanto riguarda i metalli pesanti rinvenuti nei rifiuti da noi campionati, in particolare il piombo, si può attribuire la produzione per la stabilizzazione del PVC usato sotto forma di solfito bibasico, di piombo e stearato di piombo. Il mercurio presente in quasi tutti i rifiuti rinvenuti, dall’impianto cloro-soda il cloruro mercurico era usato come catalizzatore nella produzione di dicloroetano, CVM, e nella produzione degli acetati. Il ferro invece, cloruro ferrico, catalizzatore dell’impianto TS e impianto TR. Il rame, catalizzatore cloruro di rame usato nel TD2, produzione di ossido di carbonio. Infine l’arsenico, presente nelle ceneri di pirite, da noi rinvenuto in maniera massiccia su aree che dopo andrò ad elencare; produzione di acido fosforico da Enichem Agricoltura, in particolare Fertimont e Agrimont. Praticamente il rifiuto da noi rinvenuto in quelle aree era direttamente a contatto con la falda freatica sia superficiale che sottostante. Risulta evidente una contaminazione diffusa da ammoniaca in tutta l’area esaminata 14 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Tale contaminazione interessa sia la prima falda sottostante il caranto che quella profonda con una concentrazione dell’inquinante fino a tre ordini di grandezza superiori ai limiti di legge. E’ particolarmente significativa la contaminazione diffusa da solventi clorurati, i quali si rinvengono nella prima falda sottostante il caranto con concentrazioni localmente fino a tre ordini di grandezza superiori ai limiti di legge anche nella falda profonda. Diffusa e preoccupante soprattutto la contaminazione dovuta ad ammine aromatiche che si rinvengono in tutta l’area esaminata. La concentrazione di questi inquinanti è di due ordini di grandezza superiori ai limiti di legge I solventi clorurati sono stati individuati sempre, anche a profondità superiore di 20 metri, quindi sotto sia la falda superficiale che la falda profonda. Poi abbiamo anche il mercurio, anche in questo caso a 20 metri di profondità Il canale Lusore Brentella nel suo tratto terminale scorre all’interno del Petrolchimico sfociando nella laguna di Venezia attraverso la darsena della Rana. Sul fondo del corso d’acqua mescolati a sedimenti giacciono rilevanti quantità di mercurio e idrocarburi. Tali sostanze derivano dagli scarichi effettuati intorno agli anni Settanta dagli impianti del Petrolchimico, in specie dell’impianto cloro-soda e cloruro di vinile monomero. Gli idrocarburi clorurati sversati con gli altri residui si sono già diffusi nell’ecosistema circostante. La lunghezza del canale inquinato è 800 metri circa, la quantità 15.000 metri cubi, i materiali:fanghi di fondo canale contaminato da idrocarburi clorurati e mercurio. Il profilo di contaminazione delle diossine, quello presente a più elevata concentrazione, è l’octaclorodibenzofurano, e ha in questo campione un livello di contaminazione, cioè una concentrazione analitica, di 15.000 picogrammi per grammo di sedimento. Questo è il profilo di un rifiuto di un processo della produzione di idrocarburi alifatici clorurati volatili, Quello che è importante è che non è un sedimento, questo è un rifiuto industriale vero e proprio, non è un sedimento…». Altrettanto si può dire per la deposizione Ferrari: «I livelli di PCB nei canali industriali almeno per i sedimenti superficiali non erano molto differenti invece da quelli che si trovavano nell’area urbana… i campioni di vongole dell’area industriale hanno un livello di contaminazione da diossine più elevato, molto più elevato del campione prelevato in area di allevamenti e la stessa cosa vale per i PCB… La contaminazione da metalli pesanti raggiunge livelli eccezionali, a mio avviso, nei campioni in area industriale con alcuni punti in cui la concentrazione del mercurio rende il sedimento tossico nocivo…anche in fase di campionamento per gli stessi operatori ci sono dei rischi a manipolarlo un materiale di questo tipo, in effetti, a mio avviso, con un contenuto di 2 e 300 milligrammi/chilo di mercurio diventa un materiale anche difficilmente manipolabile per il quale esistono dei rischi di manipolazione. Non solo il mercurio comunque è stato rilevato a valori elevati, ma anche cadmio, rame e piombo… una correlazione tra elementi ed eventuali processi industriali, a titolo di esempio il mercurio, tutti sanno, relazionato agli impianti cloro-soda e a impianti correlati di recupero del mercurio dai reflui del cloro-soda, o anche da catalizzatori di sintesi, abbiamo trovato che veniva impiegato in vecchi processi di sintesi anche cloruro mercurico nella sintesi del CVM… abbiamo trovato del sedimento con concentrazioni di mercurio fino a 370 milligrammi/chilo quando il vecchio limite del DPR 915 era di 100 milligrammi per chilo… Il rame pure catalizzatore di sintesi, nell’ossiclorurazione per la produzione del CVM, per la produzione di ossido di carbonio, e il piombo per esempio dall’uso di additivi fino a qualche anno fa a base di piombo, stabilizzanti del PVC, in anni passati nel PVC vi erano quantità massicce di piombo… EVC è l’azienda che oggi specificamente produce il CVM, e i prelievi fatti da queste 15 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale vasche mostrano dei valori assoluti di tossicità equivalente che sono estremamente elevati. Mentre prima eravamo su valori di qualche migliaio, qui arriviamo alle decine di migliaia…. Assodato che la diossina che si trova in laguna nella vicinanza della zona industriale è proveniente in toto dalle attività di produzione dei clorurati che si sono svolte e che si svolgono all’interno del Petrolchimico… quando passiamo a considerare la zona industriale in termini di canali lagunari, notiamo che i valori di concentrazione di tossicità equivalente aumentano di un ordine di grandezza, per quanto riguarda il canale industriale sud, il canale Malamocco Marghera e il canale industriale Ovest, un ordine di grandezza significa almeno 10 volte. Esistono poi dei punti del canale industriale dove il livello di contaminazione è sensibilmente più elevato, abbiamo un punto nel canale Lusore-Brentelle di 1.359 nanogrammi/chilo di tossicità equivalente, un punto nel canale industriale nord di 1712, in testa al canale industriale nord, un punto nel canale Brentella di 2783 per il campione superficiale che vuol dire i primi 3, 5 centimetri di sedimento, per salire ad un valore 64.000, oltre 64.000 nanogrammi/chilo di tossicità equivalente in un campione più profondo ma relativamente profondo, perché si tratta di un sedimento posizionato a circa 16, 20 centimetri. Questo valore mi risulta che sia il più alto valore in assoluto che è stato riscontrato in un ambiente in termini di contaminazione di diossina». Ma tutto ciò non è servito per giungere ad un esito diverso del primo grado del processo. Staremo a vedere all’appello. Sperando che l’appello ci sia. 16 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale MANTOVA Per molti aspetti Mantova pùo essere paragonata a Venezia: è una fra le più belle città d’arte del nord Italia; era anch’essa circondata dall’acqua sino a quando - a metà del secolo scorso -non intervennero gli Austriaci a bonificarne una parte; ha dato i natali ad uno dei nostri massimi poeti, Virgilio. Purtroppo negli ultimi anni il paragone riguarda fatti non altrettanto ameni: si parla infatti di disastro ambientale come a Porto Marghera, si confrontano le incidenze dei decessi tra i lavoratori Enichem con quelli dei reparti di produzione CVM, si indaga sui vertici delle società che si sono succedute nelle proprietà del petrolchimico con ipotesi di accusa identiche a quelle che hanno colpito i vertici delle stesse società di Porto Marghera. Ma a Mantova è già emerso che le vittime della chimica oltre ai lavoratori sono anche gli abitanti di un quartiere vicino al petrolchimico. Non vorremmo che tale analogia si verificasse anche a Porto Marghera. «Per la popolazione residente entro 2 chilometri dall’inceneritore dei rifiuti industriali del polo chimico di Mantova - si legge nelle considerazioni conclusive del lavoro condotto da un gruppo di lavoro costituito da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, ASL di Mantova, ISPESL, Università La Sapienza di Roma - lo studio caso controllo mostra un significativo incremento del rischio di tutti i STM (Sarcomi dei Tessuti Molli)»: infatti la probabilità di contrarre questo rarissimo tumore è risultata 25 volte superiore rispetto agli altri mantovani. In questo tratto di territorio del raggio di due chilometri dai camini del petrolchimico sorgono i quartieri di Frassino e Virgiliana, 1300 abitanti, gli stessi sui quali si era soffermata l’attenzione della D.ssa Costani, medico di base che aveva notato una anomala frequenza di una forma molto rara di tumori tra i suoi pazienti residenti in quel pezzo di città. Purtroppo l’anomala incidenza di questo tipo di tumori era già stata evidenziata tra la popolazione maschile residenti nella zona R, ovvero quella maggiormente colpita dal fallout di diossina in seguito all’incidente all’Icmesa di Seveso nel ‘76. Tra le raccomandazioni dello studio sopra citato si legge che il riscontro di una così elevata incidenza di STM dovrebbe indurre ad attivare una indagine per valutare l’esposizione attuale e pregressa della popolazione a TCDD - meglio nota come diossina di Seveso «agente atto a indurre STM e che può venire emesso dagli inceneritori di rifiuti, in particolare di rifiuti industriali» e si legge inoltre che sarebbe necessario effettuare una valutazione dell’incidenza di tutte le neoplasie «in quanto la TCDD è un agente cancerogeno caratterizzato da un ampio spettro di organi bersaglio». Il polo industriale attualmente è costituito da tre insediamenti, ovvero il polo chimico EniChem che copre una superficie di 130 ettari, a circa 5 chilometri dal centro di Mantova, che è al momento l’unico stabilimento attivo in Italia per la produzione di stirene a partire dal benzene. Gli altri impianti del petrolchimico, cracking e clorosoda sono stati fermati rispettivamente nel ‘74 e nel ‘91 e conseguentemente è stato dismesso il ciclo di produzione del dicloroetano. Oltre al polo chimico sono presenti una raffineria ed uno stabilimento metalmeccanico ed all’interno dell’insediamento industriale si trova un impianto di incenerimento per rifiuti industriali di EniChem, che risale al 1974 e che ha operato in tal modo sino al 1991. Da allora - in seguito ad un intervento della Regione Lombardia - sono state apportate alcune modifiche per limitarne l’impatto ambientale e ne è stato ridotto l’impiego allo smaltimento dei soli rifiuti EniChem. La situazione di degrado ambientale prima ancora dei problemi alla salute dei cittadini, era emersa in bella evidenza - alla fine del 1994 - dallo Studio di Impatto Ambientale, redatto dalle cartiere Burgo in merito alla richiesta fatta al Comune di Mantova 17 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale per la realizzazione di un inceneritore dei fanghi di cartiera sulle rive del lago di Mezzo, a distanza di circa 2 chilometri dall’area industriale EniChem. Da quello studio, grave appare il quadro dell’inquinamento atmosferico - in particolare anidride solforosa e benzene - di origine industriale; pessime le condizioni delle acque del Mincio in uscita dal Lago Inferiore. Pesante inoltre il grado di inquinamento dei terreni e delle falde all’interno dell’area industriale per la presenza di solventi organici aromatici, solventi clorurati, idrocarburi e mercurio. Mercurio lo si ritrova anche nei sedimenti della prima parte del basso corso del Mincio e nei tessuti dei pesci. Nell’area oltre alle industrie del petrolchimico erano presenti tre centrali termoelettriche, un inceneritore per rifiuti industriali da 12.000 tonn/anno, una discarica per rifiuti speciali della capacità di 300.000 metri cubi sulle rive del lago di Mezzo e altre due abusive - sempre nell’ordine del milione di metri cubi sulle rive del Mincio.. Il quadro ambientale descritto venne però immediatamente contestato dal responsabile chimico del PMP, il quale rivendica che «nelle zone industriali di Mantova ogni causa d’inquinamento è stata intercettata e neutralizzata». Sempre in quel periodo cominciano ad emergere dati che segnalavano anomale frequenze di tumori al sistema linfoemopoietico (leucemie e linfomi) fra la popolazione femminile: sino al 50% in più rispetto alla media regionale e oltre il 70% se rapportate alla media nazionale. Anche in questo caso la reazione da parte degli enti preposti fu quella di minimizzare. Addirittura, per evitare ingiustificati allarmismi tra la popolazione, venne presentata dalla ASL una indagine epidemiologica condotta dalla stessa Asl e dallo IARC di Lione, tra i lavoratori dell’impianto di produzione dello stirene. Questo studio relativo ad una popolazione maschile di operai vennero presentati come risolutivi a tranquillizzare la popolazione femminile. Ma i dati dimostravano, se letti correttamente, esattamente il contrario: ovvero che tra gli operai EniChem - Montedison, impiegati dal 1957 al 1986 in vari reparti, l’insorgenza di tumori era più alta del normale. In particolare tra gli operai del reparto servizi generali e distribuzione liquidi, dove maggiormente vengono maneggiati benzene e stirene, la situazione sanitaria risultava addirittura peggiore di quella riscontata tra gli addetti del reparto CVM di Marghera. Si riscontrava infatti una probabilità di contrarre il linfoma di Hodgkin molto superiore rispetto alla media. I dati di questa ricerca presentati ad un convegno, non sono mai stati pubblicati, ma grazie ad una querela che il responsabile del circolo Legambiente di Mantova - Paolo Rabitti - ha subito da parte della ASL, sono divenuti di dominio pubblico. Venne quindi presentato un esposto alla magistratura, da parte di due consiglieri regionali (Monguzzi e Torri) assieme a Edoardo Bai, già consulente di Casson per la vicenda di Porto Marghera, sulle cause delle morti emerse dallo studio sui lavoratori dello stirene. Nell’esposto si chiedeva anche di indagare sulla vicenda dell’elevata insorgenza dei sarcomi ai tessuti molli, che era stata segnalata dalla Dott.ssa Costani. A questo esposto ne seguirono altri da parte dei familiari di ex dipendenti dello stabilimento chimico di Mantova morti o ammalati di tumore, che chiedevano di fare chiarezza sull’aumento di incidenza di tumori e linfomi tra i lavoratori che era emersa da uno studio messo a punto da Rabitti. In seguito a questi esposti oltre alle inchieste della magistratura venne costituito un tavolo istituzionale che dette il via alla attuazione di uno studio epidemiologico con l’obiettivo di fornire una stima dell’incidenza dei sarcomi dei tessuti molli nel comune e nella provincia di Mantova, e in particolare valutare l’incidenza di questo tipo di neoplasie tra la popolazione residente nell’area a ridosso del polo industriale. Lo studio, come sopra già riportato, ha purtroppo dato conferma a quanto osservato dal 1984 al 1991 dal medico di base di questi quartieri, la Dott.ssa Costani e a quanto emerso 18 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale da un successivo studio relativo agli anni 84-96 che aveva stimato - sempre nella stessa area - un rapporto standardizzato di morbosità per tutti i STM pari a 2.25, ovvero una probabilità pari ad oltre il doppio rispetto al resto della popolazione di ammalarsi di queste rare neoplasie. Come a Marghera, gli esposti e le indagini della magistratura hanno portato alle ipotesi di accusa per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose per i vertici delle aziende che hanno gestito il petrolchimico di Mantova. Come a Marghera ci sarà un processo che stabilirà responsabilità civili e penali, verrà fatta piena luce sull’inquinamento prodotto nell’area. Ma sarebbe ora che da Mantova si cominciasse a chiudere con il passato, si cambiasse rotta con la chimica dei veleni e si mettesse finalmente mano alla bonifica delle aree contaminate. 19 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale BRESCIA E' significativo che oggi, nella definizione del piano di caratterizzazione dell'area inquinata esterna allo stabilimento si debba necessariamente tener conto della serie storica di emergenze acclarate di inquinamenti di origine Caffaro, in particolare quella disastrosa di benzolo (produzione del monoclorobenzolo per usi bellici) del 1916-1918, quelle successivamente attestate da tetracloruro di carbonio nel 1980 e nel 1984 (allora non furono incredibilmente cercati i PCB!), di quando cioè la Caffaro era di proprietà della Snia e ormai circondata dai quartieri popolari della periferia di Brescia. Dal 1950 ad oggi sono stati impiegati un migliaio di lavoratori, attualmente rimasti in centocinquanta. La Caffaro ha prodotto, fin quando è stato legale, PCB per l'Italia e il mercato estero (è stato molto usato nei trasformatori elettrici e in mille altri usi). Secondo dichiarazioni di dirigenti della società stessa la produzione di Pcb iniziò a Brescia nel 1938 e quando cessò nel 1983 la quantità totale prodotta ammontava a 38.380 tonnellate; su questa valutazione non tutti sono d’accordo, parlando alcuni di oltre 100.000 tonnellate. E i PCB sono, stando ad un recente documento dell'Istituto Superiore di Sanità, sostanze molto tossiche, per le quali viene riportato un ampio spettro di effetti nocivi. Intrinsecamente meno potenti delle diossine, i livelli di concentrazione con i quali i PCB ricorrono negli alimenti, in genere molto più elevati di quelli presentati dalle prime, ne innalzano tuttavia comparativamente la pericolosità. Alcuni PCB sono noti per produrre effetti tossici con gli stessi meccanismi delle diossine (PCB diossina-simili). Che la Caffaro abbia inquinato Brescia non c'era il minimo dubbio da anni. Ma quanto e come nessuno lo ha appurato. Anche perchè tutta la città risulta oggi inquinata dalle sue fabbriche storiche: quando tra il 1994 e il 1995 la municipalizzata di Brescia ha avviato la prima analisi dell'inquinamento dei suoli per lo studio d'impatto del suo costruendo inceneritore, su una settantina di carotaggi distribuiti in quasi cento chilometri quadrati di territorio, in quasi tutti si è trovato tracce di diossina, concentrazioni rilevanti di metalli pesanti, sostanze chimiche tossiche. In particolare da analisi effettuate dal presidio multizonale di prevenzione di Milano durante queste campagne dal 1994 al 1997 in cui sono stati analizzati 7 campioni di terreno nella zona della Noce, il valore medio di PCB è risultato di 0,253 mg/Kg, contro un limite accettabile dettato dal DM 471/99 di 0,001 mg/kg, e un valore medio di diossine e dibenzofurani pari a 31,1 nanog/kg, contro il limite massimo accettabile di 10 (Dm 471/99). Vicino alla Caffaro, c'erano anche le acciaierie del Comparto Milano con il loro carico di metalli pesanti e diossina. Nell'area delle ex-fonderie Perani (alti livelli di Pcb e metalli pesanti) parzialmente bonificate prima della costruzione del nuovo inceneritore, alla località della Noce e delle Fornaci, un'area ex-industriale probabilmente inquinata dalla Caffaro, nella zona S.Paolo-Boffalora (ancora metalli pesanti e Pcb), occupata da fonderie di rame e ottone tra cui la Bonomi Metalli, già chiusa perché troppo inquinante dal sindaco Corsini 12 anni fa, ma mai bonificata. Nonostante tutto, non è mancata la sorpresa in pieno agosto 2001, quando è stata depositata ai magistrati di Brescia la circostanziata denuncia di un sindacalista iscritto a Legambiente, Marino Ruzzimenti e di due medici dell'ASL, fondata su alcune indagini sanitarie e sulle analisi di contaminazione del suolo interno all'azienda. La stessa Caffaro aveva denunciato un diffuso inquinamento del suolo, del sottosuolo (anche a decine di metri di profondità) e delle acque sotterranee, con punte elevatissime, sia sotto e negli immediati dintorni dei reparti produttivi, sia all'esterno dell'azienda. Tracce di PCB sono state trovate dalla Centrale di Latte di Brescia anche nei prodotti di una azienda agricola appena sotto la fabbrica. 20 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale La ricerca di Pcb eseguita dall’istituto zooprofilattico dell’asl di Brescia, nei mesi di settembre e ottobre 2001, sul latte e su alcuni capi di bestiame della zona, ha rintracciato concentrazioni di tali sostanze al disopra del valore limite di 100 nanogrammi/ grammo di grasso per il latte e di 200 nanogrammi/grammo per gli altri prodotti (raccomandazione UE del giugno 2000). Nei 6 campioni di latte analizzati sono state rintracciate concentrazioni di Pcb tra i 231 e i 504,3 ng/gr di grasso. Concentrazioni elevate sono state riscontrate anche in campioni di uova (12754 ng/gr grasso, 2188,5 ng/g), di galline (23819 ng/g; 6869 ng/gr), e di un toro (895,4 ng/g grasso). Inoltre l’Istituto Superiore di Sanità ha effettuato un’indagine sull’eventuale presenza di diossine e furani nel latte prodotto da vacche delle cascine a sud della Caffaro: la loro presenza è stata rintracciata in concentrazioni pari a 8 e 11 picogrammi/grammo di grasso di latte, ovvero due volte oltre il valore limite (5 picogrammi/grammo di grasso) Da dichiarazioni apparse sulla stampa locale tutti gli animali delle cascine vicino alla Caffaro sono stati abbattutti, e la giunta provinciale avrebbe approvato una delibera per lo stanziamento di 100 milioni per il sostegno delle aziende in crisi. Data la presenza di diossine nei prodotti agricoli, gli agricoltori e le loro famiglie sono stati sottoposti dalla Asl di Brescia a controlli ematici di Pcb e mercurio. Su 15 persone analizzate solo in due la concentrazione di Pcb è rientrata nel range di normalità (0,5-15 nanogrammi/ml) e in ben nove casi la concentrazione è risultata di 6 volte oltre il limite massimo di normalità. Incredibilmente una bambina di 12 anni è stata riscontrata una concentrazione di mercurio metà del limite massimo per l'esposizione professionale! Da ricordare che già nel 1981 indagini della presenza di Pcb nel sangue dei lavoratori della Caffaro, aveva dato risultati positivi in quaranta di loro, con concentrazioni medie dai 50 ai 500 nanogrammi/litro. Quello che emerge da questa breve resoconto, è l’elevata eterogeneità dei dati disponibili e la mancanza di un quadro organico della situazione ambientale dell’area e dei possibili effetti sanitari sulla popolazione, da cui si evidenzia la necessità di realizzare al più presto un vero piano di caratterizzazione di tutta la zona intorno la Caffaro, nonché dei territori circostanti le discariche di Passirano e Castagnato. Infatti, seppure questi dati richiedono ulteriori indagini ed approfondimenti dei possibili effetti sulla salute della popolazione, la contaminazione ambientale di sostanze particolarmente tossiche nella zona non può essere negata. Bisogna quindi verificare rapidamente se i dati fin qui emersi siano indice di situazioni critiche puntuali, o di un inquinamento di tipo diffuso di tutta l’area interessata, per intervenire in maniera mirata. Il primo intervento da effettuare, sempre a salvaguardia della salute pubblica, riguarda la protezione delle aree risultate inquinate, con l'immediata messa in sicurezza dei siti, e una successiva bonifica definitiva.; queste aree dovrebbero essere chiuse al pubblico, per evitare contatti con il terreno inquinato. Un intervento tanto più urgente, se pensiamo che tra gli inquinanti vi sono miscele di composti di PCB, che l'ente americano per la protezione dell'ambiente (EPA) ha suddiviso in classi di tossicità e la contaminazione presente a Brescia riguarda in particolare quelli ad «alta» tossicità. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato i Pcb nel gruppo 2A, ovvero quali «probabili cancerogeni per l’uomo». Ma oltre alla presenza di PCB, i terreni contengono altri composti, alcuni dei quali sicuramente cancerogeni, quali arsenico, benzene, diossine, tetracloroetilene, cloroformio, DDT, dicloroetano, policlorofenoli, idrocarburi clorurati . L’esposizione a tali sostanze potrebbe rappresentare un serio rischio per la salute della popolazione, in particolare per il rischio di contrarre alcune patologie, come tumori del 21 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale polmone, del sangue, del fegato, della pelle, della vescica. Ma già la presenza di alte concentrazioni di PCB possono essere causa di patologie acute a carico del fegato e del sistema immunitario con conseguente diminuzione delle difese dell'organismo. Proprio sugli equilibri ormonali della popolazione , quali la funzione tiroidea e il bilancio ormonale, si sta dirigendo l’attenzione della Commissione tecnico-scientifica istituita a Brescia, individuati come bioindicatori e precursori di un possibile rischio a patologie a più lunga latenza (come quelle tumorali), tanto che sta valutando di richiedere all’Iss uno studio epidemiologico in tal senso. Per queste ragioni il 16 ottobre 2001 Legambiente e Medicina Democratica hanno costituito con i promotori della denuncia e una cinquantina di abitanti un comitato di aiuto e controllo in una pubblica assemblea in quartiere. E' stata l'occasione per chiedere al sindaco di ingiungere ai proprietari dell'azienda gli opportuni interventi di messa in sicurezza e di bonifica dei terreni contaminati. Già nell’agosto 2001 il Settore ambiente ed ecologia del Comune di Brescia, vista la comunicazione dell’Asl relativa all’inquinamento del terreno nella zona intorno l’industria, ha diffidato la società Caffaro s.p.a. ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza d’emergenza, di bonifica e ripristino ambientale dei siti e il 26 ottobre il Sindaco - visti i nuovi dati delle analisi dell’Asl sugli scarichi idrici - ha emesso un’ordinanza in cui si ordina alla Caffaro s.p.a. di adottare, entro trenta giorni, idonei sistemi per l’eliminazione o il contenimento degli inquinanti presenti nello scarico idrico. La società ha presentato ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha sospeso i termini dell’ordinanza sindacale per l’adeguamento dello scarico, accettando la proposta della Caffaro che si è impegnata a presentare nello stesso lasso di tempo un progetto di fattibilità per l’abbattimento dei livelli di inquinamento da Pcb. Il Tar tornerà sulla questione il 25 gennaio 2002. Nel frattempo, in mancanza di interventi, altre sostanze tossiche verranno trasportate all'esterno delle aree inquinate, soprattutto attraverso la falda idrica sotterranea, che scorre verso sud trascinando con sé i composti tossici. A tale proposito un corposo documento tecnico di richieste e proposte è stato inviato al Comune e al Presidente della Regione Lombardia, considerati i principali responsabili della salute pubblica. La questione appare piuttosto complicata in quanto la bonifica sarà miliardaria e gli interessi immobiliari sull'area consistenti. Si comincia a parlare della necessità di una interruzione dell'attività produttiva per rendere possibile non solo la bonifica, ma anche la semplice messa in sicurezza dell'area. Per ora si è scongiurata la contrapposizione, in passato accesa, tra lavoratori e abitanti. Ma è evidente che la bonifica del territorio contaminato dalla Caffaro sta diventando il terreno di verifica e di prova per le istituzioni e la città di Brescia: un modo per iniziare a fare i conti con il suo passato industriale. 22 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale PIEVE VERGONTE Un lago in cui è possibile fare il bagno, ma è vietato pescare. Meta turistica da cartolina che custodisce, acquattate sul fondo, centinaia di tonnellate di scorie contenenti DDT. Senza considerare le concentrazioni di mercurio sempre più preoccupanti. Un souvenir per ricordare cinquant’anni di chimica a Pieve Vergonte, a monte del lago Maggiore. Grazie a fabbriche come Rumianca prima, Sir ed Einchem poi, il DDT, insetticida démodé, è finito nelle acque di scarico e ha reso non commestibili praticamente tutte le specie ittiche pregiate del lago Maggiore. L’area è stata inserita dal ’98 nella lista dei quindici siti da bonificare di interesse nazionale. Sono i frutti amarissimi di una distrazione durata decenni, fino al ’96, quando gli amministratori provinciali, seduti al tavolo della Commissione per la pesca nelle acque Italosvizzere, hanno ascoltato allibiti i risultati di una ricerca sulla presenza di DDT nei pesci del lago Maggiore sul versante elvetico. Lo studio dimostrava in modo inequivocabile il superamento dei pur permissivi limiti imposti oltreconfine. Immediatamente vennero ordinate indagini sul pescato italiano, che confermarono il quadro desolante. I referti documenteranno poi lo stato di obsolescenza degli impianti chimici, il degrado del suolo, l’assenza di una rete fognaria, l’inquinamento del sottosuolo fino alla falda acquifera collegata al Toce, lo sversamento di acque di lavorazione non depurate, ma infinitamente diluite fino ad essere rese compatibili con la legge Merli, allora in vigore. Viene accertata la presenza anche di altri inquinanti: arsenico (dalle ceneri di pirite accumulate sul suolo), cloroderivati e soprattutto mercurio (dai fanghi delle celle elettroniche utilizzate per la produzione del cloro). L’allora ministro dell’ambiente Edo Ronchi, in un’assemblea dei Verdi a Torino riferisce pubblicamente la notizia. Gli fa eco, da Verbania, una bordata campanilista di fischi e insulti. Ma nello stesso anno, con un ordinanza del Ministero, viene bloccata di fatto la produzione del DDT. Le autorità regionali intanto vietavano la pesca professionale e il consumo di pesce del lago Maggiore. E’ fatta salva, con un sospiro di sollievo per gli amministratori, la balneabilità delle acque, favorita dall’insolubilità del biocida che permane nei fondali. Il 4 dicembre 1998, inizia il processo contro i dirigenti Enichem. Legambiente è parte civile. Il processo, che vede uno schieramento foltissimo di enti pubblici e privati, si conclude con il riconoscimento della buona volontà della Enichem per la bonifica e la condanna degli imputati a pene lievissime. Tutte le parti civili vengono largamente risarcite (soltanto Legambiente tenta di opporsi). Facendo il punto sullo stato di avanzamento dei lavori di bonifica per una spesa complessiva di 91 miliardi nel sito di Pieve Vergonte e nel bacino del lago Maggiore, attualmente sono stati portati a termine da EniChem (che ne ha dato notizia in un documento distribuito localmente) i seguenti interventi: - demolizione dell'impianto DDT e sala Krebbs e stoccaggio provvisorio delle macerie; - asfaltatura delle strade di accesso agli impianti ancora in funzione (produzione del cloro per elettrolisi in celle ad amalgama di mercurio; produzione di cloroderivati del benzene e del toluene; produzione di acido solforico da zolfo elementare); - attivazione di una barriera idraulica costituita da 31 pozzi, che intercettano a meno 10 e a meno 20 metri di profondità, con un fronte di cattura di 700 metri, per una capacità di emungimento pari a 850 mc/ora di acqua che viene inviata al trattamento di depurazione e deviata nel Toce; - attivazione di tecniche di "air sparging and soil venting" in alcuni punti del 23 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale sottosuolo della zona impianti. Ancora tutto da definire resta il progetto di bonifica vero e proprio, che consisterà probabilmente nella rimozione di uno strato di suolo dai piazzali liberi da impianti e da sempre utilizzati come zone di stoccaggio per le scorie di lavorazione (cloroderivati alifatici e aromatici, DDT, arsenico, mercurio), per stoccarlo poi in un "sarcofago" impermeabile da mezzo milione di metri cubi. Legambiente aveva chiesto che lo stoccaggio fosse preceduto da una detossificazione delle terre. Nello stesso senso si erano espresse Provincia e Regione. La questione è ancora all'attenzione del Servizio VIA del Ministero, a causa dell'opposizione di EniChem. Il mezzo milione di metri cubi è stato calcolato considerando soltanto lo strato di suolo nei piazzali di deposito delle scorie di lavorazione, mentre nulla è stato deciso ancora per il terreno inquinato su cui insistono gli impianti. Si dovrebbero inoltre chiudere gli impianti vecchi e obsoleti, fatiscenti, attualmente di proprietà Tessenderlo s.p.a., una multinazionale dei cloroderivati e dei fertilizzanti, tuttora attiva a Pieve Vergonte, che lavora benzene e toluene, notoriamente cancerogeni, che produce cloro e usa mercurio, famigerato elemento chimico dagli effetti deleteri per il sistema nervoso. Nel frattempo Enichem sembra stia per diventare di proprietà dell’araba Sabic. Visto che Enichem a Pieve Vergonte è impegnata nel programma di bonifica del suolo e del sottosuolo, inquinati da decenni di lavorazioni chimiche selvagge, la domanda che ci poniamo è se la Sabic si farà carico della bonifica o se ancora una volta assisteremo al classico scaricabarili delle responsabilità. Per quanto riguarda la ricaduta nel bacino del lago Maggiore dell'inquinamento di Pieve Vergonte, oggi è ancora in vigore il divieto di pesca della maggior parte dei pesci del lago, a causa del livello di DDT costantemente al di sopra del limite di legge. In realtà il divieto sembrerebbe valere soltanto sulla carta, visto che le barche dei pescatori continuano la loro attività. Va inoltre segnalato come sia ancora accesa la diatriba tra esponenti politici locali e Ministero della Sanità sull’adeguamento ai limiti di legge elvetici, molto più permissivi di quelli italiani. L'unica indagine ambientale in corso è stata promossa dal Settore epidemiologico dell’Arpa Piemonte, per una ricerca sul latte materno delle puerpere che partoriscano presso gli ospedali della zona. Visto che il pesce di lago è poco consumato dagli abitanti locali, il tenore di DDT nel latte sembrerebbe in linea con quello nazionale, benché i campioni di latte spontaneamente offerti per le analisi, siano troppo pochi per permettere di trarre conclusioni complessive. Molto più interessante sarebbe un’indagine epidemiologica mirata sui lavoratori di Pieve Vergonte e sulle loro famiglie, che tuttora manca e che è purtroppo osteggiata da amministratori locali e sindacati. In occasione della presenza a Pieve Vergonte, il 13 novembre scorso, del Ministro dell’ambiente Altero Matteoli, Legambiente Verbano ha reso pubblico un appello al ministro, in cui si chiedeva un impegno per la bonifica dell’area e per eliminare quantomeno il mercurio dalle lavorazioni in corso. Il circolo locale di Legambiente ha infine finanziato una Borsa di studio (tesi di laurea in Scienze dell'ambiente presso l'Università di Milano) per una ricerca sul contenuto in mercurio dei pesci del lago Maggiore. I dati ufficiali degli anni scorsi parlano di concentrazioni di mercurio di una certa consistenza (negli agoni fino a un valore medio di 250 ug/Kg), seppure inferiori al limite di legge (500 ug/Kg). Va notata la grossa differenza tra i risultati analitici riscontrati nel 2001 dal Laboratorio cantonale elvetico rispetto ai dati dell’Arpa: il primo ha trovato concentrazioni di mercurio in costante crescita rispetto agli anni passati, a differenza dell’Agenzia regionale protezione ambiente, che anzi ne constata la quasi 24 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale scomparsa. Anche per il mercurio, come per il DDT, non è tanto l'avvelenamento della popolazione che preoccupa, quanto quello dell'ecosistema e la possibilità di intossicazione cronica dei lavoratori e della popolazione residente. 25 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale CENGIO E SALICETO A Cengio sembra si sia imboccata la giusta direzione. E’ anche grazie al Commissariamento che, dopo anni e anni di incertezze, si è cominciata a respirare aria nuova in Val Bormida. Si sono compiuti dei primi passi in avanti, premessa indispensabile per risolvere la vertenza Acna sotto tutti i punti di vista ambientale e occupazionale. Ma veniamo alla storia «inquinata» di Cengio. L’Acna è stata per anni - e rimarrà per molto tempo - il simbolo della prepotenza del sistema industriale verso l’ambiente e la salute dei cittadini. Ma è anche il simbolo di come una industria non può restare sul mercato senza sentire una responsabilità per l’ambiente. Per far sopravvivere l’Acna un intero fiume, il Bormida, è stato sequestrato all’interno del perimetro aziendale e restituito alla valle dopo che le sue acque sono state impiegate per le attività di processo, di raffreddamento e di diluizione degli scarichi. L’Acna è stata l’accumulo sul sito nel corso dei decenni di una enorme quantità di rifiuti e di terre contaminate. L’Acna è stata l’uso di centinaia di sostanze pericolose alcune delle quali mutagene e cancerogene, la presenza accertata nel fiume di micro-inquinanti, la saturazione dei bacini di stoccaggio. E infine è stata una storia antica di conflitti con le popolazioni contadine, che comincia con le proteste (represse) e le cause giudiziarie (perse) negli anni ’30, proseguendo tra alti e bassi fino ai giorni nostri. Il sito Acna copre oggi una superficie di circa 55 ettari, a cui vanno aggiunti le aree pubbliche fuori dal muro di cinta dell’azienda e la discarica di Pian Rocchetta. Gli scarichi a elevato contenuto di solfati non trattati dal depuratore, entrato in funzione a metà degli anni Ottanta, vennero concentrati e lasciati decantare in bacini a cielo aperto (lagunaggi o "lagoons"). Il rischio ambientale deriva quindi dall’inquinamento diffuso nel sottosuolo di tutto lo stabilimento, dall’accumulo di rifiuti speciali e pericolosi derivanti da decenni di attività, e dai depositi liquidi ad alto contenuto salino stoccati nei lagunaggi. Nel corso degli anni ‘80 gli ambientalisti ne hanno ostinatamente chiesto la chiusura e la bonifica. In quegli stessi anni, l’Enimont e tutte le rappresentanze della chimica e dell’industria italiana, così come i sindacati e i governi che si succedettero, difesero altrettanto ostinatamente l’attività dell’Acna. Chi in nome dei diritti dell’impresa, chi in nome della possibilità di conciliare «ambiente e sviluppo». Lo stabilimento dell’Acna ha rappresentato per circa 120 anni un insediamento ad alto rischio ambientale per l’intera Val Bormida. E’ stato acquistato durante la sua attività da diverse aziende. L’ultimo cambio di proprietà è del 1990, anno dell’acquisto da parte di EniChem. Gli impatti ad essa attribuibili si riferiscono infatti a tutte le lavorazioni praticate all’interno dell’azienda nel passato, visto che l’area industriale ospita i residui di lavorazione di oltre un secolo di attività. In questo periodo sono state praticate lavorazioni ad alto rischio, utilizzate sostanze ad alta pericolosità, che hanno generato residui liquidi, solidi e semisolidi ancora stoccati in grandissime quantità, ed in condizioni assai precarie, nell’area industriale. Dalle diverse indagini effettuate risulta la presenza nel sottosuolo dell'area industriale di una quantità variabile, secondo le recenti stime del Commissario nominato nel 1999, da 1.500.000 a 2.000.000 mc di rifiuti speciali e pericolosi. Nella zona interna allo stabilimento sono inoltre localizzati 10 lagoons che contengono circa 300.000 mc di reflui costituiti prevalentemente da solfati, solfiti e carbonati di sodio e potassio, oltre che da sostanze organiche quali solfonati della naftalina e del benzene. Sempre nella zona interna risultano inoltre presenti quantità non trascurabili di altri rifiuti, molti dei quali speciali pericolosi, oltre a notevoli quantità di manufatti contenenti amianto, stoccati in maniera non conforme alla normativa vigente. La situazione eterogenea dei rifiuti presenti nell'area determina da sempre una 26 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale complessa questione e una serie di rischi ambientali. L’area fu dichiarata nel 1986 «ad elevato rischio di crisi ambientale». Lo stabilimento Acna è da sempre sito in un ansa della sponda destra del fiume Bormida, area di esondazione naturale dello stesso. L’allagamento dell’area sarebbe una vera e propria catastrofe ambientale per la presenza dei lagoons, il cui sistema di tenuta è del tutto precario. Va sottolineato inoltre che per consentire l'espansione dello stabilimento, negli anni passati il corso del fiume è stato deviato e che nell'evento alluvionale del novembre 1994 si sfiorò, per un caso del tutto fortuito, la tragedia. Si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare di inchiesta costituita ad hoc: «Statisticamente ogni 10 anni l’insediamento Acna di Cengio può essere inondato». Nel malaugurato caso di un'inondazione si potrebbe avere il trascinamento nel corso d’acqua e nell’intera Val Bormida dei reflui contenuti nei lagoons, così come non si può escludere che analoga sorte toccherebbe ai residui industriali presenti nel sottosuolo dell'insediamento Acna. A tutto questo va aggiunto il fatto che l’area dove insiste lo stabilimento è classificata area sismica del 4° grado della scala Mercalli. Nel 1998 la legge 426 inserisce Cengio e Saliceto tra i 15 siti di interesse nazionale da bonificare. Un anno dopo viene decisa la chiusura della fabbrica, con la messa in cassa integrazione di circa 200 lavoratori. Il 31 maggio 1999, visto l’immobilismo dimostrato dall’azienda nell’attivare quantomeno le opere di messa in sicurezza d’emergenza del sito e dalle Regioni Piemonte e Liguria nel risolvere la questione, con un’ordinanza del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri viene nominato un Commissario governativo fino al 31 dicembre 2000 (questo termine verrà poi prorogato successivamente al 31 dicembre 2002). Con dei compiti non da poco: avviare la bonifica delle aree inquinate per il loro riutilizzo e controllarne l'esecuzione, avviare attività di ricerca e sperimentazione per l'esecuzione degli interventi, formare personale specializzato nelle tecniche di bonifica e nella ricerca avvalendosi dei dipendenti Acna. Il 10 ottobre 1999 viene approvata la perimetrazione dell'area, che viene divisa in tre zone: la zona A, ad elevato rischio, e cioè lo stabilimento, la discarica e i territori immediatamente a valle; la zona B, a medio rischio, che comprende il corso d'acqua e le aree esondabili; e un zona C, a basso rischio. Nel frattempo si decide di completare la realizzazione di una barriera impermeabile per evitare che la falda acquifera entri in contatto con l’area contaminata. Inoltre si è prevista la costruzione di un muro, situato in corrispondenza del muro di cinta, con lo scopo di creare un argine che contenga un’eventuale eccezionale ondata di piena del fiume, per una portata stimata con un tempo di ritorno di 200 anni. In seguito alla perimetrazione si è passati alla caratterizzazione del sito. Il piano di caratterizzazione delle aree esterne è di competenza pubblica (sistema Anpa - Arpa Liguria Arpa Piemonte), mentre quello delle aree interne allo stabilimento ricade sotto la responsabilità di Acna. La conclusione dei due piani di caratterizzazione consentirà di dare inizio alla progettazione degli interventi di bonifica delle aree. Dalla caratterizzazione delle aree interne è emersa la presenza, con concentrazioni rilevanti, di metalli (in particolare arsenico, mercurio e rame), dicloroaniline, naftaline, nitroderivati, ammine e cloroammine, fenoli e clorofenoli e solfonati. Le analisi delle acque hanno confermato l'elevata concentrazione degli inquinanti in tutta l'area e la presenza di concentrazioni elevate di inquinanti anche nelle aree esterne al muro di cinta, confermando la presenza di residui industriali in quelle zone. Il 4 dicembre 2000 viene firmato l’accordo di programma, nel quale vengono definiti: 27 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale la soluzione per lo smaltimento dei rifiuti stoccati nei lagunaggi, l’obiettivo della bonifica per gran parte del sito e quello della messa in sicurezza per la parte residua, il cofinanziamento degli oneri finanziari da parte del pubblico (nel dettaglio 300 miliardi di lire stanziati da EniChem contro i 50 dallo Stato), la nascita di una società dedicata alla reindustrializzazione e l’impegno a procedere alla reindustrializzazione in seguito alle operazioni di bonifica Il 29 marzo 2001 viene approvato il primo progetto finalizzato alla bonifica del sito: si tratta di un progetto articolato che prevede lo svuotamento dei dieci lagunaggi dai 300mila metri cubi di sali e la successiva rimozione degli stessi. Il progetto viene presentato da Acna il 2 febbraio 2001, come previsto dall’accordo di programma firmato a Palazzo Chigi nel dicembre 2000. Per ciò che riguarda i lagunaggi essi hanno costituito motivo di forte conflitto sociale nell’area. Basti pensare al cosiddetto Re. Sol., l’impianto di incenerimento che l’azienda voleva realizzare per gestire lo smaltimento di tali rifiuti e di quelli che avrebbe continuato a produrre, essendo allora in corso l’attività produttiva. Dopo ben 12 anni la proposta dell’inceneritore non aveva portato a nessuna soluzione, ma era solo riuscita a far aumentare i problemi locali. Superati fortunatamente dalla bocciatura dell’impianto Re. Sol e dall’approvazione di questo nuovo progetto. Il progetto approvato prevede l’estrazione dei sali dai bacini, l’essiccamento dei sali in un impianto che dovrà essere costruito appositamente, il confezionamento delle polveri saline in big bags e il loro trasporto su rotaia in una o più miniere di salgemma in Germania, dove verranno smaltiti definitivamente. I tempi previsti per l'intervento sono di circa 5 anni e mezzo. Vale la pena sottolineare che la soluzione del risanamento dell’Acna di Cengio non potrà mai essere solo il trasporto su rotaia dei fanghi dei «lagoons» in Germania e di quant’altro ha inquinato la Val Bormida. Sui tempi della bonifica si stima che per le aree private le operazioni di bonifica si concluderanno in circa 7-8 anni, mentre per quanto riguarda le aree pubbliche i tempi saranno più lunghi, dato che le aree pubbliche sono costituite prevalentemente dal bacino del fiume che si trova a valle dell’area dell’Acna. Quindi si rende necessario terminare preliminarmente le operazioni nel sito industriale, prima di completare gli interventi che riguarderanno il fiume. Anche i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità rivelano l’urgente bisogno di risanamento dell’area. L’intera area a rischio considerata nell’ultimo rapporto dell’Oms è la Val Bormida, formata da 19 comuni liguri e da 20 piemontesi per un totale di circa 55.000 abitanti. La Val Bormida è interessata dalla presenza di inquinanti veicolati da due corsi d’acqua, il Bormida di Millesimo e il Bormida di Spigno. Per la mortalità generale non si osservano eccessi, né per i maschi né per le donne, mentre per i primi si trovano eccessi per il tumore allo stomaco del 38% (82 casi osservati); tra le donne gli eccessi si hanno per il tumore allo stomaco (55 casi osservati, pari ad un eccesso del 36%) e al fegato (46% in più, con 37 casi). Per una migliore valutazione della possibile esposizione ad inquinanti presenti nel fiume, è stata svolta un’analisi più puntuale per i comuni localizzati lungo il ramo Millesimo. Da questa si evince una tendenza all’aumento della mortalità per tumore al fegato nei comuni a rischio (Millesimo, Cosseria, Cengio, Saliceto, Camerana, Gottasecca, Monesiglio), così come per il tumore allo stomaco. 28 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale COGOLETO La Luigi Stoppani S.p.A., azienda chimica che produce bicromati, è presente da oltre 100 anni nella Val Lerone, ai confine tra i comuni di Arenzano e Cogoleto (Provincia di Genova) ed attualmente impiega 120 dipendenti. Durante il suo lungo periodo di attività, e soprattutto negli ultimi decenni, sono stati accertati gravi situazioni di inquinamento di aria, suolo, sottosuolo, sabbie delle spiagge delle due località ed oltre, a ponente sino a Varazze nonché nei sedimenti e nella catena alimentare (pesci, molluschi, crostacei) dovuti a Cromo esavalente (cancerogeno), Zinco nella discarica dei fanghi di risulta in località Molinette), polveri, SO2, ecc. in atmosfera. Recentemente (Febbraio 2001) la Stoppani, attraverso un emendamento alla finanziaria del Governo Amato, è stata inserita nei siti da bonificare indicati dalla legge 426/98. Questo obbiettivo era stato richiesto a gran voce da Legambiente Liguria, e raccolto dalla Regione, dalla Provincia di Genova, e da alcuni consiglieri regionale e deputati liguri. Infatti, numerosi sono le indicazioni che indicano uno stato ambientale a dir poco allarmante della Val Lerone. Dati della Regione Liguria parlano di 92000 m3 di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre l’agenzia regionale protezione ambiente (Arpal) ha trovato concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64000 volte superiore ai valori consentiti nelle acque sotterranee in siti da bonificare (Dati ARPAL). Per quanto riguarda l'area dello stabilimento la concentrazione media nei suoli ritrovata nel'99 è stata di 28 milligrammi per chilo, quantità 140 volte più alta del limite previsto per gli scarichi industriali e 5 mila volte superiore ai limiti per le acque sotterranee. La concentrazione minore è stata rilevata sotto il silos soda; mentre i livelli più preoccupanti sono stati registrati sotto le vasche e il reparto acido cromico (rispettivamente 3l2 e 322 milligrammi per chilo). All'esterno della fabbrica le quantità di cromo diminuiscono, anche se restano molto preoccupanti. Sotto il viadotto dell'Aurelia i milligrammi di cromo esavalente presenti nel suolo risultano 2,03 per chilo. Vale a dire 10 volte in più che in uno scarico industriale e 400 volte in più del limite per le acque sotterranee. Per quanto riguarda le acque di battigia in 16 casi negli ultimi tre anni sono state rilevate concentrazioni di cromo superiori a 0,30 milligrammi per chilo. Preoccupante anche l’inquinamento della discarica di Molinetto per la presenza di metalli pesanti, soprattutto zinco, presente in quantità fino a 24 volte i limiti consentiti nelle acque che filtrano dalla discarica. La sostanza nociva non rientra nel processo produttivo della Stoppani ma non era presente a Molinetto prima dell'arrivo dei camion dell'azienda di Cogoleto (fonte: Provincia di Genova). Il cromo, pur in concentrazioni altissime, non supera i limiti consentiti per la discarica, 100 milligrammi su chilogrammo. I limiti di legge sono stati invece superati più volte per quanto riguarda i valori di c r o m o e s a v a l e n t e nell'aria della zona abitata prospiciente lo stabilimento. Tali esuberi, di cui si è venuto a sapere solo di recente, sono stati registrati tra il settembre del 1998 e I'aprile del 1999 con punte massime risalenti alla primavera dell'anno passato. Recentemente sono stati diffusi dati sui campionamenti delle spiagge del ponente ligure, dai quali si deduce che il litorale, sino al comune di Varazze è interessato a inquinamento da cromati. 29 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Un accordo, mai trasformato in vero e proprio accordo di programma, tra Regione, Comuni di Cogoleto e Arenzano, Sindacati e Azienda, prevedeva la chiusura della fabbrica e la bonifica del sito entro il 2001, ma dopo un breve periodo di ristrutturazione (da agosto a dicembre 1999), vi è stata una consistente ripresa delle attività a partire dal 1 gennaio 2000. Nel 1997 è stato approvato un progetto di bonifica (Envireg) con finanziamento europeo di 7 miliardi a Stoppani con scadenza entro il 2000, per il trattamento dei fanghi tossici e conseguente inertizzazione; bonifica del torrente e dei canali di gronda per acque piovane, nonché la bonifica dell’arenile. Di tali attività nessuna è stata portata al termine e tranne l’ultima nemmeno iniziata. Recentemente, nel 2001, l’azienda ha aperto l’esercizio di un forno sperimentale, cosa che ha provocato reazioni negative da parte delle associazioni ambientaliste, delle amministrazioni locali e dei cittadini E’ altresì notizia di questi giorni l’accordo raggiunto tra Regione Liguria, Provincia di Genova, Comuni di Arenzano e Cogoleto per arrivare al più presto ad un accordo di programma con la società Stoppani per la chiusura, entro il 1/1 2003 e la successiva messa in sicurezza, e bonifica del sito produttivo. L’azienda contesta questa data proponendo scenari più prolungati (2005 o addirittura 2006). Legambiente chiede la chiusura nei tempi più rapidi possibili dello stabilimento Stoppani, ormai palesemente incompatibile con la zona e con le vocazioni economiche specifiche che non sono certo quelle della produzione chimica, ma semmai turismo e tutela dell’ambiente e valorizzazione del territorio. Bisognerà arrivare ad un accordo di programma che contempli la chiusura totale entro il 1/1/2003 e l’avvio di un progetto di messa in sicurezza e bonifica, ai sensi del Dm 471/99. Comunque bisognerà da subito sospendere l’attività del forno sperimentale e chiudere il forno 70, per la produzione di cromati, il più inquinante secondo i dati di Provincia e Arpal. 30 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale FERRARA E RAVENNA Sono due i poli chimici dell’Emilia Romagna: Ferrara e Ravenna. Impianti e fabbricati che costituiscono il polo chimico industriale EniChem di Ravenna occupano un’area di 270 ettari, fra il porto e le aree naturali della Pineta S.Vitale e Pialassa della Baiona. Dell’insediamento fa parte anche un bacino portuale, lungo il canale Candiano per l’attracco di navi fino a 20.000 tonnellate di stazza, costituito da due banchine per un totale di 900 m; una attrezzata per il carico/scarico di fertilizzanti e merci sfuse in sacchi, l’altra per la movimentazione di prodotti liquidi e GPL. Una rete di pipe-lines collega il sito con gli insediamenti EniChem di Ferrara e Porto Marghera, per il trasferimento di ammoniaca ed etilene, con una potenzialità rispettivamente di 37 t/h e 18 t/h. Nella zona che va dalla linea costiera alla città si trovano inoltre due centrali termoelettriche, un cementificio, due impianti per la produzione dl nerofumo, una grande azienda siderurgica e numerose piccole e medie industrie. Nell’area del petrolchimico sono presenti 12 società: 3 EniChem (EniChem SpA, EniChem Elastomeri Srl, Frene Srl); 2 Eni (Ambiente SpA, EniPower SpA); 7 società esterne (Borregard Italia SpA, European Vinyls Coropration Italia SpA, Great Lakes Italia SpA, Rivoira SpA, Vinavil SpA, Endura SpA, Hydro Agri Italia Srl) che non hanno una vera e propria delimitazione spaziale all’interno del sito - suddiviso in isole e strade numerate - ma sono integrate con le attività produttive EniChem. La storia del polo di Ravenna risale al 1952, ovvero quando Agip iniziò le trivellazioni a largo della costa romagnola per l’estrazione del metano; 3 anni dopo l’amministrazione comunale ravennate firmò l’accordo con Anic - di proprietà ENI - per la cessione dei terreni sui quali sarebbe sorto uno dei grandi petrolchimici italiani. Le prime produzioni furono ammoniaca ed azotati, gomme e lattici ricavati dall’acetilene e gomme del ciclo stirene-buTadiene (SBR). Alla fine degli anni cinquanta si aggiunsero le produzioni di cemento, le resine acrilonitrile-butadiene-stirene(ABS), il cloruro di vinile (PVC). Dopo circa vent’anni - fine ’70 - il ciclo della gomma venne separato dal ciclo dell’acetilene e furono introdotte nuove tecnologie per la produzione del butadiene, di conseguenza iniziò la produzione una vasta gamma di gomme sintetiche. Negli anni ottanta le attività si spostarono dalla chimica di base alla chimica fine e da qui ha avuto inizio un processo di razionalizzazione che ha portato ad un decisivo ridimensionamento del petrolchimico e all’ingresso di investitori stranieri, che adesso rappresentano la maggioranza delle industrie presenti nell’area EniChem. Gli incidenti avvenuti nel 2000 nel polo chimico industriale di Ravenna ovvero all’impianto di depurazione di Ambiente SpA (18 settembre 2000), la fuga di gas di CVM (Cloruro di Vinile Monomero) e Dicloroetano dall’impianto EVC, lo sversamento di vinilcicloesano per un errore di manovra nell’impianto Butadiene (13 novembre 2000), pur nella loro diversità e nel differente grado di pericolosità, sono la prova di una situazione di grave rischio e della necessità ormai improrogabile di ridurlo. L’incidente avvenuto alla fine del 2000 all’impianto EVC, che ha causato l’immissione in atmosfera di una non ben precisata quantità (si stimano 4 tonnellate !!!) di CVM è la dimostrazione dell’insufficienza dei sistemi di sicurezza e della incompatibilità di questo tipo di produzioni . E’ inoltre assolutamente inammissibile il fatto che non si possa nemmeno determinare 31 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale la quantità di polveri cancerogene emessa in atmosfera: questo pone in maniera urgente la necessità di mettere in piedi un sistema di rilevamento atmosferico che possa dare informazioni corrette su quante e quali sostanze vengono immesse nell’aria e sul terreno dalle industrie presenti nell’area. Dal punto di vista ambientale il pesante inquinamento atmosferico è uno dei principali problemi per la popolazione e per il territorio ravennate, i cui effetti sulle zone naturali ed umide sono difficilmente calcolabili. Certo le tante problematiche poste dalla presenza del petrolchimico non si esauriscono con l’inquinamento atmosferico, ma questa è senz’altro la meno difficile da contenere. Attualmente è in vigore un accordo volontario siglato tra comune e provincia di Ravenna e le principali aziende del polo chimico (EniChem, EVC, Borregard, Ambiente, Ecofuel tra le altre) per limitare l’impatto ambientale proveniente dal complesso delle attività svolte. Ma modeste sono state le modifiche migliorative sino ad ora effettuate alla rete di rilevamento atmosferico e mancano totalmente sistemi di controllo in continuo nei punti di emissione più significativi, in cui sarebbero necessarie centraline in grado di rilevare oltre ai parametri standard, anche sostanze più complesse e maggiormente pericolose per la salute, quali benzene, diossine, PCB e IPA. Il 27 gennaio 2001, dopo la presentazione del dossier di Legambiente «La chimica dei veleni» e in seguito all’esposto inoltrato da Legambiente Emilia-Romagna alla procura della Repubblica, è stata aperta l’indagine sul petrolchimico di Ravenna. Dopo la sentenza di Marghera il sostituto procuratore si è dissociato da quella sentenza, affermando che il caso di Ravenna è di tutt’altro tipo. Ad oggi non si hanno ancora informazioni riguardo ad alcun avviso di garanzia, per cui si presuppone che l’indagine sia ancora in corso. Per quanto riguarda il polo di Ferrara nella primavera scorsa è stato presentato un esposto alla procura della repubblica da parte di 35 persone tra familiari e lavoratori stessi, di cui 33 contro la Solvay e 2 per il petrolchimico. Ufficialmente l’inchiesta non è stata ancora aperta. Legambiente ha consegnato il proprio dossier alla procura, annunciando la richiesta di costituzione di parte civile, nel caso venga aperto il processo. IL CASO CVM Il caso CVM non è ancora esploso a Ravenna in modo cosi eclatante come a Porto Marghera e a Brindisi dove si è arrivati ad incriminare i vertici delle aziende Montedison, Enimont, EniChem che si sono succedute nella proprietà dei siti petrolchimici. Uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato nel 2000, sui lavoratori esposti a cloruro di vinile in 4 stabilimenti italiani considera anche Ravenna e la vicina Ferrara. L’indagine ha preso in esame la mortalità di lavoratori di quattro stabilimenti italiani, esposti a questa sostanza nella sintesi del monomero e nella polimerizzazione, al fine di meglio conoscere il quadro della patologia associata all’esposizione al Cvm (Pirastu et al., 2000). Lo studio inizia come sorveglianza epidemiologica per i lavoratori esposti al CVM (DM.962/82) che viene però attivata concretamente dall’Istituto Superiore di Sanità dal 1983. Il programma di sorveglianza comprendeva all’inizio circa 6.000 lavoratori impiegati in 7 impianti per la lavorazione del PVC e successivamente è stato ridimensionato a quattro: Porto Marghera, Ravenna, Ferrara e Rosignano. Tutti i lavoratori compresi nello studio erano stati impiegati dall’apertura degli impianti sino al 1985 per quanto riguarda Marghera, Ferrara e Ravenna e sino al 1978 per Rosignano. Le osservazioni arrivano al 1996 per la coorte ferrarese e al 1997 per quella ravennate. Tra gli stabilimenti analizzati, la coorte di Ravenna è la seconda nello studio per dimensioni del campione esaminato: sono infatti 635 gli operai addetti alle varie mansioni 32 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale negli impianti di produzione di CVM, osservati fino al 1997 di cui 3 sono morti per tumore al fegato rispetto ad un numero di casi attesi pari a zero. Praticamente assente il cancro al polmone. La coorte di Ferrara è composta da 418 lavoratori della Solvay e sono 104 i decessi osservati, tra cui 45 per tumore - rispetto ai 30 attesi - suddivisi tra angiosarcomi, tumori epatocellulari e carcinomi epatici e dell’apparato respiratorio.In particolare, è stato riscontrato un aumento per tumori primari al fegato (4 casi osservati rispetto a 0 attesi) e all’apparato respiratorio (69% in più), tra i quali i maggiori incrementi si riscontrano per i tumori alla laringe (4 casi) e al polmone (14 casi). Significativo anche lo scostamento tra osservati e attesi per decessi dovuti ad altre patologie, in particolare all’apparato digerente: 6 degli 11 decessi per queste patologie sono per cirrosi epatica, pari all’8% in più rispetto alla media regionale. «Lo studio - scrivono gli autori Pirastu, De Santis e Comba - conferma l’azione cancerogena del CVM sul fegato, con induzione di angiosarcomi e carcinomi, anche a concentrazioni più basse di quelle finora ritenute in grado di indurre tumori epatici, nonché un’azione epatotossica che comporta un incremento della mortalità per cirrosi in alcuni sottogruppi ad alta esposizione. Lo studio suggerisce inoltre un incremento del rischio di cancro polmonare in lavoratori esposti a polveri di PVC». A Ferrara la lavorazione del CVM - che proveniva inizialmente da altri stabilimenti Solvay e poi dall’estero - è iniziata negli anni ‘50 ed è proseguita fino al 1998, quando l’azienda ha deciso di chiudere l’impianto di produzione del PVC, mettendo in cassa integrazione 150 persone, di cui 30 ancora oggi sono in mobilità. A Ravenna la produzione del CVM inizia sempre negli anni 50 negli stabilimenti Montedison, ma da qualche anno sino ad ora è la società EVC - la stessa che ha operato nei petrolchimici di Porto Marghera e di Brindisi - che sintetizza il monomero e lo polimerizza a PVC. E proprio in un impianto EVC si è verificato il 28 settembre 2000 un incidente con la fuoriuscita di quantità non ben precisate di CVM. L’azienda ha dichiarato che l’incidente è stato causato da un blocco dell’alimentazione elettrica che avrebbe provocato il blocco degli impianti con la conseguente apertura delle valvole di sicurezza, da cui è fuoriuscita una quantità non precisata di CVM. La stima che si può fare sulla base della produzione è di circa 4 tonnellate, ovvero circa il quantitativo emesso in un anno calcolato in base alla capacità produttiva, ai sistemi di sicurezza (!) e ai dati dei bilanci ambientali di EVC. 33 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale ASCOLI PICENO La città di Ascoli Piceno è costretta a convivere da decenni con una fabbrica, la Elettrocarbonium (oggi SGL Carbon), che si trova a ridosso del suo centro storico. Arrivando ad Ascoli ci si accorge immediatamente del contrasto tra il bellissimo centro storico e il mastodonte industriale che sembrava quasi volerlo inglobare. Il vecchio stabilimento SICE (Società Italiana Carboni Elettrici), poi Elettrocarbonium, produceva e produce carboni elettrici per gli altiforni delle acciaierie. Si trovava negli anni ’20 in periferia, me nei decenni successivi divenne, per lo sviluppo urbanistico di Ascoli, parte integrante della città. Per ovviare a questa presenza ingombrante, il Piano regolatore generale di Ascoli Piceno, redatto dagli architetti Benevolo e Zani e approvato nel 1972, stabilì il trasferimento della fabbrica dall’area che attualmente occupa e la destinazione a verde pubblico attrezzato dell’intera zona. Il Comune di Ascoli deliberò successivamente, nel 1980, di concedere la variante urbanistica dell’area a zona industriale, e di stipulare una convenzione con l’Elettrocarbonium che consentisse all’azienda di rimanere per altri 25 anni (fino al 2004). La città, per nulla turbata dall’incredibile regalo che veniva fatto alla fabbrica, accettò (quasi) supinamente una decisione che condizionava fortemente il suo futuro urbanistico. Nel 1984 esplode la questione dell’inquinamento. Esce sulla stampa locale uno studio della USL 24 nel quale si afferma che Ascoli è una della città più inquinate, e che «è bene e prudenziale definire il territorio della USL 24 come area a rischio per la salute della popolazione residente». Per la prima volta la cittadinanza viene messa al corrente del fatto che la fabbrica immette nell’atmosfera di Ascoli concentrazioni preoccupanti dei famigerati IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici), tra cui il benzene, il benzopirene, il fenatrene, l’antracene, il pirene, il fluorocene, etc., di cui è stata accertata la cancerogenità. Nel frattempo la crisi del settore siderurgico riduce notevolmente il numero dei lavoratori (da 750 operai all’inizio degli anni ’80 ai 263 attuali, cui vanno sommati i circa 110 lavoratori dell’indotto). Ciononostante la dirigenza dell’azienda continua a ribadire la sua ferma volontà di rimanere in città anche dopo il 2004. Il circolo Legambiente di Ascoli Piceno, nato nel 1989, è da sempre l’unico soggetto cittadino che ha avuto il coraggio di rompere la cortina di silenzio che era calata, dopo le polemiche del 1984-85, su tutta la vicenda Elettrocarbonium. Da dieci anni ormai porta avanti una dura vertenza contro l’azienda (che dal 1992 è diventata una vera e propria multinazionale, la SIGRI Great Lakes Carbon Gmbh, con sede a Wiesbaden) e contro le varie Amministrazioni locali, ribadendo i valori irrinunciabili della salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini e dei lavoratori. Tale vertenza è stata ostacolata in tutti i modi: dapprima alimentando il clima di indifferenza e di rassegnazione della cittadinanza e cercando di trasmettere un’immagine rassicurante attraverso i mass-media. In più occasioni alcuni giornali locali, invece che contro la fabbrica che inquina Ascoli da più di settant’anni, si sono scagliati contro Legambiente, accusandola di allarmismo ingiustificato. Un altro argomento molto efficace utilizzato per mantenere tranquilla la città in questi anni è stata la contrapposizione lavoro-ambiente, il cosiddetto ricatto occupazionale che ha consentito alla fabbrica di operare pressoché indisturbata per decenni. Questo clima soporifero si interrompe nell’autunno del 1993, quando la magistratura, in base ai dati della USL, decide il sequestro dei forni 4 e 5 dello stabilimento. Sequestro che viene riconfermato nel marzo del 1994. Inizia così un lungo braccio di ferro che vedrà le ragioni dell’ambiente e quelle dell’occupazione contrapposte per l’ennesima volta. Lo stesso sindacato si trova in difficoltà: l’Azienda è riuscita ad organizzare un proprio coordinamento di quadri impegnati che contesta duramente il sindacato stesso e i provvedimenti della 34 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale magistratura. La protesta assume forme clamorose quando alcuni operai e quadri della SGL Carbon salgono sulla ciminiera più alta dello stabilimento e si rifiutano di scendere. In seguito a tali proteste, il Ministero della Sanità e quello dell’Ambiente emettono un decreto ad hoc che concede una proroga per l’adeguamento delle emissioni inquinanti a tutti gli impianti industriali che producono IPA. E’ una vittoria per l’azienda, che vede premiato il suo atteggiamento di netto rifiuto della normativa in materia di inquinamento. Nei mesi successivi al decreto la fabbrica riprende quindi a scaricare in atmosfera concentrazioni massicce di inquinanti. Sulla vicenda è ancora in corso un processo. Nel 1995 viene eletta al governo della città di Ascoli una giunta di centrosinistra che ha nella risoluzione del problema SGL Carbon uno dei punti principali del suo programma elettorale. Le speranze della cittadinanza vengono però disattese dall’assoluto immobilismo dell’Amministrazione. L’unica novità è rappresentata dal nuovo PRG, la cui redazione viene affidata al celebre urbanista Cervellati, che però sposa la tesi della «morte naturale» dell’impianto e rimette in discussione la scadenza prevista per il 2004. E la storia continua… Nel 1996 la Legambiente di Ascoli Piceno organizza un convegno sul futuro dell’area Carbon, cui partecipano esperti ed amministratori coinvolti a vario titolo nella vicenda, per fare il punto della situazione e per avanzare una serie di proposte sulla utilizzazione dell’area dopo il 2004. Proposte che vengono in gran parte recepite dall’amministrazione comunale. L’anno successivo scoppia il caso del sequestro del carico di grafite radioattiva al valico di Gorizia, oggetto di un articolo pubblicato da La Repubblica nel marzo 1997 firmato da Antonio Cianciullo. Successivamente, in seguito ad una segnalazione della RSU della fabbrica, si arriva al ritrovamento e al sequestro da parte della magistratura di un carico di grafite radioattiva all’interno dello stabilimento, che porta Legambiente a presentare nel giugno ’97 un dossier dal titolo «L’affaire della grafite radioattiva». Il 1997 è stato caratterizzato anche da tutta una serie di incidenti all’interno della fabbrica, dalla ricaduta di polveri su alcune zone della città, e dalle polemiche che hanno preceduto e seguito le celebrazioni del centenario della azienda. Il 5 marzo 1998, gli operai della Carbon, preoccupati dai risultati di uno studio condotto dall’Università di Perugia che evidenzia concentrazioni altissime di sostanze inquinanti in alcuni reparti, proclamano uno sciopero a cui aderisce anche il Circolo Legambiente di Ascoli. E’ forse la prima volta in Italia che ambientalisti ed operai manifestano assieme contro una fabbrica altamente inquinante. L’indagine dell’Università di Perugia è stata condotta su 150 lavoratori della SLG Carbon, che sono stati divisi in 8 gruppi in base al reparto di appartenenza, misurando le concentrazioni nell’organismo dei seguenti idrocarburi policiclici aromatici: Antracene, Benzoantracene, Benzofluorantene, Dibenzoantracene, Benzoapirene, Fluorantene, Fluorene, Fenantrene, Pirene. Alcuni di questi, come il Benzoapirene, sono considerati altamente tossici e particolarmente attivi nella formazione di neoplasie. In base ai risultati delle analisi, i reparti «Crudo» e «Impregnazione» risultano quelli in cui gli operai sono maggiormente esposti. Nel reparto «Crudo» le concentrazioni più alte sono state rilevate negli addetti alle presse, ai carroponti, alle motopale, alla vagliatura ed al lavoro battente. I valori di indrossipene urinario sono risultati più elevati alla fine rispetto all’inizio del turno di lavoro o all’inizio della settimana lavorativa. I risultati della ricerca, presentati l’11 marzo 1998 in un incontro con gli esperti dell’Università di Perugia, dimostrano che presso lo stabilimento numerosi lavoratori sono esposti a concentrazioni di IPA pericolosamente elevate. Tra i provvedimenti che l’azienda dovrà adottare vengono segnalati l’installazione di efficienti impianti di aspirazione degli inquinanti, una particolare attenzione alla cura e alla pulizia degli indumenti di lavoro, il monitoraggio dell’esposizione agli IPA e controlli medici ogni sei mesi. 35 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale I dati sulle concentrazioni di IPA emersi da questo studio e da uno studio analogo condotto dalla USL (400 nanogrammi/mc, mentre il valore limite dovrebbe essere 2 nanogrammi/mc) non lasciano spazio a diverse interpretazioni: l’ambiente di lavoro all’interno della SLG Carbon è altamente insalubre e pericoloso per la salute dei lavoratori, che sono esposti a concentrazioni di IPA ben al di sopra dei limiti consentiti. A questo punto spetta alle autorità competenti, in primo luogo al sindaco e ai responsabili della ASL, intervenire per ristabilire un minimo di sicurezza per la salute all’interno dello stabilimento. Finalmente anche gli operai sembrano aver capito la situazione e perciò decidono di impegnarsi a fianco degli ambientalisti contro l’Azienda. Il dialogo tra operai e ambientalisti produce i suoi frutti: il 5 giugno 1998 CGIL, CISL, UIL e Legambiente Marche sottoscrivono ad Ancona un documento comune sulla vertenza SGL Carbon. La sconfitta per l’azienda è così evidente che uno dei suoi massimi dirigenti, il direttore del personale a livello nazionale, Francesco Natili, viene licenziato senza troppi complimenti. Gli operai e gli ambientalisti esultano: Natili è stato per anni un noto «tagliatore di teste», governando un processo di ristrutturazione dell’azienda che ha ridotto la popolazione operaia di centinaia di unità. La sua politica aziendale si era da sempre distinta nel non cedere alle richieste del sindacato in materia di salvaguardia dell’occupazione e nel non riconoscere gli ambientalisti come interlocutori nella vertenza SGL Carbon. Per la soluzione del problema SGL Carbon, Legambiente ha elaborato una sua proposta articolata che coniuga occupazione e rispetto per l’ambiente. Si è prospettato un tavolo di concentrazione locale, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati, che indichi i tempi e le modalità di una riconversione dei posti di lavoro, la bonifica dell’area da parte degli stessi operai ed una riqualificazione urbanistica che ne veda il recupero in parte a verde attrezzato, come previsto dal vecchio PRG, ed in parte come zona archeologica industriale e di spazi fieristici. Nel settembre 1999 Legambiente si è fatta promotrice, insieme ad altri, di un referendum cittadino per chiedere la revoca della delibera del 1980 che concedeva all’azienda 25 anni di tempo per la sua delocalizzazione. Il referendum consultivo, svoltosi nel maggio 2001, è stato uno dei primi in Italia su un simile argomento, anche se purtroppo in quella occasione non è stato raggiunto il quorum dei votanti. L’esempio della vertenza Elettrocarbonium - SGL Carbon di Ascoli indica chiaramente quale dovrà essere il modello di sviluppo nei prossimi anni. L’immenso valore rappresentato dalle numerose aree industriali di industria pesante, la cui produzione sta segnando ormai il passo, potrà essere riutilizzato ad Ascoli, come in molte altre località, per far crescere la qualità della vita e cercare nuovi spazi per uno sviluppo armonico e più attento ai valori della cultura e dell’ambiente. Nel frattempo continua la battaglia degli ambientalisti. Nei primi mesi del 2001 l’Arpa Marche invia al sindaco di Ascoli Piceno una relazione in cui si evidenzia un forte inquinamento del terreno circostante lo stabilimento, circa 6 ettari, e densamente abitato, in cui è stata riscontrata una notevole concentrazione di IPA. Lo scorso ottobre il Sindaco ha finalmente emesso un’ordinanza in cui diffida l’Azienda a mettersi in regola per quanto riguarda le emissioni, e a presentare entro 30 giorni un piano di caratterizzazione dell’area inquinata sia all’esterno che all’interno dello stabilimento. Il 9 ottobre 2001 infine si è aperto il processo per omicidio colposo contro 7 exdirigenti dell’azienda a causa della morte di 12 operai, in cui Legambiente si è costituita parte civile. Il 14 gennaio 2002 ci sarà l’udienza conclusiva dell’indagine preliminare in cui il giudice deciderà se procedere o archiviare il caso. Per quanto riguarda gli effetti sanitari delle lavorazioni nello stabilimento SGL Carbon basta citare i dati della perizia di parte del pubblico ministero riguardo i possibili collegamenti 36 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale eziologici tra esposizione lavorativa e morti per neoplasie a partire dal 1984 e le neoplasie in evoluzione al novembre ’98. Dal 1984 risultano deceduti per neoplasie 58 dipendenti SGL, mentre sono 16 i portatori di neoplasia ancora viventi al novembre ’98. Dai dati delle indagini ambientali relative al periodo 1974-1993 risulta che nel passato, almeno fino al 1989, si sono verificate, in alcuni reparti dell’azienda, esposizioni ad Idrocarburi policiclici aromatici superiori a quelle attuali e presumibilmente a rischio vista l’insorgenza di neoplasie. Non si ritiene rilevante nella SGL Carbon l’esposizione a silice e benzene quali ulteriori agenti cancerogeni, come invece ipotizzato da alcuni. Relativamente alle modalità di esposizione ad Ipa si individuano come reparti a rischio quelli nei quali si realizzava un esposizione ad inquinanti volatili, in misura molto superiore rispetto a quelli dove vi era un inquinamento da polveri. Viene escluso che importanti contaminazioni cutanee con pece possano rappresentare una fonte di rischio per l’insorgenza di neoplasie cutanee, peraltro non registrate nella casistica presa in esame. Dall’analisi della letteratura emerge che le neoplasie compatibili con l’esposizione ad Ipa sono quelle del polmone, della vescica e della cute. Anche per il tumore gastrico vi sono alcune segnalazioni ma non ritenute sufficientemente consolidate dai periti, per cui per i 13 casi di neoplasie allo stomaco è stato espresso un giudizio di compatibilità dubbia, in rapporto alle attuali conoscenze scientifiche, da rivedere eventualmente in rapporto a nuove e positive incidenze. In letteratura la produzione di elettrodi in grafite è una lavorazione non associata ad eccessi di neoplasie, ma i dati ambientali evidenziano, soprattutto per il passato, esposizioni ad Ipa significative in alcuni reparti e anche superiori ai valori limite. In conclusione i periti di parte hanno definito l’esistenza di compatibilità con esposizione ad Ipa per 21 casi di tumori polmonari e 5 tumori vescicali, tutti riscontrati su operai deceduti, per i quali, però, in assenza di informazioni circa l’esposizione al rischio e la storia clinica non può essere dato il nesso causale. Viene invece riconosciuto il legame tra esposizione agli Ipa e l’insorgenza di 12 neoplasie polmonari, di cui 11 in soggetti deceduti e 1 in un soggetto vivente. 37 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale MANFREDONIA Dopo quello di Porto Marghera anche il petrolchimico di Manfredonia è sotto processo per alcune morti sospette tra i lavoratori e per i danni irreparabili procurati all’ambiente circostante. Dopo cinque anni di indagini giudiziarie, numerosi interrogatori e testimonianze riassunte in ben ottanta fascicoli lo scorso dicembre ha avuto inizio a Foggia l’udienza preliminare del processo che dovrà decidere sul rinvio a giudizio di dodici dirigenti dell’Enichem. Gli imputati saranno chiamati a rispondere dell’accusa di disastro colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni e omissioni di controllo, successivamente al grave incidente del 26 settembre 1976 che liberò una nube tossica contenente carbonato di potassio e arsenico, in seguito al quale negli anni successivi si registrarono 17 morti tra i lavoratori per varie tipologie di tumori. Alcuni operai deceduti furono direttamente coinvolti nelle attività di bonifica dell’area, mentre gli altri continuarono a svolgere le loro attività ordinarie all’interno dell’area contaminata. Vale la pena ricordare che l’esplosione di una torretta dello stabilimento fece disperdere 10 tonnellate di arsenico, 60 tonnellate d’acqua e 18 di ossido di carbonio con la conseguente esposizione alle pericolosissime esalazioni di ben 1.889 operai. Legambiente si è costituita parte civile al processo, chiedendo giustizia per gli operai morti. I dati epidemiologici sulla popolazione nell’area di Manfredonia, comprendente i comuni di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e San Giovanni Rotondo, per un totale di 97.000 abitanti, sono tutt’altro che rassicuranti. Qui il rischio di contrarre patologie anche tumorali è pericolosamente alto e ciò è in buona parte riconducibile alla dissennata politica industriale che ha coinvolto e sconvolto la città. Dal recente studio dell’Oms, l’unico eccesso rispetto all’atteso provinciale per le cause non tumorali si registra per le malattie urogenitali, del 53,8% (41 casi, contro i 26,6 attesi). Se quindi la situazione in dati assoluti non è allarmante, i trend temporali dal 1981 al ’94 fanno sorgere alcune preoccupazioni, visto che tutte le cause di morte considerate, tranne quelle del sistema circolatorio, sono in aumento rispetto ai riferimenti nazionali. Lo stesso studio ritiene che «gli eccessi riscontrati possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico, ed in particolare all’emergere dei primi effetti a lunga latenza che potrebbero aggravarsi nel corso degli anni successivi». Ad una bassa mortalità generale, comune a tutte le regioni del Sud, si contrappone quindi un eccesso di mortalità per alcune patologie specifiche, con un andamento temporale in aumento, specialmente per alcuni tumori, per cui, concludono gli autori, «è possibile che si stia assistendo all’insorgere di rilevanti effetti a lungo termine sulla salute» La vicenda di Manfredonia è una tra le più classiche storie di industrializzazione selvaggia nel nostro Paese. Il petrolchimico, situato in località Macchia del comune di Monte S. Angelo ed entrato in funzione nel 1971 per produrre fertilizzanti, ammoniaca anidra, urea, caprolattame e solfato ammonico, è diviso in 17 aree (isole) delimitate da strade e dista dalla città di Manfredonia circa un chilometro. La città ha subìto nel corso degli anni gli effetti devastanti dell’inquinamento atmosferico, del suolo e del sottosuolo e corso in più occasioni gravi pericoli a causa delle ripetute fughe di gas tossici e degli incendi. Nello stabilimento esistono tuttora discariche contenenti materiale contaminato da arsenico in attesa di essere rimosso. L’incapacità dell’azienda di smaltire correttamente le ingenti quantità di sali sodici, per anni scaricati in mare, ha portato alla sospensione nel 1988 della produzione di caprolattame. Attualmente lo stabilimento ha cessato la produzione. La legge n. 426/98 ha inserito l’area di Manfredonia, con i suoi 306 ettari di superficie a terra e 859 ettari a mare inquinati da scarico non controllato di rifiuti speciali e pericolosi, tra i 15 siti di interesse nazionale, nei quali sono più urgenti le operazioni di bonifica e di 38 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale risanamento ambientale. Le caratterizzazioni delle aree di Manfredonia, eseguite dalla commissione tecnica della Provincia e dalla società Agricoltura, hanno evidenziato inquinamento diffuso delle falde acquifere con superamento dei limiti di legge, previsti nel decreto ministeriale 471/99, attribuito ad una serie di sostanze strettamente connesse ai cicli di produzione Enichem. In particolare l’indagine dell’azienda ha evidenziato nelle isole 3 e 7 il superamento del limite di arsenico lungo il muro di cinta della strada statale garganica, nonché contaminazione da mercurio nell’isola 12, con valori che arrivano fino a 176 mg/Kg contro un limite di legge di 5 mg/kg. Nel Programma nazionale delle bonifiche, che il Ministero dell’Ambiente ha recentemente varato, è previsto per la Puglia un finanziamento statale di 120 miliardi che andranno a cofinanziare gli interventi dei privati per la bonifica di tutti i siti contaminati di Manfredonia, Brindisi, Bari e Taranto. Da una recente stima del Ministero dell’ambiente risulta però che solo per la bonifica dell’area di Manfredonia sarebbero necessari 200 miliardi circa. Al momento, ottanta dei centoventi ettari dell’area del petrolchimico si trovano sotto sequestro penale preventivo, disposto dal Tribunale di Foggia per inosservanza della normativa sullo smaltimento dei rifiuti. La magistratura foggiana, ritenendo irregolari le operazioni di disinquinamento condotte dall'Enichem Agricoltura, ha condizionato la prosecuzione al controllo diretto dei Carabinieri del Comando tutela ambiente (l’ex Nucleo operativo ecologico dell’Arma). Per le stesse ragioni la Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione comunitaria. All’interno dell’area industriale è stato avviato, prima ancora di bonificare e risanare le aree inquinate, un complesso processo di re-industrializzazione rientrante tra le iniziative del «contratto d’area» di Manfredonia. Sono già in esercizio impianti per la produzione di alluminio e batterie industriali, mentre è in corso di costruzione una grande vetreria del Gruppo Sangalli della capacità produttiva di 185.000 tonnellate annue di lastre di vetro, autorizzata inspiegabilmente senza la necessaria procedura di Valutazione di impatto ambientale. Presso il Tar Puglia di Bari pende un ricorso popolare per l’annullamento del provvedimento regionale che esonera l’impianto dalla Via. Nello scorso settembre il Ministero per la Attività Produttive ha autorizzato l’esercizio definitivo della centrale termoelettrica Enichem da 420 megawatt, ferma da anni e che il 30 ottobre scorso è stata ceduta alla società Elettra Srl del gruppo Api Holding. Inoltre, la «Agricoltura s.p.a.«, azienda Enichem in liquidazione, ha ceduto alla Atriplex alcuni serbatoi di grandi dimensioni da utilizzare come deposito di idrocarburi. Come se non bastasse incombe il pericolo dell’insediamento nei pressi di Manfredonia dell’Isosar, mega deposito di Gpl, che avrebbe un impatto territoriale significativo. Nel frattempo si paventa la minaccia dell’Enviroil, industria per il trattamento di 2000 tonnellate annue di oli esausti. Va infine segnalato che alcune iniziative del «contratto d’area» ricadenti nell’area industriale di Manfredonia (fuori dall’area ex Enichem) sono state oggetto di una procedura di infrazione comunitaria per essere state insediate in zone SIC e ZPS, in quanto mancanti della valutazione di incidenza e di impatto ambientale obbligatorie per legge. 39 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale BRINDISI Era il 1959 quando l’allora Presidente del Consiglio, Antonio Segni, posava la prima pietra del Petrolchimico, magnificando «i cerchi concentrici di benessere» che ne sarebbero derivati; al contempo due famosi esponenti della politica e della società brindisina si chiedevano perplessi che fine avrebbero fatto i rigogliosi terreni agricoli e la costa incontaminata che si stendeva, tra dune di sabbia e macchia mediterranea, tra Fiume Grande e Punta Cavallo sino alle Saline. Era quello - secondo Montedison - «un paesaggio arcaico, immutabile, forse lo stesso che contemplò Diomede», il quale sempre secondo Montedison, dopo il 1959, non avrebbe potuto che ammirare quanto era stato realizzato in 44 mesi, cioè «torri, serbatoi, impianti industriali: un paesaggio del nostro tempo, forse meno poetico, ma ricco di promesse per il futuro». In realtà il Petrolchimico di Brindisi è l’emblema di quel genere di insediamenti che come scrisse il meridionalista Petriccione - «si sono rivelati completamente antagonisti a qualsiasi tentativo di emancipazione e di sviluppo del Mezzogiorno». Un tipico insediamento «capital intensive», nato e tenuto in vita drenando denaro pubblico in gran quantità ed aumentando il potere clientelare attraverso cui si è costruito il consenso verso l’azienda e verso i notabili politici. I Brindisini, come scrisse The Economist in un articolo del 22 maggio 1964, riferendosi agli Italiani, si gettarono « nell’industrializzazione con l’incoscienza dei bambini che arrivano tardi ad una festa...In breve tempo sono riusciti a distruggere parte del loro paesaggio, le loro città sono afflitte da una crescita cancerosa...». Il cancro a Brindisi il Petrolchimico non lo ha portato solo metaforicamente, purtroppo lo ha lasciato come triste eredità a tanti lavoratori e forse anche all’intera popolazione. Oltre ad aver contribuito a distruggere l’identità di comunità contadine e quel «paesaggio arcaico», di cui con disprezzo parlava Montedison e che era invece la principale risorsa ad alto valore aggiunto da tutelare e promuovere. Nel petrolchimico si trasforma la materia prima, virgin nafta, nei composti intermedi etilene, propilene, frazione C4 che a loro volta saranno convertiti nei prodotti finali: la Polimeri Europa produce polietilene a bassa ed alta densità; l’EniChem butadiene e butene; l’EVC fino al 1998 policloruro di vinile (PVC); la Montell propilene. L’EniChem inoltre trasforma metano, aria, soda, anilina, formaldeide e cloro in MDI (Metil Diamminofenil Isocianato), acido cloridrico e ipoclorito di sodio. Il ciclo della produzione del PVC venne avviato a Brindisi nel 1962 e ben presto si espanse grazie al basso costo della manodopera e grazie al fatto che i costi sanitari e ambientali potevano essere riversati sulla collettività in cambio di un progressivo aumento occupazionale: sino a 5000 persone furono in effetti a vari livelli occupate nell’area industriale. Ma oltre al petrolchimico nell’area brindisina si concentrano altre industrie chimiche, metalmeccaniche e manifatturiere, attività marittime - portuali e un rilevante polo energetico con le due centrali ENEL pari a circa 1000 MW di potenza, alimentate a carbone e orimulsion. L’area dichiarata ad elevato rischio di crisi ambientale nel 1990 comprende i comuni di Brindisi, Carovigno, San Pietro Vernotico e Torchiarolo e vi si individuano circa 70 industrie insalubri di I classe e 7 ad alto rischio di incidente rilevante. I limiti profondi nella sicurezza degli impianti e nella tutela dei lavoratori, sono testimoniati dai tanti incidenti e dai tanti episodi di intossicazioni troppo frettolosamente dimenticate dagli organi istituzionali di controllo e dalle rappresentanze sindacali aziendali. Sin dal 1982, il circolo di Legambiente ha segnalato l’alto impatto ambientale e 40 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale sanitario prodotto dagli impianti del Petrolchimico, anche grazie all’esercizio incontrollato di essi. Segnalazioni e denunce sono rimaste per lungo tempo inascoltate ed anzi, nonostante le ordinanze sindacali di sgombero di civili abitazioni nell’area industriale e nell’area di Fiume Piccolo a causa dell’inquinamento prodotto da CVM, dicloroetano e acido cloridrico, per la polvere di cloruro di vinile e per il fosgene, lo stabilimento di Brindisi è stato scelto per lo stoccaggio delle 35000 tonnellate di caprolattame provenienti dall’impianto dismesso di Manfredonia. Per denunciare la trasformazione di Brindisi in città pattumiera Legambiente organizzò - nel febbraio 1990 - una manifestazione ed inviò un articolato esposto alla magistratura e alle autorità competenti, con primario riferimento ai problemi connessi con il ciclo del CVM e del MDI. Veniva anche sottolineata la mancata procedura di valutazione di impatto ambientale sulle discariche di EniChem e Montedison approvate dall’autorità provinciale. Inoltre veniva segnalato un progetto di ricostruzione del cracking P2T - la cui esplosione nel 1977 causò la morte di 3 operai ed il ferimento di altri 53 - per una produzione annua di 350.000 tonnellate, quando nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale si imponeva la procedura di riduzione del 30% delle produzioni pericolose. Intanto, sempre nel 1990, prese fuoco la gasiera «Val Rosandra» mentre scaricava propilene ormeggiata al molo petroli, e soltanto la professionalità dei soccorritori che trascinarono al largo l’imbarcazione impedì un ritorno di fiamma verso il Petrolchimico ed una tragedia di dimensioni facilmente immaginabili. Ma solo dopo 3 anni divenne operativa la struttura comunale di protezione civile, tramite la quale cominciare a costruire una banca dati sulle attività a rischio e sulle loro correlazioni. Subito apparve evidente la reticenza dei grandi gruppi industriali ben poco disponibili - nonostante l’obbligo di legge - a mettere a disposizione tutte le notizie necessarie per predisporre i piani di protezione civile. Dopo la frammentazione della proprietà EniChem è divenuta sempre più forte la tendenza alla smobilitazione. Nonostante Enichem formalmente non sia più proprietaria di alcun impianto nel petrolchimico, rimane ancora la società con il numero maggiore di lavoratori, gestendo ancora le attività di servizio. Attualmente gli addetti in totale sono 1450, ripartititi tra EniChem (790 dipendenti), Eni power (160), Montell (170), Polimeri Europa (300), EniChem Gas (30), ai quali vanno aggiunti circa 450 dipendenti di ditte esterne. Sono inoltre 160 i dipendenti in cassa integrazione EVC dal momento della chiusura del ciclo di produzione; questi dovrebbero in parte passare alla Powerco della Celtica ambiente, per l’esercizio di una torcia al plasma con combustione di CDR, biomasse e pulper da cartiere. La situazione della proprietà degli impianti diviene sempre più ingarbugliata considerando le recenti notizie sulla vendita di un pezzo importante dell’attuale EniChem alla multinazionale araba Sabic. L’approccio dell’ENEA che nel corso degli anni ha avuto prima incarichi per il monitoraggio dell’area e poi per la redazione di un piano di risanamento non ha mai dato risultati apprezzabili. Nell’esaminare le emissioni globali del Petrolchimico, definiva significative quelle dei composti organici volatili (COV) nelle condizioni ordinarie di esercizio degli impianti, e nelle attività di travaso e stoccaggio; sottovalutava gli scarichi in torcia e si limitava a prendere atto dell’uso - nella centrale termoelettrica - di olio combustibile ad alto tenore di zolfo (ATZ), ricavato sia dall’esterno che da oli di processi chimici interni, con maggior impatto ambientale. Nella fase di monitoraggio, quantificava le emissioni di SO2 su base annua in 30.000 tonnellate, quelle di NOx in 6300 tonnellate, di COV in 700 ton, di polveri in 2000 tonnellate, definendo genericamente notevoli le emissioni di composti organici e clorurati, anilina, ammoniaca, acido solfidrico e polveri di polimeri. 41 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Nel piano di risanamento, redatto anch’esso dall’ENEA, vengono accolti acriticamente programmi assunti o ipotizzati dalle imprese: la revisione o la chiusura di linee produttive si è realizzata soltanto per una scelta aziendale (è il caso di EVC per la produzione del PVC). Dismissioni e bonifiche di aree e discariche inquinate non sono mai state realizzate. Brindisi è uno dei 15 siti da bonificare di interesse nazionale previsti dalla legge 426/98, con una perimetrazione di 5807 ettari di superficie terrestre e di 5.662 di aree marine. Una prima stima sui costi di bonifica ha valutato l’intervento in circa 115 miliardi di lire. Oltre 200 sono stati i soggetti coinvolti nella perimetrazione dei siti inquinati, ma solo le nove aziende più grandi hanno presentato il piano. Il ciclo del MDI, nonostante il forte impatto per l’ambiente e per la salute dei lavoratori addetti, grazie a minimi interventi di adeguamento tecnologico è stato giudicato compatibile con un’area ad elevato rischio di crisi ambientale, dove l’incidenza di mortalità per tumore negli uomini è il doppio rispetto alla media regionale. Legambiente ha richiesto ed ottenuto la realizzazione di un registro tumori, un osservatorio epidemiologico e lo screening dei lavoratori del Petrolchimico: l’augurio è che almeno questa volta venga dato seguito alle promesse fatte. Gli ultimi dati epidemiologici pubblicati su Brindisi sono tutt’altro che rassicuranti. Dai dati più recenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità sulla mortalità nell’area di Brindisi (comprendente i comuni di Brindisi, Carovigno, S. Pietro Vernotico e Torchiarolo, per il periodo 1990-1994) risulta che per quanto riguarda gli uomini tutte le cause analizzate risultano significativamente superiori all’atteso regionale: mortalità generale (+7.2%), mortalità per tutti i tumori (+13.6%) e per il tumore polmonare (255 casi riscontrati pari ad un surplus del 18.8% rispetto all’atteso regionale); inoltre la mortalità per tumore al sistema linfoemopoietico ha fatto registrare 55 casi, il 32,8% in più rispetto agli attesi regionali, particolarmente interessante se si confronta con il –14% del periodo 1980-87 riportato dall’Oms nel lavoro del 1997. Nell’ottobre 2001, durante la XXV riunione dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, a Venezia è stato presentato dall’Istituto Superiore della Sanità un’indagine di mortalità sulla popolazione residente nei 4 comuni dell’area (Brindisi, Carovigno, S.Pietro Vernotico e Torchiarolo) ed ivi deceduti nel periodo 1996-1997, per la valutazione dell’associazione tra la mortalità per tumori polmonari, pleurici, vescicali e linfoemopoietici e la residenza in prossimità del polo petrolchimico di Brindisi. La residenza entro 2 chilometri dal punto centrale del petrolchimico è risultata associata ad una triplicazione del rischio di cancro polmonare (OR 3,1); un incremento del rischio per il tumore maligno della vescica (OR 3,9), e del sistema linfoemopoietico (OR 2,7). Seppure tali aumenti non raggiungono la piena significatività statistica, a causa dell’eseguità numerica della popolazione studiata, affermano gli autori, tali aumenti sussistono e sono compatibili con le indicazioni provenienti da altri paesi; il problema è che ci può essere stata una sottostima del rischio relativo, e non una sovrastima, per cui ritengono opportuno di prevedere un ampliamento del lavoro con riferimento anche agli anni 1998-2000. IL CASO CVM Come a Porto Marghera anche a Brindisi, l’inchiesta che ha coinvolto i vertici EniChem sulle correlazioni tra insorgenza di alcuni tumori tra gli addetti alla lavorazione nel ciclo del PVC e la sostanza lavorata è stata possibile grazie alle testimonianze e alle denunce di un operaio. Nel 1996 Luigi Caretto, dipendente EVC in pensione che nel 1994 aveva scoperto di 42 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale avere un tumore ai polmoni, consegnò al giudice Casson, titolare dell’inchiesta su Porto Marghera e sulle morti causate dal ciclo di produzione del PVC nel Veneto, un esposto ben documentato. Un agghiacciante resoconto dei fatti che erano stati tenuti nascosti o sottovalutati, di omissioni di controlli, di mancati interventi per tutelare la salute degli addetti a quel tipo di produzione. Il coraggio e la disperazione di Luigi Caretto sono tanto più significativi se rapportati all’ostilità che ha dovuto affrontare e alla solitudine in cui a lungo ha condotto la sua battaglia, tanto che l’INAIL non ha nemmeno riconosciuto la causa di servizio per una patologia che lo ha portato alla morte nel 1998. Luigi Caretto a Brindisi, come Gabriele Bortolozzo a Porto Marghera era un addetto alla lavorazione del PVC. La polimerizzazione del CVM a PVC avveniva in autoclavi e proprio nelle autoclavi e nelle fase di insaccaggio che si presentavano i maggiori rischi per i lavoratori, gli addetti alla manutenzione e alle pulizie. Mai è stato effettuato uno screening fra i dipendenti delle ditte appaltatrici, che effettuavano manualmente la pulizia calandosi nelle autoclavi per togliere residui di CVM non polimerizzato. E nemmeno fra i lavoratori anch’essi spesso appartenenti a ditte appaltatrici - addetti all’essiccamento ed insaccaggio del PVC che operavano in ambienti in cui la presenza di polvere di cloruro di vinile era spesso massiccia. Le principali attività che esponevano a rischio i lavoratori sono rimaste tali sino alla chiusura degli impianti nel 1998 e non è mai stato realizzato nemmeno un monitoraggio in continuo della presenza di CVM nei luoghi di lavoro. Per una tragica coincidenza la morte di Caretto è avvenuta nello stesso periodo in cui finiva il ciclo di produzione del PVC: in molti hanno sperato che con la chiusura degli impianti, si potesse mettere una pietra sopra anche all’inchiesta che, trasmessa per competenza a Brindisi, il giudice Piacente aveva nel frattempo avviato. Indagine che ha portato all’invio di 68 avvisi di garanzia a dirigenti ed ex-dirigenti delle società Montedison, EniChem, Evc e Celtica Ambiente in relazione a numerose morti per tumore che hanno colpito gli operai del Petrolchimico di Brindisi. Oggi, mentre tutti accolgono con favore l’epilogo dell’inchiesta avviata con fermezza dal giudice Piacente e dalla Polizia di Stato, Legambiente vede confermato quanto denuncia da anni, ma ancora non basta. Legambiente chiede infatti che si facciano finalmente i conti con responsabilità non ancora del tutto svelate e con scelte che si sono rivelate del tutto errate e dannose e che si dimostri con atti concreti la volontà di attuare seri interventi di risanamento dell’area. È necessario chiudere tutti gli impianti che rappresentano un serio pericolo per la salute e per l’ambiente, a partire dal reparto MDI del petrolchimico, in cui ripetute sono state le fughe di fosgene e in cui si utilizza una sostanza altamente cancerogena come l’anilina. Così come è necessario bloccare l’avvio della realizzazione di un impianto di trattamento rifiuti nello stesso sito dove avveniva il ciclo CVM - PVC dismesso dall’EVC, senza alcun intervento preliminare di bonifica. L’impianto, una torcia al plasma per produrre energia elettrica bruciando CDR, pulper di cartiera e biomasse, è proposto dalla Celtica Ambiente e Powerco, società correlate ad EVC, note sinora più che per capacità imprenditoriali, per gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e per intricate vicende giudiziarie all’attenzione anche di tribunali esteri. Le vicende della torcia al plasma o del polo energetico ENEL sono pagine attuali di questa storia fatta di modelli di sviluppo sbagliati, di metodi a dir poco disinvolti di gestione della cosa pubblica, a danno della collettività. I troppi morti per responsabilità dirette o indirette di chi doveva tutelare lavoratori e cittadini pesano sulla coscienza di tutti noi e ad essi non si può garantire giustizia postuma con dichiarazioni di principio o con atti demagogici, ma chiudendo una volta per tutte questa 43 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale storia sbagliata. IL POLO ENERGETICO Per ciò che concerne la questione energetica non si può non parlare della centrale di Brindisi nord. L’autorizzazione ministeriale per l’avvio dei lavori di costruzione della nuova centrale termoelettrica a ciclo combinato di Brindisi nord è stata giudicata negativamente da Legambiente per diverse ragioni: - il decreto Ministeriale sostanzialmente autorizza la proroga di un anno dell’esercizio di un gruppo dell’attuale centrale a carbone, consentendo, in assenza totale di impianti di abbattimento, limiti di emissione in atmosfera di SO2 ed NOX sensibilmente superiori a quelli di legge; - il decreto non contiene disposizioni precise in merito all’attività di repowering e quindi alla realizzazione di turbine alimentate dal vapore. Molte questioni inoltre lasciano a dir poco sconcertanti: il decreto non contiene indicazioni sulla fonte e sul sistema di fornitura del metano, autorizza l’inizio dei lavori di costruzione di un impianto di cui non è chiaro l’approvvigionamento del combustibile, fa riferimento agli 1,2 miliardi di metri cubi annui di gas previsti nella convenzione del 1996 sul polo energetico, assolutamente insufficienti in quanto destinati dal 2004 alla centrale termoelettrica di Brindisi Sud; - il decreto non dice nulla in merito al futuro dei lavoratori nel periodo che intercorre tra il presunto imminente avvio dei lavori e l’inizio dell’esercizio dell’impianto a ciclo combinato, previsto per giugno 2004. Dovranno essere rispettati gli impegni assunti a favore dei lavoratori nell’art.10 della convenzione e nel protocollo d’intesa del novembre 1996 tra governo, enti locali ed Enel; - la realizzazione della centrale a ciclo combinato di Eurogen e di una simile di Enipower nel petrolchimico richiederebbero circa 3,5 miliardi di metri cubi di metano all'anno, oggi non disponibili e non trasportabili con la bretella metanifera quasi ultimata. Ciò inoltre renderebbe impossibile rispettare l’impegno di fornire metano alla centrale di Brindisi Sud, che continuerebbe ad essere alimentata dai ben più inquinanti orimulsion e carbone, ancora oggi trasportato su normalissimi camion. Il dubbio inquietante è che a tutto questo potrebbero far seguito ben presto gli inaccettabili terminal metanifero e rigassificatore, anche al fine di aumentare le nuove centrali. - Legambiente ribadisce la richiesta di provvedimenti d’urgenza per chiudere definitivamente la centrale Brindisi nord e bonificare l’area da restituire ad attività portuali, disponendo soltanto la realizzazione, come previsto nel piano di risanamento per l’area ad elevato rischio di crisi ambientale, di 400 Mw a ciclo combinato nel petrolchimico, in aggiunta alla centrale di Brindisi sud. 44 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale Per ciò che concerne la centrale di Brindisi nord, Legambiente avvierà numerose iniziative, anche in sede giudiziaria, per fermare un disastro più volte annunciato. La notifica ad Eurogen dell’ordinanza del Sindaco di blocco dell’esercizio a carbone della centrale termoelettrica di Brindisi nord, ha rappresentato per gli ambientalisti e per tutta la popolazione una decisione profondamente apprezzata ed attesa. E’ assolutamente inaccettabile che Eurogen cerchi di mantenere l’impianto in esercizio con pretestuose argomentazioni. E’ inoltre sorprendente che il Ministero delle attività produttive, che non ha emesso alcun atto di autorizzazione di un eventuale esercizio straordinario, non abbia assunto alcuna decisione ufficiale per chiudere definitivamente l’esercizio ordinario di un impianto finora attivo senza opere di abbattimento delle emissioni inquinanti e più volte in violazione dei limiti di scarico in atmosfera. Sembra arrivato il momento di compiere atti concreti, anche utilizzando la via giudiziaria, per farla finita definitivamente con l’alimentazione a carbone della centrale e in tale direzione Legambiente si muoverà, in tutte le sedi che riterrà opportune. 45 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale CROTONE L’area industriale di Crotone è divenuta uno dei 40 siti di interesse nazionale da bonificare. Questo è quanto deciso dal Ministero dell’ambiente, su iniziativa della Regione Calabria, con l’approvazione del decreto ministeriale che vara il piano nazionale delle bonifiche. Si è finalmente preso atto della preoccupante situazione ambientale della area del crotonese, denunciata ormai da molti anni da Legambiente. Una superficie di oltre 15 ettari da decenni interessata da una selvaggia politica industriale che ha lasciato una pesante eredità: diversi siti industriali dismessi inquinati da ferriti di zinco e cromo, una fascia costiera demaniale interessata dalla presenza di diverse discariche abusive di rifiuti speciali e pericolosi, derivanti principalmente da attività siderurgica e chimica. Per un costo complessivo degli interventi di bonifica stimato in circa 82 miliardi di lire. La storia dell’area industriale di Crotone inizia nel 1962 quando viene costituito il Nucleo di Industrializzazione all’interno del quale hanno operato 45 piccole e medie industrie del settore meccanico e alimentare. Le tre più importanti erano la Cellulosa Calabra, la Pertusola Sud e lo stabilimento ex Enichem, divenuto poi della Condea Augusta. Dopo la dismissione di quasi tutti gli impianti industriali e dopo aver «scampato» il pericolo dell’insediamento di un nuovo stabilimento Stoppani, azienda tristemente nota per i danni ambientali causati in Liguria dal suo stabilimento di Cogoleto - Arenzano, si è cominciato a fare i conti con il passato. Il palese degrado dell'area - dove per anni le industrie presenti hanno smaltito più o meno legalmente rifiuti di ogni tipo e rilasciato nelle acque e in atmosfera emissioni inquinanti - e le inevitabili ricadute sulla salute di lavoratori e popolazione residente hanno interessato anche l’Organizzazione mondiale della sanità, che nel Rapporto annuale su Salute ed Ambiente in Italia del 1997 scriveva a proposito: «In sintesi, il quadro di mortalità rilevato nell'area di Crotone risulta caratterizzato da eccessi per diversi tipi di patologie tumorali e non, che possono venire indotte da esposizioni di tipo occupazionale ed ambientale». Da qui la classificazione di Crotone come uno dei 40 siti italiani più urgenti da risanare. L’area di studio dell’ultimo rapporto Oms è costituita dal solo comune di Crotone, con una popolazione di 59.000 abitanti. Si rilevano tra gli uomini eccessi significativi, rispetto al resto della regione, della mortalità generale, e per tutti i tipi di tumore (rispettivamente, del 13% e del 23%). Tra i tumori i maggiori eccessi si osservano per il tumore polmonare (44%, casi 75), quello alla prostata (70%, casi 25) e per il tumore al fegato (84.8%, casi 20). Per le donne gli eccessi sono minori e l’insieme di tutte le malattie dell’apparato digerente e la cirrosi epatica presentano degli eccessi significativi (rispettivamente, 43,5% con 49 casi, e 83.45% con 35 casi). Lo stesso studio suggerisce una possibile associazione alle attività industriali dell’area in particolare per i tumori polmonari degli uomini e segnala l’eccesso di mortalità totale intorno al 10% in entrambi i sessi, quale indicatore di un carico negativo non trascurabile sulla salute. Attualmente delle grandi aziende che costituivano il Polo industriale di Crotone sono rimaste solo la Cellulosa Calabra, che produce pasta semichimica per carta, e la Condea Augusta, che, dopo il passaggio di proprietà alla società sudafricana che ha acquistato il pacchetto di maggioranza dell’azienda chimica, ha cambiato nome in Sasol Italy Spa. L’azienda continuerà comunque a produrre zeoliti per la detergenza. Per quanto riguarda la Pertusola Sud lo stabilimento ha cessato la produzione e resteranno in fabbrica venti unità lavorative solo per completare lo smaltimento delle ferriti. Entro l’inizio del 2003 la fabbrica sarà avviata al suo definitivo smantellamento e, 46 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale successivamente, alla bonifica integrale del sito. Si prevede comunque un utilizzo del sito con nuove iniziative imprenditoriali che vanno dalla stessa metallurgia non ferrosa alla floricultura e alla industria agroalimentare, a cui si affiancherà l’attività della centrale a turbogas da 800 megawatt localizzata in territorio di Scandale. Sono inoltre in fase di realizzazione numerose altre attività imprenditoriali nate attraverso i finanziamenti gestiti da «Crotone Sviluppo». Nata nel dicembre 1993, Crotone Sviluppo, società consortile per azioni, già pensata e progettata per accedere ai nuovi strumenti di finanziamento delle aree in crisi, si è trovata a gestire la crisi occupazionale dell’Enichem. Nel 2002 tutti gli investimenti dovrebbero andare a regime e, conseguentemente, dovrebbero essere creati 512 nuovi posti di lavoro (circa 350 sono già in essere) con 93 miliardi di contributi erogati a fronte di 125 miliardi di investimenti. Tra le nuove attività produttive che stanno per sorgere le più importanti saranno - la Mct del gruppo ceramico «Gambini « che produrrà piastrelle di ceramica e occuperà 340 dipendenti con un investimento previsto di 143 miliardi di lire; - la De Tomaso e la Uaz-Europa che stanno per realizzare lo stabilimento che produrrà, a regime, ventimila fuoristrada della casa russa, per un fatturato annuo di circa settecento miliardi di lire. L’investimento previsto è di 43 miliardi ed occuperà 170 addetti. - la «Biomasse Spa Italia» che realizzerà una centrale elettrica a biomasse della potenza nominale di 40 Mw nell’area dell’ex zuccherificio a Strongoli e un’altra prevista a Crotone di 20 Mw. I combustibili che saranno adoperati deriveranno dai rifiuti agricoli. L’attività di Biomasse Italia dovrebbe rientrare nel Pen (Piano energetico nazionale 2000) per l’incremento delle fonti di energia rinnovabili. Vi sono inoltre numerose altre iniziative la cui realizzazione è prevista nell’area industriale del comune di Cutro: - un laminatoio, con 70 addetti e 50 miliardi di investimenti; - un’industria di confezioni, con 120 addetti e 30 miliardi di investimenti; - la Coatek, azienda per la produzione di nastri adesivi che occuperà 48 addetti; - la Kriss, industria per la produzione di buste e contenitori vari, che occuperà 35 addetti; - la Edil Costruzion 5 P, che occuperà 12 dipendenti e produrrà prefabbricati per l’edilizia; - la Koper, dieci addetti, per la produzione di tegole; - la LBMM che produrrà lattonerie per l’edilizia ed assumerà 17 dipendenti; - la Euro Energy Group, del gruppo Marcegaglia, con 35 addetti per la costruzione di una centrale elettrica alimentata da biomasse; - la Crpown per la produzione di ingranaggi di precisione con 100 addetti; - la Proema che produrrà componenti per auto, 240 addetti; - la Plastiva, produzione di articoli in materiale plastico con 40 addetti; - la Piadina, prodotti alimentari con 30 addetti. Non è certo che tutti gli impianti previsti entrino realmente in fase di produzione con risvolti positivi per l’occupazione e lo sviluppo dell’area. Quello che è certo è che il Ministero dell’ambiente ha recentemente dato il via libera alla costruzione di una nuova discarica per rifiuti speciali in località Giammiglione. La struttura, progettata dal Consorzio per il Nucleo di Industrializzazione, dovrebbe garantire lo stoccaggio dei rifiuti delle lavorazioni industriali di tutta la provincia per altri vent’anni, considerato che la vecchia discarica consortile, in funzione da oltre un decennio, ha ormai raggiunto la sua capacità limite e si avvia alla chiusura definitiva. La realizzazione di questa discarica, pensata soprattutto per sostenere il rilancio produttivo della Pertusola Sud, ormai chiusa, a questo punto non ha più molto senso. Tuttavia 47 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale il Consorzio ne sostiene l’utilità per la bonifica del sito di Pertusola Sud e dell’ex zuccherificio di Strongoli. Nel frattempo continuano ad essere in attività nel crotonese la discarica comunale per rifiuti urbani in località Tufolo; la discarica per rifiuti speciali e il depuratore del Nucleo Industriale; l’impianto di termodistruzione per rifiuti ospedalieri in località Passovecchio della società Salvaguardia Ambientale, autorizzato a smaltire rifiuti speciali ospedalieri di tutte le regioni meridionali; la discarica per rifiuti urbani e quella per rifiuti speciali in località Columbra (Poggio Pudano) della società Sovreco. . 48 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale AUGUSTA-PRIOLO-MELILLI La zona industriale ad elevato rischio di crisi ambientale che interessa, oltre i Comuni di Augusta, Priolo, Melilli, anche quelli di Siracusa, Floridia e Solarino, è stata decretata dal Ministero dell’Ambiente nel 1990, dopo un decennio di battaglie delle Associazioni ambientaliste. Quasi dieci anni di lotte per far prendere atto alle Amministrazioni comunali e regionali e alle Istituzioni nazionali che esisteva una gravissima situazione di rischio e che dovevano essere presi immediati provvedimenti per evitare l’ulteriore aggravamento della crisi ambientale. La zona industriale dell’area di Augusta - Priolo - Melilli occupa circa il 3% del territorio e vi trovano sede 5 raffinerie: Esso, Agip (ex Montedison - Praoil), EniChem, Isab (gruppo ERG) e Condea (ex EniChem Augusta Spa). Due sono le centrali ENEL: Tifeo Augusta e Priolo. A queste aziende si aggiungono poi l’impianto di gassificazione e cogenerazione Isab Energy, la fabbrica di magnesite Sardamag, la cementeria Augusta e il depuratore di reflui industriali e civili IAS. Risulta facilmente intuibile come una concentrazione così grande di aziende chimiche e petrolifere in una esigua porzione di territorio ponga serissimi problemi di inquinamento dell’ambiente circostante ed esponga la poplazione a rischio di incidenti di rilevante gravità . Le cause del degrado ambientale dell’area e del rischio per la popolazione che vi abita possono essere sintetizzate in alcune principali problematiche: il depauperamento della falda idrica, a causa dei massicci emungimenti da parte delle aziende del polo petrolifero, tanto che si è verificato un forte abbassamento del livello piezometrico con punte fino a 200 metri rispetto al suo valore iniziale. La conseguente intrusione di acqua di mare ha notevolmente innalzato la salinità delle acque rendendo inutilizzabili molti pozzi a scopo potabile; il degrado della qualità dell’aria a causa delle grandi quantità di macro e micro inquinanti (idrocarburi, polveri, sostanze organiche e inorganiche) emessi dai camini delle industrie del polo petrolchimico. Ciò determina il verificarsi di frequenti fenomeni di smog fotochimico con relative alte concentrazioni di ozono; elevata presenza di discariche, sia all’interno dell’area industriale sia sul territorio - di cui molte abusive- per lo smaltimento di rifiuti speciali, in gran parte pericolosi. Le aziende del polo petrolchimico producono circa 170.000 tonnellate annue di rifiuti di cui circa 1.300 tonnellate sono costituite da rifiuti classificati come pericolosi e non esistono adeguati sistemi di smaltimento; problemi di salute per gli addetti del sistema industriale, ma anche per la popolazione che vive in quest’area. La presenza nell’area di Augusta, Priolo e Melilli, caratterizzata da un elevato grado di sismicità (categoria S=9), di una notevole concentrazione di insediamenti produttivi ad alto rischio e la loro compenetrazione con un tessuto urbano a forte sviluppo, come il centro abitato di Priolo e le principali infrastrutture di collegamento tra Siracusa e Catania, aggravano la problematica del rischio industriale. L’ingente flusso di vettori di trasporto, la tipologia e la quantità delle merci pericolose movimentate, la vicinanza degli insediamenti urbani, e le caratteristiche delle vie di comunicazione, che per ampi tratti costeggiano se non sono addirittura interne alle industrie a rischio, contribuiscono ad aggiungere al rischio sanitario per la popolazione, quello del disastro in caso di incidenti. Nel DPR 17/1/95 con il quale viene approvato il Piano di Risanamento dell’area, si legge: «Le attività produttive del Polo petrolchimico (...) ed i relativi stoccaggi di sostanze 49 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale pericolose per caratteristiche di tossicità e/o infiammabilità risultano concentrati in una ristretta fascia di territorio dislocata lungo la costa. Tali insediamenti sono classificabili industrie a rischio ai sensi del DPR 175/88, in quanto fonti di rischio di eventi incidentali significativi in termini di estensioni areali e gravità delle conseguenze per la popolazione e le strutture esterne agli stabilimenti, quali rilasci tossici (soprattutto ammoniaca, acido fluoridrico, cloro e idrogeno solforato) e BLEVE - Fireball di GPL. Le sostanze in ingresso ed in uscita sono inoltre movimentate attraverso decine di migliaia di autobotti e ferrocisterne (nel 1991 circa 65000 automezzi e 2000 ferrocisterne) e migliaia di navi (nel 1991 circa 4300 unità. Per quanto riguarda gli eventi principali di incendio ed esplosione esaminati (Pool Fire, UVCE, BLEVE - Fireball) possono determinare effetti assai gravi soprattutto sulle aree urbanizzate circostanti agli insediamenti industriali ed in particolare appaiono interessate in modo rilevante le principali infrastrutture di comunicazione.» Eppure quasi nulla si è mosso in 10 anni dalla dichiarazione di area a rischio con Decreto del Ministero dell’Ambiente (Novembre 90) e 5 dall’approvazione del Piano di Risanamento (Gennaio 95). Nessuno dei rischi connessi con gli impianti industriali è stato depotenziato; paradossalmente in alcuni casi il rischio è aumentato. Infatti nonostante la dismissione dell’attività di Agrimont, sono rimasti i serbatoi di stoccaggio dell’ammoniaca per il rifornimento di Gela - proprio nell’area SG14 dove lo spostamento dei serbatoi, più volte richiesto da Legambiente e sancito dal 1991, non è mai stato nemmeno avviato. Nulla si è fatto per la sostituzione delle celle a mercurio con celle a membrana dell’impianto cloro soda, che da solo produce 1.100 t/anno delle 1.300 t/anno prodotte in tutta l’area. Nulla dal punto di vista della sicurezza delle popolazioni. Le disposizioni della legge 175/88 prima e della legge di recepimento della Direttiva Seveso II poi, rimangono del tutto inapplicate. Il piano d’emergenza non è mai stato predisposto, l’informazione ai cittadini, non è stata neppure avviata, e la popolazione rimane completamente inconsapevole dei rischi possibili e del comportamento da tenere in caso di incidente, tanto che la fuoriscita di gas dalla valvola di sicurezza di una nave nel 1999, provocò un grave allarme nella popolazione e gli incidenti della scorsa estate hanno letteralmente gettato nel panico centinaia di cittadini. Ma anziché mettere mano ad interventi per ridurre la probabilità di rischio, nel raggio di possibile azione degli incidenti rilevanti sono state recentemente costruite scuole e nelle immediate vicinanze è stato realizzato il nuovo impianto Air liquid, che produce 2000 tonnellate al giorno di ossigeno liquido, sostanza altamente infiammabile. Vale la pena sottolineare che il reparto rianimazione dell’ospedale di Siracusa è dotato di 8 posti letto a disposizione per tutta la popolazione dell’intera provincia. Recentemente è stato presentato un progetto che riguarda la realizzazione di un impianto nel comune di Melilli, per il recupero dei metalli pesanti Nichel e Vanadio dal cosiddetto filter cake, ovvero il rifiuto tossico della lavorazione del vanadio dell’Isab Energy di Priolo e non solo. L’impianto è progettato infatti per recuperare metalli pesanti da 18.000 tonnellate annue di filter cake, quando nell’area ne vengono prodotte solo 3.900. E neanche a dirlo senza nemmeno prevedere di procedere ad una valutazione di impatto ambientale, come sarebbe ovvio ancorché richiesto dalle normative, in un area in cui da anni ormai si è accertato che vi sono seri rischi ambientali, sanitari e di gravissimi danni in caso di incidenti. Ma è questo purtroppo l’ennesimo episodio di una lunga sequenza, che dimostra l’assoluta mancanza di volontà da parte di chi amministra di impostare un futuro basato su uno sviluppo alternativo al vecchio modello del passato. E le vittime dei recenti incidenti agli stabilimenti Isab e Condea e le innumerevoli fughe di gas dagli impianti non sono imputabili al destino cinico e baro o all’errore statistico in impianti di questo genere. Sono il segno di una politica che ormai ha dato i suoi frutti, che ha saccheggiato un territorio, che ha leso la 50 Legambiente - Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale salute della popolazione e che lascia in eredità rifiuti, disoccupati e siti da bonificare. Per quanto riguarda i dati epidemiologici, nel recente studio sulla mortalità negli anni 1990-’94 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha ritrovato tra la popolazione residente nei 6 comuni nel raggio di 39 chilometri dell’area Augusta-priolo, eccessi di mortalità tra gli uomini per tutte le cause tumorali pari al 10% in più rispetto alla media regionale (1127 casi osservati, contro i 1024,5 attesi). In particolare, per il tumore polmonare l’eccesso è pari a circa il 20% (340 casi osservati, rispetto ai 284,3 attesi) e significativo è anche l’eccesso per il tumore alla pleura (più del doppio, con 17 casi osservati). L’analisi dei trend temporali dal 1981 al 1994 mette in evidenza un aumento degli eccessi rispetto ai riferimenti nazionali, sia per la mortalità generale che per alcune patologie, come tutti i tumori, e il tumore polmonare; in particolare gli eccessi di mortalità per tumore pleurico raddoppia per gli uomini e triplica per le donne. Per quanto riguarda gli studi generazionali, sia per le donne che per gli uomini, si rileva per la mortalità per tumori polmonari un rischio cumulativo quasi raddoppiato dalla generazione del 1920 a quella del 1940 (dal 3,35% al 6,58%), fatto che, come dichiarato nello stesso studio «fa prevedere il persistere di rischi elevati negli anni futuri». Nonostante tutto questo, non è mai stata impostata alcuna indagine epidemiologica, neppure quella prevista dal piano di risanamento approvato da oltre 5 anni. E nel frattempo l’Ufficio di Medicina del lavoro di Messina ha riscontrato nelle urine dei lavoratori della Coemi, addetti all’impianto cloro-soda, concentrazioni di mercurio molto al di sopra del limite massimo consentito. Ma ad Augusta l’allarme non è solo per la mortalità. Dal 1980 cominciano le prime segnalazioni di nascita di bambini malformati: in quell’anno su 600 nati si ebbero 13 bambini con malformazioni congenite di diverso tipo, di cui sette non sono sopravvissuti. Scattò l’allarme, visto il sospetto effetto teratogeno delle scorie tossiche industriali, per cui il Ministero dell’Ambiente istituitì nell’ospedale di Augusta un Centro di monitoraggio. Dal 1980 al 1989 la percentuale dei nati malformati ad Augusta è stata dell’1,9% (140 casi su 6984 nati), contro una media nazionale dell’1,54% e una percentuale per l’Italia meridionale dell’1,18%. Nel decennio successivo, dal 1990 al 2000, la percentuale ad Augusta aumenta fino ad una media dell’intero decennio del 3,18% (221 casi di malformati su 6945 nati), con un picco nell’anno 2000 con il 5,6% dei nati malformati. Nell’anno 2001, dato elaborato in questi giorni dall’ospedale civile di Augusta, si sono avuti 22 casi di malformati su 573 nati (3,8% dei nati). Da un raffronto tra i dati di Augusta e quelli del registro siciliano per la Sicilia orientale, circa le singole malformazioni, risulta un eccesso ad Augusta per quanto riguarda le cardiopatie congenite (235 per mille ad Augusta, contro il 196 del resto dell’area) e l’apparato urinario (59 per mille contro il 46). Ad Augusta risulta un eccesso anche per quanto riguarda le malformazioni genitali: negli anni 1980-89 interessavano il 214 per mille dei nati (quando la media nazionale era del 100 per mille), mentre nel decennio 1990-2000 i casi sono aumentati al 303 per mille. In particolare, tra le malformazioni dell’apparato genitale, l’ipospadia nel periodo 1990-’98 in Augusta ha interessato il 132 per mille dei nati, contro un 79 per mille nella Sicilia Orientale. In base a queste segnalazioni e alla denuncia presentata dal primario di pediatria dell’ospedale civile di Augusta la Procura della repubblica ha aperto un’inchiesta per verificare il possibile legame tra alcune industrie dell’area e le anomalie congenite riscontrate. 51 IL "CHI E'" DI LEGAMBIENTE LEGAMBIENTE è l'associazione ambientalista italiana con la diffusione più capillare sul territorio (1000 gruppi locali, 20 comitati regionali, 110000 tra soci e sostenitori). Nata nel 1980 sull’onda delle prime mobilitazioni antinucleari, LEGAMBIENTE è un'associazione completamente apartitica, aperta ai cittadini di tutte le idee politiche democratiche, religiose, morali, che si finanzia con i contributi volontari dei soci e dei sostenitori delle campagne. E' riconosciuta dal Ministero dell'Ambiente come associazione d'interesse ambientale, fa parte del "Bureau Européen de l'Environnement", l'unione delle principali associazioni ambientaliste europee, e della “International Union for Conservation of Nature”. Campagne e iniziative Tra le iniziative più popolari di LEGAMBIENTE vi sono grandi campagne di informazione e sensibilizzazione sui problemi dell’inquinamento: "Goletta Verde", il “Treno Verde”, “Salvalarte” e “Mal’aria”. LEGAMBIENTE promuove anche grandi appuntamenti di volontariato ambientale e di gioco che coinvolgono ogni anno centinaia di migliaia di persone (“Clean-up the World/Puliamo il Mondo”, l’operazione “Spiagge Pulite”, i campi estivi di studio e recupero ambientale, “Caccia ai tesori d’Italia”, ed è fortemente impegnata per diffondere l'educazione ambientale nelle scuole e nella società attraverso le Bande del Cigno. L’azione sui temi dell’economia e della legalità Da alcuni anni LEGAMBIENTE dedica particolare attenzione ai temi della riconversione ecologica dell’economia e della lotta all’illegalità: sono state presentate proposte per rinnovare profondamente la politica economica e puntare per la creazione di nuovi posti di lavoro e la modernizzazione del sistema produttivo su interventi diretti a migliorare la qualità ambientale del Paese nei campi della manutenzione urbana e territoriale, della mobilità, del risanamento idrogeologico, della gestione dei rifiuti; è stato creato un osservatorio su “ambiente e legalità” che ha consentito di alzare il velo sul fenomeno delle “ecomafie”, branca recente della criminalità organizzata che sull’ambiente specula e guadagna. Gli strumenti Strumenti fondamentali dell'azione di LEGAMBIENTE sono il Comitato Scientifico, composto di oltre duecento esperti nelle discipline ambientali; i Centri di Azione Giuridica, a disposizione dei cittadini per promuovere iniziative giudiziarie di difesa e tutela dell'ambiente e della salute; l'Istituto di Ricerche Ambiente Italia, impegnato nel settore della ricerca applicata alla concreta risoluzione delle emergenze ambientali. LEGAMBIENTE pubblica ogni anno "Ambiente Italia", rapporto sullo stato di salute ambientale del nostro Paese, e invia a tutti i suoi soci il mensile “La Nuova Ecologia”, “voce” storica dell’ambientalismo italiano.