Diritto. Diritto privato. Diritto pubblico
LIBRO PRIMO
ELEMENTI TEORICI E DOGMATICI
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Diritto. Diritto privato. Diritto pubblico
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TITOLO PRIMO
L’ORDINAMENTO ED I SOGGETTI
SOMMARIO: 1. Diritto. Diritto privato. Diritto pubblico. – 2. Diritto pubblico. Diritto pubblico romano. – 3.
Concetto di ordinamento giuridico. – 4. Fonti del diritto, sistema di fonti e pluralità di ordinamenti. –
5. La costituzione. – 6. L’interpretazione. – 7. I soggetti di diritto e le situazioni giuridiche soggettive.
1. Diritto. Diritto privato. Diritto pubblico
È noto che ciò che chiamiamo “diritto” è un fenomeno unitario, dal momento che, in ogni sua partizione e specializzazione, esso è un unico strumento, diretto alla conservazione di quel gruppo sociale che si è organizzato in un dato
modo e che pertanto in quel determinato modo lo ha posto. Dallo studio del diritto privato, sia romano sia contemporaneo, si è già appreso che società diverse
producono diritti diversi: ma va da sé che ciascun diritto, ciascun insieme delle
norme che ivi si contengono, è predisposto al raggiungimento del medesimo fine
di tutela conservativa, che ciascun contesto sociale persegue.
All’interno di questo fine troviamo l’interesse a tutelare situazioni che sono
proprie ed esclusive di ciascun singolo – che, proprio per ottenere quelle tutele,
si è assoggettato a vivere associato ad altri – e situazioni che sono tutelate perché
si riferiscono direttamente al gruppo sociale, inteso nel suo insieme. Questo fa
individuare un interesse privato ed un interesse pubblico, distinzione da cui derivano, sia pure nell’ambito dell’unico insieme “diritto”, i due sottoinsiemi che
riportano a norme di “diritto privato” e a norme di “diritto pubblico”. E se il
fine del diritto è la conservazione della società che lo ha posto, la norma che tutela in modo non mediato l’intero contesto sociale è dogmaticamente individuata come “norma di diritto pubblico”; mentre quella che tutela direttamente un
interesse del singolo individuo, è individuata come “norma di diritto privato”.
Quello che sin qui abbiamo chiamato “gruppo” o “contesto sociale”, i cui interessi sono tutelati da norme di diritto pubblico, ha però una sua valenza solo
se lo si intende come un corpus unico, come una soggettività unica, sia pure composta da più entità, che però convergono ad unum. Questo unicum ha un suo valore di soggetto, i cui interessi sono meritevoli di tutela, poiché risulta titolare di
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L’ordinamento ed i soggetti
identiche situazioni di bisogno come lo è il singolo individuo. In altre parole, le
norme che si riferiscono alla tutela degli interessi pubblici si strutturano nello
stesso modo in cui si strutturano quelle dirette alla difesa degli interessi del privato; ed in tanto sono applicabili ed hanno un’efficacia, in quanto la collettività
si intende nella sua unicità soggettiva, come se fosse una persona singola. E perciò il diritto pubblico ha una sua efficacia poiché ripete percorsi e schemi che
sono già stati creati nel diritto privato.
Ciò posto occorre, se non definire, almeno individuare questa “soggettività
unitaria” alla quale poter riferire una normazione propriamente di “diritto pubblico”. Il compito non è semplice; ed è per questo che, così come accade nello
studio per la conoscenza del diritto privato, anche nello studio e nella conoscenza del diritto pubblico si rivela proficuo supportare l’indagine con competenze
storiche, oltre che filosofiche, dal momento che, nel dipanarsi dell’esperienza
storica, la soggettività unitaria del contesto sociale è stata intesa e raggiunta in
modi diversi, a seconda delle varie epoche e dei vari luoghi geografici in cui ciascuna esperienza si è inverata.
Oggi ci è facile intendere le norme di diritto pubblico come quelle che soddisfano direttamente un interesse pubblico, dal momento che è ormai sviluppata
una dottrina delle “società politiche” che perseguono fini potenzialmente generali, le quali sono individuate soprattutto con il termine di “Stato”, ma che possono anche essere suoi sottogruppi, quali ad esempio le Regioni e, a volte, anche
le Province ed i Comuni.
Ma non è stato sempre così. Anzi: si è arrivati a questa strutturazione attraverso percorsi assai complessi, spesso anche dolorosi, che meritano di essere rimeditati non già per una mera ubbia antiquaria, che non meriterebbe di trovare asilo in una Facoltà giuridica se non per amore di un più o meno utile sfoggio di
cultura; ma proprio per approfondire la natura e l’essenza degli elementi costitutivi di ciascuna istituzione, al fine di migliorarne il funzionamento e l’utilizzazione sociale.
E poiché, per le ragioni cui abbiamo accennato sopra, nella strutturazione
dell’ordinamento giuridico vi sono zone in cui si riscontra che confluiscono interessi pubblici e interessi privati, come ad esempio nel diritto dell’economia e nel
diritto del lavoro, è fondamentale conoscere il modo in cui si sono venute a strutturare le “società politiche”, così da saper rendere conto dei contenuti del pur
unico diritto, ma sotto le due caratterizzazioni di diritto privato e di diritto pubblico, e quindi per poter assegnare all’uno od all’altro gruppi omogenei di norme che disciplinano determinati interessi od istituti.
§ 3. Concetto di ordinamento giuridico
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2. Diritto pubblico. Diritto pubblico romano
In questa specifica sede dobbiamo studiare il “diritto pubblico romano”. Ma
quanto abbiamo appena finito di osservare ci mette sull’avviso della difficoltà
del compito, poiché ci siamo posti un tema di argomentazione, il diritto pubblico romano appunto, dogmaticamente definito mentre la realtà di cui dobbiamo
occuparci, cioè il dipanarsi del diritto romano rispetto alla tutela di interessi pubblici, è acceduta ad elaborazioni dottrinali solo tardivamente, e più con l’intento
di distinguere soprattutto norme privatistiche, che non col precipuo scopo di
definire quelle pubblicistiche.
Per superare questa difficoltà, pur avvertendo sin d’ora che sarà necessario
operare, nei vari luoghi, gli opportuni distinguo, può risultare utile schematizzare
utilizzando concetti della dogmatica attuale. E così è utile avvertire che, studiando essenzialmente norme di diritto pubblico, parleremo di diritto costituzionale,
anche se non saremo mai in presenza di una “costituzione in senso formale”; di
diritto amministrativo, anche se non disponiamo di una legislazione romana di
diritto amministrativo; e poi ancora di diritto internazionale, di diritto processuale, di diritto ecclesiastico e di diritto tributario, avendo comunque sempre
davanti a noi lo sviluppo storico di tutte le altre norme che disciplinano la vita
dei privati e riferite – secondo lo schema gaiano, che diamo per scontato sia ben
noto allo Studente – alle persone, alle cose, corporali e incorporali, e alle azioni.
3. Concetto di ordinamento giuridico
Per tutto quanto abbiamo detto sin qui, ogni “gruppo”, che si presenti come
gruppo o contesto “sociale”, in tanto sarà un gruppo omogeneo ed unitario, in
quanto si riconoscerà, e dunque avrà, un suo peculiare “ordinamento”, cioè un
complesso di regole che valgano a disciplinare i vari aspetti del suo quotidiano,
con riferimento a quei rapporti, tra soggetti privati e tra questi e le autorità, che
sono ritenuti essenziali per lo sviluppo della comunità.
Noi qualifichiamo questo tipo di organizzazione con l’appellativo di “ordinamento giuridico” poiché diamo per presupposto che esso si sia costruito secondo lo ius e che oltretutto sia esso stesso ius.
L’ordinamento giuridico dello Stato contemporaneo si presenta particolarmente complesso ed esteso. È complesso poiché è costituito da una pluralità di
fonti; ed è esteso poiché disciplina e tutela settori sempre più ampi della società.
Ma l’ordinamento di Roma, che si è venuto creando – per quello che dobbiamo qui studiare – lungo un arco di quasi dodici secoli, ha trovato le ragioni
della sua genesi in fatti contingenti ed in molte fonti. Complessità ed estensione
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L’ordinamento ed i soggetti
dell’ordinamento giuridico presente sono frutto dell’interesse che la società attuale ha rivolto, e continuamente rivolge, al rapporto fra autonomia privata e poteri pubblici con l’intento di dare tutela, per mezzo della legge, a quegli interessi
ed a quei valori che essa stessa viene di tempo in tempo ritenendo essenziali e
meritevoli, come ad esempio l’economia, la protezione sociale, l’ambiente, la salute, la cultura ed altro ancora. Questa considerazione rende evidente che il concetto di “ordinamento giuridico” non è statico, ma è frutto di continua evoluzione. Se dogmaticamente inteso l’ordinamento giuridico è, sotto il profilo formale, il complesso delle norme poste dalle fonti del diritto in un determinato
periodo storico ed in una data società, è necessario parallelamente indagare quali norme abbiano il carattere della giuridicità, e dunque quali siano, sotto il profilo sostanziale, le norme giuridiche, rispetto a quelle altre che invece giuridiche
non sono. Se questa operazione oggi è semplificata dall’esistenza di una apposita
legislazione, che individua quale normazione sia da intendere, in senso formale,
come giuridica; studiando il diritto romano si noterà come quella normazione
sia emersa nelle varie epoche, dapprima – come è stato acutamente osservato –
con carattere di fluidità e quindi si sia consolidata, dando così alla società romana una pluralità di assetti costituzionali.
4. Fonti del diritto, sistema di fonti e pluralità di ordinamenti
Nell’ordinamento attuale le norme giuridiche sono generalmente contenute
in testi scritti, essendo il testo scritto quello che è inteso essere, a seguito di
complesse vicende storiche, lo strumento che assicura il maggiore grado di certezza e di stabilità. Testo e norma sono due entità distinte che non vanno confuse e che si relazionano quali contenente e contenuto di valore: la norma perciò
non è la statuizione legislativa, o formula normativa, o disposizione, risultante da
un testo. Norma è ciò che l’interprete enuclea dal, o dai testi della statuizione legislativa, alla luce dei principi generali e dell’insieme delle disposizioni che, nell’intero loro complesso, costituiscono l’ordinamento, dal più semplice al più articolato. Norme perciò si contengono nelle leggi, ma anche nei comportamenti
consolidati, o negli ordini delle autorità; e sta all’interprete riportare tutto ad un
significato coerente e cogente, sì che il partecipante al gruppo sociale, che quelle
norme ha prodotto ed intende usare, vi si riconosca pienamente.
La norma infatti può essere desunta anche da quei comportamenti che, col
tempo, si sono venuti consolidando in modo da connotare una costumanza obbligata di un determinato gruppo; la norma può essere desunta altresì dalla volontà popolare o dal volere di colui al quale, in una determinata circostanza, è
riconosciuto un potere; la norma infine può scaturire dal lavoro dell’interprete.
§ 4. Fonti del diritto, sistema di fonti e pluralità di ordinamenti
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E quindi dovrebbe essere noto che generalmente, con la parola “fonti”, si indicano tutti quegli atti e fatti attraverso i quali vengono generate norme giuridiche.
In questo senso “fonte” indica lo strumento tecnico di cui un determinato contesto sociale si serve per produrre il diritto. Questo diritto prodotto, che genera
un “sistema normativo”, è dogmaticamente indicato col termine di “diritto oggettivo”, per intendere che esso ha una sua consistenza, una sua materialità o
corposità, che può essere riconosciuta e studiata, ma che soprattutto deve essere
applicata (ovviamente nel senso che il “gruppo sociale” che quel diritto ha prodotto, vuole altresì che esso sia applicato).
Questo “diritto oggettivo” scaturisce dunque da “fonti”, così come è conoscibile per mezzo di “fonti”. Le fonti perciò si distinguono essenzialmente in “fonti
di produzione” ed in “fonti di cognizione”.
Si considerano “fonti di produzione” quelle capaci di creare norme giuridiche
che generano ed implementano l’ordinamento; le manifestazioni di volontà espresse da una autorità, ovvero quei comportamenti oggettivi, tenuti dalla collettività,
che danno vita ad usi e consuetudini.
Sono invece “fonti di cognizione” quei documenti e quelle testimonianze, di
qualunque natura, dalle quali assumiamo quanto si può conoscere delle disposizioni normative che intendiamo applicare, o semplicemente studiare.
Non deve in ogni caso sfuggire che, alla base del riconoscimento di una condotta quale norma giuridica, c’è sempre la volontà dei soggetti che quella stessa norma debbono recepire. Così si può parlare, nell’ambito delle “fonti di produzione”,
anche di una produzione straordinaria di norme, come può accadere nei casi in cui
il contesto agisca al di fuori dell’ordine che si è dato, ma volendo egualmente imporsi una condotta: tale è il caso del colpo di Stato portato a termine, della rivoluzione vittoriosa, della consuetudine contra legem, della desuetudine, delle prassi
amministrative e, più in generale, dei così detti “precedenti”. Si tratta, come si vede, di casi estremi i quali però, da un lato, debbono risultare capaci di creare ordinamento, inserendosi in un vuoto normativo, ovvero sostituendosi a fonti legali non più condivise; e, dall’altro, debbono essere il prodotto della volontà di coloro che li debbono recepire quali norme giuridiche e fonti effettivamente vigenti.
Oggi si intende che l’identificazione delle fonti del diritto debba avvenire sulla base di criteri formali, cioè in base a quanto stabilito nella stessa legge. È questo il caso dell’art. 1 delle DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE, preposte al
nostro Codice civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262), che com’è noto dispone che
sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti, (le norme corporative) e gli usi. Ma
tale norma, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1 gennaio
1948), va integrata con la previsione di quanto ivi contenuto, nonché con la
normazione conseguente all’adesione dei Trattati fra gli Stati che costituiscono
la Comunità Europea.
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L’ordinamento ed i soggetti
Noi però facciamo riferimento a quanto è successo prima della consolidazione
di un ordinamento giuridico inteso in senso formale, e ci spingiamo in un periodo storico che sta addirittura prima sia dello Stato postrivoluzionario ed ottocentesco, sia degli Stati di antico regime e del feudalesimo: e dunque dovremo utilizzare anche altre categorie oltre quelle cui abbiamo fatto adesso riferimento, sempre
che non ci impediscano di intendere a pieno la realtà che intendiamo indagare.
Sempre in tema di “fonti”, la loro varietà e pluralità impone di individuare un
criterio utile per una la loro composizione in sistema. I criteri comunemente
adottati dalla dogmatica moderna per la classificazione delle fonti del diritto sono quello gerarchico e quello cronologico. Col “criterio gerarchico” si crea una
scala gerarchica di fonti, secondo l’efficacia loro attribuita dall’ordinamento: si
hanno così fonti di grado superiore che prevalgono su quelle di grado inferiore.
Col “criterio cronologico” si genera una successione nel tempo, che rende preminente, fra fonti di pari grado, quella entrata in vigore in età recenziore, secondo la regola racchiusa nel noto brocardo posterior derogat priori.
Ma occorre osservare ancora, come abbiamo già notato sopra, che le fonti del
diritto emanano da organi diversi. Oggi intendiamo che a produrre norme sia
soprattutto lo Stato, inteso come Stato-soggetto; ma vi sono anche altri soggetti
capaci di esercitare una funzione normativa. Ci sono infatti le Regioni, e poi ancora, con potere statutario e regolamentare, le Province ed i Comuni. E poi ancora, secondo quanto è stabilito nella nostra Costituzione, alcune formazioni sociali, quali le confessioni diverse dalla cattolica; le istituzioni di alta cultura; le
università e le accademie; i sindacati; i partiti politici. La Costituzione cioè riconosce e garantisce che altri soggetti, pubblici o privati, oltre lo Stato, possano
darsi autonomamente regole per disciplinare la loro organizzazione. Siamo insomma all’interno di un sistema giuridico che garantisce l’esistenza di altri sottosistemi giuridici, ciascuno con una propria specificità.
Si tratta, a ben vedere, di una pluralità di ordinamenti giuridici. Il che però
crea il problema della loro armonizzazione, dato che, se il discorso sin qui condotto è stato bene inteso, essi sono tutti derivazione di un unicum volente. Questo impone che vi sia la preminenza di un ordinamento su tutti gli altri, così che
esso possa regolare, secondo le leggi che detta, i rapporti tra quegli individui e
tra quelle collettività minori che comprende in sé. Oggi questo ordinamento
preminente è lo Stato, inteso come comunità organizzata maggiore, alla quale si
riferiscono gli interessi generali, sovraordinanti agli interessi collettivi, settoriali,
individuali o territoriali.
Occorre però distinguere. Come vedremo più avanti, la struttura dello Stato
moderno si è formata a seguito di osservazioni critiche sulla struttura dell’impero, che hanno sublimato dei punti essenziali ed irrinunciabili della soggettività
pubblica, posti quali principi fondanti l’unità istituzionale nella quale il singolo
§ 5. La costituzione
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si riconosce come componente e come titolare di diritti che quell’unità gli garantisce. È stato un cammino lungo, come dicevamo, che attraversa la storia di Roma, il medio evo e l’età moderna, e che noi cerchiamo di osservare con particolare riferimento all’età romana. E poiché anche nella storia costituzionale romana si ha una pluralità di ordinamenti giuridici, possiamo comprendere meglio,
dallo studio di quell’esperienza, quali tutele possa ottenere il singolo dalla pluralità delle normazioni che ne determinano i comportamenti.
5. La costituzione
Parlando di ordinamento, non ci siamo preoccupati sin qui di indicare se l’ordinamento stesso si formi da solo, a prescindere da una regola che lo ponga, ovvero
se esso dipenda da una regola che si configuri come fondamentale, quasi una sorta
di pre-norma se non addirittura di sopra-norma. E perciò, di seguito alle considerazioni che precedono, è opportuno accedere al concetto di “costituzione”.
Generalmente si dice che ogni gruppo sociale è distinto da una struttura organizzativa essenziale, e da un complesso di fini che stanno alla base del suo ordinamento: cioè ogni gruppo sociale si pone più fini da raggiungere e si dà
l’organizzazione che ritiene più capace di raggiungerli. Ma un ragionamento così
fatto non spiega come si origini il gruppo sociale, ovvero non dice come una semplice pluralità di soggetti cessi di essere un insieme di unità distinte e disomogenee, ancorché appartenenti all’unico genere umano, e diventi invece una società.
In altri termini, quel ragionamento non dice come si generi soprattutto l’insieme
dei fini, che saranno poi raggiunti mediante l’organizzazione, nei quali ciascuna
unità distinta si riconosce tanto da voler stringere, con le altrettante unità distinte con le quali è venuto in relazione, quel patto che le trasforma in società.
I due fondamentali, che spingono il singolo ad accantonare l’illimitatezza della sua indifesa individualità, a vantaggio della limitatezza più affidante della pluralità, sono innanzi tutto il “bisogno”, e quindi la “adesione”. Questi due momenti dell’esistenza spingono la mera universalità di individui a trasformarsi in
un vero gruppo sociale organizzato. Non deve sfuggire poi, osservando il fenomeno in sé, che in tal modo si è creata una organizzazione delle unità distinte, le
quali sono ora divenute un gruppo sociale; e che ciò è avvenuto perché le unità
distinte lo hanno voluto fare.
Tutto questo è sotteso al concetto di “costituzione” che, nel primo significato, vuol dire dunque “assetto fondamentale”. Non c’è dubbio che l’assetto fondamentale di un gruppo sociale è generato dall’ideologia in esso dominante in
un dato momento storico. Ma è altrettanto indubbio che il fenomeno non si genererebbe se non vi fosse la fase della “adesione”, cioè della voluta condivisione
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L’ordinamento ed i soggetti
dei contenuti di quel determinato assetto. Assetto che in tanto viene raggiunto,
in quanto viene creata quanta normazione serve perché siano realizzati i contenuti condivisi. Ciò porge il secondo significato di “costituzione”, che ora vuol
dire “complesso normativo” che realizza l’assetto fondamentale. La creazione
del complesso normativo consolida l’adesione: le norme infatti assicurano stabilità e certezza di valori e di fini istituzionali, così che si perpetua nel tempo la vigenza dell’adesione, ora suggellata in “regole”, cioè in norme che bilanciano gli
interessi delle parti aderenti con funzione eminentemente garantista.
Molti Stati moderni, a consolidazione di questo scopo, utilizzano essenzialmente la forma scritta, riunendo e coordinando in un unico testo le norme fondamentali di un ordinamento. Ma la forma scritta non è funzionale all’efficacia del
fenomeno, che si genera nella volontà ricognitiva dei fini e adesiva alla struttura.
E perciò è essenziale che vi sia la manifestazione durevole della volontà, dove la
durevolezza si coglie proprio nella produzione di una normazione che miri al
mantenimento dell’adesione, cioè che sia capace di soddisfare i bisogni che stanno all’origine dell’adesione stessa. Proprio per questo la dottrina, guardando soprattutto a ciò che si crea mediante il comportamento di fatto, individua anche
un’altra costituzione, che definisce stavolta “costituzione in senso materiale”.
Perciò, volendo intendere concetto e significati, occorre fare riferimento sia
alla “costituzione in senso sostanziale”, cioè a quella risultante dal complessivo
assetto della società, che con quel mezzo si è generata; sia alla “costituzione in
senso formale”, cioè alla risultante della norme scritte di tale assetto; sia alla “costituzione in senso materiale”, cioè a quella che realizza in fatto e porta a compimento i valori ed i fini istituzionali presenti nella società mediante la creazione
contingente di un ordine normativo. E tutto ciò facendo uso di una forma scritta; oppure senza farne uso, in modo essenzialmente consuetudinario. Se gli Stati
di età moderna e contemporanea fanno ricorso soprattutto allo scritto per consacrare principi ed istituti in un documento, che prende il nome ora di Costituzione, ora di Statuto, ora di Legge o di Carta fondamentale; vi sono anche esperienze che hanno generato una costituzione a prescindere da un documento che
racchiuda le norme materialmente costituzionali. È questo il caso di Roma, il cui
assetto costituzionale è venuto a formarsi mediante norme consuetudinarie e di
costume, espresse spontaneamente da una collettività primitiva, attorno alla quale si è maturato un duraturo consenso popolare, sia pure non sempre in presenza di omogeneità politica.
Quali e quanti siano i tipi di costituzione, ed a quali di questi faccia riferimento la Costituzione italiana è materia che si deve studiare in altra sede. Qui
basterà ricordare che non si crea società senza il diritto, secondo il noto principio ubi societas ibi ius; e che la forza che agglomera singole unità in società è appunto quella norma, comunque creata, cui viene dato il nome di “costituzione”.
§ 6. L’interpretazione
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6. L’interpretazione
Dopo aver parlato del sistema delle fonti e dell’imprescindibilità di una legge
fondante, dobbiamo tornare sul problema dell’interpretazione da intendere come attività che trae dalla fonte la norma giuridica che in essa è contenuta. Il procedimento interpretativo è necessario perché la norma abbia il suo senso e raggiunga il suo scopo: cioè perché venga applicata. Poiché per fare ciò occorre tenere lontano ogni vizio di arbitrarietà, occorre che l’interpretazione sia fatta con
un’operazione intellettiva che risponda a regole finalizzate a cogliere il significato della norma all’interno dell’ordinamento giuridico. È fondamentale cioè che
l’interprete conosca l’intero sistema, così che sia in grado di curarne soprattutto
la coerenza; così come è essenziale che l’interprete utilizzi principi predeterminati, o che siano ricavabili dal sistema stesso.
Nel nostro ordinamento sovviene in proposito l’art. 12, comma 1., delle DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE col noto precetto: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Il testo di questa legge, che è una legge sull’interpretazione, contiene una norma per la sua applicazione che, a sua volta emerge da una attività interpretativa.
Onde se ne trae che l’interprete deve tener conto del significato grammaticale
delle parole considerate nel loro complesso, cioè nella loro connessione sintattica, al fine di farne emergere l’intenzione del legislatore. Viene cioè proposto un
iter di svolgimento dell’attività interpretativa che antepone innanzi tutto la comprensione dei verba legis, mediante la quale si arrivi all’individuazione della ratio
legis. Ma detta comprensione non può seguire a prescindere dalla conoscenza dell’intero sistema: e perciò l’interpretazione dei verba legis e la ricerca della ratio
legis possono essere pienamente raggiunte solo per mezzo di una interpretazione
sistematica. È infatti abbastanza intuitivo comprendere che le norme non vivono
isolate, ma sono inserite in un sistema unitario e contingentemente concluso: dunque esse vanno collocate nel complesso delle loro connessioni con l’intero contesto ordinamentale, tenendo sempre presente che le norme emanano da una congerie molto articolata di fonti che le possono produrre. Né vanno trascurati i principi
fondamentali che caratterizzano l’ordinamento di un popolo, il quale va salvaguardato nella sua intima coerenza complessiva. L’interprete è perciò chiamato a calare
la norma nel sistema, in modo che questa si arricchisca o si restringa in coerenza con
quanto costituisce la mens, la ragione fondante, dell’ordinamento. Per questo si
parla di “interpretazione estensiva”, oppure ancora di “interpretazione restrittiva”.
Peraltro, proprio la ricerca della coerenza con la mens legis, cioè con quanto
costituisce qui ed ora la ragione dell’ordinamento, crea il problema dell’attualizzazione che l’interpretazione crea nel momento in cui la si aziona. I diversi mo-
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L’ordinamento ed i soggetti
menti storici infatti portano a dare letture diverse delle stesse leggi, dalle quali
dunque scaturiscono, in momenti diversi, norme diverse; e ciò avviene perché la
storia muta gli intenti della società, la quale legge gli stessi testi alla luce di principi che sono mutati con lei. In questi casi l’interprete, con l’interpretazione sistematica, adegua la ratio legis ai nuovi e diversi principi; oppure evolve la ratio,
pur conservandosi i verba, in modo che il comune sentire sociale, che ha posto
delle leggi, abbia sempre l’effetto che chiede, nel momento contingente in cui lo
chiede, mediante norme evolute ed adeguate all’intento dell’ora in cui lo chiede.
Quanto sin qui detto pone anche un altro problema. Se infatti il punto saliente è che la società abbia dall’ordinamento, sempre e comunque, una risposta
all’intento, è evidente che nel concetto stesso di ordinamento vi è implicita anche la caratteristica della “completezza”. Non può accadere cioè che l’individuo,
che ha voluto cessare il suo stato di unità disomogenea aderendo al contesto sociale, rimanga senza soddisfazione del suo bisogno contingente. Il che è come
dire che le norme non possono mai mancare. E dunque: qualora non si trovi una
norma che disciplini espressamente una determinata fattispecie, occorre che
l’interprete dia comunque una risposta. Gli ordinamenti moderni sovvengono al
problema con le così dette “norme di chiusura”, cioè con disposizioni espresse
che indicano il modo per supplire alle eventuali lacune. Sempre l’art. 12, delle
nostre DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE, sancisce al comma 2. che: «Se
una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo
alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello
Stato». Il che significa, in altri termini, che una norma da applicare c’è sempre,
sia essa contenuta nel sistema, sia essa inespressa, sia essa una creazione, estemporanea ma non arbitraria, dell’interprete. Egli dunque usa un processo logico,
definito “interpretazione analogica”, per individuare, sempre ricorrendo alla sistematica, disposizioni che disciplinano casi simili, o materie analoghe, oppure
creando, mediante il ricorso ai principi generali dell’ordinamento, quella disciplina che meglio risponde alla tutela del bisogno.
A corollario di queste osservazioni è utile tenere a mente che l’interpretazione
di un testo normativo è una attività contingente, unica e irripetibile: essa cioè
non vincola l’interprete successivo, se non nell’ambito di un rapporto gerarchico. Lo studio dei principi del diritto processuale (civile, penale, amministrativo e
costituzionale) dovrebbe aver reso comprensibile il concetto appena espresso.
Così come dovrebbe essere noto che, se un testo normativo si presenta eccessivamente ambiguo, o tecnicamente mal formulato, o lacunoso, così da avere ricevuto varie e contrastanti interpretazioni, può intervenire, ed è bene che intervenga, il legislatore a chiarire, precisare, mutare i significati, con ciò che viene
definita una “interpretazione autentica”.