Nicola Angeli Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Museo Tridentino di Scienze Naturali di Trento Sezione di Limnologia e Algologia, via Calepina 14, 38100 Trento e.mail: [email protected] Ricostruzioni paleoecologiche e paleoclimatiche tramite l’analisi di diatomee subfossili in sedimenti di laghi del Trentino Scopo di questa ricerca è quello di fornire, per il Trentino, un primo contributo significativo agli studi paleolimnologici e paleoclimatici basati sull’analisi delle tafocenosi di diatomee di sedimenti lacustri. Si tratterebbe infatti di un primo lavoro a carattere esplorativo e pionieristico, in quanto le ricerche pregresse sono assai poco numerose: Guilizzoni et al. (1992, Studi Trent. Sci. Nat., 67, Acta Biol.: 53-98) e Lami et al. (1991, Mem. Ist. ital. Idrobiol., 49:117-126) sul lago di Tovel e Baroni et al. (2001, Geografia fisica e dinamica Quaternaria, 24/1:1324) sul lago di Terlago. La ricerca viene condotta presso il Museo Tridentino di Scienze Naturali grazie a due progetti scientifici multidisciplinari (SALTO e OLAMBIENT) finanziati dal Fondo per i Progetti di Ricerca dalla Provincia Autonoma di Trento e intende fornire contributi per la ricostruzione di fattori ecologici e variazioni ambientali e climatiche. La ricerca è iniziata con un lavoro a carattere paleolimnologico e paleoecologico sul Lago di Tovel (progetto SALTO) e si propone di ricostruire l’evoluzione temporale di fattori limnologici fondamentali, quali il fosforo totale o il carbonio organico disciolto, nel condizionare il fenomeno dell’arrossamento del lago di Tovel. Fino ad ora ci si è concentrati sull’esame qualitativo di carote di sedimenti prelevate nell’ottobre 2001: l’esame di numerosi campioni di sedimento presi ad intervalli di 10 cm l’uno dall’altro e preparati con diverse metodologie al fine di permettere l’osservazione delle diatomee, ha mostrato una scarsa presenza di questi organismi dovuta a probabili fenomeni di dissoluzione. Attualmente la ricerca, in attesa di ulteriori carotaggi, sta proseguendo con uno studio delle diatomee dei sedimenti superficiali lungo un gradiente di profondità finalizzato alla ricostruzione di possibili variazioni di livello del lago di Tovel nel passato. Il progetto SALTO (Studio sul mancato arrossamento del lago di Tovel) ha come obiettivo l’acquisizione di tutte le ulteriori conoscenze in grado di fornire un’interpretazione oggettiva dei fattori responsabili del mancato arrossamento delle acque del lago di Tovel. Questo lago rappresenta una delle maggiori attrazioni del Parco Naturale Adamello Brenta; la fama a livello internazionale era associata al fenomeno dell’arrossamento delle sue acque che si verificava come conseguenza della fioritura di un’alga unicellulare, il Glenodinium sanguineum March. L’arrossamento delle acque si è manifestato con forte intensità l’ultima volta nel 1964. Un’ulteriore importante possibilità di ricerca viene offerta dal Progetto OLOAMBIENT, che comprende uno studio a carattere paleolimnologico e paleoclimatologico di alcuni laghi di diverse tipologie (di fondovalle, di montagna e alpini) tra i quali i laghi di Levico, Caldonazzo, Lavarone e Nero di Cornisello. I sondaggi sismici e i primi carotaggi cominceranno con il lago di Levico e verranno effettuati il mese prossimo. Il progetto OLOAMBIENT (Risposte dell’ambiente e degli ecosistemi alla variabilità climatica dell’Olocene in Trentino basata su serie di dati-proxy da sedimenti lacustri, latte di monte e tufo calcareo), ha come obiettivo principale la ricostruzione delle risposte di ambiente ed ecosistemi alpini ai cambiamenti climatici (sia improvvisi, che di lunga durata) avvenuti nell’Olocene nel territorio della Provincia di Trento. È inoltre in corso un lavoro a carattere territoriale ed esplorativo mirante a confrontare le tafocenosi di diatomee attuali e “pre-industriali” di una decina di laghi dell’Adamello e cinque laghi del bacino dell’Avisio, mediante il cosiddetto approccio tops & bottoms. Questa metodologia consente di ottenere una prima indicazione (per quanto grossolana) sull’entità delle eventuali variazioni ambientali in un numero relativamente elevato di ambienti. Silvia Arisci Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma C.N.R. - Istituto per lo Studio degli Ecosistemi, Largo Tonolli 50, 28922 Verbania Pallanza e.mail: [email protected] Interazione fra deposizioni atmosferiche e vegetazione nel determinare la chimica delle acque superficiali con particolare riferimento all’azoto Lo studio della chimica delle deposizioni atmosferiche in Italia costituisce una parte di un più ampio programma di ricerca, il Programma Nazionale Integrato per il CONtrollo degli ECOsistemi FORestali (CONECOFOR), gestito e coordinato dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali. Tale programma prevede il monitoraggio a lungo termine in una rete di aree forestali permanenti, in cui si studiano i cambiamenti a livello strutturale e funzionale degli ecosistemi in relazione a possibili fonti di inquinamento atmosferico o di altri fattori di perturbazione su larga scala. Parte integrante di questo progetto è lo studio della chimica delle deposizioni atmosferiche che mira a valutare l’apporto di ioni dall’atmosfera alla vegetazione, al suolo ed alle acque superficiali. Con queste premesse, il presente lavoro di tesi di dottorato si propone di: (i) studiare gli apporti atmosferici di azoto, uniti alle altre componenti ioniche presenti nelle deposizioni, in diverse situazioni geografiche italiane; (ii) esaminare le interazioni e le trasformazioni che i composti dell’azoto hanno a contatto con la chioma di diverse tipologie di vegetazione e (iii) valutare come queste interazioni contribuiscono a determinare la composizione chimica delle acque superficiali. La chimica delle deposizioni atmosferiche è considerata in 16 aree permanenti, 7 delle quali collocate nelle Alpi dal Piemonte al Friuli, 6 nell’Appennino dalla Liguria alla Calabria e le rimanenti nella Pianura Padana, in Toscana e in Sicilia. I risultati del primo anno di dati (2002), in accordo con i dati pregressi (1998-2001), mostrano che a fronte di valori di pH indicanti livelli di acidità moderata, le elevate concentrazioni di ammonio presenti nelle deposizioni determinano un’acidità potenziale elevata. Un importante aspetto della chimica delle deposizioni è costituito dalle elevate concentrazioni di azoto, spesso superiori ai valori critici calcolati per le diverse aree. L’azoto svolge un ruolo fondamentale nell’influenzare l’equilibrio acido-base di un corso d’acqua, di conseguenza tutte le alterazioni che in un bacino idrografico influenzano il ciclo naturale dell’azoto, si riflettono sul chimismo delle acque 1 superficiali. La quantità di azoto presente in un corso d’acqua sarà pertanto determinata dal livello di saturazione di azoto presentato dal suolo. Tale relazione ha permesso di valutare le modificazioni che insorgono in un bacino imbrifero, descrivendone l’evoluzione in quattro “stadi” successivi (Traaen & Stoddard, 1994) nei quali i processi di trasformazione dell’azoto assumono un’importanza relativa differente. I risultati evidenziano che i torrenti presi in considerazione nelle aree di Piemonte, Friuli, Bolzano ed Emilia presentano un sensibile livello di alterazione per quanto riguarda le concentrazioni di azoto e si collocano negli stadi 2 e 3 caratterizzati da un alto grado di alterazione, dove le concentrazioni di nitrati non sono più controllate dai processi biologici che avvengono nel suolo, ma dagli apporti atmosferici. Bibliografia Traaen, T.S. & J.L. Stoddard. 1995. Convention on long-range transboundary air pollution. An assessment of Nitrogen Leaching from Watersheds included in ICP on Waters. NIVA Report, Oslo, 39 pp. Francesca Bacchiocchi Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Scienze Ambientali di Ravenna, Università di Bologna, via Tombesi dall’Ova 55, Ravenna e.mail: [email protected] Valutazione degli effetti delle strutture artificiali costiere su struttura, distribuzione e dinamica di popolamenti di fondi duri La costruzione di scogliere artificiali per far fronte al problema dell’erosione costiera è un fenomeno comune lungo le coste italiane. In molte aree dell’Alto Adriatico, in particolare, queste strutture formano dei cordoni rocciosi quasi ininterrotti lungo estesi tratti di costa. Questo intervento antropico, in un ambiente marino prevalentemente caratterizzato dalla presenza di fondi mobili, comporta una rilevante alterazione dell’assetto naturale della fascia costiera poiché incrementa l’estensione degli habitat a fondi duri. Questi ampliano la possibilità d’insediamento di popolamenti vegetali ed animali e facilitano la colonizzazione e la penetrazione di nuove specie prima assenti dall’area, con conseguenze sull’organizzazione strutturale delle comunità bentoniche di queste aree costiere. Cercare di valutare le modalità e l’entità di queste alterazioni rappresenta l’obbiettivo principale della presente tesi di dottorato il cui scopo è lo studio della struttura, distribuzione e dinamica dei popolamenti epibentonici di fondi duri associati alle opere di difesa costiera dell’Alto Adriatico, in particolare della Regione Emilia-Romagna, e degli effetti che questi popolamenti determinano a carico dell’ambiente costiero di questa area. In questo contesto sono state analizzate le principali caratteristiche strutturali delle opere costiere che potenzialmente possono influenzare i popolamenti ad esse associate. Tra queste la tipologia di struttura, il materiale di costruzione, l’età delle strutture e i lavori di manutenzione (aggiunta di nuovi massi) sono stati oggetto di studi specifici. L’abbondanza delle specie epibentoniche più cospicue è stata analizzata sulle strutture artificiali presenti lungo 2 un tratto di costa di circa 60 km tra le località di Lido degli Scacchi e Cesenatico durante una serie di campagne iniziate nel maggio 2001. L’abbondanza delle principali specie animali e vegetali su ogni struttura è stata stimata in alcuni studi mediante metodo visivo semi-quantitativo, in altri tramite la stima del ricoprimento percentuale con utilizzo di quadrati di dimensione 20 x 20 cm. I dati sono stati analizzati mediante tecniche di analisi univariate e multivariate. Lungo il tratto di costa analizzato, le strutture erano rappresentate principalmente da barriere frangiflutti e pennelli e in misura minore da: muri costieri, pennelli costruiti con sacchi di sabbia, pontili, strutture portuali, piloni e strutture presso foci fluviali. La maggior parte delle strutture era costruita con rocce calcaree naturali, e solo poche erano costruite in cemento, metallo o sacchi di PVC contenenti sabbia. L’età delle strutture era compresa fra i 5 ed i 30 anni. Le specie più abbondanti includevano Mytilus galloprovincialis, Enteromorpha intestinalis e ostriche (Ostrea edulis e Crassostrea gigas). Marcate differenze nei popolamenti sono state osservate in relazione alla tipologia della struttura e al materiale di costruzione. L’età delle strutture non sembra influenzare la composizione e la distribuzione dei popolamenti, probabilmente a causa dei frequenti lavori di manutenzione. Questi lavori mantengono i popolamenti sempre ai primi stadi di colonizzazione, impedendo il raggiungimento di stadi più maturi. Francesco Bagordo Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Igiene, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Gli epibatteri planctonici e la frazione luminescente nel controllo di qualità delle acque marine costiere L’aumento della pressione antropica sugli ambienti marini costieri richiede nuovi metodi per rilevare e quantificare le modificazioni indotte dalle attività umane basati non solo su un approccio antropocentrico ma finalizzati alla valutazione delle modificazioni qualiquantitative di componenti dell’ecosistema marino (bioindicatori). Dal punto di vista microbiologico, in particolare, la comunità batterica del plancton ha ricevuto sempre più attenzione, rivelando così il suo ruolo cardine all’interno delle reti trofiche dell’ambiente marino pelagico. I batteri sostengono, infatti, una complessa rete trofica capace di assorbire le immissioni di sostanza organica e di nutrienti. Secondo lo schema di Sieburth (1979) i batteri marini sono distinguibili nel gruppo dei cianobatteri autotrofi e nel gruppo dei batteri eterotrofi che, a loro volta, possono essere suddivisi in planctonbatteri (piccoli batteri planctonici che utilizzano la DOM) ed epibatteri (batteri di grandi dimensioni che preferiscono i substrati solidi). All’interno del gruppo degli epibatteri sono presenti alcune specie, appartenenti ai generi di Vibrio, Photobacterium e Alteromonas, con proprietà luminescenti estremamente sensibili agli stress ambientali (Girotti et al ., 2002; Ramaiah & Chandramohan, 1993). La stima della densità degli epibatteri eterotrofi planctonici e della componente luminescente mediante tecniche Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni colturali potrebbe rappresentare un parametro utile e sensibile per valutare l’alterazione della componente microbica eterotrofa del plancton la quale costituisce un anello fondamentale del flusso di materia ed energia nell’ambiente pelagico (Bacci et al., 1994; Sbrilli et al., 1997). Lo scopo della ricerca è lo studio della dinamica degli epibatteri planctonici e della frazione luminescente nelle acque di mare in relazione a stress ambientali causati da immissioni antropiche al fine di apportare un contributo alla valutazione delle possibilità applicative di tali componenti nel controllo di qualità delle acque marine costiere. Il programma di monitoraggio prevedeva il prelievo di campioni d’acqua in stazioni posizionate lungo la costa salentina e al largo. Per quanto riguarda il campionamento sottocosta sono stati fissati 16 siti dei quali 3 localizzati in prossimità di scarichi provenienti da attività umane, 1 nei pressi della foce di un bacino d’acqua salmastra (Alimini Grande) e 12 scelti come controlli. Le stazioni al largo erano posizionate in 2 transetti e a diversa distanza dalla costa (500, 1000 e 3000 m). Dal mese di novembre 2001 sono stati raccolti 226 campioni ciascuno dei quali è stato sottoposto ad indagini microbiologiche per la determinazione del numero di epibatteri totali (ABC, apparent bacteria concentration) e luminescenti, coliformi totali (CT), fecali (CF) e streptococchi fecali (SF). La densità degli epibatteri (totali e luminescenti) è stata determinata per filtrazione impiegando il terreno Seawater Complete (Nealson, 1978); le piastre sono state incubate a 20 °C ed esaminate dopo 48 ore. I risultati fin qui ottenuti evidenziano densità epibatteriche alterate nelle zone marine contaminate rispetto ai siti di controllo. In particolare, in prossimità dei punti di immissione sono state evidenziate cariche elevate di epibatteri totali e, contemporaneamente, valori minimi della frazione luminescente (<5%). In questi punti gli indicatori di fecalizzazione sono apparsi in media più concentrati. Nelle stazioni di controllo poste lungo la costa la densità degli epibatteri plantonici ha fatto registrare un andamento stagionale evidenziando nei mesi più caldi un incremento sia della popolazione totale che della componente luminosa. In assenza di indici di fecalizzazione la frazione luminescente è risultata >10% rispetto ai totali. I risultati del presente lavoro mettono in evidenza variazioni nel numero e composizione degli epibatteri legati all’apporto di sostanza organica e, presumibilmente, di sostanze tossiche nell’ambiente marino costiero. La determinazione della densità epibatterica totale e della frazione luminescente potrebbe rappresentare, perciò, uno dei parametri consigliabili durante le attività di monitoraggio marino costiero anche se la dinamica di tali componenti merita ulteriori approfondimenti. Bibliografia Bacci E., M. Bucci, G. Sbrilli, L. Brilli, F. Gambassi, C. Gaggi. 1994. Marine bacteria as indicators of water quality. Chemosphere 6:1165-1170. Girotti S, L. Bolelli, A. Roda, G. Gentilomi, M. Musiani. 2002. Improved detection of toxic chemicals using bioluminescent bacteria. Analytica Chimica Acta 471:113-120. Nealson K.H. 1978. Isolation, identification and manipulation of luminous bacteria. In: S.P. Colowick, N.O. Kaplan (eds), Methods in Enzymology. Vol 57. Academic Press, New York :153-165. Ramaiah N., D. Chandramohan. 1993. Ecological and laboratory studies on the role of luminous bacteria and their luminescence in coastal pollution surveillance. Marine Pollution Bulletin 4:190-201. Sbrilli G., M. Cruscanti, M. Bucci, C. Gaggi, E. Bacci. 1997. Marine heterotrophic bacteria as indicators in the quality assesment of coastal waters: introducing the “apparent bacterial concentration” approach. Environmental Toxicology and Chemistry 2:135-139. Sieburth J.M. 1979. Sea Microbes. Oxford University Press, New York. Leonardo Beccarisi Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Botanica, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Studio geobotanico sulle Pteridofite della Puglia Meridionale Le pteridofite sono organismi vegetali aplodiplonti, con alternanza di generazione eterofasica ed eteromorfica. Si tratta, prevalentemente, di specie nemorali e casmofite, frequentanti ambienti boschivi e rupestri, con esigenze idriche solitamente elevate sia per gli scopi della riproduzione sessuata (i gameti maschili sono flagellati), sia per la scarsa resistenza al disseccamento da parte del gametofito. La dispersione è anemocora e può avvenire anche su lunghe distanze 1, 2, 3. Il contingente floristico pteridofitico pugliese, ed in particolare quello salentino, è stato recentemente studiato, sia dal punto di vista propriamente floristico che fitostorico 4, 5. Il numero attualmente accertato di specie presenti in Puglia è pari a 30. Lo scopo della mia ricerca di dottorato è quello di descrivere su scala regionale, sensu FORMAN (1997) 6, la distribuzione delle specie di pteridofite presenti. L’area d’indagine comprende la Penisola salentina e le Murge sud-orientali, corrispondenti alle aree di distribuzione dei querceti sempreverdi e semi-decidui 7. Una ricerca preliminare è stata effettuata sulla base dei dati raccolti dal 1999 ad oggi da parte del Laboratorio di Botanica Sistematica ed Ecologia Vegetale dell’Università di Lecce, su un’area geografica di circa 2500 km2 e corrispondente all’estrema parte meridionale della Puglia. Essa mette in evidenza una distribuzione non omogenea di alcune specie di pteridofite, quali Pteridium aquilinum (L.) Kuhn ed Adiantum capillus-veneris L. In particolare, si evince una distribuzione asimmetrica nella direzione est – ovest, con una maggiore frequenza di tali specie sul versante orientale rispetto a quello occidentale. Inoltre, Adiantum capillus-veneris dimostra, contemporaneamente alla progressiva rarefazione nell’ambiente epigeo da est ad ovest, un confinamento all’interno di ambienti ipogei (ingressi delle grotte carsiche e delle cavità artificiali). Presumibilmente in tali habitat la specie ritrova le condizioni microclimatiche necessarie, non rinvenibili nel piano campagna. Tale fenomeno potrebbe essere interpretato come una variazione geografica della nicchia ecologica. Si osserva, inoltre, che i valori delle precipitazioni nell’area in oggetto hanno il loro mas-simo sulla costa orientale (840-860 mm di pioggia media annua), raggiungendo i valori minimi (560 mm) sulla costa occidentale 8. La mia ipotesi di lavoro è di una correlazione tra la 3 distribuzione delle pteridofite ed alcune variabili ambientali indirette 9, in particolare la pluviometria e la pedomorfologia. Verrà definita la distribuzione di ogni singola specie attraverso la realizzazione di carte corologiche su un griglia geografica il cui passo è ancora in fase di definizione. Per ogni specie sarà possibile indagare sulla ipotizzata correlazione tra le distribuzioni della specie e delle variabili ambientali considerate, attraverso oppurtune tecniche analitiche (regressione logistica, ad esempio 10). La comprensione delle caratteristiche fitosociologiche delle specie costituisce un secondo obiettivo della mia ricerca. Tale indagine consentirà di definire le specificità di habitat e di formulare modelli di distribuzione su scala locale. La raccolta dei dati vegetazionali sarà effettuata secondo il metodo fitosociologico di Braun-Blanquet. L’integrazione dei dati vegetazionali e di quelli corologici potrà avvenire attraverso un processo di scaling up con l’impiego di una carta dell’uso del suolo (CORINE Land Cover). Bibliografia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Giacomini V. 1943. Saggio fitogeografico sulle pteridofite d’Italia. In: Fiori A., Flora Italica Cryoptogama, V: Pteridophyta. Soc. Bot. Ital., Firenze :457-574. Cain M. L., B.G. Milligan, A.E. Strand. 2000. Long-distance seed dispersal in plant populations. American Journal of Botany 87:1217-1227. Wolf P.G., H. Schneider, T.A. Ranker. 2001. Geographic distributions of homosporous ferns: does dispersal obscure evidence of vicariance? Journal of Biogeography 28:263-270. Beccarisi L., L. Chiriacò, S. Marchiori, P. Medagli. 2001. Felci (Filicopsida) spontanee del Salento (Puglia, Italia). Inform. Bot. Ital. 33:341-349. Beccarisi L., L. Chiriacò. 2002. Indagine fitogeografica sulle felci delle grotte pugliesi. III Conv. Spel. Pugliese, Castellana Grotte, 6-8 dicembre 2002. Grotte e Dintorni 4:149-158. Forman R.T.T. 1997. Land Mosaics. The ecology of landscapes and regions. Cambridge University Press, 632 pp. Macchia F., V. Cavallaro, L. Forte, M. Terzi. 2000. Vegetazione e clima della Puglia. In: S. Marchiori, F. De Castro, A. Myrta (eds), La cooperazione italo-albanese per la valorizzazione della biodiversità. Bari, CIHEAM: 33-49. Zito G., C. Mangia, L. Ruggiero, F. Zuanni, G. Cacciapaglia. 1993. Precipitazioni in Puglia. Atti 3° Workshop Clima Ambiente e Territorio nel Mezzogiorno. Potenza 26-29 novembre 1990, I:367-416. Guisan A., K.E. Zimmermann. 2000. Predictive habitat distribution models in ecology. Ecological Modelling 135:147-186. Vanderpoorten A., P. Engels. 2002. The effects of environmental variation on bryophytes at a regional scale. Ecography 25:513-522. Francesca Bertozzi Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Scienze Ambientali, Università di Bologna, via Tombesi dall’Ova 55, 48100 Ravenna e.mail: [email protected] Effetto dell’introduzione di habitat artificiali sulla struttura genetica del mollusco gasteropode Patella caerulea nel bacino mediterraneo della biodiversità a tutti i suoi livelli. In particolare, le zone costiere sono considerate maggiormente a rischio, in quanto densamente popolate e sede di molte attività economiche. Uno dei problemi principali legati all’azione dell’uomo riguarda l’alterazione degli habitat naturali che si può riflettere in una variazione dei pattern della biodiversità a livello genetico. In ambiente marino l’introduzione lungo coste sabbiose di strutture artificiali per la difesa delle coste permette l’insediamento di specie tipiche di fondi rocciosi precedentemente assenti nella zona. Tali alterazioni possono influire sulla dinamica di popolazione e influenzare la variabilità a livello genetico, in particolare per quelle specie animali e vegetali con fasi riproduttive con un limitato potenziale di dispersione. Lungo il versante adriatico delle coste italiane, prevalentemente sabbioso, sono state costruite negli ultimi decenni numerose strutture artificiali a difesa della linea di costa soggetta a costanti fenomeni di erosione. L’introduzione di questi habitat artificiali può incrementare il flusso genico tra popolazioni naturalmente isolate fra loro, fungendo da corridoio ecologico e riducendo così il differenziamento genetico interpopolazionale. La specie oggetto di questo studio è il mollusco gasteropode Patella caerulea comunemente distribuito lungo le coste rocciose del bacino mediterraneo: l’ampia distribuzione e le relativamente limitate capacità di dispersione di questa specie la rendono un valido soggetto per valutare l’impatto che l’introduzione di habitat artificiali può avere sulla distribuzione della biodiversità a livello genetico. Il campionamento di P. caerulea è stato impostato secondo un disegno di tipo gerarchico. Nell’estate del 2002 sono stati prelevati campioni da 8 diverse località del Nord Adriatico lungo un tratto di costa di circa 400 km (Trieste, Lido Adriano, Lido di Classe, Lido di Dante, Cesenatico, Gabicce e Ancona), il campionamento verrà completato nel corso dell’estate 2003 e includerà 3 ulteriori siti a sud di Ancona. La struttura genetica di P. caerulea viene indagata utilizzando sia marcatori biochimici (allozimi) che marcatori molecolari (microsatelliti) al fine di ottenere un confronto tra le due metodiche nella stima del flusso genico. Avvalendosi di protocolli già sviluppati sono stati messi a punto 12 sistemi enzimatici codificanti per 14 loci, mentre, non essendo presenti in letteratura loci microsatelliti per la specie in esame, si sta quindi procedendo all’isolamento dei loci microsatelliti e dei relativi primers. I risultati preliminari ottenuti dall’analisi dei campioni provenienti da Trieste, Cesenatico e Conero, mediante l’elettroforesi degli allozimi, hanno messo in evidenza che la variabilità intrapopolazionale nell’area esaminata è piuttosto bassa ma la presenza di alcuni alleli privati, seppur a bassa frequenza, sembra suggerire la presenza di limitazioni al flusso genico. Questo studio si inserisce nell’ambito del progetto di ricerca “EUMAR” (European marine genetic biodiversity) finanziato dall’Unione Europea che ha tra i suoi obiettivi la stima dell’impatto che l’introduzione di habitat artificiali ha sulla biodiversità a livello genetico di organismi marini. I dati genetici raccolti, integrati con quelli demografici, potranno essere utilizzati per lo sviluppo di modelli previsionali per la dinamica delle specie. L’uomo con le sue numerose attività esercita forti impatti sugli ecosistemi naturali minacciando la conservazione 4 Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni Nicola Bianchi Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali, Università di Siena, via P.A. Mattioli 4, 53100 Siena e.mail: [email protected] Valutazione dello stato di contaminazione nel falco della regina (Falco elonorae Genè, 1839) attraverso l’utilizzo di metodologie non distruttive Il falco della regina presenta una scarsa consistenza numerica mondiale, stimata intorno a 4000–5000 individui. La sua distribuzione risulta assai localizzata sia nell’area di riproduzione (per lo più nel bacino del Mediterraneo) che in quella di svernamento (Madagascar e Arcipelago delle Mascarene). Per questi due fattori naturali la specie è potenzialmente vulnerabile alle possibili minacce di natura antropica tra le quali quella dell’inserimento nell’ambiente di sostanze di sintesi potenzialmente tossiche che potrebbero indebolire le capacità vitali e riproduttive della specie. Questo tipo di minaccia risulta probabile in una specie come il Falco della Regina che occupa nel periodo riproduttivo una posizione trofica da super predatore, nutrendosi di altri uccelli a loro volta con posizioni trofiche elevate. I meccanismi di biomagnificazione delle sostanze tossiche potrebbero in questo caso essere particolarmente intensi. Data l’assenza di studi precedenti effettuati su questa specie, questo lavoro si pone l’obbiettivo di valutare con tecniche di indagine non distruttive, il pericolo potenziale tossicologico dei falchi della regina della colonia dell’isola di S. Pietro a seguito di esposizione a contaminanti persistenti. I dati a carattere ecotossicologico sono accompagnati da osservazioni dirette sulle strategie alimentari e sulle variazioni annuali dei regimi alimentari in modo da individuare tra le prede le specie che compaiono con più frequenza. Le specie predate possono cosi essere considerate la fonte primaria dell’assunzione dei contaminanti e potranno essere correlate con i contaminanti accumulati ed i relativi effetti su questa specie. Il materiale di studio è rappresentato da campioni di excreta di pulli e adulti, boli gastrici, penne delle prede, tessuti di prede, tessuti relativi ad individui trovati morti. I campioni vengono prelevati dai nidi quando i giovani sono prossimi all’involo e si allontanano dal nido; in questo modo l’impatto con la colonia viene ridotto al minimo. Sulle penne e tessuti delle prede e sui boli gastrici vengono misurate le concentrazioni degli elementi in tracce, sugli excreta sia la concentrazione degli elementi in tracce che la concentrazione delle porfirine in particolare delle coproporfirine, uroporfirine e protoporfirine. boschi di latifoglie della Toscana, costituiscono parte di un ampio programma di ricerca nazionale, denominato CON.ECO.FOR. (Programma Nazionale Integrato per il Controllo degli Ecosistemi Forestali). Tale programma di ricerca, avviato dal 1995, è gestito e coordinato dalla Direzione Generale delle Risorse Forestali, Montane ed Idriche del Ministero per le Politiche Agricole e Forestali. Nel 1994, con l’emanazione del Reg. 1091/94, l’Unione Europea, in stretto contatto con i programmi svolti nell’ambito dell’ONU-ECE (ICP Forest e ICP Integrated Monitoring), ha promosso la realizzazione di una Rete Europea di aree permanenti per la sorveglianza intensiva e continua degli ecosistemi forestali della durata di almeno 20 anni. Nel 1995 la Regione Toscana ha attivato il programma MON.I.TO. (MONitoraggio Intensivo delle foreste TOscane) al fine di fornire informazioni sugli aspetti strutturali e funzionali degli ecosistemi forestali della Toscana. La Regione Toscana ha contribuito all’implementazione della rete CON.ECO.FOR. prima con l’area di Colognole e poi con quelle di Vallombrosa e Cala Violina. Le analisi delle deposizioni umide sono state attivate dal 1997 e si svolgono in maniera continua, attualmente solo su Colognole, con un campionamento settimanale. Questo studio si svolge mediante il campionamento di deposizioni bulk a cielo aperto (openfield), deposizioni raccolte sotto la chioma della vegetazione (throughfall) e lungo il tronco degli alberi (stemflow). I parametri chimici determinati sono i seguenti: pH, conducibilità, alcalinità e concentrazione delle diverse specie ioniche, quali calcio, magnesio, sodio, potassio, azoto ammoniacale, azoto nitrico, solfato, cloruro ed azoto totale. Il fine è quello di valutare le caratteristiche chimiche delle precipitazioni in ecosistemi forestali, analizzare le principali trasformazioni che le precipitazioni subiscono in seguito al passaggio attraverso le chiome e stabilire l’entità dei flussi di deposizione in tali aree. Le analisi dello stato nutrizionale ed elementi in tracce nelle foglie degli alberi, sono state attivate dal 1995 ed attualmente si svolgono ogni due anni, in tre aree di saggio (Vallombrosa, Colognole, Cala Violina). L’analisi chimica di campioni di foglie di specie arboree (Fagus sylvatica L., Quercus ilex L.), molto comuni in Toscana, consiste nella valutazione dei livelli di macro- e microelementi (N, S, P, Ca, Mg, K, Na, Fe, Zn, Cu, Mn, Al, B, Pb). L’analisi chimica fogliare rappresenta uno strumento attendibile per valutare le concentrazioni dei nutrienti fogliari e lo stato delle foreste. Lo scopo di questo progetto è di quantificare una serie di indicatori chimici per la caratterizzazione dei sistemi forestali toscani e di compararli con altre aree geografiche per sviluppare un adeguato programma di monitoraggio atto a seguire le variazioni a carico degli ecosistemi forestali, in seguito ai previsti effetti dei contaminanti atmosferici e dei cambiamenti climatici. Moira Bianconi Rossano Bolpagni Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Università di Siena, Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, via P.A. Mattioli 4, 53100 Siena e.mail: [email protected] Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Dipartimento di Scienze Ambientali, Università di Parma, Parco Area delle Scienze 33A, 43100 Parma e.mail: [email protected] Deposizioni atmosferiche totali e stato chimico delle foglie in boschi di latifoglie della Toscana Lo studio della chimica delle deposizioni atmosferiche umide e lo studio del contenuto chimico delle foglie in Adattamenti di macrofite radicate in sedimenti di ambienti umidi a diverso grado di anossia: implicazioni per i cicli biogeochimici dei nutrienti e i processi microbici nella rizosfera Le zone umide e litoranee sono considerate ecotoni, vale 5 a dire zone di transizione tra ecosistemi distinti in cui si vengono a instaurare particolari equilibri tra il comparto biotico e le variabili ambientali, influenzate dalle interazioni tra gli elementi che ne definiscono la fisionomia. Colonizzate da specie in grado di ovviare alle limitazioni imposte dalle caratteristiche inospitali di un sedimento perennemente o periodicamente anossico, sono caratterizzate da tassi molto elevati di produttività, sostenuti dall’elevata disponibilità di nutrienti e dai bassi tassi di competizione. Presentano un equilibrio delicato, fortemente minacciato dallo sfruttamento umano del territorio che progressivamente porta ad eliminare i gradienti naturali tra gli elementi che costituiscono il paesaggio. La superficie da esse occupata è in continua riduzione anche se la maggior parte dei bacini di acqua dolce sulla superficie della terra presentano conformazioni e profondità medie che faciliterebbero la colonizzazione da parte delle comunità di macrofite tipiche di tali ambienti. Nei sedimenti saturi d’acqua il trasporto dei gas è fortemente inibito dalla lentezza dei processi diffusivi e lo scarso ossigeno disponibile viene rapidamente consumato dai processi di respirazione e riossidazione; ne risulta una condizione di stato riducente e anossico in cui la disponibilità dei nutrienti è ridotta. Le macrofite riescono ad insediarsi su sedimenti riducenti di corpi idrici grazie a particolari adattamenti che permettono loro di sopravvivere in tali particolari condizioni. Concentrazioni elevate di ammonio, solfuri liberi e prodotti terminali delle fermentazioni determinano condizioni chimicamente svavorevoli alla sopravvivenza della maggior parte degli organismi superiori. Le modalità utilizzate dalle macrofite per procurarsi i nutrienti necessari al sostentamento sono determinate dalle loro particolari strategie adattative. Le macrofite radicanti in suoli umidi modificano l’ambiente nel quale vivono alterando le proprietà chimiche e fisiche del sedimento e della colonna d’acqua in cui si accrescono. A livello della rizosfera, le conseguenze più evidenti riguardano le variazioni dei valori di pH, del potenziale redox e di scambio cationico, imputabili principalmente agli scambi di ossigeno e anidride carbonica mediate dall’apparato radicale. Il trasporto di ossigeno dall’apparato fotosintetizzante alle radici estende a livello subsuperficiale il sottile strato ossico presente normalmente all’interfaccia acqua-sedimento. Si viene così a creare una microstratificazione costituita da tre zone: una sottile zona ossica, che circonda la radice come fosse una guaina, in cui si realizzano processi metabolici aerobici, un’adiacente zona ossidata nella quale non è presente ossigeno ma accettori alternativi di elettroni come il nitrato, il solfato o il ferro ferrico ed infine una zona strettamente anaerobica in cui i processi redox sono mediati da molecole organiche. L’ossigenazione della rizosfera è permessa dall’attivazione all’interno della pianta di meccanismi di trasporto di gas che permettono in tal modo di attivare processi di mobilizzazione dei nutrienti minerali e di decomposizione, minimizzando i limiti posti dalla natura fortemente riducente dei sedimenti. I meccanismi che intervengono nel processo di trasporto di gas all’interno della macrofite radicate permettendo di veicolare ossigeno alle sue ramificazioni radicali (rizoma e radici) sono molteplici, vincolati dalle caratteristiche anatomiche dei differenti comparti funzionali delle singole specie e dalle caratteristiche edafiche dell’ambiente a cui si sono adattate. 6 Per questo motivo la comprensione dei meccanismi fisiologici di adattamento delle macrofite e le implicazioni che tali meccanismi hanno per le comunità microbiche e per le dinamiche dei nutrienti risulta estremamente importante e, al momento, poco approfondita. Daniela Bucalossi Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali, Università di Siena, Via Mattioli, 4, 53100 Siena e.mail: [email protected] Biomarkers in Posidonia oceanica per la valutazione dell’impatto ecotossicologico sull’ambiente costiero La Posidonia oceanica è una fanerogama comune nel bacino del Mediterraneo. Essa forma vaste praterie lungo le coste e ricopre un ruolo ecologico fondamentale non solo per la produzione di materiale organico e di ossigeno, ma anche perchè è luogo di riparo e nursery per molte specie di animali e vegetali. È inoltre importante nel mantenimento dell’equilibrio dei litorali contenendo l’erosione costiera. La regressione dei sistemi a Posidonia oceanica è testimoniata ormai in tutta l’area mediterranea, con la parallela scomparsa delle specie animali e vegetali ad essa associate che trovano nelle praterie il loro habitat elettivo. La regressione è dovuta sia alle azioni meccaniche (uso di reti a strascico e ancoraggi) sia agli scarichi urbani, industriali e alla costruzione di opere marittime. Questo progetto si propone di utilizzare la Posidonia oceanica come bioindicatore per capire il livello di degrado e fornire una misura della qualità di uno degli ambienti più minacciati dall’inquinamento: l’ambiente costiero. L’utilizzo di Posidonia oceanica come indicatore biologico di inquinamento chimico risale agli anni ‘80. In effetti questa fanerogama presenta tutte le qualità richieste per una utilizzazione in questo senso: specie bentonica, longeva, largamente diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo e capacità di bioaccumulo di contaminanti persistenti. Il principale scopo di questo lavoro è quello di validare alcuni biomarker, in Posidonia oceanica, quali indicatori sensibili di esposizione e/o di effetto ai contaminanti. In base alle attuali conoscenze sulla anatomia e fisiologia della Posidonia oceanica è possibile prendere in considerazione la variazione di alcuni parametri biochimici che subiscono alterazioni indotte da contaminanti chimici, che possono essere utilizzati come biomarker. Sono state a tale scopo messe a punto delle metodologie di analisi per la misura di biomarker quali: l’attività degli enzimi antiossidanti (Superossido Dismutasi, Perossidasi, Stato Antiossidante Totale) e le monoossigenasi a funzione mista (ECOD e NADH citocromo c reduttasi). Queste tecniche sono state inizialmente verificate su campioni di Posidonia oceanica trattati sperimentalmente con metalli pesanti (Pb, As, Cd), estratto acquoso di petrolio greggio (EAPG) e idrocarburi policiclici aromatici (benzo-á-pirene, 20-metil-colantrene). Successivamente i vari test sono stati applicati ad alcune praterie di Posidonia oceanica nel Golfo di Napoli per valutare l’impatto antropico sulla fanerogama con la prospettiva di poter applicare in futuro le metodologie messe a punto in questo lavoro ad altre aree costiere del Mediterraneo, così da poter allargare la conoscenza sullo Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni stato di salute di una delle specie endemiche ecologicamente più importanti dei nostri mari. Romina Calabrese Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Botanica Sistematica ed Ecologia Vegetale, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Tipologia e dinamica dei boschi e della macchia mediterranea del Salento Il Salento, floristicamente inteso, comprende la parte meridionale della Puglia, corrispondente all’area amministrativa della provincia di Lecce e parte di quelle di Brindisi e Taranto estendendosi a nord fino all’isoipsa 100 m e a sud fino al Capo di S. Maria di Leuca. Il territorio salentino presenta un macroclima mediterraneo e precisamente Termomediterraneo sulla costa e Mesomediterraneo all’interno, con isoterme annue comprese tra i 17 °C e 16 °C, ed isoiete tra 600 mm e 650 mm, con un massimo di 850 mm in corrispondenza delle serre salentine. (Macchia, 1984). Dal punto di vista geologico la piattaforma è costituita principalmente da strati e banchi di calcare, di calcari dolomitici e di dolomie ed i suoli rientrano nella zona pedoclimatica delle terre rosse o delle terre brune dei luoghi semiaridi, caratterizzati, inoltre, da una spiccata superficialità spesso accompagnata dalla presenza di roccia affiorante e da scheletro. Dall’osservazione dei resti vegetazionali e dallo studio delle serie dinamiche (Caniglia et al., 1984; Lorenzoni e Ghirelli, 1988), si deduce come la vegetazione originaria fosse floristicamente uguale ma strutturalmente diversa da quella attuale, quindi facente parte dei boschi mediterranei di sclerofille (classe Quercetea ilicis Br.-Bl. 1947). Le cenosi forestali presenti nel Salento sono il risultato di millenni di attività di pascolamento, incendi, agricoltura intensiva seguite da periodi di abbondono dei terreni. Tutto ciò ha determinato la frammentazione e riduzione dell’antico manto vegetale, che vedeva nel medioevo l’intero territorio salentino ricoperto da sei grandi foreste, mentre attualmente presenta un indice di boscosità fra i più bassi d’Italia. La vegetazione attuale è caratterizzata dalla dominanza degli stadi della serie climacica rappresentati da pseudosteppe, garighe, macchie basse e alte, boscaglie. A completamento degli studi fitosociologici, effettuati finora, sulla serie dinamica, ed in particolare sui primi due stadi, (Albano, 1998, Scandura, 2000), questa tesi di dottorato si propone di dare un contributo alla tipizzazione fitosocioliogica delle macchie e dei boschi del Salento il cui inquadramento sintassonomico non è ancora ben definito e all’analisi delle serie dinamiche e catenali della vegetazione. Rilievi fitosociologici secondo il metodo della scuola sigmatista di Zurigo-Montpellier (Braun-Blanquet, 1951) sono stati eseguiti nel corso del 2001/2002 relativamente al Salento centro-settentrionale. Sulla matrice a due vie, specie/rilievi, ottenuta è stata eseguita l’analisi multivariata applicando l’algoritmo del legame completo (Anderberg, 1973; Orlòci, 1978; Podani, 1994) sulla matrice di somiglianza “similarity ratio” (Westoff & Van Der Maarel, 1978). Il software del Sistema Informatico usato è costituito da due programmi: Arcveg 2 per la banca dati, Matedit per l’elaborazione delle matrici (Burba et al., 1992). Al fine di definire i caratteri strutturali delle vegetazioni l’analisi multivariata è stata effettuata anche sulle due matrici ottenute, dai valori di copertura e di altezza dei quattro strati: arboreo, arbustivo alto, arbustivo basso, erbaceo. Sulle tabelle fitosociologiche, inoltre sono stati calcolati gli spettri biologici e corologici ponderati e gli indici ecologici di Landolt Le cenosi boschive variano per estensione, fisionomia, copertura, stratificazione e composizione floristica. Le principali tipologie strutturali presenti sono rappresentate da rare fustaie, con prevalenza dello strato arboreo mediamente alto 16,8 m; cedui matricinati, caratterizzati da uno strato arboreo equietaneo alto (8 m); macchie alte e inestricabili per il fitto strato arbustivo alto (4 m), macchie basse di altezza media di 2,2 m. Gli aggruppamenti vegetali principali evidenziati dall’analisi condotta appartengono alla classe Quercetea ilicis Br.-Bl. 1947, con situazioni più mesofile orientate verso il Quercion ilicis Br.-Bl. 1936 em. Rivas Martinez 1975, nell’interno del territorio e su suoli più evoluti, mentre lungo la costa, si riscontrano vegetazioni più termofile, appartenenti all’alleanza Oleo-Ceratonion Br.-Bl. 1936 em. Rivas-Martinez 1975. La separazione tra le due cenosi non è netta, si hanno numerosi casi di compenetrazione dovute sia a ragioni ambientali sia al continuo rimaneggiamento da parte dell’uomo. Della prima alleanza, nel Salento troviamo le specie caratteristiche del Viburno-Quercetum ilicis (Br.-Bl. 1936) Rivas Martinez 1975, boschi di leccio, che nella parte centro meridionale della penisola salentina, sono vicariate da boschi di quercia spinosa (Arbuto-Quercetum calliprinii Brullo, Minissale, Signorello Spampinato 1986). All’Oleo-Ceratonion Br.-Bl. 1936 em. Rivas-Martinez 1975, appartengono gli stadi di degradazione della lecceta come il Calicotomo infestae-Myrtetum communis Scandura, Marchiori 2000. Inquadrare fitosociologicamente le vegetazioni naturali e stabilire in quale stadio della successione ecologica la vegetazione in esame si colloca, fornisce una valutazione qualitativa e quantitativa della biodiversità vegetale da cui partire negli interventi di tutela. La lecceta è stata classificata habitat di interesse comunitario con la dizione di “Foreste di Quercus ilex”, secondo la direttiva 92/43/ CEE, nota come “Direttiva Habitat”. Bibliografia Andberg M.R. 1973. Cluster Analysis for application. Academic Press, New York. Braun-Blanquet J., N. Roussine, R. Negre. 1952. Les groupements vegetationaux de la France Mediterraneenne. C.N.R.S., Service de la carte des groupements vègètaux, Montpellier. Macobet Frères, Vaison la Romaine (Vanclure). Brullo S., P. Minissale, P. Signorello, G. Spampinato. 1986. Studio fitosociologico delle garighe a Erica manipuliflora del Salento (Puglia meridionale). Arch. Bot. Biogeogr. Ital. 62:201-204. Burba N., E. Feoli, M. Malaroda, V. Zuccarello. 1992. Manuale di utilizzo dei programmi. Sistema Informativo per la Vegetazione. Collana quaderni C.E.T.A. N°2, Gorizia. Caniglia G., F. Chiesura Lorenzoni, L. Curti, G.G. Lorenzoni, S. Marchiori, S. Razzara, N. Tornadore Marchiori. 1984. Contributo allo studio fitociologico de Salento meridionale (Puglia - Italia merionale). Arch. Bot. Biogeogr. Ital. 60:340. 7 Lorenzoni G.G., L.Ghirelli. 1988. Lineamenti della vegetazione del Salento (Puglia meridionale - Italia). Thalassia Salentina 18:11-19. Macchia F. 1984. Il Fitoclima del Salento. Not. Soc. Ital. Fitosoc. 19:29-60. Orlòci L. 1978. Multivariate analysis in vegetation research. Junk, The Hague, 2nd ed. Podani J. 1997. Syn-Tax 5.1 pc. Supplement to the User’s Manual. Suppl. a Syn-tax pc. Computer programs for multivariate analysis in Ecology and Systematics. Version 5.0. Scientia Publishing, Budapest. Rivas-Martinez S. 1975. La vegetación de la clase Quercetea ilicis en España y Portugal. Anal. Inst. Bot. Cavanilles 31:205-259. Westoff V., E. Van Der Maarel. 1978. The Braun Blanquet approach 2nd ed. In: R.H. Whittarkr (ed.), Classification of Plant Community. Junk, The Hague. dimensioni del branco. In particolare, si vuole analizzare il ruolo del fenomeno della dispersione, della mortalità naturale o causata dall’uomo, e della disponibilità delle risorse trofiche. 3) Valutazione del turn over all’interno di ciascun branco. Prevede la valutazione dell’incidenza del fenomeno nelle diverse classi, volta all’individuazione delle possibili cause, e delle eventuali correlazioni tra stabilità dei componenti del branco e comportamento spaziale. Claudia Capitani Biodiversità e sociodiversità Dottorato di Ricerca in Biologia Ambientale, Università di Sassari Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Zoologia e Antropologia Biologica, corso Margherita di Savoia 15, 07100 Sassari e.mail: [email protected] La ricerca assume come frame il testo della Cdb (Convenzione sulla biodiversità) poiché è un accordo “normativo-operativo”, potenzialmente valido, a livello mondiale, per l’intera biosfera (Shiva, 2001). Isolandone alcune delle definizioni ed indicazioni si articola un percorso di ricerca che, cominciando dalla discussione sulle definizioni di “biodiversità”, “conservazione”, etc., in ecologia (I fase), e sulle ragioni della loro crescente centralità (II fase), cerca di individuare quali fattori socioculturali influiscano sulla riduzione e/o perdita della biodiversità (III fase); con l’obiettivo di testare l’ipotesi fondamentale della ricerca, che, anche in rapporto alle biotecnologie, la conservazione della biodiversità sia una questione strutturale per le società avanzate (IV fase); sia inseparabile da una valutazione dei paradigmi socioculturali dominanti (Beato, 1993). Da ultimo si esamina la possibilità, individuata anch’essa dalla Cdb, che un confronto con “culture non-occidentali” sviluppatesi per secoli in una relazione mutualistica con i rispettivi ecosistemi, possa favorire sia la formazione di una “coscienza ecologica” (Strazzeri, 2000), sia le pratiche della Conservazione (V fase). Possibilità quest’ultima ribadita anche dall’UNEP: “There is an emerging realization that a major part of conservation of biological diversity must take place outside of protected areas and involve local communities. (…) Indigenous agricultural practices have been and continue to be important elements in the maintenance of biodiversity, but these are being displaced and lost. (Global Environmental Change: Human and Policy Implications, 1995)”. Il metodo proposto è quello di un approccio multidisciplinare , ad una questione valutata come “rilevante” sotto molteplici aspetti, in modo da delinearne la complessità e le interazioni tra i fattori. Si tratta d’individuare, tenendo conto dei diversi apporti, se vi siano, e quali siano le, aree di confine tra le diverse discipline (ecologia, sociologia, biologia, economia; Corlianò 2001), in cui sia possibile un interscambio di modelli e concetti, che fornisca uno griglia per la raccolta, organizzazione, comparazione e integrazione di dati già disponibili nei singoli ambiti disciplinari che convalidino/ invalidino le ipotesi avanzate; in vista di una “specializzazione in rapporti e contesti” (Beck, 2000). Dinamica di una popolazione di lupo (Canis lupus) nell’Appennino centro-orientale Il progetto di ricerca riguarda lo studio di una popolazione di lupo distribuita in una regione che comprende parte della dorsale Appenninica centro-orientale e alcuni massicci secondari adiacenti e che è caratterizzata da un’elevata percentuale di copertura boscosa del territorio e dall’abbondanza di ungulati selvatici. Nell’area è presente un sistema di Oasi di Protezione e Riserve Naturali e un Parco Nazionale, ma il lupo è diffuso anche oltre i loro confini, in aree interessate da attività antropiche quali l’allevamento e la caccia. Lo studio si avvale di metodi d‘indagine non invasivi, in particolare lo snow-tracking e il wolf-howling. Inoltre è stata potenziata la ricerca di campioni analizzabili per la marcatura genetica degli individui, sia mediante snowtracking, sia con l’utilizzo di trappole appositamente preparate. Le trappole per peli costituiscono un metodo non invasivo di stima dell’abbondanza di una specie e rappresentano una recente applicazione dell’analisi genetica. Lo scopo dello studio è di valutare le fluttuazioni spaziotemporali della densità dei lupi nell’area di studio, in relazione alla disponibilità di prede e alle caratteristiche ambientali, e identificare i fattori che influiscono sulla numerosità dei branchi e le loro dimensioni. La ricerca si articola su tre livelli: 1) Analisi del modello di distribuzione e espansione dei branchi presenti sul territorio. Prevede la localizzazione e la verifica del numero di branchi presenti nel corso degli anni. Le caratteristiche ambientali delle aree occupate sono analizzate al fine d’individuare l’areale potenzialmente fruibile dal lupo e valutare il suo grado di saturazione. Attraverso l’analisi genetica, invece, si rilevano le relazioni parentali che intercorrono tra i branchi, in modo da determinare le tendenze dei flussi migratori. 2) Studio delle variazioni numeriche della composizione dei singoli branchi. Prevede la verifica del numero di membri presenti in ciascun branco e delle sue variazioni, al fine di valutare l’influenza di fattori antropici, comportamentali e ambientali sulla regolazione delle 8 Luca Carbone Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Sociologia Generale, Dipartimento di Scienze Sociali e della Comunicazione, Università di Lecce, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Bibliografia Beato F. 1993. Rischio e mutamento ambientale globale: percorsi di sociologia dell’ambiente. Angeli, Milano. Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni Beck U. 2000. La società del rischio. Carocci, Roma. Corlianò E. 2001. La sfida della sostenibilità: culture ecologiche e limiti dello sviluppo. Pensa, Lecce. Strazzeri M. 2000. Per una ecologia della comunicazione. Pensa, Lecce. Shiva V. 2002. Il mondo sotto brevetto. Feltrinelli, Milano. Daniela Casu Dottorato di Ricerca in Analisi e Gestione degli Ecosistemi Naturali, Università di Sassari Dipartimento di Zoologia e Antropologia Biologica, Università di Sassari, corso Margherita di Savoia 15, 07100 Sassari e.mail: [email protected] Valutazione dello stato di conservazione di ambienti marini dell’Isola dell’Asinara (AMP) attraverso l’analisi delle comunità bentoniche Lo studio degli impatti umani, in ambiente marino è un argomento di considerevole interesse e le aree costiere sono probabilmente tra i sistemi naturali che ne risentono maggiormente. Uno dei principali disturbi sulle comunità del meso- infralitorale superiore è dovuto alla frequentazione da parte dell’uomo, soprattutto in aree marine protette (AMP). Lo studio degli impatti dei visitatori in queste aree ha interessato diversi autori ed i risultati ne hanno evidenziato gli effetti negativi sui popolamenti bentonici sia vegetali sia animali (Brown & Taylor, 1999, J. Exp. Mar. Biol. Ecol. 235:45-53; Milazzo et al., 2002, J. Mar. Biol. Ass. U.K. 82:745-748). La ricerca svoltasi durante il corso di dottorato nell’area marina protetta dell’Isola dell’Asinara (Sardegna NW), ha consentito di valutare lo stato di conservazione dei popolamenti zoobentonici in alcune aree sensibili e/o interessate da differenti attività antropiche. Nel mese di gennaio 2002, è stato condotto uno studio pilota in una cala ‘entry no-take’ (Cala Giordano) scarsamente frequentata durante il periodo estivo. Tale studio si è reso necessario sia per valutare strutturalmente lo zoobenthos di substrato roccioso associato ad alghe dell’infralitorale superiore, sia per mettere a punto il disegno di campionamento da applicare nello studio definitivo. L’analisi costi - benefici ha consentito di individuare il numero ottimale delle aree e delle repliche da utilizzare durante i campionamenti successivi; l’ANOVA sui dati di abbondanza dei taxa ha permesso di definire la taglia del campione. Nel mese di maggio, prima della stagione turistica, sono state campionate tre cale situate nel versante orientale dell’isola dell’Asinara: Cala Sant’Andrea (no-entry no– take), Cala d’Arena (no-entry no-take) e Cala Sabina (entry no-take). Nei mesi di giugno e luglio, sono state compiute osservazioni in “campo” nell’unica cala frequentata dai turisti (Cala Sabina), allo scopo di verificarne i loro comportamenti e di stimare l’intensità del ‘trampling’ (calpestio) sulla comunità oggetto di studio. Tali osservazioni hanno inoltre permesso di ricavare un numero congruo di calpestii da riprodurre nel disegno sperimentale, applicato alle aree campione delle cale non fruibili. In agosto è stato condotto l’esperimento con simulazione di ‘trampling’ nelle due cale no-entry no-take e, immediatamente dopo, sono stati prelevati i campioni per le successive analisi tassonomiche, includendo anche le aree di controllo e Cala Sabina, nella quale il calpestio é direttamente prodotto dai turisti. Allo scopo di verificare la successiva evoluzione della comunità sono stati ripetuti i campionamenti in due periodi successivi alla simulazione di ‘trampling’. Addolorata Cavallo Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Zoologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Efficienza di rimozione del particolato organico nelle specie filtratrici Sabella spallanzanii e Branchiomma luctuosum (Annelida: Polychaeta) Il progetto di ricerca si inserisce in un quadro più ampio che riguarda l’utilizzo del sabellidi Sabella spallanzanii e Branchiomma luctuosum (Annelida: Polychaeta) nel trattamento dei reflui di impianti di acquacoltura in associazione con filtri meccanici. L’utilizzo di queste specie come potenziali biorimediatori potrebbe comportare una nuova visione delle tecniche di trattamento delle acque con elevato carico organico. Il vantaggio finale nell’utilizzare questi animali consiste nella possibilità di ottenere dei filtri biologici a costo zero, ricavando, inoltre, biomassa utilizzabile come mangime per pesci o esche per pesca sportiva. Il presente lavoro riguarda la valutazione della capacità di rimozione della sostanza organica dalla colonna d’acqua mediante il processo di filtrazione delle specie considerate. Il disegno sperimentale iniziale era volto a valutare in quanto tempo una biomassa nota di S. spallanzanii riuscisse a chiarificare l’acqua. Questi primi esperimenti, sono stati condotti in microcosmi da 25 l considerando tre trattamenti (con vermi) e tre controlli (senza vermi). Da questo primo esperimento è emersa l’azione positiva dei vermi nella rimozione dei solidi in sospensione e la conseguente chiarificazione dell’acqua già nelle prime due ore. In una seconda fase é stata valutata l’efficienza di rimozione e di filtrazione di entrambe le specie utilizzando questa volta un piano sperimentale diverso, con 30 microcosmi contenenti ognuno 2 l di acqua. Da ogni microcosmo sono state prelevate aliquote d’acqua per la valutazione di proteine, lipidi, carboidrati e solidi sospesi presenti nell’acqua utilizzata, in modo tale che, dal rapporto BPC(in equivalenti di carbonio) e solidi sospesi, si possa capire se questi animali fanno cernita di organico e in che misura. A fine esperimento i vermi utilizzati sono stati pesati, essiccati e macinati. La polvere ottenuta è stata utilizzata per determinare il contenuto proteico e lipidico attraverso metodiche standard. I risultati ottenuti in questa seconda fase, riconfermano l’azione positiva di entrambe le specie nella rimozione dei solidi in sospensione, le altre indagini sono ancora in corso. I risultati delle analisi riguardanti il contenuto proteico e lipidico mostrano che in S. spallanzanii un individuo di circa 3 g di peso fresco contiene il 77,4% di proteine e il 15% di lipidi, mentre in B. luctuosum un individuo di circa 1 g di peso fresco contiene il 79% in proteine e il 14% in lipidi. Questi primi risultati, collegati a studi paralleli, ci permettono di pensare ad un reale utilizzo delle specie in esame riuscendo in questo modo ad ottenere vantaggi non solo economici, ma soprattutto ambientali. 9 Federica Costantini Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali - Tutela e Gestione delle Risorse Naturali, Università di Bologna Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Scienze Ambientali, Università di Bologna, via Tombesi dall’Ova 55, 48100 Ravenna e.mail: [email protected] Dispersione larvale e differenziazione genetica di popolazioni di corallo rosso del Mediterraneo occidentale Corallium rubrum è una specie endemica del Mar Mediterraneo e delle coste atlantiche di Portogallo, Senegal, Mauritania, isole Canarie e isole di Capo Verde che ha esercitato il suo fascino sull’uomo fin dai tempi più antichi. Attualmente questa specie rappresenta una fonte di lavoro e di ricchezza per diversi Paesi mediterranei ed in particolare per l’Italia dove viene lavorato circa il 90% del corallo pescato in tutta l’area mediterranea e non solo. L’intenso sfruttamento di questa risorsa ha fatto sorgere, anche a livello internazionale, una seria preoccupazione relativa alla gestione sostenibile degli stock e alla conservazione della specie. Recentemente gli studi finalizzati alla gestione delle risorse, oltre alla caratterizzazione dei tratti biologici ed ecologici delle popolazioni, prevedono un’integrazione con analisi genetico-molecolari. Tali analisi applicate alle specie marine sfruttate permettono di individuare la presenza di una o più unità di popolazioni, di stimare il flusso genico tra popolazioni e definire la struttura delle stesse. Nell’ambito delle specie di Cnidari, a causa della scarsa accessibilità dei banchi e della difficoltà nell’operare direttamente in campo, l’integrazione tra le metodiche genetico-molecolari e quelle più tradizionali è apparsa assolutamente necessaria. Gli studi compiuti fino ad ora sul differenziamento genetico di popolazioni mediterranee sono limitati e basati su metodiche allozimatiche o su alcuni marcatori di sequenza molecolari (ITS1, COI e 16S). Tali studi hanno messo in evidenza la presenza nel Mediterraneo occidentale di diverse unità di popolazione che presentano livelli di flusso genico variabili. Obiettivo generale della mia ricerca è incrementare e approfondire, attraverso studi di tipo genetico-molecolare condotti a livello intraspecifico su diverse scale spaziali, le attuali conoscenze biologiche ed ecologiche del corallo rosso presente nel Mediterraneo occidentale. In particolare, la ricerca sarà rivolta allo studio delle capacità dispersive della larva del corallo rosso ed all’effetto che le caratteristiche idrodinamiche e geomorfologiche del bacino mediterraneo hanno sulla struttura genetica e sul livello di differenziamento esistente tra le popolazioni. Lo studio si articolerà in una prima parte metodologica per l’individuazione e ottimizzazione di loci microsatelliti specifici per il corallo rosso e lo sviluppo di marcatori nucleari quali gli AFLP (amplified fragment length polymorphism). Successivamente tali metodiche verranno applicate all’analisi della variabilità inter- e intra-popolazione di colonie di corallo rosso prelevate da banchi distribuiti lungo le coste del Mediterraneo occidentale. Il corallo rosso non rappresenta solamente una specie ad alto valore commerciale, ma anche un importante elemento del patrimonio naturalistico e culturale. Lo sviluppo di programmi moderni per la gestione sostenibile e conservazione della specie potrà essere 10 perseguito tramite l’integrazione dei dati sulla struttura genetica di popolazione con le conoscenze relative alla sue caratteristiche biologiche ed ecologiche. Rosaria D’Ascoli Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Scienze Ambientali, Seconda Università di Napoli, via Vivaldi 43, 81100 Caserta e.mail: [email protected] Indicatori microbici di qualità del suolo: verifica dell’applicabilità in diverse condizioni di disturbo ambientale La valutazione della qualità del suolo non può prescindere dalla stima di parametri che mettano in evidenza lo stato di salute della comunità microbica, responsabile della decomposizione della sostanza organica e quindi del riciclo dei nutrienti nell’ecosistema. Allo scopo di individuare idonei indicatori microbici di qualità del suolo questo studio ha saggiato la risposta di diversi parametri microbici a differenti tipi di disturbo antropico. In particolare sono stati presi in considerazione suoli con differente copertura vegetale (gariga, pteridieto, castagneto) sottoposti ad una moderata attività di pascolo da ovini, suoli soggetti ad incendi sperimentali e suoli contaminati da metalli pesanti. Inoltre è stato analizzato un suolo degradato, in termini di riserva di sostanza organica, sottoposto a trattamenti di recupero mediante aggiunta di ammendanti. I parametri microbici considerati, ampiamente utilizzati in letteratura, sono stati il carbonio microbico, il micelio fungino totale ed attivo, l’attività microbica totale, il quoziente metabolico (mg CCO2 mg-1 Cmic h-1), il coefficiente di mineralizzazione endogena (mg CCO2 g-1Corg h-1) e il quoziente microbico (mg Cmic g-1 Corg). Sono stati inoltre calcolati alcuni indici mai elaborati prima, come la frazione di carbonio microbico totale costituita da carbonio fungino e la frazione di miceli fungini totali che risulta metabolicamente attiva. È stata infine stimata la diversità funzionale della comunità microbica, determinando l’incremento di respirazione indotto per effetto dell’aggiunta al suolo di diversi substrati organici (impronta catabolica) ed elaborando tali dati mediante l’indice di diversità di Simpson-Yule, in modo da ottenere il valore di evenness. I risultati di questo studio hanno messo in evidenza che i suoli soggetti a pascolo hanno mostrato modificazioni della componente fungina totale del suolo solo in una zona già fortemente degradata, come la gariga. Dopo gli incendi sperimentali, nei primi tre mesi dopo il passaggio del fuoco, è stata osservata un’alterazione della biomassa microbica, del micelio fungino, della respirazione potenziale, della frazione fungina del carbonio microbico, del quoziente metabolico e della velocità di mineralizzazione del carbonio organico, inoltre, fino a circa un anno dal passaggio del fuoco, è stata rilevata una riduzione significativa dei valori di micelio fungino attivo e di frazione fungina del carbonio microbico. Nei suoli contaminati da cromo è stata osservata solo una riduzione dell’indice di diversità funzionale, mentre nei suoli contaminati da rame sono state rilevate alterazioni del quoziente microbico, della frazione attiva del micelio fungino, della frazione fungina del carbonio microbico e del quoziente metabolico. Nello studio relativo Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni al recupero di un suolo degradato, mediante aggiunta di ammendanti, il miglioramento della qualità del suolo è stato messo bene in evidenza da alcuni parametri in particolare, come la biomassa microbica, il micelio fungino attivo, il coefficiente di mineralizzazione endogena, la frazione fungina del carbonio microbico e l’indice di diversità funzionale. I dati ottenuti indicano che non tutti i parametri microbici saggiati risultano alterati da un dato disturbo e, inoltre, ciascun parametro presenta una differente sensibilità ai diversi tipi di disturbo considerati. Pertanto, per mettere in evidenza l’impatto di un disturbo sulla comunità microbica, è necessario prendere in considerazione simultaneamente più parametri, preferibilmente rappresentativi delle tre caratteristiche principali della comunità microbica: biomassa, attività e diversità. L’integrazione di diversi parametri, scelti con questo criterio, in un indice microbico sintetico ha consentito, infine, di facilitare l’interpretazione dei risultati per ciascun caso studio. L’uso di un indice microbico sintetico potrebbe risultare particolarmente utile quando si voglia fornire un supporto ai decisori nell’ambito delle politiche di gestione e recupero del territorio. Francesco Denitto Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Zoogeografia e Faunistica, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Reclutamento, insediamento e successione primaria del benthos sessile nella Grotta di Ciolo (Capo di Leuca). Dati preliminari Lo studio della biologia delle grotte marine si è focalizzato, fino ad ora, sulla struttura delle comunità che vivono in questi particolari ambienti sommersi (Bibiloni et al., 1984; Balduzzi et al., 1989; Bianchi et al., 1996). Il benthos sessile, sin dai primi studi (AA.VV., 1959; Peres & Picard, 1964; Riedl, 1966), è sempre stato caratterizzato da un’evidente evoluzione spaziale della qualità e della quantità del ricoprimento lungo lo sviluppo della cavità, in diretta correlazione col repentino cambiamento dei principali parametri abiotici quali luce e idrodinamismo (ed altri da quest’ultimo dipendenti) (Harmelin, 1985; 2000; Gili et al., 1986). Il presente lavoro vuole indagare sul modo in cui le comunità sessili di una grotta marina si evolvono, su substrati nudi, in seguito all’insediamento di larve e propaguli vagili. Tali esperimenti, condotti prevalentemente in acqua libera (per una review sull’argomento si veda ad es. Richmond & Seed, 1991) permetteranno di ottenere un primo dato su un processo che, in grotta, si sospetta possa essere molto lungo e poco alterabile. Novanta pannelli in materiale edile di dimensioni 20 X 20 cm e dalla superficie scabra sono stati collocati in tre settori di una grotta marina a sviluppo orizzontale: la zona di ingresso, una di grotta semi-oscura (tra 20 e 25 metri dall’entrata), ed una terza di grotta completamente oscura (tra 80 ed 85 metri dall’entrata), ed individuati in seguito ad indagini preliminari sulle comunità già esistenti (osservazioni non pubblicate). Periodicamente, un numero prestabilito di essi viene recuperato, posto in soluzione fissante (formaldeide al 4%), e analizzato in laboratorio allo stereomicroscopio. L’esperimento di insediamento/colonizzazione è partito con il collocamento dei 90 pannelli il 14 marzo 2002, e prevede il loro recupero scaglionato (6 per ogni settore) dopo 1 mese, 3 mesi, 6 mesi, 12 mesi e 24 mesi dall’inizio dell’esperimento. I dati preliminari raccolti dopo 6 mesi di studio (alla data della presentazione del presente contributo) hanno evidenziato una notevole differenza nella velocità di ricoprimento dei pannelli. A livello dell’ingresso di grotta, dopo 6 mesi, gran parte della superficie disponibile era stata colonizzata da poche specie algali incrostanti (rodoficee) che costituivano, a loro volta, substrato per l’insediamento di pochi altri taxa (alghe filamentose, protozoi foraminiferi, briozoi, balani). Allo stesso tempo, i pannelli a 20-25 m e quelli a 80-85 m presentavano un ricoprimento quasi trascurabile. In particolare, i pannelli del settore intermedio erano caratterizzati da una più alta diversità sia in termine di grandi taxa (alghe filamentose, protozoi foraminiferi, poriferi, idroidi, briozoi, serpulidi, molluschi bivalvi, balani, kamptozoi), sia di numero di specie (ad es., 8 specie di policheti e almeno 5 di briozoi) rispetto a quelli provenienti dal settore più confinato, dopo analogo tempo di esposizione, ospitanti poche specie di piccole dimensioni (ad es., il porifero Sycon sp., lo spirorbide Pileolaria koehleri). Interessante e degno di approfondimenti futuri il rinvenimento, sempre in quest’ultimo settore confinato, di alghe filamentose. Da un punto di vista qualitativo, i tre settori sono tendenzialmente costituiti da taxa differenti, anche se non mancano gruppi comuni ai tre settori quali piccoli protozoi sessili del vasto gruppo dei foraminiferi, idroidi e balani. Al fine di valutare le relazioni tra comunità sessili ed ambiente, la grotta è stagionalmente monitorata con una sonda multiparametrica subacquea portatile che registra i valori di temperatura, pH, conducibilità, salinità e luminosità. L’obiettivo finale del suddetto lavoro resta quello di investigare sulla successione primaria delle comunità di grotta, considerando il reclutamento larvale e successivo insediamento dei gruppi che trovano nelle condizioni abiotiche dei vari settori l’ambiente idoneo per il loro sviluppo. Bibliografia AA.VV. 1959. Ergebnisse der Osterreichischen Tyrrhenia Expedition, 1952. Pubblicazioni della Stazione Zoologica di Napoli 30(suppl.):1-787. Balduzzi A., C.N. Bianchi, F. Boero, R. Cattaneo-Vietti, M. Pansini, M. Sarà. 1989. The suspension-feeder communities of a Mediterranean Sea cave. In: J.-D. Ros (ed.), Topics in Marine Biology. Scientia Marina 53:387-395. Bianchi C. N., R. Cattaneo-Vietti, F. Cinelli, C. Morri, M. Pansini. 1996. Lo studio biologico delle grotte sottomarine del Mediterraneo: conoscenze attuali e prospettive. Bollettino dei Musei e degli Istituti Biologici dell’Università di Genova 60-61:41-69. Bibiloni M.A., J-M. Gili, J.-D. Ros. 1984. Les coves submarines de les illes Medes. In: J.-D. Ros, I. Olivella, J.-M. Gili (eds.), Els sistemes naturals de les illes Medes. Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, :707-737. Gili J.-M., T. Riera, M. Zabala. 1986. Physical and biological gradients in a submarine cave on the Western Mediterranean coast (North-East Spain). Marine Biology 90:291-297. Harmelin J.-G. 1985. Organisation spatiale des communautés sessiles des grottes sous-marines de Mèditerranée. Rapports et proces-verbaux des Reunions. Commission International pour l’Exploration Scientifique de la Mer Méditerranée, Monaco 29(5):149-153. Harmelin J.-G. 2000. Ecology of cave and cavity dwelling 11 bryozoans. In: Z. Herrera Cubilla, J.B.C. Jackson (eds.), Proceedings of the 11 th International Bryozoology Association Conference. Smithsonian Tropical Research Institute, Balboa (Panama), :38-53. Pérès J.-M., J. Picard. 1964. Nouveau manuel de bionomie benthique de la Mer Méditerranée. Recueil des Travaux de la Station Marine d’Endoume 31(47):5-137. Richmond M.D., R. Seed. 1991. A review of marine macrofouling communities with special reference to animal fouling. Biofouling 3:151-168. Riedl R. 1966. Biologie der Meereshöhlen. Paul Parey, Hamburg. Al fine di fornire dati attendibili sulle emissioni e le riserve di carbonio in Italia, nell’ambito delle direttive emerse dal protocollo di Kyoto, il monitoraggio della dinamica del carbonio negli ecosistemi è divenuta una priorità. Attualmente sono disponibili significative incertezze sul bilancio globale del carbonio con problemi nel definire dei possibili scenari futuri. Una causa di ciò è anche associata alla mancanza di sufficienti dati sperimentali rappresentativi dell’eterogenea complessità ecosistemica del globo. Sono particolarmente carenti dati relativi ai sistemi agricoli, che sono caratterizzati da profonde alterazioni del ciclo del carbonio e da una notevole incidenza rispetto al totale delle terre emerse. La relativa omogeneità superficiale e la possibilità di verificare la chiusura del bilancio stagionale di carbonio mediante campionamenti distruttivi di biomassa epigea ed ipogea, fa degli ecosistemi agrari un caso di studio ideale da un punto di vista metodologico. Un nuovo sito di monitoraggio degli scambi netti di CO2 e H2O è stato allestito in un’azienda agricola situata nella piana del Sele (Eboli, Salerno) su una coltura irrigua di Medicago sativa . Il monitoraggio continuo dei flussi, attraverso un sistema eddy covariance in configurazione aperta, è iniziato nell’agosto 2002 e proseguirà durante tutte le fasi di crescita e sfalcio. Successivamente verrà impiantata una nuova coltura in modo da seguire le dinamiche del carbonio anche in funzione delle diverse pratiche agricole. Combinando misure dirette di flusso con l’analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno è possibile quantificare i diversi contributi al flusso netto misurato e seguire il turnover del carbonio nel suolo. rivestono grande interesse in ecologia. Negli ecosistemi marini, il cosiddetto “paradosso del plancton” viene spiegato attraverso meccanismi di coesistenza legati alla simultanea limitazione di più risorse a cui concorrono anche altri fattori come la mediazione di predatori, interazioni spaziali, variabilità temporale o fenomeni di disturbo. D’altro canto, esistono una serie di evidenze sperimentali e modellistiche che suggeriscono anche un ruolo della mole corporea sulle interazioni competitive, sulla coesistenza e sulla struttura di comunità, attraverso un meccanismo di ripartizione dell’energia legato alla taglia. Studi in tal senso sono stati sino ad ora condotti prevalentemente su comunità di organismi eterotrofi e vagili mentre poco è stato investigato a livello del plancton marino. Le evidenze raccolte nelle ultime decadi sulla struttura dimensionale del fitoplancton e sui modelli di variazione e co-variazione spaziale delle singole frazioni dimensionali suggeriscono tuttavia che le dimensioni corporee delle cellule fitoplanctoniche possono influenzare i rapporti di coesistenza tra specie anche in tali corporazioni. Si può infatti ipotizzare una analogia tra tassi di vagilità e ingestione degli eterotrofi e tassi di sedimentazione e assorbimento dei nutrienti dei produttori fitoplanctonici. In tale contesto la mia tesi ha lo scopo di indagare su un possibile contributo della mole corporea sui rapporti di coesistenza tra specie e classi dimensionali e sulla organizzazione delle corporazioni fitoplanctoniche. A tal fine si vuole analizzare le relazioni tra dimensioni corporee e abilità competitiva di individui e popolazioni sia nel senso dell’effetto o della risposta competitiva, sia in condizioni pre e post interattive. In questa ultima condizione verranno anche presi in considerazione gli effetti indiretti sull’abilità competitiva di specie o frazioni dimensionali del fitoplancton legati all’attività batterica ed al pascolo della componente zooplanctonica. La tesi si basa su esperimenti di laboratorio con microcosmi “a chemostato” e “in camera chiusa”. La prima fase sperimentale indaga sui rapporti di coesistenza nelle condizioni post-interattive attraverso manipolazione della disponibilità di risorse e sulle interazioni con gli altri comparti planctonici. Successivamente, in una seconda fase, verrà valutata l’abilità potenziale delle singole specie o classi dimensionali nelle condizioni pre-interattive. In questo poster sono riportati i primi dati sperimentali relativi alle relazioni tra dimensioni corporee e rapporti di coesistenza in condizioni post interattive in comunità naturali provenienti da ecosistemi di transizione della penisola salentina. L’approccio sperimentale descritto si basa sull’analisi di variazione della struttura dimensionale e della distribuzione taglia abbondanza su gradienti di disponibilità di nutrienti e sul confronto tra struttura in taglia e composizione tassonomica. Marialaura Fedele Annita Fiocca Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Ecologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Provinciale Lecce-Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Ecologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Provinciale Lecce-Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Struttura in taglia e composizione tassonomica delle corporazioni fitoplantoniche: analisi dei rapporti gerarchici intra-corporazione Modelli di distribuzioni taglia-abbondanza nelle corporazioni fitoplanctoniche Paul Di Tommasi Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” CNR-ISAFOM, via Patacca 85, 80056 Ercolano (Na) e Dipartimento di Biologia Vegetale, Università di Napoli Federico II e.mail: [email protected] Bilanci di carbonio ed energia in un agroecosistema dell’Italia meridionale Organizzazione e mantenimento della biodiversità 12 Le corporazioni fitoplanctoniche svolgono un ruolo di primaria importanza negli ecosistemi acquatici, essendo Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni il primo anello della catena alimentare. Studi sulle frazioni dimensionali (pico-nano-microfitoplancton sensu Sieburth, 1979) hanno messo in evidenza come le variazioni ambientali intese sia come disponibilità di nutrienti, sia come inquinamento da metalli pesanti, selezionino la comunità fitoplanctonica favorendo o meno lo sviluppo di una frazione dimensionale. Poco ancora si sa riguardo le distribuzioni tagliaabbondanza che invece hanno ricevuto grande attenzione in altri tipi di corporazioni. Scopo di questa tesi di dottorato è proprio quello analizzare la struttura dimensionale del fitoplancton in termini di modelli di distribuzioni e rapporti in taglia tra specie e di proporre lo studio della tagliaabbondanza come indicatore dello stato trofico degli ecosistemi acquatici. Per il raggiungimento di tale obiettivo è stata utilizzato un approccio sperimentale ed un approccio matematicostatistico. L’integrazione di tali approcci ha permesso di: descrivere la variabilità della struttura dimensionale in risposta a diversi tipi di disturbi antropici; trovare dei descrittori delle distribuzioni taglia-abbondanza, e descriverne ed analizzarne le variazione. A tal fine si sono programmati diverse serie sperimentali condotte tutte in natura; in questo poster ne verrà discussa solo una finalizzata alla: caratterizzazione su mesoscala delle corporazioni fitoplanctoniche nell’area marina costiera prospiciente la penisola salentina per una definizione di descrittori dello stato ecologico nell’ecosistema costiero. Il disegno sperimentale ha previsto 4 campionamenti stagionali in 7 transetti distanti l’uno dall’altro circa 15 miglia, su ogni transetto sono state fissate 5 stazioni rispettivamente a 0.28, 1.7, 3, 9, e 15 miglia dalla costa, in ogni stazione sono stati prelevati dei campioni lungo la colonna d’acqua in corrispondenza dei valori di massimo, minimo e media di fluorescenza. In ogni stazione sono state analizzate le caratteristiche strutturale e funzionali delle corporazioni fitoplanctoniche quali la densità cellulare, la ricchezza in specie, composizione tassonomica, la biomassa fitoplanctonica totale e frazionata e produzione primaria totale e frazionata oltre che le principali caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua come temperatura, ossigeno, salinità e sali di azoto, fosforo e silicio secondo procedure e metodologie analitiche standardizzate. Per la determinazione della struttura taglia-abbondanza si è fatto uso di un software di analisi immagine Lucia (Nikon) che consente di misurare per ogni cellula area, volume, perimetro, lunghezza e larghezza, dal volume si è risalito al peso che è stato utilizzato nell’analisi delle distribuzioni. Le distribuzioni taglia-abbondanza sono descritte attraverso un modello lognormale che consente la determinazione di descrittori delle distribuzioni stesse: moda e ampiezza; tali descrittori hanno mostrato dei modelli di variazione sia nel tempo che nello spazio correlati con la disponibilità di risorse. Su una scala temporale la disponibilità di risorse varia mostrando le concentrazioni di nutrienti più alte nel periodo invernale e, sia le dimensioni modali che l’ampiezza delle distribuzioni taglia-abbondanza mostrano delle variazioni significative risultando maggiori durante i periodi più freddi. Su scala spaziale l’ampiezza è risultata correlata positivamente con la disponibilità di risorse, infatti i valori più alti di ampiezza coincidono con le zone a più alta disponibilità di nutrenti. Confrontando, quindi, i risultati ottenuti dai descrittori delle distribuzioni taglia-abbondanza con le caratteristiche che comunemente vengono indagate nei piani di controllo degli ecosistemi acquatici come la frazione microfitoplanctonica della clorofilla “ a ” (>20 µm) si evince che le prime consentono di rilevare una discontinuità spaziale che non è riscontrabile invece dall’analisi delle caratteristiche “classiche”. Bibliografia Sieburth J.M. 1979. Sea Microbes. Oxford University Press, Oxford. Stefano Grignolio Dottorato di Ricerca in Biologia Ambientale, Università di Sassari Dipartimento di Zoologia e Antropologia Biologica, Università di Sassari, via Muroni 25, 07100 Sassari e.mail: [email protected] Uso dello spazio e analisi dei costi di una gravidanza in femmine di stambecco alpino (Capra ibex ibex) nel Parco Nazionale del Gran Paradiso Lo stambecco ha rischiato l’estinzione a causa della forte pressione venatoria sul finire del 1800 e nel corso del 1900. Un’attenta e antesignana forma di conservazione, con la creazione del Parco Nazionale del Gran Paradiso, ha permesso che le poche centinaia di individui rimasti si salvassero nei territori compresi all’interno di questo Parco. Nel corso di due anni di lavoro (agosto 2000 – luglio 2002) sono state raccolte una media di dodici localizzazioni al mese su un campione di quattordici femmine di stambecco. Le analisi delle dimensioni degli home range annuali e stagionali sono state effettuate con due metodologie: Minimo Poligono Convesso 95% e Kernel 95%. La media delle dimensioni degli home range annuali è stata di 186.2 ± 71.71 ha (Kernel, 316.3 ± 111.00 ha) nel corso del 2000 e di 182.9 ± 70.03 ha (Kernel, 304.8 ± 101.14 ha) nell’anno successivo. Le dimensioni dei differenti home range stagionali sono significativamente diverse nel corso dell’anno (ANOVAMPC, F3,20=16.308, p<0.001; ANOVAkernel F3,20=18.792, p<0.001). Da un’analisi preliminare degli home range estivi risulta una differenza significativa tra le femmine con il piccolo e le femmine senza piccolo (Mann Whitney U-Test: MPC e Kernel U=0, p=0.008). In funzione di questi dati e visto l’andamento demografico negativo presente nella popolazione di stambecchi del Parco Nazionale Gran Paradiso, si è voluto sviluppare un progetto che intende analizzare alcuni costi a cui vanno in contro le femmine durante la gravidanza e lo svezzamento di un capretto. A tal fine si vuole sviluppare una ricerca su differenti tematiche ecologiche (uso dello spazio, selezione dell’habitat, qualità dell’alimentazione, carico parassitario) ed etologiche (analisi comportamentale comparata). Giuliana Guarino Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, Sezione di Ecologia Applicata, Unità di Ecotossicologia, Università di Siena, via P.A. Mattioli 4, 53100 Siena e.mail: [email protected] Distribuzione e stima del rischio ambientale di elementi in traccia nell’Arco Alpino Il progetto è rivolto alla valutazione quantitativa e qualitativa 13 di elementi in traccia in matrici ambientali prelevate ad alta quota dal ghiacciaio del Lys del Monte Rosa ubicato alla testata della Valle di Gressoney (Valle d’Aosta, Italia). L’arco alpino influenzato sia da venti freddi e secchi provenienti dal nord Europa che da venti caldi e umidi provenienti dal bacino del Mediterraneo, ha una posizione geografica e climatica di particolare interesse. Le analisi dei livelli di metalli in aria (del particolato e della forma gassosa per il mercurio metallico), nelle precipitazioni, nelle acque di scioglimento del ghiacciaio, in carote di ghiaccio (datate), sul suolo e l’utilizzo di bioindicatori vegetali, provenienti da tale area, possono essere utilizzate sia per comprendere i livelli di contaminazione locale, e dunque possibili alterazioni dell’ecosistema alpino, che i fenomeni di trasporto su lunghe distanze di tali sostanze. La caratterizzazione di alcune forme chimiche e i rapporti che intercorreranno tra i livelli riscontrati nelle varie matrici, potranno fornire utili indicazioni sia sullo stato di contaminazione attuale che pregresso e, dunque, sulle possibili alterazioni dell’ecosistema alpino. L’interpretazione dei dati ottenuti riguarderà l’individuazione delle specie di origine antropica, la loro mobilità, la loro speciazione, il loro trend spaziale e temporale per poter, in seguito, effettuare una stima del pericolo e del rischio per l’area oggetto di studio. Allo scopo verranno applicati criteri ecotossicologici. In base ai risultati ottenuti, sarà possibile valutare ed interpretare dati provenienti da altre aree (remore e non) e stabilire i parametri che regolano il comportamento e il destino ambientale degli elementi analizzati. I dati prodotti saranno utilizzati per sviluppare un modello fisico dinamico. Cristiana Guerranti Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, Università di Siena, via delle Cerchia 3, 53100 Siena e.mail: [email protected] Indagine sulla presenza di xenobiotici in alimenti costituenti la dieta degli Italiani Numerosi studi hanno dimostrato che la principale fonte di esposizione umana a contaminanti ambientali, quali i composti organoclorurati (POPs, Persistent Organic Pollutants) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), è rappresentata dagli alimenti. In questa indagine è stata determinata la concentrazione dei suddetti contaminanti in una vasta gamma di prodotti alimentari che compongono la dieta tipo degli Italiani. La procedura adottata in questa ricerca può essere schematizzata nelle seguenti fasi: − Raccolta di informazioni sulle abitudini alimentari della popolazione italiana. − Reperimento e analisi degli alimenti maggiormente ricorrenti nella dieta. − Approfondimento delle analisi per le categorie di alimenti considerate “a rischio”: ad esempio gli alimenti ricchi di lipidi, nei quali i contaminanti in esame, lipofili, tendono ad accumularsi, i prodotti ittici oppure i cereali per quanto riguarda gli IPA. − Calcolo del consumo settimanale degli alimenti analizzati. − Determinazione dell’intake settimanale dei 14 contaminanti in esame correlando i dati analitici con quelli sui consumi. − Confronto dei risultati ottenuti con il Tolerable Weekly Intake stabilito dalla Scientific Committee on Food (SCF) della Commissione Europea (maggio 2001). L’analisi gascromatografica ha evidenziato la presenza, in tutti i campioni esaminati, di oltre 50 congeneri dei policlorobifenili (PCB), mentre solo in alcuni è stato possibile valutare le concentrazioni di diclorodifeniltricloretano (pp’DDE) e di esaclorobenzene (HCB) in quanto in molti casi al di sotto dei limiti di rivelabilità strumentale (<0,01 ng/g). La tossicicità dei congeneri dei PCB associata ai vari campioni è stata determinata utilizzando l’approccio dei tossici equivalenti (TEQs) rispetto alla 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina. Nella maggior parte dei campioni le concentrazioni dei composti analizzati seguono l’ordine PCB>DDT>HCB. Le concentrazioni più elevate per quanto riguarda i PCB sono risultate quelle relative ai prodotti ittici, con una media di 17 ng/g peso fresco; anche i latticini presentavano concentrazioni di PCB leggermente più elevate del resto dei prodotti, con una media di 3,9 ng/g p.f. Questa ultima categoria di prodotti è inoltre risultata essere la più contaminata da HCB, mostrando un valore medio di 5,8 ng/g p.f., mentre il valore medio più elevato per il DDT è stato quello della categoria carne e derivati. La media più elevata per i TEQ è stata calcolata per la categoria dei latticini. Dai valori ottenuti è possibile calcolare la concentrazione di PCB assunta settimanalmente e confrontarla con il TWI stabilito dall’SCF. Tale concentrazione è risultata pari a 126,9 pg TEQ/ persona. Questo valore risulta inferiore rispetto al limite che segna il livello considerato “a rischio” per l’uomo (14 pg TEQ/kg bw) e confrontabile con il range di valori riportato dall’SCF; secondo questo dato il limite è infatti 700 pg TEQ alla settimana per un individuo di 50 kg e 980 pg TEQ/settimana per un individuo di 70 kg. Nei campioni a disposizione è stata inoltre valutata la presenza dei 16 IPA indicati dall’EPA come particolarmente tossici. I valori medi più elevati di tali contaminanti sono risultati quelli relativi a campioni di prodotti ittici, cereali e pasta ripiena. Infine su alcuni dei campioni è stata effettuata anche la determinazione del contenuto di diossine e furani; anche se tali contaminanti sono risultati essere presenti in quantità spesso al di sotto della rilevabilità strumentale, data l’elevata tossicità, in futuro queste le analisi saranno estese a tutte le tipologie di alimenti. Margherita Licciano Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Zoologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Interazioni fra i sabellidi filtratori Sabella spallanzanii e Branchiomma luctuosum (Annelida: Polychaeta) e la componente batterica planctonica in ambiente marino Il passaggio dalla concezione che i flussi di energia in ambiente marino fossero relegati alla fase particellata nella catena del pascolo (piante-erbivori-carnivori) a quella più moderna dell’esistenza di un “microbial-loop” efficiente convogliatore di energia dal DOC, ha permesso Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni di definire come l’energia contenuta nel compartimento del carbonio organico disciolto possa, tramite i batteri ed i protozoi, arrivare sino ai metazoi. Stabilito il ruolo fondamentale dei batteri come principali e diretti mineralizzatori e particellizzatori di DOC, la quantificazione del numero e della biomassa batterica così come l’identificazione e la quantificazione dei fattori che ne influenzano la produzione e la rimozione, è di primaria importanza per comprenderne il ruolo ecologico. In questo contesto, l’attività di feeding di filtratori bentonici può essere considerata uno dei fattori in grado di influenzare la composizione e la distribuzione dei batteri in ambiente marino. Numerosi studi sono stati finora condotti allo scopo di valutare la capacità di accumulo microbiologico mediante filter-feeding da parte di diversi invertebrati marini, principalmente molluschi, tunicati, poriferi, echinodermi. Gli Anellidi Policheti, pur rappresentando uno dei gruppi dominanti all’interno delle comunità bentoniche, sono in genere ancora poco studiati. In particolare, gli studi relativi al processo di filtrazione nella famiglia Sabellidae risultano molto scarsi: i soli dati disponibili scaturiscono da lavori nella maggior parte dei casi abbastanza datati e basati principalmente sullo studio dell’anatomia della corona branchiale, mentre quasi completamente sconosciuti sono gli aspetti qualitativi e quantitativi del processo, cosicché al momento non esiste alcun dato disponibile che evidenzi un’attività di filtrazione dei sabellidi sui batteri presenti nella colonna d’acqua. Da tali considerazioni è emersa l’ipotesi di lavoro della presente ricerca volta a determinare l’influenza esercitata sulla componente batterica planctonica dai sabellidi filtratori Sabella spallanzanii e Branchiomma luctuosum, specie tubicole tipiche di ambienti eutrofici, valutandone la capacità di accumulo microbiologico da un punto di vista quantitativo e qualitativo. Tale attività di ricerca si inserisce in un contesto di studi più ampio che si propone di valutare la possibilità di utilizzare le specie considerate come organismi biorimediatori nel trattamento di acque reflue. I risultati finora ottenuti hanno già permesso di evidenziare in S. spallanzanii una notevole capacità di accumulo microbiologico rispetto all’ambiente marino di diverse delle categorie batteriche esaminate, anche in caso di batteri solo occasionalmente presenti nella colonna d’acqua come i coliformi fecali. Valori particolarmente elevati sono stati inoltre osservati per batteri del genere Vibrio, cui appartengono molte specie patogene per i pesci sia in ambiente naturale sia allevati in impianti di acquacoltura. L’attività di ricerca prevede, inoltre, anche uno studio teso ad evidenziare nelle specie considerate strategie di difesa atte a neutralizzare eventuali patogeni ingeriti. La produzione di sostanze ad attività antibiotica potrebbe così essere considerata un ulteriore meccanismo di controllo della componente batterica marina. Gabriele Mori Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, Università di Siena, via P.A. Mattioli 4, 53100 Siena e.mail: [email protected] Sviluppo ed applicazione di biomarkers per composti estrogenici in due specie pelagiche mediterranee Questo studio fa parte di un progetto di ricerca il cui obiettivo è quello di mettere a punto e convalidare una serie di biomarkers per valutare la presenza e gli effetti di composti con potenziale estrogenico in grandi pelagici dell’area mediterranea. Gli strumenti scientifici applicati sono rappresentati dai principali biomarkers di esposizione (attività MFO) e di effetto (induzione della Vitellogenina (Vtg) e delle Proteine della Zona Radiata (Pzr)). Come specie bioindicatrici sono state scelte il pesce spada (Xiphias gladius) ed il tonno rosso (Thunnus thynnus thynnus). I grandi pelagici, per la loro peculiare posizione nella rete trofica, risultano infatti fortemente sottoposti ai rischi tossicologici di xenobioti con potenziale estrogenico presenti nel bacino mediterraneo. I campionamenti sono stati effettuati a partire dal 1999 in un’unica area del Bacino Mediterraneo (Sicilia) dove pesce spada e tonno vengono abitualmente pescati (Stretto di Messina, Isole Eolie). Gli animali utilizzati come controllo provengono dall’oceano atlantico (isole Azzorre). I dati presentati si riferiscono ai campionamenti svolti durante il biennio 1999-2000. Su campioni di fegato di circa 100 esemplari di pesce spada e 50 di tonno rosso si è valutata l’attività del citocromo P4501A attraverso il dosaggio dell’ etossiresorufina-O-deetilasi (EROD) e della benzopirenemonossigenasi (BPMO). Nel plasma si è valutato i livelli di Vtg e Pzr attraverso tecniche immunochimiche (E.L.I.S.A., WESTERN BLOT). I risultati ottenuti mostrano in entrambe le specie una induzione selettiva del citocromo P450 rispetto ai valori di controllo come dimostrato dai risultati dei test EROD e BPMO. Questi dati testimoniano un’elevata esposizione di queste specie a composti xenobioti lipoaffini presenti nell’ambiente marino mediterraneo. I test E.L.I.S.A. e WESTERN BLOT hanno permesso di evidenziare livelli significativamente rilevanti di Vtg e Zrp rispetto ai dati di controllo. L’induzione di queste proteine, tipicamente femminili, è stata riscontrata, inoltre, in alcuni individui di pesce spada di sesso maschile di classe di età avanzata campionati nell’area mediterranea il che confermerebbe una avvenuta esposizione a contaminanti con potenziale estrogenico. Cristian Mugnai Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali, Università di Bologna CIBM, viale N. Sauro 4, 57128 Livorno e.mail: [email protected] Test di bioaccumulo da metalli pesanti con Hediste diversicolor O.F. Müller (Anellida, Polychaeta): prove preliminari In una valutazione ecotossicologica risulta di importanza fondamentale l’utilizzo prove in grado di evidenziare le possibili ripercussioni degli effetti tossici nei livelli più elevati della catena alimentare. In tale senso un’attenzione particolare viene rivolta ai test di bioaccumulo, il cui obiettivo finale consiste nella misura della quantità di sostanze di varia natura che particolari organismi riescono a fissare nei tessuti. Hediste diversicolor O.F. Müller (Anellida: Polychaeta) è una specie con abitudini prevalentemente fossorie molto diffusa negli ambienti salmastri del Mar Mediterraneo, del Mar Nero nonché lungo le coste europee fino al Mare del Nord. L’ampia distribuzione spaziale, la posizione nella catena alimentare, oltre al ciclo vitale relativamente lungo caratterizzato da un unico evento riproduttivo, rendono tale specie un buon indicatore per il bioaccumulo. Per 15 un’applicazione di un saggio su larga scala e ai fini di comparare le risposte ottenute, diviene fondamentale approfondire gli elementi che potrebbero causare effetti diversi. L’obiettivo principale di questo lavoro è individuare una prova di laboratorio che permetta di verificare in condizioni diverse la confrontabilità dei risultati. Sono state condotte prove preliminari su campioni di sedimento naturale, corrispondenti a diverse situazioni di contaminazione da metalli pesanti. La metodica prevede l’utilizzo di organismi prelevati in situ, di taglia compresa tra 3 e 5 cm. Il sedimento da testare è stato posto in beaker con 500 ml di acqua di mare filtrata, dove sono stati successivamente aggiunti gli organismi. Alcuni individui precedentemente spurgati vengono prelevati ed analizzati per determinare i valori di background dei contaminanti presenti nei tessuti (tempo 0). Ciascun campione è stato testato in tre repliche (e altrettanti controlli) inserendo in ogni beaker 5 individui. Per l’intera durata del test (28 giorni, periodo ritenuto sufficiente affinché la maggior parte dei contaminanti nei tessuti raggiunga una condizione di stato stazionario), i beaker sono stati ossigenati continuamente, mantenuti al temperatura costante, in condizioni di illuminazione naturale e senza fornire alcun tipo di alimentazione. Alla fine del test gli organismi sono stati spugati per 3 giorni in sabbia quarzifera e acqua di mare, essiccati in stufa ed omogeneizzati prima delle analisi chimiche. Dopo aver determinato le concentrazioni dei metalli nei tessuti e nei sedimenti, è stato calcolato il fattore di bioaccumulo (BAF) come rapporto tra le due concentrazioni. Tali prove hanno preso in considerazione: 1) sedimenti provenienti dall’area antistante gli impianti industriali di Rosignano Solvay (LI); 2) sedimenti provenienti da un’area portuale (Piombino, LI) fortemente contaminata da metalli pesanti. Nel primo caso è stato valutato soltanto il biaccumulo da mercurio, metallo direttamente ascrivibile all’attività industriale (produzione di cloro-alcali). A parte un campione, proveniente da una stazione localizzata di fronte allo scarico industriale, in cui si nota qualche evidenza di bioaccumulo da Hg, sono state trovate concentrazioni molto basse nei tessuti. Nel secondo caso sono stati presi in considerazione più metalli pesanti (Zn, Cd, Cr, Cu, Hg, Pb). Alla fine del test è risultato che soltanto le concentrazioni ottenute nei tessuti per Hg e Pb sembrano seguire l’andamento osservato nei sedimenti. Per gli altri metalli non è stato possibile ipotizzare un biaccumulo, in quanto le concentrazioni determinate negli organismi al tempo 0 e nel controllo sono dello stesso ordine di grandezza (o addirittura superiori) rispetto a quelle corrispondenti ai campioni di sedimento da testare. Si sottolinea pertanto la necessità di effettuare esperimenti mirati a una approfondita valutazione del processo di bioaccumulo. Simona Musazzi Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma CNR - Istituto per lo Studio degli Ecosistemi, Largo Tonolli 50, 28922 Verbania Pallanza e.mail: [email protected] Paleolimnologia in aree remote I sedimenti lacustri costituiscono uno dei più completi 16 e dettagliati archivi sedimentari che documentano l’evoluzione temporale delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del lago, del paesaggio e della vegetazione ad esso circostante e della variabilità climatica naturale della regione a medio e a lungo termine. Nell’ultimo decennio diversi progetti internazionali hanno ricostruito le vicende climatiche e paleoambientali del tardo Quaternario nelle zone artiche mediante studi su carote di ghiaccio e sedimenti marini. Rispetto a questi ultimi, dallo studio di carote lacustri si possono ottenere dati di maggior dettaglio ed informazioni circa le fluttuazioni di temperatura e precipitazioni. I laghi situati in aree remote artiche ed alpine per le loro caratteristiche biotiche e abiotiche sono considerati ecosistemi estremamente vulnerabili e sono ritenuti particolarmente idonei per gli studi paleoclimatici. Essi infatti sono soggetti a condizioni climatiche rigide e a causa delle estreme condizioni rappresentano una sorta di laboratorio naturale semplificato e meno direttamente disturbato dall’attività dell’uomo. Scopo finale di un’indagine paleoclimatologica è quello di essere di supporto ai modellisti che mirano a costruire modelli probabilistici e previsionali del sistema climatico introducendo ulteriori dati relativi a zone geografiche ancora poco investigate. Inoltre, il confronto tra i risultati ottenuti dallo studio degli ambienti remoti, con quelli provenienti da studi compiuti alle nostre latitudini, ove la pressione esercitata dalle attività umane è molto elevata, permette di ottenere una più approfondita conoscenza delle relazioni che intercorrono tra fattori naturali e fattori antropici nell’evoluzione degli ecosistemi lacustri. Diversi resti fossili conservati nei sedimenti forniscono dati vicarianti per le scale temporali dei cambiamenti climatici o informazioni sul paleoclima ed è importante ricostruire il clima o le variabili relazionate ad esso attraverso uno uno studio “multi-proxy” in cui l’analisi di più parametri (mineralogia, resti biochimici, polline, diatomee, ecc.) offre l’opportunità di una reciproca conferma. Nell’ambito di diversi progetti di ricerca nazionali ed internazionali (POLARNET - Arctic and Antarctic Strategic Project, Progetto Nazionale di ricerca Ev-K2-CNR, LAPBIAT - Lapland Atmosphere-Biosphere) riguardanti lo studio della paleolimnologia e del paleoclima (Olocene) in aree remote sono state raccolte carote di sedimento lunghe circa 70 cm con carotatore a gravità in laghi situati nell’Isola Spitsbergen (Svalbards), in Lapponia (Finlandia) e nella regione Himalayana (Nepal). Su sezioni dello spessore di 1 cm sono stati analizzati: sostanza organica, vari parametri geochimici, i resti fossili di diatomee, insetti chironomidi, cladoceri, polline e pigmenti algali e batterici. Parte delle analisi sono tuttora in corso. Gli obiettivi della presente ricerca sono: misurare la risposta nel tempo (ultimi 1000-2000 anni) degli ecosistemi lacustri in aree remote e d’alta quota alla variabilità climatica su scala temporale decennale; contribuire ulteriormente allo sviluppo di un database sugli ecosistemi lacustri situati in aree remote del nord Europa e confrontare i risultati con altre aree remote (es. Alpi, Himalaya); ricostruire il clima nell’Olocene recente; valutare gli effetti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità degli ecosistemi lacustri. Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni Francesco Nacca Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Scienze della Vita, Seconda Università di Napoli, via Vivaldi 43, 81100 Caserta e.mail: [email protected] Influenza della salinità sul metabolismo dell’azoto e del carbonio in plantule di grano duro L’elevata salinità del suolo è uno dei principali fattori ambientali che limita la produttività delle colture agricole. Si stima che circa il 6% dell’area totale mondiale destinata all’agricoltura è danneggiata dall’elevata salinità e che ogni anno circa 10 milioni di ettari di aree irrigate sono abbandonate per l’alta salinità. La salinità elevata influenza molti aspetti del metabolismo della pianta, quali la fotosintesi, l’assorbimento dei nutrienti, la traslocazione degli assimilati, e porta a cambiamenti che si risolvono in una riduzione della crescita. Le piante tendono a prevenire gli effetti tossici dovuti al sale attraverso vari meccanismi che includono: l’esclusione del sale da alcuni importanti tessuti ed organi come le foglie giovani, gli apici vegetativi e le strutture riproduttive; la compartimentazione intracellulare degli ioni potenzialmente tossici; l’eliminazione del sale in eccesso mediante organi specializzati. In particolare le cellule vegetali che non accumulano il sale nei vacuoli, tendono a concentrare nel citoplasma e negli organuli subcellulari soluti organici non tossici meglio come “soluti compatibili”, quali zuccheri, amminoacidi, betaine etc, allo scopo di realizzare l’equilibrio osmotico (Hasegawa et al., 2000, Annu. Rev. Plant Physiol. Plant Mol. Biol. 51:463499). In questo lavoro viene studiata la risposta allo stress salino prodotto da NaCl del grano duro (Triticum durum Desf. cv. Ofanto), una specie di grande interesse nell’area mediterranea, una regione a rischio sia per la siccità che per la salinità. Vengono analizzati gli effetti dello stress salino su parametri fisiologici come la crescita, la fotosintesi, la concentrazione degli ioni Na+, Cl-, NO3-, K+ e Ca 2+ . Particolare attenzione viene prestata alla determinazione di metaboliti come gli amminoacidi solubili, i composti quaternari dell’azoto, l’amido e gli zuccheri solubili, per valutare in particolare gli effetti dello stress salino sul metabolismo dell’azoto. A tale scopo sono analizzati anche l’espressione e l’attività di alcuni enzimi chiave nella regolazione dell’ assimilazione dell’azoto. Plantule di grano duro sono state cresciute in soluzione idroponica con soluzione nutritiva in presenza di NaCl 100 mM a diverse concentrazioni NO3-. I risultati finora ottenuti mostrano che l’effetto del sale sulla crescita è evidente già dopo pochi giorni di trattamento (5 gg), riducendo la crescita del 60% per il fusto e del 30% per le radici in particolare nelle piante cresciute in alto nitrato. Il cloruro limita l’assorbimento di nitrato e la traslocazione alle foglie. Infatti, elevate concentrazioni di tale ione tendono a ridurre la concentrazione di nitrato nelle radici ed ancor più nelle foglie. La concentrazione di amido e saccarosio è inferiore in piante cresciute ad alto sale a causa di una inibizione della l’attività fotosintetica: essa, infatti, si dimezza in tali piante. Il decremento di amido e saccarosio si riscontra anche nelle piante cresciute ad alto nitrato, suggerendo che l’amido e i carboidrati sono mobilizzati per la sintesi di amminoacidi ed altri metaboliti azotati. Nelle foglie e nelle radici di piante cresciute in presenza di NaCl 100mM, l’aumento di alcuni amminoacidi liberi come l’asparagina, il glutammato, la glutammina e la prolina suggerisce che questi amminoacidi sono coinvolti nella osmoregolazione. L’aumento della concentrazione della serina, d’altra parte, evidenzia che il trattamento con sale tende a promuovere la fotorespirazione. La concentrazione di glicina betaina è all’incirca triplicata nelle piante cresciute in condizione di alta salinità, suggerendo che tale metabolita anche nel grano duro, come in altre piante, è un osmolita compatibile. Anche l’attività di alcuni enzimi è influenzata dal sale: sia nelle foglie che nelle radici, il trattamento con NaCl 100mM provoca un raddoppio dell’attività della GOGAT. Tale enzima potrebbe essere coinvolto nella risposta della pianta allo stress salino. Giovanni Neri Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Università di Siena, Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, via P.A. Mattioli 4, 53100 Siena e.mail [email protected] Studi ecotossicologici in Cetacei del Mar Mediterraneo. Messa a punto di test “in vitro” per valutare la variabilità interspecifica nella risposta a vari tipi di contaminanti In questa ricerca verranno unite tecniche di indagine di tossicologia classica quali l’analisi quantitativa e qualitativa di HCB, DDTs, PCBs ed IPA alle indagini con biomarkers non distruttivi per cercare di mettere in relazione, nei Cetacei del Mediterraneo, il livello di contaminanti da loro accumulati nell’adipe sottocutaneo, e la loro capacità di reazione misurando l’attività delle monoossigenasi a funzione mista (MFO), in particolare della benzo(α)pirene monoossigenasi (BPMO). Al fine di indagare la diversa sensibilità interspecifica ai composti inquinanti saranno effetttuati test “in vitro” di tossicologia che avvalorino gli studi effettuati “in vivo”, a tale scopo sarà messa a punto una metodica per l’allestimento delle colture stesse, utilizzando l’epidermide campionata (biopsia cutanea) come fonte iniziale di tessuto. L’importanza di conoscere da un punto di vista ecotossicologico la condizione attuale di questi Cetacei presenti con una grande varietà di specie in un bacino così ristretto, come il Mar Mediterraneo, può contribuire a preservare la biodiversità, evitando un vero e proprio delitto ecologico consistente nell’estinzione di una o più di queste. Marianna Notti Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Dipartimento di Scienze Ambientali, Università di Parma, Parco Area delle Scienze 33A, 43100 Parma e.mail: [email protected] Valutazione di una zona umida artificiale (Riccò, Parma) L’area oggetto studio è una zona umida artificiale (Antonietti & Marchiani, 2002), situata a Sud del Parco del Taro, in sponda destra del Fiume ed in prossimità degli abitati di Riccò e Fornovo. La realizzazione di questa zona umida, si colloca in un’ottica di riqualificazione delle aree ripariali ed è stata progettata con l’obiettivo di ricreare aree palustri che potessero favorire l’insediamento di vegetazione igrofila, oltre che costituire un habitat di pregio per l’avifauna. 17 L’intervento è consistito nella realizzazione, all’interno di un’area con estensione di circa 20000 m2, di due zone umide collegate tra loro ed alimentate con le acque di scarico dell’impianto di depurazione di Fornovo, caratterizzate da profondità variabili. Nonostante l’alimentazione con acque trattate, il progetto originale escludeva una funzione “depurativa” di quest’area. L’obiettivo di questo studio è stato quello di comprendere i principali processi e le potenziali criticità del sistema. Allo scopo è stata valutata la qualità dell’acqua addotta all’impianto e le sue modificazioni qualitative durante il percorso nella zona umida (Kadlec & Knight, 1996). Tale indagine è stata svolta misurando (all’ingresso, tra le due vasche ed all’uscita, con frequenza bisettimanale nel periodo marzo 2002 - gennaio 2003) i valori dei seguenti parametri: Temperatura, Conducibilità, pH, OD, N-NO2-, NNO3-, N-NH3, Ntot, P-PO43-, Ptot, COD e Coliformi Fecali. Per la stima dei carichi addotti, le analisi sono state integrate con cicli nictemerali per la misura delle portate e la concentrazione di N-NO3-, N-NH3, P-PO43-, COD. Anche la valutazione della colonizzazione delle acque più profonde (circa 50 cm), da parte di comunità animali e vegetali, è stata oggetto di indagine: − la clorofilla-a, quale parametro connesso allo sviluppo algale; − il contenuto di carboidrati (su due classi dimensionali di 50-360 µm e >360 µm), per una stima della frazione costituita dalla sostanza organica particellata e dalla biomasa planctonica; − la copertura e la densità (kg/m2) di Lemna sp. Infine sono stati posizionati manualmente due piezometri per valutare eventuali interazioni dell’acqua superficiale con quella di falda. I risultati ottenuti hanno permesso di: − evidenziare numerosi elementi di criticità all’esterno ed all’interno del sistema, che non sempre risulta idoneo al conseguimento dei progettati obiettivi di riqualificazione ambientale; − formulare alcune ipotesi di modificazione della struttura della zona umida, in modo da renderla più idonea a sopportare i carichi addotti ed a conseguire i risultati attesi (Marble, 1992). Bibliografia Antonietti R., C. Marchiani. 2002. Procedure per riconoscere, classificare, tipizzare e valutare le zone umide. Progetto Ministero dell’Ambiente “Completamento delle conoscenze naturalistiche di base” – Modulo F: Zone umide – Responsabile: Prof. Ireneo Ferrari. Marble A.D. 1992. A guide to wetland functional design. Lewis Publishers, Boca Raton. Kadlec R.H., R.L. Knight. 1996. Treatment Wetlands. CRC Press, Boca Raton. Alessandro Oggioni Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma CNR - Istituto per lo Studio degli Ecosistemi, Largo Tonolli 50, 28922 Verbania Pallanza e.mail: [email protected] Tasso di crescita e produzione in popolamenti fitoplanctonici lungo un gradiente trofico: relazioni con le caratteristiche allometriche La valutazione della entità e della variabilità, sia spaziale che temporale, del tasso di crescita carbonio-specifico 18 di una comunità fotoautotrofa e l’assimilazione di carbonio si rivelano essere informazioni indispensabili per stimare la capacità di un habitat pelagico di supportare una certa biomassa fitoplanctonica e per acquisire indicazioni sulla quantità di carbonio che è eventualmente trasferibile ad altri livelli trofici. Il primo scopo del mio lavoro di dottorato è proprio la misura e il confronto della produttività e del tasso di crescita di comunità fitoplanctoniche di 3 ambienti lacustri: Maggiore, Alserio e Pusiano caratterizzati da condizioni che vanno dall’oligotrofia all’ipertrofia. Nel Lago Maggiore nel corso del 2002 si è potuto, anche per ragioni logistiche, effettuare 17 rilievi di produzione accompagnati da misure della PAR, parametri chimici e fisici. Negli altri due ambienti Pusiano e Alserio il numero delle uscite è stato limitato a 4 lungo le stagioni che saranno oggetto del mio confronto. Tutti questi 3 laghi presentano una propria composizione in specie fitoplanctoniche, se ne illustrerà la struttura descrivendone il rapporto che esiste tra la morfologia cellulare e parametri di crescita. Nel Lago di Pusiano, il conteggio al microscopio invertito, ha rilevato come per tutto l’anno circa l’80% della biomassa fitoplanctonica sia costituita da cianobatteri in particolare Planktothrix rubescens (specie coloniale filamentosa), parzialmente sostituta nel mese di agosto da un popolamento sempre dominato da cianoficee, nel quale era prevalente Microcystis aeruginosa, specie di tipo coloniale globulare. Anche nel Lago di Alserio la biomassa del popolamento fitoplanctonico è dominata dal gruppo dei cianobatteri in particolare Microcystis aeruginosa responsabile di una fioritura estesa su tutto il lago in ottobre, ma anche Aphanocaspa sp. e Merismopedia sp. Il Lago Maggiore, ormai consolidato in una condizione di oligotrofia, presenta un popolamento fitoplanctonico costituito da diatomee centrali e pennate appartenenti ai generi Cyclotella, Fragilaria e Asterionella che costituiscono insieme a piccole criptoficee la quasi totalità della biomassa presente nel lago. Comunque, anche nel Lago Maggiore i cianobatteri rappresentano una componente numericamente importante, grazie al contributo di alcune Chroococcales coloniali di piccole dimensioni (es. Aphanothece clathrata o Aphanocapsa sp.). I tre laghi studiati si presentano quindi con popolamenti alquanto differenti non solo come composizione specifica, ma anche come caratteristiche morfologiche e, presumibilmente, fisiologiche. L’efficienza di assimilazione di carbonio è stata profondamente diversa nei tre ambienti e riflette le condizioni trofiche, infatti si è calcolato come nel confronto stagionale, nei mesi di novembre e dicembre, l’assimilazione di carbonio è ben al di sotto dei 150 mg m -2 d -1 per tutti e tre gli ambienti. Il massimo della produzione è stato riscontrato rispettivamente il 28 e il 22 maggio nel Lago di Alserio 1553,03 mg m-2 d-1 e nel Lago Maggiore 844 mg m-2 d-1, mentre nel Lago Pusiano il massimo si riscontra al 20 agosto con un valore di 964,95 mg m-2 d-1. Dal confronto morfologico e funzionale delle comunità è possibile affermare come nel Lago Maggiore, dove il popolamento è caratterizzato da alghe di piccole dimensioni, si abbia come conseguenza una più bassa produzione e bassi tassi di crescita; condizione opposta si è verificata negli altri due ambienti dove le specie presenti sono caratterizzate da un basso rapporto superficie volume (sv -1) e lunghezza elevata che ha permesso una migliore efficienza fotosintetica e più alti tassi di crescita. Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni G. Onofrietti1,2, A. Fierro2, V. Magliulo1, A. Virzo De Santo2 Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” 1 CNR-ISAFOM, via Patacca 85, 80056 Ercolano (Na) 2 Dipartimento di Biologia Vegetale Università di Napoli “Federico II”, via Foria 223, 80137 Napoli e.mail: [email protected] Misura dei flussi di N2O mediante la tecnica della correlazione turbolenta in un ecosistema agricolo dell’Italia meridionale Le attività antropiche provocano profonde alterazioni sui cicli biogeochimici degli elementi, con conseguenze rilevanti sulla composizione chimica e sulle proprietà radiative dell’atmosfera. Tra gli elementi di particolare importanza, soprattutto per gli ecosistemi agricoli, vi è sicuramente l’azoto e può risultare interessante uno studio mirato a fornire informazioni sul suo complesso ciclo o almeno su una porzione di esso. La gestione del sistema agricolo, in particolare la fertilizzazione azotata e l’irrigazione, incide sui processi microbiologici di nitrificazione e denitrificazione nella produzione ed emissione in atmosfera di protossido di azoto (N2O), un gas ad effetto serra. Da tale presupposto parte questo progetto di ricerca, che ha lo scopo di realizzare un monitoraggio a lungo termine sui flussi di N2O tramite la tecnica della correlazione turbolenta (eddy covariance, EC) in un ecosistema agricolo dell’Italia meridionale durante varie stagioni di crescita vegetale. Il territorio nazionale è assolutamente privo di stime sul contributo dei suoli, sia naturali che agricoli, sulle emissioni di N2O in atmosfera. Lo studio sarà realizzato in una stazione sperimentale rappresentata da un sistema agricolo a regime irriguo coltivato ad erba medica (Eboli Sa). La stazione fa parte del network FLUXNET, una rete mondiale di quasi 200 siti campione per il monitoraggio a lungo termine dei gas atmosferici in zone con forte impatto antropico. Per il monitoraggio dei flussi di N2O sarà applicata la tecnica della correlazione turbolenta mediante l’uso della spettroscopia a diodo laser (TDLS), essa é in grado di fornire misure di flusso di uno scalare ad elevata frequenza (fino a 10 Hz). In Italia la tecnica della correlazione turbolenta è stata sino ad ora applicata per monitorare gli scambi di CO2 e H2O, sia da sistemi naturali che agricoli (reti EUROFLUX e FLUXNET). L’EC si basa sul principio che un generico flusso verticale attraverso una superficie immaginaria al di sopra della copertura vegetale si esprime come il prodotto tra la componente verticale della velocità del vento e la densità di uno scalare, in questo caso l’N2O. È una tecnica che permette misurazioni in situ e non perturba l’ambiente circostante, consente misure continue e fornisce risultati integrati su un’area relativamente ampia. Quindi questa tecnica offre dei vantaggi sostanziali alle tradizionali tecniche delle camere ampiamente utilizzate per il monitoraggio di flussi di N2O. Bachisio Mario Padedda Dottorato di Ricerca in Analisi e Gestione dei Sistemi Ecologici Dipartimento di Botanica ed Ecologia Vegetale, Università di Sassari, via Muroni 25, 07100 Sassari e.mail: [email protected] Studi sulle lagune sarde: lo Stagno di Cabras (Oristano) Le zone umide della Sardegna, pari a circa il 2,6% del totale nazionale, sono rappresentate principalmente da lagune costiere (10.000 ettari). Molte di queste hanno subito un profondo riassetto rispetto alla loro naturale conformazione come conseguenza degli imponenti lavori di bonifica effettuati nei primi decenni del secolo scorso e per gli interventi, anche recenti, di regolazione e scambio idraulico con il mare. Il Dipartimento di Botanica ed Ecologia Vegetale dell’Università di Sassari da più di venti anni si occupa dello studio di questi ambienti, con la raccolta di dati pluriennali riguardanti i descrittori utili a definire la loro ecologia di base, con particolare attenzione allo stato trofico. Sulla base di questi studi (Sechi, 1982, Boll. Soc. Sarda Sci. Nat ., 21:285-295), la maggior parte di queste lagune risulta eutrofica a causa dell’elevato input di nutrienti provenienti dai bacini imbriferi e/o da uno scambio non adeguato con il mare. Tutto questo si traduce in un intenso sviluppo della componente vegetale macrofitica e/o fitoplanctonica (quest’ultima aggravata in alcuni casi dall’affermazione di specie potenzialmente tossiche), che può portare al manifestarsi di eventi distrofici più o meno frequenti e gravi. In considerazione anche, dell’alta variabilità interannuale associata a queste componenti, sono richiesti studi su scala pluriennale per definire al meglio i programmi di gestione e risanamento. Nell’ambito di queste tematiche di ricerca (conoscenze dell’ecologia di base su scala pluriennale delle lagune sarde e loro applicazione per la gestione e il recupero ambientale) rientra la tesi di dottorato svolta sullo Stagno di Cabras (Sardegna centro occidentale, Area = circa 23,8 km 2, Profondità media = 1,6 m, Volume = 38.106 m3), il più grande dell’isola. Questa laguna è l’unica che in Sardegna mostri una ridotta presenza di macrofite, per cui si può ipotizzare che la sua produttività primaria sia quasi completamente a carico del fitoplancton. Questo, peraltro, può svilupparsi raggiungendo elevati valori di densità cellulare e di biomassa tanto che, negli anni passati, sono stati osservati ripetuti episodi di anossia in coincidenza o successivamente ad intensi blooms fitoplanctonici e per il perdurare di lunghi periodi di stasi meteoclimatica. Uno degli eventi più gravi si è verificato nel giugno 1999, quando l’imponente crisi anossica si è accompagnata con un’estesa e grave moria di pesci, con il pressoché completo azzeramento della componente ittica. Lo svolgimento della ricerca riguarda sia l’analisi temporale e spaziale di alcuni descrittori trofici (temperatura, pH, salinità, ossigeno disciolto, diverse forme del fosforo e dell’azoto, silice reattiva, clorofilla a , densità, biomassa, composizione in specie e struttura del fitoplancton, componente macrofitica), sia la valutazione del bilancio di massa del fosforo e dell’azoto per via sperimentale e teorica. Lo studio prevede il raffronto dei dati raccolti con quelli pregressi, al fine di evidenziare la variabilità inter e intrannuale dei parametri studiati per giungere ad un’adeguata valutazione dei livelli di trofia. L’insieme dei risultati ottenuti sarà elaborato ed interpretato per consentire la formulazione di diverse ipotesi di intervento ambientale, finalizzate alla valorizzazione delle specificità naturali dello Stagno di Cabras e ad una sua migliore utilizzazione anche in termini economici e quindi sociali. 19 Romina Passaro Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali, Tutela e Gestione delle Risorse Naturali, Università di Bologna Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Scienze Ambientali di Ravenna, Università di Bologna, via Tombesi dall’Ova 55, Ravenna e.mail: [email protected] Monitoraggio della biodiversità macrobentonica in Alto Adriatico in relazione alla presenza di strutture offshore: impostazione di un modello d’indagine a larga scala Gli organismi macrobentonici di fondo molle sono una delle componenti del biota marino più estesamente utilizzata per la valutazione della qualità ambientale. L’analisi dei popolamenti bentonici è stata ampiamente utilizzata nelle indagini sul disturbo indotto dalle piattaforme offshore per l’estrazione di gas presenti in Alto Adriatico. La maggior parte degli studi era finalizzata alla valutazione dell’impatto delle singole piattaforme e prendeva in considerazione un’area del diametro di pochi chilometri. La distribuzione dei popolamenti macrobentonici è influenzata da numerosi fattori biotici e abiotici, che variano nello spazio e nel tempo. La complessità da loro determinata assume un maggiore rilievo aumentando la scala spaziale considerata. Per poter analizzare la distribuzione su ampia scala si rende necessario definire i livelli di base di variabilità che caratterizzano l’area di studio e valutare il ruolo ed il contributo dei singoli fattori ambientali. Il disturbo delle piattaforme offshore sull’ambiente sedimentario è determinato principalmente dai fanghi e ritagli di perforazione, dai fluidi derivanti dall’attività estrattiva, e occasionalmente anche dagli sversamenti accidentali di idrocarburi. L’obiettivo dell’attività di dottorato è lo sviluppo di un protocollo per il monitoraggio su ampia scala geografica dell’attività offshore, utilizzando come strumento di valutazione le alterazioni indotte nei popolamenti bentonici. Questo metodo d’indagine è stato ampiamente utilizzato in diverse realtà ambientali. Decenni di ricerche condotte nel Mare del Nord hanno portato all’impostazione del protocollo OSPAR che disciplina il monitoraggio delle piattaforme di estrazione e che pone al centro lo studio delle comunità bentoniche. In Alto Adriatico la densità e la distribuzione, in alcuni casi aggregata, delle piattaforme offre l’opportunità di sviluppare un’analisi di impatto su larga scala. Per poter discernere la variabilità intrinseca del sistema da quella eventualmente indotta dal disturbo l’impostazione del disegno sperimentale dovrà tenere conto in maniera appropriata della distribuzione spaziale delle strutture e dei gradienti geografici di variabilità ambientale. Tra i principali fattori che determinano i pattern geografici di distribuzione dei popolamenti bentonici dell’Alto Adriatico si possono considerare la presenza del fiume Po, che crea un gradiente Nord-Sud in termini ad esempio di arricchimento organico, la profondità, che crea un gradiente perpendicolare a costa, i fenomeni di eutrofizzazione e di formazione di mucillagine. Un ulteriore elemento che sarà incluso nel disegno sperimentale è la valutazione dell’effetto del divieto di pesca imposto nell’area circostante le piattaforme. Contestualmente all’analisi della distribuzione dei popolamenti bentonici, verranno condotte analisi delle variabili ‘abiotiche’, quali, ad esempio, la granulometria del sedimento, il contenuto di materia organica, la caratterizzazione della colonna 20 d’acqua, ecc. La risposta delle comunità verrà esaminata su differenti scale spaziali: dalla scala minore (relativa all’area circostante la singola piattaforma) che fornisce dati comparabili con i risultati ottenuti negli studi precedenti, alla scala maggiore delle decine di chilometri generalmente non considerata in questo tipo di studi. Antonella Pellegrino Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Scienze della Vita, Seconda Università di Napoli, via Vivaldi 43, 81100 Caserta e.mail: [email protected] Studio sui cambiamenti di attività, di quantità e di localizzazione della biomassa microbica in suoli soggetti ad impatto antropico La qualità ambientale di un’area può essere stimata con l’uso di opportuni indicatori, che possono essere definiti come strumenti in grado di rappresentare particolari condizioni dell’ambiente. Per quanto riguarda il suolo, risorsa naturale non rinnovabile nella scala temporale umana, e spesso soggetta a rischio di perdita e degrado per inquinamento e modalità d’uso scorrette, diversi indicatori, come il pH, la respirazione del suolo, la biomassa microbica, il C microbico, il rapporto Cmic /Corg , le attività enzimatiche, possono contribuire, sebbene con importanza diversa, alla definizione di qualità del suolo. Negli ultimi anni è, inoltre, aumentato l’interesse per la comprensione della distribuzione dei microrganismi e delle attività enzimatiche nelle diverse frazioni di suolo caratterizzate dalla presenza di particelle minerali di diversa grandezza. Quest’ultimo aspetto risulta di particolare importanza per determinare come le alterazioni ambientali possono modificare la struttura del suolo e di conseguenza i micrositi di localizzazione della biomassa microbica e degli enzimi da essa rilasciati. Per una opportuna valutazione di questa è dunque opportuno raccogliere informazioni relative a più indicatori e cercare quei caratteri o indici che permettano di individuare i limiti entro cui un suolo può essere descritto come di buona qualità. Il piano di lavoro prevede campionamenti di suolo in tre diverse aree: area urbana della città di Caserta, che risente dell’inquinamento causato prevalentemente dal traffico veicolare; aree agricole, ma incolte da almeno 5 anni, nella valle del Solofrana, che risentono dell’impatto da metalli pesanti derivanti dalle concerie situate lungo il corso del torrente Solofrana; aree agricole della basso Lazio, che subiscono trattamenti con pesticidi e fertilizzanti. Sui campioni di suolo si valutano diverse attività enzimatiche, il contenuto di biomassa microbica mediante il metodo indiretto di estrazione dell’ATP, il contenuto di C organico, N totale nonché la presenza di inquinanti quali i metalli pesanti (concentrazione totale e frazione disponibile). Le suddette analisi vengono eseguite su suolo integro e successivamente su suolo frazionato secondo la metodica proposta da Stemmer et al. (1998, Soil Biol. Biochem. 30:9-17) e modificata da Kandeler et al. (1999, Soil Biol. Biochem. 31:1253-1264). Con i dati ottenuti dalle analisi sopra riportate si calcoleranno una serie di rapporti che potrebbero Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni rappresentare degli indici di qualità del suolo. Dalle prime analisi effettuate è risultato, per quanto concerne il suolo dell’area prescelta nella valle del Solofrana, che la biomassa microbica e le attività enzimatiche fino ad ora saggiate (ureasi, proteasi, fosfatasi alcalina) sono più elevate nel campo che ha subito l’ultima esondazione circa 22 anni fa. Ciò potrebbe indicare un sostanziale effetto resilienza nel suolo. Per quanto riguarda, invece, le aree agricole del basso Lazio, i risultati ottenuti da analisi effettuate su suolo coltivato a pomodoro mostrano un incremento dell’attività ureasica in seguito ai trattamenti apportati. Al contrario, la biomassa microbica incrementa subito dopo il trattamento con i fertilizzanti, ma diminuisce sensibilmente in seguito all’apporto di fungicidi al suolo. Ulteriori analisi sui suoli su menzionati e sui suoli dell’area urbana sono tuttora in corso. nella maggior parte dei casi si traduce in bioaccumulo, ed effetto biologico e fornisce informazioni importanti sulle capacità difensive/adattive di ciascuna specie nell’ambiente naturale (Focardi et al., 1998). Questo programma di monitoraggio ha, dunque, il compito di descrivere le Aree Marine Protette mediante strumenti chimico-analitici (analisi dei residui) e biochimicoenzimatici (biomarker). I suoi risultati potranno essere utilizzati per fornire informazioni sulla presenza o meno di agenti inquinanti nelle aree marine protette italiane; per effettuare in maniera mirata un più esteso e approfondito controllo della valutazione della presenza di situazioni di stress ambientale; per valutare la variazione nel tempo della contaminazione, confrontando i dati ottenuti con quelli di altri lavori svolti; infine per contribuire ad individuare le zone “pulite” da valorizzare sia dal punto di vista naturalistico che turistico. Bibliografia Guido Perra Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Applicate all’Ambiente, Università di Siena Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”, Università di Siena, via delle Cerchia 3, 53100 Siena e.mail: [email protected] Approccio integrato per lo studio della qualità ambientale nelle Aree Marine Protette italiane Nonostante che la prima concezione di parco marino, laboratorio per la conoscenza del mare, fosse nata già nella fervida mente di Leonardo da Vinci (Bellamy, 1985) è solo con il recente riconoscimento del profondo impatto antropico sugli ecosistemi marini che si è avuto un forte sviluppo della politica di salvaguardia di tali sistemi. Negli ultimi anni, infatti, in Italia, uno dei mezzi di protezione che ha ricevuto maggiore attenzione è quello delle riserve marine, per il ruolo strategico che rivestono nell’ambito della gestione degli ambienti marini e a cui sono riconosciute funzioni di particolare importanza biologica, sociale ed economica (Allison et al., 1998; Boero et al., 1999). In questo filone d’indagine s’inserisce il presente progetto di ricerca, che si propone di contribuire allo studio della qualità ambientale di ecosistemi di particolare interesse naturalistico e protezionistico quali le Aree Marine Protette, mediante lo sviluppo di un sistema che permetta di integrare una serie di informazioni chimicofisico-biologiche, ottenute dai sedimenti marini superficiali e da organismi animali rappresentativi di vari livelli trofici, presenti in queste aree. Sui sedimenti sono valutati i parametri chimici legati alla contaminazione ambientale ed in particolare sono considerate alcune sostanze xenobiotiche, eventualmente presenti nell’ambiente acquatico. I contaminanti studiati sono gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e i composti diossino-simili, PCB compresi. Sugli organismi vengono determinati i livelli di bioaccumulo tissutale dovuto all’esposizione a miscele di molecole di differente origine e il grado di alterazione a livello di funzioni e/o strutture biologiche. La conoscenza dei livelli di concentrazione dei contaminanti d’origine antropica risulta essere un valido strumento per valutare sia l’eventuale rischio dovuto alla loro tossicità che le ripercussioni sulla funzionalità biologica dell’organismo e della popolazione. L’applicazione di un approccio integrato, costituito da analisi chimiche e risposte biologiche, si basa sull’inevitabile connessione tra esposizione chimica, che Allison G.W., J. Lubchenco, M.H. Carr. 1998. Marine reserves are necessary but not sufficient for marine conservation. Ecological Applications 8:79-92. Bellamy D.J. 1985. The Evolution and the Concept of Natural Parks. Atti del Convegno Internazionale “I Parchi costieri Mediterranei”, Salerno Castellabate, 18-22 giugno 1973, :757-762. Boero, F., F. Brian, F. Micheli. 1999. Scientific design and monitoring of Mediterranean Marine Protected Areas. CIESM Workshop Series, 8, 64 pp. Focardi S., M.C. Fossi, C. Leonzio, S. Aurigi, S. Casini, I. Corsi, S. Corsolini, F. Monaci, J.C. Sanchez-Hernandez. 1998 Bioaccumulation and biomarker responses to organochlorines, policyclic aromatic hydrocarbons and trace metals in Adriatic sea fish fauna. Rapport Commission Internationale sur la Mer Méditerranée 35:256-257. Ermelinda Raffone Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Scienze della Vita, Seconda Università di Napoli, via Vivaldi 43, 81100 Caserta e.mail: [email protected] Studio delle fitoplasmosi in piante di pero e di albicocco: eziologia, sintomatologia e trasmissione I fitoplasmi, procarioti endofiti privi di parete cellulare di dimensioni inferiori a quelle dei batteri, colonizzano il floema delle piante provocando danni in centinaia di specie vegetali di grosso interesse economico. Essi appartengono alla classe dei Mollicutes e sono classificabili a partire da analisi RFLP in 10 gruppi (definiti 16S rRNA) e in 15 sottogruppi. La trasmissione e la diffusione naturale ed artificiale dei fitoplasmi avvengono per l’azione di insetti-vettori e attraverso varie tecniche di innesto e di propagazione vegetativa. I principali vettori di fitoplasmosi a diffusione naturale sono insetti che appartengono all’ordine dei Rincoti, Omotteri Auchenorrinchi (Cicadellidi e Cixidi) e Sternorrinchi (Psyllidi), e trasmettono i patogeni seguendo modalità di tipo circolativo-propagativo. Nelle piante i sintomi indotti dai fitoplasmi sono in generale ascrivibili ad accentuati squilibri e disordini del metabolismo dei regolatori di crescita (acido indolacetico, citochinine ed acido gibberellico), ma il/i meccanismo/i di patogeneticità dei fitoplasmi nei confronti delle piante, in particolare quelle 21 arboree, non sono ancora stati chiariti (Lee et al., 2000, Ann. Rev. Microb. 54:221-255). Al fine di migliorar la conoscenza della trasmissibilità naturale del parassita e della sensibilità delle diverse cultivar al parassita stesso è stato valutato il grado di diffusione in campo della leptonecrosi, fitoplasmosi tipica del susino indotta dal patogeno appartenente al sottogruppo 16SrX-B, verificando le condizioni sanitarie di 18 varietà (16 cinogiapponesi e 2 europee) presenti in un campo collezione di susino in provincia di Roma (collezione ISF- Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma, Fiorano). Per ogni campione fogliare è stato estratto DNA dalle nervature principali per l’analisi PCR, sia “diretta” che “nested”, e per l’analisi RFLP. Le analisi effettuate fino al 2002 hanno evidenziato la presenza di infezione da fitoplasmi nel 45% delle 61 piante controllate confermando sia la lenta ma progressiva infezione in atto che la presenza di piante asintomatiche che ospitano il fitoplasma rappresentando pericolose fonti di inoculo. In questo campo ed in altri due campi di albicocco e di susino in provincia di Caserta (Pignataro Maggiore) dove in precedenza erano stati reperiti campioni fogliari risultati positivi per la presenza del fitoplasma 16SrX-B è stato inoltre verificato se era presente il vettore della fitoplasmosi già segnalato (Carraro et al., 1998, J. Plant Path. 80:233-239) e se altre specie di fitofagi vettori potevano essere associate alla diffusione della malattia. L’analisi tassonomica ha permesso di classificare le cicadellidi reperite nei campi di Caserta assegnandole alla specie Empoasca decedens Paoli (Homoptera-Typhlocybinae). Inoltre, le analisi di “nested-PCR”/RFLP hanno permesso di individuare nei campioni di DNA estratto da alcuni esemplari di E. decedens la presenza di fitoplasmi appartenenti a diversi sottogruppi. In letteratura non sono riportati precedenti studi che attestino il possibile coinvolgimento di E. decedens Paoli nella trasmissione di fitoplasmosi. Il fatto che l’E. decedens sia risultata positiva a più fitoplasmi, fa supporre che possa essere un portatore, ma che possa non trasmettere tutti i fitoplasmi che trasporta. Occorrerà verificare con prove di trasmissione, già in corso presso l’Istituto di Frutticoltura di Caserta, il ruolo di questo insetto nella epidemiologia della malattia provocata dal fitoplasma dell’European Stone Fruit Yellows (giallume europeo delle drupacee) in susino ed albicocco. Inoltre, verranno valutati alcuni effetti fisiologici indotti dalla fitoplasmosi sia in piante di pero e di albicocco conservate nei campi sopra citati sia in piante di Vinca cresciute in vitro. inquinanti rilasciati da impianti a gabbie a mare in Liguria, il modello dispersivo LAMP3D è stato interfacciato col modello idrodinamico POM. Le distribuzioni di azoto, fosforo e carbonio organico provenienti dall’allevamento antistante Lavagna (GE) sono state calcolate su un dominio tridimensionale ad alta risoluzione e comparate con i dati sperimentali disponibili. Per fornire un quadro complessivo dei fenomeni dispersivi nelle acque costiere della Liguria, l’indagine verrà estesa ai siti ove è possibile posizionare in futuro nuovi impianti. Metodi II Lagrangian Assessment for Marine Pollution 3Dimensional model è un modello numerico a singola particella Lagrangiana, sviluppato presso l’Università di Genova. Ad ogni passo temporale ciascuna particella si muove con una velocità V=U+v’, dove U è il campo dovuto al trasporto medio, mentre v’ è una fluttuazione stocastica che rappresenta i fenomeni turbolenti legati ai piccoli vortici non risolti nel campo medio. Il modello idrodinamico utilizzato è il noto Princeton Ocean Model (Mellor, 1998). Si tratta di un modello numerico alle differenze finite, tridimensionale, con superficie libera che adotta l’approssimazione idrostatica e di Boussinesq e la tecnica detta mode splitting. Risultati e sviluppi futuri I calcoli numerici sull’impianto di Lavagna sono in buon accordo con i numerosi dati correntometrici della zona e coerenti con i primi dati disponibili sui nutrienti (Doglioli et al. , 2003). I risultati dello studio mostrano che il materiale disciolto tende a disperdersi rapidamente e a diluirsi in base alla corrente superficiale forzata dal vento dominante. Il materiale particolato, feci e cibo non consumato, rimane invece confinato nei pressi delle gabbie, accumulandosi sul fondo. Nel breve periodo le concentrazioni di nutrienti risultano molto basse nella colonna d’acqua e basse nel sedimento, non superando le soglie indicate nella valutazione di rischio (Cromey et al., 1998). La risospensione del materiale di deposito risulta un aspetto da considerare in futuro per effettuare previsioni a medio-lungo termine. Inoltre si studieranno fenomeni di stagnazione e ricircolo nelle acque costiere dovuti alla complessità della batimetria della costa ligure. Una mappa completa dei fenomeni dispersivi nelle acque costiere liguri migliorerà la capacità previsionale e l’obiettività nei processi decisionali per uno sviluppo sostenibile della maricoltura in Liguria. F. Rinaldi 1,4, A.M. Doglioli 2,4, M.G. Magaldi 3,4 1 Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali - Scienza del Mare, Università di Genova, e.mail: rinaldi@fìsica.unige.it 2 Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali - Scienza del Mare, Università di Genova, e.mail: [email protected] 3 Dottorato di Ricerca in Geofisica, Università di Genova, e.mail: [email protected] 4 INFM, Istituto Nazionale di Fisica della Materia, Dipartimento di Fisica, Università di Genova, via Dodecaneso 33, 16146 Genova Indagine numerica dei fenomeni dispersivi nei siti per impianti di maricoltura in Liguria Introduzione I modelli matematici costituiscono un utile strumento nella valutazione dell’impatto ambientale della maricoltura (Henderson et al., 2001). Per studiare la dispersione degli 22 Bibliografia Cromey C.J., K.D. Black, A. Edwards, I.A. Jack. 1998. Modelling the deposition and biological effects of organic carbon from marine sewage discharges. Estuarine, Coastal and Shelf Sciences 47:295-308. Doglioli A.M., M.G. Magaldi, L. Vezzulli, S. Tucci. Development of a numerical model to study the dispersion of wastes coming from a marine fish farm in the Ligurian Sea (Western Mediterranean). Aquaculture (submitted). Henderson, A., S. Gamito, I Karakassis, P. Pederson, A. Small. 2001. Use of hydrodynamic and benthic models for managing environmental impacts of marine aquaculture. Journal of Applied Ichthyology 17:163-172. Mellor, G.L. 1998. Users Guide for a three-dimensional, primitive equation, numerical ocean mode. Program in Atmospheric and Oceanic Sciences. Princeton University, Princeton. Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni Franca Sangiorgio Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Ecologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, via Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Implicazioni della taglia individuale sulla struttura e organizzazione di comunità a base detrito Una delle aree problematiche di interesse dell’ecologia riguarda lo studio dei meccanismi sui quali si basa la organizzazione delle comunità. Recentemente, è stato proposto che la mole corporea degli individui possa intervenire nei rapporti di coesistenza tra le specie, determinando una organizzazione gerarchica delle comunità. La mole corporea è una caratteristica fenotipica che influenza il bilancio energetico degli individui e, conseguentemente, il comportamento individuale nell’uso dello spazio, in termini di selezione, abbandono ed efficienza di utilizzazione dei patches. L’insieme di tali osservazioni ha portato alla determinazione di un modello spazialmente esplicito di organizzazione di corporazioni e comunità, in cui la coesistenza interspecifica sembra poter essere indipendente dalla ripartizione delle risorse utilizzate e, quindi, dalla sovrapposizione di nicchia. Tale modello permette la formulazione di una serie di ipotesi relative alla struttura in taglia delle corporazioni ed alle sue variazioni, che possono essere sottoposte a verifiche sperimentali. Infatti, le relazioni tra mole corporea e bilancio energetico individuale permettono di formulare dei modelli nulli di distribuzioni taglia-abbondanza, la cui realizzazione dipende, peraltro, dai meccanismi di organizzazione delle comunità. All’interno di tale area problematica il lavoro di tesi si propone di valutare l’idoneità di un meccanismo di organizzazione delle comunità, basato su una gerarchia di dimensioni individuali, per spiegare caratteristiche strutturali relative a comunità acquatiche a base detrito. A tal proposito sono state sottoposte a verifica sperimentale alcune ipotesi derivanti dal modello di coesistenza legato alla taglia, e cioè che: i)la struttura in taglia delle comunità sia ad un livello gerarchico più elevato della struttura tassonomica; ii)esista una gerarchia legata alla mole corporea nell’uso dell’energia nei sistemi acquatici a base detrito; iii)variazioni nella disponibilità di risorse, espresse come funzione delle dimensioni e della produttività dell’habitat, influenzino le specie presenti in rapporto ad una gerarchia di dimensioni corporee. Nel primo anno di tesi sono state sviluppate una serie di ricerche sperimentali volte a verificare la prima ipotesi. In questo lavoro sono presentati dati, relativi a sistemi bentonici a base detrito, raccolti in un’area di transizione dell’Italia meridionale, costituita da tre ecosistemi: il lago Alimini Grande, il lago Alimini Piccolo ed il canale dello Zuddeo. Il lavoro sperimentale è stato realizzato in un arco temporale annuale durante il quale i macroinvertebrati bentonici sono stati campionati con l’utilizzo della tecnica dei pacchi fogliari. Sono state descritte alcune caratteristiche strutturali delle corporazioni bentoniche, quali abbondanza numerica e composizione tassonomica, biomassa individuale e strutture taglia-abbondanza; sono, inoltre, state analizzate la similarità tassonomica e la similarità in taglia a diverso livello di scala, da microlocale a scala di paesaggio, descrivendo la loro co-vaziazione e le variazioni in rapporto a gradienti ambientali. I risultati ottenuti evidenziano che: a) similarità tassonomica e similarità in taglia mostrano valori simili su scala microlocale, ma a livelli gerarchici più alti la similarità in taglia resta in media costante, mentre la similarità tassonomica si porta su valori sempre più bassi; b)i valori mediamente bassi della similarità in taglia a livello microlocale sembrano essere dovuti ad una bassa numerosità dei campioni, come risulta dalla risposta funzionale di terzo tipo calcolata (F=40.65, g.l.=2.61, P<0.05); c)esistono correlazioni tra similarità tassonomica e similarità in taglia a ciascun livello gerarchico che indicano oscillazioni comunque in fase, nonostante, passando a livelli gerarchici superiori, la struttura in taglia delle comunità a base detrito risulti relativamente invariante rispetto alla struttura tassonomica (t-Student test, P<0.05). L’insieme dei risultati ottenuti sembra in definitiva, sostenere che in corporazioni di invertebrati bentonici la struttura in taglia possa avere un ruolo gerarchicamente superiore rispetto alla struttura in taxa. Silvia Tavernini Dottorato di Ricerca in Ecologia, Università di Parma Dipartimento di Scienze Ambientali, Università di Parma, Parco Area delle Scienze 33A, 43100 Parma e.mail: [email protected] Struttura di comunità planctoniche in pozze temporanee d’alta quota L’argomento principale di questa ricerca è lo studio delle comunità planctoniche, con particolare riferimento a quelle zooplanctoniche, che caratterizzano pozze temporanee d’alta quota. In questo lavoro sono state prese in considerazione 9 pozze del versante settentrionale dell’Appennino, dislocate in Val Cedra e situate lungo un range altitudinale che va da 1596 m a 1733 m s.l.m. Gli ambienti temporanei, cioè bacini isolati in cui l’acqua è assente per una parte dell’anno, a causa della loro limitata estensione e profondità, si connotano per un alto grado di imprevedibilità e una marcata variazione delle caratteristiche fisiche e chimiche delle acque. L’estrema variabilità che li caratterizza ha quindi senz’altro operato una selezione sulle biocenosi zooplanctoniche esistenti che sono costituite, oltre che da un gruppo di specie cosmopolite, normalmente presenti anche in ambienti permanenti, da organismi caratteristici solo di biotopi di acque astatiche. In generale la spiccata euritermia, l’eurialinità, l’adozione di un ciclo biologico relativamente breve, la formazione di stadi di resistenza, sono tutti fattori che permettono la sopravvivenza in questo tipo di ambienti. Gli stadi di dormienza ed anidrobiosi generati da tardigradi, rotiferi, copepodi ed anostraci per superare la periodica mancanza d’acqua sono anche il mezzo grazie al quale, inoltre, molte specie sono passivamente disperse attraverso il vento, la pioggia, gli insetti e gli uccelli migratori. Appare quindi evidente come l’analisi sia delle componenti abiotiche che biotiche che caratterizzano ambienti di acqua astatiche sia di fondamentale importanza per capire i meccanismi che regolano la formazione e l’evoluzione dei popolamenti zooplanctonici in questi biotopi. Lo studio delle pozze della Val Cedra è iniziato nel 2001 durante il periodo delle acque aperte (maggio-novembre) ed è continuato nelle stesso arco di tempo nel 2002. L’attività di campionamento, 23 durante la quale sono stati raccolti sia campioni di plancton per la successiva analisi tassonomica e il conteggio, sia campioni d’acqua per le analisi chimiche, è stata compiuta con una frequenza tale da classificare le pozze in funzione dell’idroperiodo e seguire tutte le fasi di sviluppo delle comunità presenti. I risultati del primo anno di ricerca hanno evidenziato che, generalmente, le comunità dei corpi d’acqua indagati sono poco complesse, come è d’altra parte da attendersi in ambienti che si trovano a quote elevate e hanno una durata limitata. La periodica mancanza d’acqua appare essere il fattore chiave nel determinare la struttura delle biocenosi prese in esame. Infatti, le pozze presentano comunità zooplanctoniche diverse in funzione del loro idroperiodo e anche il tempo di colonizzazione e la persistenza delle specie si differenziano in funzione della permanenza dell’acqua nei singoli habitat. Luca Vitale Dottorato di Ricerca in Biologia Applicata (Ecologia Terrestre Piante e Suolo), Università di Napoli “Federico II” Dipartimento di Biologia Vegetale, Università di Napoli “Federico II”, via Foria 223, 80139 Napoli e.mail: [email protected] Influenza dell’intensità luminosa sui meccanismi fotoprotettivi di tre specie di ambiente mediterraneo Le piante degli ecosistemi mediterranei, a causa del clima fortemente variabile nell’arco dell’anno, sono soggette a fattori di stress quali elevate irradianze, basse ed elevate temperature, scarsa disponibilità idrica del suolo. Questi fattori possono limitare il metabolismo assimilatorio del carbonio così che l’energia luminosa assorbita risulta in eccesso (EEL). L’energia luminosa in eccesso, rispetto a quella utilizzata nel processo fotosintetico, può danneggiare i fotosistemi ed in modo particolare i centri di reazione. La dissipazione termica dell’energia di eccitazione associata al ciclo delle xantofille ed il trasferimento di elettroni ad accettori differenti dalla CO 2 rappresentano due importanti processi di dissipazione dell’EEL. Lo scopo di questo lavoro è la valutazione degli effetti delle diverse intensità luminose sui processi di dissipazione termica e fotochimica di tre specie di sclerofille della macchia mediterranea: Laurus nobilis L., Phillyrea angustifolia L. e Arbutus unedo L. Per tutto l’intervallo d’irradianza considerato, compreso tra 200 µmol fotoni m-2s-1 e 1000 µmol fotoni m-2s-1, L. nobilis, ha mostrato un’attività fotosintetica, a causa della bassa conduttanza stomatica, inferiore a P. angustifolia e A. unedo. I dati di emissione di fluorescenza hanno mostrato che la resa quantica del trasporto elettronico del PSII (ÖPSII) si riduce con l’aumentare dell’intensità luminosa in tutte e tre le specie esaminate, ed ha i valori più bassi in L. nobilis. La riduzione di ÖPSII evidenzia l’instaurarsi di meccanismi fotoprotettivi che, pur riducendo l’efficienza fotochimica del PSII, consentono di dissipare l’energia luminosa assorbita in eccesso. Infatti, contemporaneamente alla diminuzione di ÖPSII è stato riscontrato per le tre specie studiate, un incremento della dissipazione termica dell’energia, qN, che è risultato più elevato in L. nobilis. In questa specie la dissipazione termica si è saturata, a differenza delle altre due specie, intorno ad un’intensità luminosa di 800 µmol m-2s-1. Il rapporto ÖPSII/ÖCO2, indicativo dell’efficienza d’uso degli 24 elettroni nell’assimilazione della CO2, è risultato elevato, per tutte le tre specie, indicando che parte dell’energia assorbita viene dissipata fotochimicamente in processi differenti dal metabolismo del carbonio. I valori più elevati di ÖPSII/ÖCO2 evidenziati per L. nobilis denotano un maggior impiego di potere riducente in processi diversi dalla fissazione della CO 2. Il significativo contributo che i meccanismi di dissipazione termica e fotochimica forniscono alla protezione dei centri di reazione, per P. angustifolia e A. unedo, è confermato dal fatto che lo stato di riduzione dell’accettore stabile del PSII, QA, non eccede 0,4 indicato da alcuni autori come valore limite oltre il quale si realizza il danno fotoinibitorio. Soltanto per L. nobilis tale valore viene superato, in corrispondenza della massima intensità luminosa utilizzata, evidenziando per questa specie una maggiore suscettibilità al danno fotoinibitorio. Ciò è in accordo con il fatto che questa specie, a differenza di P. angustifolia e A. unedo, colonizza in maniera preferenziale ambienti del sottobosco non esposti ad elevate intensità luminose. Nicola Zaccarelli Dottorato di Ricerca in Ecologia Fondamentale, Università di Lecce Laboratorio di Ecologia del Paesaggio, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali, Università di Lecce, Ecotekne, Prov.le Lecce-Monteroni, 73100 Lecce e.mail: [email protected] Indici multiscalari da remoto di resilienza in un landscape Per resilienza intendiamo la capacità di un sistema socioecologico (socioecological system, SES) di tollerare un disturbo senza muoversi verso un diverso dominio di stabilità controllato da un set differente di processi e strutture (Holling, 2001). Il concetto ha livelli multipli di significato: come metafora legato alla sostenibilità, come proprietà dei modelli dinamici e come quantità misurabile che può essere stimata negli studi in campo dei SES. Tuttavia poca attenzione è stata dedicata in letteratura all’individuazione di indicatori operativi di resilienza (Carpenter et al., 2001). Scopo della tesi di dottorato è l’elaborazione di misure di resilienza di habitat integrando tecnologie dei Geographic Information System , procedure di elaborazione di immagini da satellite e di statistica spaziale (Curran, 2001). L’area di studio è la valle del Torrente Baganza (Provincia di Parma), espressione di un SES caratteristico e ripetitivo dell’Appennino Emiliano in termini di gradienti ambientali, pressioni demografiche e modalità d’uso del suolo. La dinamica del mosaico paesistico di habitat, identificato sulla base dell’approccio CORINE BIOTOPES, verrà descritta, sulla base di metriche della landscape ecology, e comparata fra gli anni 1954, 1976, 1988 e 2000 relazionandola all’andamento del regime di disturbo antropico derivabile dagli indicatori socio-economici dei comuni vallivi. In particolare per tre tipologie erbacee di habitat (prati da sfalcio, CORINE 38.2; praterie a Brachipodium genunese, CORINE 36.334; prati secchi, CORINE 34.3266) si effettuerà un’analisi di invarianza dei domini scalari sulla base del calcolo della dimensione frattale perimetrale per derivarne stime di fragilità a posteriori (Grossi et al., 2001). Infine le modalità di propagazione spaziale dell’ ecological change (Ares et al., 2001), quantificato dalle variazioni in indici telerilevati Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni elaborati da immagini Landsat TM 5 nel decennio 19902000, saranno indagate mediante variografia e relazionate alla natura dei processi operanti nelle diverse porzioni della bacino idrografico così come ai diversi domini scalari per le tre tipologie erbacee di habitat. Bibliografia Ares J., M.E. Bertillert, H. del Valle. 2001. Functional and structural landscape indicators of intensification, resilience and resistance in agroecosystems in southern Argentina based on remotely sensed data. Landscape Ecology 16:221-234. Carpenter S., B. Walker, J.M. Anderies, N. Abel. 2001. From Metaphor to Measurement: Resilience of What to What? Ecosystems 4:765-781. Curran P.J. 2001. Remote sensing: using the spatial domain. Environmental and Ecological Statistics 8:331-344. Grossi L., G. Zurlini, O. Rossi. 2001. Statistical detection of multiscale landscape patterns. Environmental and Ecological Statistics 8:253-67. Holling C.S. 2001. Understanding the complexity of economic, ecological, and social systems. Ecosystems 4:390-405. 25 26 Ricerca Ecologica e Ambientale: Paradigmi, Teorie e Applicazioni