ELEMENTI PREDITTIVI DI SUCCESSO/INSUCCESSO NELLA PSICOTERAPIA DEL PAZIENTE CON DOPPIA DIAGNOSI S. Blanco Responsabile Del Servizio Psicosociale, Asl 7, Carbonia Docente Di Psicofisiologia Clinica, Istituto Di Psicologia Generale E Clinica Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Siena Riassunto La complessità del quadro clinico e la gravità dei pazienti con doppia diagnosi consiglia l’effettuazione di un’accurata diagnosi esplicativa al fine di identificare gli elementi predittivi di successo/insuccesso utili all’impostazione strategica dell’intervento psicoterapeutico. Componenti essenziali del trattamento sono l’atteggiamento emozionale del terapeuta, la gestione del paziente in doppio setting e l’integrazione della psicoterapia con gli altri interventi di tipo medico e sociale. È consigliabile che lo psicoterapeuta, al fine di evitare il burnout, si sottoponga ad una supervisione continua e possibilmente operi in doppio setting simultaneo con un altro clinico di orientamento teorico analogo. L’integrazione, attraverso un addestramento comune (setting allargato), di tutti gli operatori rappresenta infine una componente necessaria al buon esito del trattamento. Le difficoltà legate alla gestione, in psicoterapia, dei pazienti con doppia diagnosi impongono un continuo dibattito teorico-clinico e sollecitano l’attenzione sullo studio di forme di assistenza nuove e integrate con gli altri interventi sia di tipo medico che di tipo psicosociale. Sul piano della formazione è necessario uno sviluppo della capacità di discriminazione diagnostica dei disturbi da parte dei clinici coinvolti e una maggior abilità nel riconoscimento di sintomi e nella loro attribuzione alle diverse sindromi rilevate in contemporanea. La limitata e scarsa affidabilità delle tecniche, l’impraticabilità di molte delle soluzioni terapeutiche proposte e l’inefficienza delle strategie di intervento a disposizione sono, per lo più, causate dalla mancata integrazione in relazione ai due versanti (psicologico e psichiatrico) del problema e alle tecniche da impiegare a seguito dei differenti bisogni espressi dai pazienti (psicofarmacologici, psicosociali, ambientali, medico-legali, ecc.). Parole chiave Doppia Diagnosi, Icf, Identità Personale, Messa A Fuoco Dall’interno, Messa A Fuoco Dall’esterno, Campo-Dipendenza, Campo-Indipendenza, Disturbi Di Personalità, Burnout, Doppio Settino. INDICE INDICE ................................................................................................................................................... 2 INTRODUZIONE ...................................................................................................................................... 3 PROBLEMI DIAGNOSTICI ........................................................................................................................ 4 L’ASSESSMENT PSICOSOCIALE E IL FUNZIONAMENTO GLOBALE DEL PAZIENTE .................................... 5 I MODELLI DI TRATTAMENTO NELLA DOPPIA DIAGNOSI ......................................................................... 8 IL TRATTAMENTO SEQUENZIALE ....................................................................................................... 8 IL TRATTAMENTO PARALLELO........................................................................................................... 8 IL TRATTAMENTO INTEGRATO ........................................................................................................... 8 STILI DI COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ PERSONALE .............................................................................. 9 MESSA A FUOCO CENTRATA SULLA INTERIORITÀ O SULLA VARIABILITÀ DEL CONTESTO RELAZIONALE .................................................................................................................................. 10 STILE COGNITIVO E RELAZIONALE DIPENDENTE O MENO DAL CAMPO PERCETTIVO ......................... 11 L’ATTEGGIAMENTO DELLO PSICOTERAPEUTA ..................................................................................... 12 CONSIDERAZIONI STRATEGICHE .......................................................................................................... 13 ESEMPI DI INTERVENTO ....................................................................................................................... 16 DOPPIA DIAGNOSI E DISTURBI D’ANSIA ........................................................................................... 16 DOPPIA DIAGNOSI E DISTURBI DI PERSONALITÀ .............................................................................. 17 DOPPIA DIAGNOSI E DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ ................................................... 18 DOPPIA DIAGNOSI E DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ .................................................. 19 CONCLUSIONI ...................................................................................................................................... 20 BIBLIOGRAFIA ..................................................................................................................................... 22 TABELLA 1 - L’USO, L’ABUSO, LA DIPENDENZA DA SOSTANZE E LA PSICOPATOLOGIA ................................. 4 TABELLA 2 - L’ASSESSMENT PSICOSOCIALE ............................................................................................. 5 TABELLA 3 - IL MODELLO MEDICO VERSUS QUELLO SOCIALE .................................................................... 7 TABELLA 4 - MODELLI DI TRATTAMENTO ................................................................................................. 9 TABELLA 5 - DIMENSIONE INWARD-OUTWARD........................................................................................ 10 TABELLA 6 - DIMENSIONE FIELD DEPENDENT-INDIPENDENTE ................................................................ 11 TABELLA 7 - ALCUNI SINTOMI DEL “BURNOUT” .................................................................................... 12 TABELLA 8 - CONSIGLI PER PREVENIRE IL “BURNOUT”.......................................................................... 12 TABELLA 9 - CRITICITÀ NEL TRATTAMENTO DELLA DOPPIA DIAGNOSI ...................................................... 21 FIGURA 1 - STRUTTURA DELL'ICF .......................................................................................................... 6 FIGURA 2 - INTERAZIONI TRA LE COMPONENTI DELL'ICF ......................................................................... 7 FIGURA 3 - STILI DI COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ PERSONALE .............................................................. 11 Introduzione In ambito psicopatologico sono numerosi i pazienti che, con varia intensità e in combinazioni diverse, mostrano sintomi psichiatrici, esperienze dissociative della coscienza, deficit gravi della regolazione delle emozioni e dipendenza da una o più sostanze. I confini fra le diverse patologie spesso non appaiono netti e, talora, per differenziare alcune sindromi da altre simili, ma più organizzate e maggiormente corrispondenti alla descrizione dei disturbi dell'Asse I del DSM-IV, è necessario porre diagnosi diverse e simultanee per lo stesso paziente. Il problema della comorbilità si pone dunque spesso a chi voglia utilizzare le categorie diagnostiche del DSM-IV (Van Praag, 1996). Una prospettiva psicoterapeutica deve permettere di indagare quelle dimensioni della vita mentale che, compromesse da specifiche noxae, giustificano la coesistenza nella stessa persona di disturbi che il DSM-IV classifica in categorie nosografiche distinte. Si pongono diversi e frequenti casi in cui il DSM-IV permette una doppia diagnosi con o senza dipendenza da sostanze: Disturbi del Comportamento Alimentare o Disturbi Ossessivo Compulsivi sull'Asse I, associati a Disturbi Dissociativi (sempre sull'Asse I) oppure a Disturbi Borderline di Personalità sull'Asse II, ed è il caso considerato, forse, il più frequente nella clinica; altri disturbi dell'Asse I (Disturbi d'Ansia e Distimici), associati a Disturbi Dissociativi, o Disturbi Borderline di Personalità; Disturbi d'Ansia, Disturbi Distimici, Disturbi del Comportamento Alimentare associati ad altri disturbi di personalità dello spettro drammatico-impulsivo (dramatic cluster), a disturbi dello spettro bizzarro (odd cluster), o a disturbo di dimorfismo corporeo, che implichino alterazioni della funzione integratrice della coscienza. "Doppia diagnosi" è un termine generale comunemente usato per indicare la contemporanea presenza di due sindromi mediche indipendenti (ma spesso invariabilmente interattive). Più recentemente l’introduzione del concetto di comorbilità (Brooner et al., 1997), anche nella sua accezione più restrittiva di doppia diagnosi (specificamente dedicata alla doppia diagnosi tra tossicodipendenza e altri disturbi psichiatrici), ha arricchito il dibattito sul piano teorico e sollecitato l’attenzione dei clinici su tutta una serie di problematiche che fanno da paradigma operativo delle difficoltà connesse alla gestione di questi pazienti. Tali questioni riguardano: la duplicazione o l’assenza di Servizi dedicati, la limitata capacità di discriminazione diagnostica dei disturbi da parte dei clinici coinvolti, la scarsa affidabilità nel riconoscimento di sintomi e nella loro attribuzione alle diverse sindromi rilevate in contemporanea, l’impraticabilità di molte delle soluzioni terapeutiche proposte e l’inefficienza delle strategie di intervento a disposizione che non sono integrate in relazione ai due versanti del problema e alle tecniche da impiegare a seguito dei differenti bisogni espressi dai pazienti (psicofarmacologici, psicosociali, ambientali, medico-legali, ecc.). Il fenomeno della doppia diagnosi nelle sue molteplici manifestazioni rimane complesso: questo lavoro cercherà di orientare soprattutto in relazione ad alcuni aspetti riguardanti la psicoterapia. Al fine di identificare elementi predittivi di successo/insuccesso utili all’impostazione strategica dell’intervento psicoterapeutico e in considerazione della complessità del quadro clinico e della gravità dei pazienti trattati, va posta particolare attenzione nell’esplorare aspetti quali: la dipendenza, i sintomi e le sindromi psichiatriche attraverso una accurata diagnosi effettuata dal punto di vista sia descrittivo sia esplicativo; il funzionamento globale del paziente attraverso uno scrupoloso assessment psicosociale; le caratteristiche di personalità del paziente; il tipo di trattamento scelto; la prevenzione del drop-out del paziente; la profilassi del burnout dello psicoterapeuta. Problemi Diagnostici I disturbi correlati a sostanze (alcol, amfetamine, cannabis, cocaina, allucinogeni, inalanti, nicotina, oppiacei, fenciclidina, sedativi, ipnotici o ansiolitici, ecc.) si manifestano con vari sintomi (sia a livello neurologico sia sulle funzioni psico-comportamentali) di tipo acuto, subacuto o cronico. I principali effetti consistono in una attivazione o in una inibizione dello stato di vigilanza e di coscienza e in alterazioni delle funzioni psichiche (senso-percezioni, memoria, ecc.). La complessità del quadro clinico di questi pazienti impone di effettuare una accurata diagnosi, non solo descrittiva ma anche esplicativa, quale fondamentale ingrediente del processo terapeutico. Il terapeuta deve discriminare, per esempio, tra un episodio acuto di una sindrome psicopatologica e i sintomi psichiatrici legati all’uso di alcol e/o di altre sostanze. Essendo, infatti, molteplici le relazioni (fra uso di sostanze, sintomi psichiatrici e sindromi psicopatologiche) che complicano il processo diagnostico, durante l’assessment è necessario prendere in considerazione tutte le possibili interazioni (Tabella 1) (Meyer, 1986; Lehman et al., 1989; Landry et al., 1991;). Tabella 1 - L’uso, l’abuso, la dipendenza da sostanze e la psicopatologia L’uso di sostanze può: - causare sindromi e sintomi psichiatrici; - esacerbare un disturbo psichiatrico; - mascherare sindromi psichiatriche; l’astinenza conseguente all’uso di sostanze può innescare sintomi psichiatrici e mimetizzare sindromi psicopatologiche; i sintomi psichiatrici possono nascondere problemi legati all’uso di sostanze; i disturbi psichiatrici e l’uso di sostanze possono coesistere indipendentemente. L’abuso determina: deterioramento psicofisico e continui stati di angoscia; insuccessi e compromissione dell'adempimento dei normali ruoli scolastici, professionali, familiari e sociali; uso persistente in situazioni di pericolo dovute all'assunzione della sostanza e che comportano un rischio fisico; ricorrenti problemi interpersonali e legali collegati all'uso di una data sostanza; uso continuo nonostante i problemi interpersonali e legali; polarizzazione dell'interesse sull'assunzione della sostanza a discapito di altre attività. La dipendenza causa: processi patologici spesso progressivi e cronici; compulsione e preoccupazione su come procurarsi le sostanze; perdita di controllo sull’uso della sostanza; uso continuo malgrado conseguenze sfavorevoli; tendenza alle ricadute dopo un periodo di astinenza; incremento della tolleranza con conseguente astinenza: il soggetto va in crisi quando cessa l'effetto della sostanza, per cui, per evitare il malessere fisico e/o psichico che ne consegue, la deve nuovamente assumere perdendo la capacità di controllarne l'uso e ricercandone ostinatamente il consumo ("craving"), nonostante lo scadimento fisico e prestazionale che ne consegue. L’Assessment Psicosociale e il Funzionamento Globale del Paziente Il completo assessment del funzionamento globale del paziente deve essere preferibilmente effettuato da un clinico esperto e ben addestrato. Oltre all’esame dello stato mentale, della gravità dei problemi psichiatrici e degli aspetti medici legati all’uso di sostanze, lo psicoterapeuta deve valutare il funzionamento del paziente nel suo ambiente sociale, in particolare deve investigare sugli aspetti che hanno a che fare con l’uso di sostanze e i sintomi psicopatologici (Tabella, 2). Per esempio, durante l’intervista è importante stabilire sia se il paziente ha vissuto o vive in un ambiente familiare violento e fisicamente pericoloso sia osservare il suo comportamento, in quanto rilevante elemento di valutazione. Il miglior predittore di una futura violenza è la violenza vissuta nel proprio ambiente familiare. È utile indagare sui livelli funzionali del paziente, sulle sue tendenze e su i suoi punti di forza: lo scopo è quello raccogliere il maggior numero di informazioni utili a predisporre un piano di trattamento efficace. Un accurato assessment può essere ragionevolmente considerato una parte essenziale del processo terapeutico, in quanto può facilitare la relazione terapeutica e ridurre i meccanismi di autoinganno, di difesa e di resistenza al trattamento messi in atto dal paziente. Le sedute diagnostiche di assessment, quando ben condotte, possono essere reputate come un primo intervento, in quanto i confini fra assessment e psicoterapia, spesso, sono fluidi. Rivestono importanza inoltre le informazioni raccolte da interviste fatte a familiari, amici e parenti. Una minuziosa indagine sulla rete relazionale del paziente con doppia diagnosi può essere un importante aspetto strategico: infatti l’analisi degli attuali sistemi di supporto (inclusi aspetti economici, background culturale, amici e famiglia) è un utile ausilio per la progettazione dell’intervento. Tabella 2 - L’Assessment Psicosociale Esame psicologico: atteggiamenti tossicomanici; manifestazioni di isolamento sociale; rifiuto della terapia e tentativi di manipolazione del terapeuta; reattività all’assessment storia dell’uso della sostanza. Esame dello stato mentale: capacità di adattamento; reattività allo stress, fattori situazionali; autostima, meccanismi di autoinganno, ecc.. Indagine sociale: informazioni collaterali da altri (famiglia, amici, ecc.); interazioni sociali e stile di vita; storia familiare storia dell’attività scolastica e lavorativa. Sistemi di supporto: famiglia, amici, altri; attuale terapia farmacologica; istituzionalizzazione. Utili e diffusi strumenti standardizzati di valutazione clinico-diagnostica delle malattie sono il DSM-IV (1994) e l’ICD-10 (1992, 1994), mentre per quanto concerne gli aspetti funzionali, disposizionali e psicosociali di un individuo è un completo e promettente strumento di indagine l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute pubblicato a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 2001). L’ICF permette di studiare il funzionamento umano nella sua globalità (non solo la patologia e la disabilità) ed è strutturato (Figura 1) in ampie componenti per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati: le funzioni e le strutture corporee verso le menomazioni; l’attività verso le limitazioni; la partecipazione verso l’handicap. Il funzionamento e la disabilità sono visti come una complessa interazione fra le condizione della salute dell’individuo e i fattori contestuali dell’ambiente, come anche i fattori personali (Figura 2). Il quadro che viene fuori dalla combinazione di questi fattori e dimensioni è quello della “persona che vive nel proprio mondo”. La classificazione tratta queste dimensioni come interattive e dinamiche piuttosto che come lineari e statiche. È applicabile a tutti, qualunque siano le loro condizioni di salute: il linguaggio dell’ICF pone l’enfasi sul funzionamento e non sulla malattia. È un sistema di classificazione integrato non esclusivamente medico o sociale (Tabella 3); inclusivo del contesto e centrato non solo sull’individuo, consente una applicabilità transculturale; operazionale non solo teorico, copre il ciclo di vita dell’individuo non solo l’età adulta. Figura 1 - Struttura dell'ICF Tabella 3 - Il modello medico versus quello sociale i problemi personali le cure mediche il trattamento individuale l’aiuto professionale l’adattamento individuale il comportamento l’assistenza verso verso verso verso verso verso verso i problemi sociali l’integrazione sociale l’azione sociale la responsabilità individuale e collettiva le modificazioni sociali e dell’ambiente l’atteggiamento i diritti umani Figura 2 - Interazioni tra le componenti dell'ICF Infine, l’ICF si va sempre più dimostrando un efficiente ed efficace strumento di assessment in quanto: fornisce una base scientifica per la classificazione del funzionamento umano e dei fattori correlati alla salute; stabilisce un linguaggio comune, utile a migliorare la comunicazione fra tutti gli operatori coinvolti nel processo di trattamento del paziente con doppia diagnosi; consente il confronto dei dati fra: - paesi e culture diverse; - discipline mediche e assistenziali; - servizi diversi; consente il confronto nel tempo fra i dati raccolti; stabilisce uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari e sociosanitari; è conforme agli standards ISO. I Modelli di Trattamento nella Doppia Diagnosi Altra variabile di notevole influenza sull’esito del trattamento è il contesto globale all’interno del quale si colloca l’intervento psicoterapeutico. Sono stati numerosi i tentativi prospettati per adattare i protocolli psicoterapeutici e, più in generale, il trattamento dei pazienti con doppia diagnosi ai singoli quadri clinici a ai loro bisogni particolari (Lehman et al., 1989; Minkoff, 1989; Minkoff and Drake, 1991; Baker, 1991; Ries, 1993). Questi sforzi hanno espresso frequentemente le differenze teoriche e filosofiche dei clinici circa la natura delle varie patologie concomitanti, come pure le differenti opinioni sul modo migliore di trattarle; gli sforzi dei terapeuti impegnati nella cura di questi pazienti riflettono anche le limitazioni delle risorse disponibili e le diverse risposte al trattamento a causa dei differenti tipi e gravità dei disturbi. Il trattamento della doppia diagnosi è condotto da un gruppo o più gruppi multidisciplinari (psichiatri, psicologi, infermieri, operatori sociali, altri medici coinvolti nel trattamento, ecc.) afferenti di solito a servizi distinti. Sono stati proposti tre tipi di trattamento (Tabella 4): Il trattamento sequenziale È senza dubbio il modello più diffuso: il paziente viene trattato prima per un problema (o sindromi e sintomi psichiatrici o tossicodipendenza) successivamente per l’altro. Alcuni clinici ritengono che la dipendenza vada trattata sempre per prima e che il paziente deve essere astinente dalla sostanza prima di iniziare il trattamento dei disturbi psichiatrici e la psicoterapia. Altri sostengono che la psicoterapia e il trattamento dei disturbi psichiatrici siano prioritari rispetto alla terapia della dipendenza. Altri ancora affermano che dipende da quali sintomi, al momento dell’ingresso nel trattamento, sono più gravi (sintomi psichiatrici o dipendenza). Il trattamento parallelo Questo approccio coinvolge il paziente nel simultaneo trattamento dei disturbi psichiatrici e della dipendenza. Sia il trattamento sequenziale sia quello parallelo utilizzano operatori di differenti servizi e orientamento per cui il coordinamento fra i vari setting è variabile e, spesso, poco efficiente. Il trattamento integrato L’approccio integrato alla doppia diagnosi è un modello che combina elementi di trattamento sia dei disturbi psichiatrici sia della dipendenza, all’interno di un unificato e globale programma di intervento. Idealmente, il trattamento integrato richiede che i clinici si riferiscano ad un paradigma teorico condiviso e abbiano un addestramento comune e un approccio unificato alla gestione del caso, al fine di seguire e trattare il paziente attraverso le varie crisi (relative sia ai sintomi psicopatologici sia alla dipendenza). Vi sono vantaggi e svantaggi nell’utilizzo di ognuno dei tre approcci. Le differenze fra le possibili combinazioni di differenti patologie e varie sostanze e il grado di deterioramento del paziente incidono sull’appropriatezza di un modello di trattamento rispetto ad un altro per un determinato individuo. Per esempio, sia il trattamento sequenziale che quello parallelo sono adatti a quei pazienti che hanno un grave problema in un ambito patologico e un moderato problema nell’altro. Tuttavia, i pazienti con doppia diagnosi che vengono trattati in due sistemi di cura separati frequentemente ricevono messaggi terapeutici contraddittori da parte degli operatori. Tabella 4 - Modelli di trattamento Sequenziale Viene trattato un disturbo alla volta; si continua il trattamento fino a che il problema è sotto controllo; si invia successivamente per il trattamento del disturbo concomitante. Parallelo Il paziente prende parte con- temporaneamente ai due trattamenti; due gruppi di clinici con lo stesso paziente nello stesso tempo, ogni gruppo tratta uno dei due disturbi. Pro: - il trattamento parallelo è, in genere, più efficace del sequenziale essendo un approccio più olistico; contro: - nel trattamento parallelo sono possibili contrasti, fra i gruppi, nella definizione degli obiettivi del trattamento e vi è, sovente, scarso scambio di informazioni fra i clinici coinvolti dei due trattamenti. Integrato Il paziente è sottoposto a un singolo e unificato programma globale di trattamento per entrambe i disturbi (contemporaneamente); il trattamento è condotto simultaneamente da un team di clinici con un addestramento comune; è l’approccio, idealmente, più efficace, ma il più complesso da implementare. Stili di Costruzione dell’identità Personale La capacità di autorganizzazione ed i processi di attaccamento sono strettamente connessi fra loro e sono alla base della costruzione dell’identità personale (attitudine verso se stessi) e dei ruoli relazionali ad essa collegati (attitudine verso gli altri). Pertanto, un accurato assessment deve consentire di delineare quei processi (dinamici nel tempo) che sono fondamentali nel regolare i vissuti emozionali e la demarcazione del senso di sé, articolandolo tra il bisogno di riferimento e di prossimità affettiva e la tendenza esploratoria. La reciprocità ideo-affettiva permette la lettura degli stati interni ed orienta la strutturazione degli assetti emozionali e delle modalità comportamentali; tali processi portano a definire, nel corso dello sviluppo, una specifica organizzazione cognitiva di significato personale che connoterà poi l'intero ciclo di vita soggettivo. Il confine tra sé e non sé, tra senso di unicità personale, ossia di demarcazione dagli altri ("demarking from"), e senso dell'alterità, o meglio di appartenenza al contesto relazionale ("belonging to"), emerge con caratteristiche diverse da soggetto a soggetto, a dipendere dal dispiegarsi dei vari pattern di attaccamento. Recenti studi sui processi di costruzione dell’identità personale (Lewis e Brooks Gunn, 1979; Lewis 1992, 1993, 1994) hanno condotto alla definizione di due tendenze di base nella messa a fuoco di sé e del mondo, tra le quali esiste comunque un continuum: 1) la messa a fuoco dall'interno ("inward"). L’individuo dirige la costruzione dell'identità sulla interiorità e sul mantenimento del senso di sé. L'orientamento "inward" comporta la tendenza a modificare l'ambiente esterno per renderlo consono alle attivazioni interne. In questi casi, con lo sviluppo di una precoce messa a fuoco delle emozioni basiche (paura, rabbia, tristezza, gioia), il soggetto percepisce come primario ciò che sente. La messa a fuoco di sé attraverso la propria interiorità è stata definita "medesimezza" ("sameness") (Guidano 1995, 1995a, 1995b, , 1996, 1998; Arciero 2002). 2) la messa a fuoco dall'esterno ("outward"). L’individuo polarizza la costruzione dell'identità sulla sintonizzazione con un riferimento esterno. L'orientamento "outward" è centrato, quindi, sull'al- terità e sulla variabilità del contesto relazionale e comporta la tendenza a modificare il mondo interno al fine di renderlo conforme con l'esterno. Prevalgono stati emozionali autocoscienti (per esempio: vergogna, colpa, orgoglio, imbarazzo) che orientano l'attenzione sulla corrispondenza con le figure esterne percepite come più significative; richiedendo capacità cognitive di tipo autoriflessivo, queste tonalità emotive compaiono più tardi nello sviluppo (rispetto alle emozioni di base) e sono in genere più sfumate nelle loro espressioni comportamentali. La messa a fuoco di sé attraverso il contesto esterno è stata definita "ipseità" ("selfhood") (Guidano 1995, 1995a, 1995b, , 1996, 1998; Arciero 2002). 3) Tabella 5 - Dimensione inward-outward Messa a fuoco centrata sulla interiorità o sulla variabilità del contesto relazionale Messa a fuoco dall’interno: - polarizzazione della costruzione dell’identità sulla interiorità; - sviluppo della tendenza a modificare l’ambiente esterno; - primato di “ciò che si sente”; - messa a fuoco precoce delle emozioni base (paura, rabbia, tristezza, gioia). Messa a fuoco dall’esterno: - polarizzazione della costruzione dell’identità su riferimenti esterni; - sviluppo della tendenza a modificare il mondo interno per conformarlo all’esterno; - primato del “conformismo”; - prevalgono gli stati emotivi autocoscienti (colpa, vergogna, ecc.). Witkin e Goodenough (1977) e Witkin (1978), analizzando l'orientamento corporeo in relazione agli stimoli visivi, hanno segnalato l'importanza della "campo-dipendenza", cioè della tendenza o meno a ricercare nel campo percettivo esterno informazioni, segnali sociali, punti di vista, atteggiamenti degli altri. Partendo da questi studi, più recentemente, altri autori (Guidano 1995, 1995a, 1995b, , 1996, 1998; Arciero 2002) hanno descritto due stili relazionali (che si strutturano a partire dalle modalità di attaccamento) legati all'attenzione data o meno ai segnali emotivamente significativi che appartengono al contesto relazionale e che cambiano attimo dopo attimo: quello "campo dipendente" ("field dependent") e quello "campo indipendente" ("field independent"): 1) lo stile relazionale "campo dipendente" si riscontra nei soggetti che privilegiano il campo percettivo esterno rispetto alle sensazioni corporee. Pertanto, si sviluppa gradualmente uno stile cognitivo e interpersonale che organizza la relazione con il mondo facendo prevalentemente affidamento su riferimenti esterni (quali: caratteristiche interpersonali, ricerca di vicinanza emotiva e fisica, buona competenza relazionale). Si delinea nel corso della maturazione e, successivamente, nel ciclo di vita una notevole sensibilità ai segnali emotivi immediati del contesto interpersonale. 2) lo stile relazionale "campo indipendente" si osserva nei soggetti che utilizzano prevalentemente le sensazioni corporee rispetto al campo percettivo esterno. In questo caso si sviluppa uno stile cognitivo e relazionale più impersonale e distaccato, meno sensibile alle relazioni sociali (con il mantenimento di una certa distanza sia fisica che emotiva dagli altri) ed emerge la tendenza a fare affidamento prevalentemente su idee, princìpi, ipotesi e spiegazioni. Si delinea nel corso della maturazione una prevalenza della lettura cognitiva del contesto esterno, basata sulla sua struttura e configurazione. 3) Tabella 6 - Dimensione field dependent-indipendente Stile cognitivo e relazionale dipendente o meno dal campo percettivo Stile relazionale campo-dipendente: - privilegio del campo percettivo esterno rispetto alle proprie sensazioni corporee; - rapporto col mondo affidandosi a riferimenti esterni (caratteristiche interpersonali, ricerca di vicinanza emotiva e fisica); - notevole sensibilità ai segnali emotivi immediati del contesto interpersonale. Stile relazionale campo-indipendente: - privilegio delle proprie sensazioni corporee rispetto al campo percettivo esterno; - stile relazionale e cognitivo impersonale e distaccato, meno sensibile alle relazioni sociali, distanza emotiva e fisica; - tendenza a fare affidamento prevalentemente su idee, principi, ipotesi e spiegazioni. Sulla base delle ricerche di Lewis (messa a fuoco centrata sulla interiorità o sulla variabilità del contesto relazionale) e quelle di Witkin (sviluppo di uno stile cognitivo dipendente o meno dal campo percettivo esterno), sembra utile proporre una lettura della personalità dei pazienti con doppia diagnosi secondo due assi fondamentali (inward-outward, dipendente-indipendente) (Figura 3). Il fine è quello di progettare scelte terapeutiche tattico-strategiche ottimali e di migliorare la qualità della relazione terapeutica, identificando di volta in volta e paziente per paziente elementi facilitanti la gestione del trattamento. Figura 3 - Stili di costruzione dell’identità personale L’Atteggiamento dello Psicoterapeuta I pazienti con doppia diagnosi (in particolare quelli borderline e con altri disturbi di personalità del dramatic cluster o con disturbi dissociativi gravi o con comorbilità per diversi disturbi psichiatrici) mettono notoriamente a dura prova la capacità dello psicoterapeuta di regolare, monitorare e modulare la propria esperienza emozionale durante gli incontri. Rischio di burnout e allarmanti alterazioni dello stato di coscienza del terapeuta, durante il trattamento di pazienti con gravi sintomi dissociativi e di pazienti borderline, sono stati più volte segnalati da vari clinici (Bonucci, Meterangelis, 1993; Intrecciargli, 1993; Liotti, 1994; Liotti, Intrecciargli, 1998). Pazienti che minacciano il suicidio, che compiono atti etero ed autolesivi e che dopo averlo idealizzato, inaspettatamente denigrano il clinico percependolo (improvvisamente e ingiustificatamente) inetto, minaccioso o pericoloso, sono ovviamente pazienti che molti psicoterapeuti, anche se esperti, possono avere timore di incontrare nella propria vita professionale. La complessità e la gravità del quadro clinico presentato dai pazienti con doppia diagnosi, inoltre, mettono spesso il terapeuta di fronte a scelte cliniche difficili e rischiose, anche sul piano della responsabilità medico-legale. Una situazione, fra le molte che ogni terapeuta che abbia trattato questi problematici pazienti ben conosce, basterà ad illustrare la necessità e il rischio delle scelte cliniche di fronte a cui il paziente con doppia diagnosi può porre il curante. Per esempio, è opportuno o meno disporre un ricovero in ospedale durante un episodio depressivo o delirante, tenendo presente che nei pazienti con disturbi di personalità tali episodi compaiono con modalità atipiche rispetto a quelle osservabili nei disturbi psicotici? L'episodio potrebbe risolversi in breve tempo e l'indicazione del ricovero potrebbe comportare il rischio che il paziente, sentendosi costretto ad una scelta che non accetta, abbandoni poi il trattamento. D'altra parte, esiste il rischio opposto che, in assenza di ricovero e prima che l'episodio si risolva, il paziente giunga a gesti gravemente lesivi per la propria e l’altrui incolumità personale. La crescita e l’addestramento dello staff clinico impegnato nel trattamento dei pazienti con doppia diagnosi deve includere la formazione di procedure e metodi di sostegno atti a prevenire il burnout (Cherniss, 1986, Maslach, 1992; Maslach e Jackson, 1993; Maslach e Leiter, 2000) e lo scoraggiamento degli operatori coinvolti (Tabella 7). Tabella 7 - Alcuni sintomi del “Burnout” Immagini e/o pensieri intrusivi e ansiogeni “Intorpidimento” psicologico del terapeuta Affaticamento fisico ed emotivo Diminuzione di interesse per le attività professionali e personali Avversione per i propri pazienti Atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali Sentimento di frustrazione per mancata realizzazione delle proprie aspettative La prevenzione del burnout dei componenti lo staff clinico include tecniche di supporto di gruppo, richiede l’accettazione di progressi lenti nella terapia di questi pazienti e l’anticipazione di probabili ricadute. Infine, è indispensabile ritenere le recidive come delle opportunità per il trattamento e non come un suo fallimento (Tabella 8). Tabella 8 - Consigli per prevenire il “burnout” Definire i limiti del ruolo dello psicoterapeuta Condividere i propri sentimenti con gli altri membri dello staff Non isolarsi e chiudersi in se stessi Stabilire il grado di coinvolgimento ed essere consapevoli delle manipolazioni del paziente Conoscere i sintomi del “burnout” Focalizzare sulla qualità del trattamento e non sui risultati Pur considerando l’unicità e la singolarità di ogni caso clinico trattato, è consigliabile che lo psicoterapeuta, in generale eviti, al fine di aumentare le possibilità di successo terapeutico, di: utilizzare modelli relazionali rigidi; ingaggiare lotte personali col paziente, con conseguente “braccio di ferro”; mettere in atto resistenze a possibili cambiamenti degli obiettivi terapeutici; progettare il programma di trattamento centrato sulle proprie esigenze piuttosto che sui bisogni del paziente; iniziare il trattamento in mancanza: - di sistemi di valutazione; - di standards relativi al trattamento della doppia diagnosi; - di un appropriato addestramento al trattamento della doppia diagnosi; privilegiare in modo a-strategico un aspetto rispetto all’altro (tossicodipendenza o disturbo psichiatrico). Considerazioni Strategiche La presenza di comorbilità per il disturbo di personalità è un dato ormai ampiamente confermato (a livello epidemiologico) nella costellazione dei pazienti che afferiscono ai servizi preposti al trattamento dei disturbi da uso di sostanze. Dalla seconda metà degli anni ottanta la disponibilità di strumenti di rilevazione diagnostica strutturata, facilitando il riscontro dei criteri definiti nelle diverse edizioni del DSM, ha permesso la pubblicazione di moltissimi lavori replicabili che attestano come i disturbi di Asse II siano co-presenti (nelle condizioni cliniche caratterizzate da dipendenza per le più diverse sostanze) in quote percentuali che oscillano tra il 50 e il 100% dei casi e con una quota altrettanto significativa di comorbilità multipla anche per i disturbi di Asse I (soprattutto Disturbi dell’Umore nei soggetti che utilizzano oppiacei e cocaina). Nace (1990) segnala una prevalenza di disturbi di personalità in almeno il 50% dei pazienti dipendenti da sostanze. Nella popolazione degli alcoldipendenti in trattamento, numerosi ricercatori (Tyrer, Casey, e Ferguson, 1988; Dowson e Grounds, 1995) sostengono che hanno disturbi di personalità una percentuale tra il 69% e il 64% dei pazienti. I casi più gravi di dipendenza sono associati a disturbi di personalità piuttosto che a disturbi mentali severi (Nace, 1990). Infatti i soggetti con tratti patologici del carattere: sono più vulnerabili all’abuso di sostanze degli altri individui; entrano a contatto con le sostanze più precocemente e fanno, più frequentemente, uso di più di una sostanza; sono più vulnerabili alle ricadute; sperimentano maggior giovamento dagli effetti farmacologici indotti dalle sostanze. L’astinenza nei pazienti con disturbi di personalità dipende dalla soglia di tolleranza alla frustrazione, dalla pazienza, dal controllo dell’impulso e dall’abilità a regolare l’emotività e, nella maggior parte dei casi, i disordini di personalità precedono la dipendenza. Tuttavia, l’abuso di sostanze può provocare una sindrome diagnosticamente compatibile con i disturbi di personalità e rinforzare comportamenti regressivi. Dal momento, perciò, che una parte cospicua di pazienti con doppia diagnosi mostra disturbi di personalità, ci sembra opportuno accennare ad una recente prassi psicoterapeutica messa a punto per prevenire tanto l'interruzione prematura del trattamento quanto il rischio di atti suicidari o parasuicidari nei pazienti borderline (Linehan et al., 1991; Linehan, 1993; Swenson, Sanderson, 1997; Bohus et al., 2000; Bateman, Fonagy, 1999, 2001). Al centro di queste procedure c'è l'uso di due setting simultanei: uno dei due terapeuti può seguire individualmente il paziente mentre l'altro lo segue in un contesto di gruppo, oppure uno lo segue individualmente e l'altro con una terapia della famiglia, o ancora il clinico, che affianca lo psicoterapeuta individuale, è uno psichiatra esperto di psicoterapia la cui funzione è di seguire la terapia farmacologica (per alcuni pazienti con doppia diagnosi una terapia farmacologica va considerata indispensabile al fine di fronteggiare episodi di depressione maggiore atipica, gravi disturbi nella regolazione dell'ansia, episodi deliranti transitori o sintomi ossessivo-compulsivi, dipendenza da sostanze). Esiste persino il tentativo di codificare una doppia psicoterapia individuale, fin dall'inizio della cura, come metodo di trattamento dei gravi disturbi di personalità e dissociativi (Wine, Carter, 2000). Per esempio, se il secondo setting è di gruppo, in quello individuale il terapeuta cerca tanto di mantenere il paziente motivato alla prosecuzione del trattamento, quanto di affinarne la consapevolezza e la gestione degli stati emotivi (per esempio, i pazienti apprendono tecniche di autocontrollo e di gestione dell'ansia attraverso il rilassamento muscolare, il biofeedback, ecc.). Il terapeuta lavora collaborativamente col paziente sulle singole emozioni che compaiono nel racconto che quest’ultimo fa di episodi della propria vita e su quelle che vengono direttamente esperite nella relazione terapeutica. Nel lavoro di gruppo, condotto da un terapeuta diverso, il paziente è incoraggiato a: riconoscere il significato delle emozioni in sé e negli altri; modulare l'intensità (quando eccessiva) delle emozioni nei rapporti interpersonali; sviluppare e migliorare le capacità di interazione sociale. I due terapeuti discutono continuamente fra loro sull’andamento della psicoterapia, tenendo il paziente al corrente di questo costante scambio di opinioni. Quando una delle due relazioni terapeutiche entra in stallo o attraversa una turbolenza emozionale particolarmente seria, l'altro terapeuta ha l'opportunità di commentare, nel colloquio col paziente, i motivi e le caratteristiche dell’ostacolo. Questa procedura psicoterapeutica sembra ridurre drasticamente la frequenza delle interruzioni premature del trattamento da parte dei pazienti borderline (dall'atteso 50% entro i primi sei mesi a meno del 20% entro due anni). Vi è per di più una radicale diminuzione nella frequenza e nella gravità dei comportamenti autolesivi (suicidari e parasuicidari) e migliori risultati terapeutici. Dal punto di vista di alcuni approcci (Linehan, 1993; Bateman, Fonagy, 1999, 2001), la terapia individuale e di gruppo costituisce la condizione ottimale di trattamento in doppio setting. Il dialogo individuale permette l'attivazione del sistema di attaccamento che è il bersaglio elettivo della cura, ed è dunque irrinunciabile in tutti i metodi di terapia combinata dei disturbi da disorganizzazione. I dialoghi nel gruppo e la presenza del terapeuta di gruppo, oltre a consentire la modulazione dell'attivazione dell'attaccamento e lo sviluppo delle capacità metacognitive, permettono il vantaggio aggiuntivo di una riflessione particolarmente ampia sul senso ed il valore delle esperienze emozionali in sé e negli altri. Dall'interazione in gruppo è possibile, ad ogni partecipante, trarre molte più informazioni che da qualsiasi altra condizione di esperienza circa i processi mentali che diverse persone utilizzano per riconoscere il senso delle proprie emozioni (o per fallire in tale compito), per regolarle (o non riuscire a regolarle) e per dare significato alle proprie interazioni interpersonali. In gruppo è possibile sperimentare, in maniera protetta e talora guidata dal terapeuta, nuove e più costruttive forme di dialogo interpersonale. Solo in gruppo, a volte, è possibile aiutare direttamente i pazienti che ne soffrono a superare quel "deficit del senso di appartenenza" che caratterizza alcuni disturbi gravi di personalità (Semerari, 1999). Inoltre, ogni metodo di terapia di gruppo può aggiungere a questa già notevole lista di fattori terapeutici quelli legati ai propri specifici tipi di intervento (interventi psicoeducativi, apprendimento attivo di nuove abilità sociali, addestramento a riconoscere gli stati dell'Io in sé e negli altri, esperienza della mobilizzazione di emozioni permessa dalle dinamiche di gruppo, gruppo-analisi, possibilità offerte dallo psicodramma, ecc.). Essenziale, ripetiamolo, è che il terapeuta di gruppo lavori secondo un modello teorico comprensibile al terapeuta individuale, e da questi condiviso almeno per quanto riguarda la formulazione momento per momento dei problemi del paziente. I vantaggi del trattamento di gruppo non devono però far dimenticare che a volte appare opportuno unire alla terapia individuale una terapia familiare (per esempio, ciò può costituire la prima indicazione qualora più di una persona, in una famiglia convivente, soffra di importanti disturbi psicopatologici). Neppure vanno trascurati i casi in cui la necessità di un trattamento farmacologico (non di rado coincidente col rifiuto della famiglia a partecipare alla terapia o con l'indisponibilità di terapeuti di gruppo) rende opportuno pianificare il trattamento nel doppio setting di una psicoterapia individuale e di una terapia farmacologica. Sia che un terapeuta familiare affianchi lo psicoterapeuta individuale, sia che uno psichiatra con funzioni di cura farmacologica si disponga a partecipare all'intervento combinato, è essenziale che l'uno o l'altro, oltre a conoscerne e condividerne il modello, condivida anche l'intento del terapeuta individuale. L'intento basilare del terapeuta individuale o almeno il filo conduttore del suo intervento deve essere finalizzato alla convalida dell'esperienza emozionale del paziente; ciò al di là dei linguaggi teorici e delle prassi cliniche con cui il fine dell'intervento viene dichiarato e perseguito. In riscontro a quanto detto, il terapeuta familiare dovrebbe disporsi a riconoscere e convalidare le esperienze emotive di tutti i membri della famiglia, privilegiando questo intento rispetto a qualunque altro intervento. Allo stesso modo, lo psichiatra che somministra i farmaci dovrebbe proporli al paziente, esplicitamente, come modi provvisori per modulare un'esperienza emotiva che è dotata di senso e di valore, e che al momento diventa patologica solo perché il paziente non è in grado di modularla. La dimostrazione dell'efficacia del doppio setting simultaneo nella cura dei pazienti borderline è stata dimostrata da numerosi autori (Linehan, 1993; Swenson, Sanderson, 1997; Bohus et al., 2000; Bateman, Fonagy, 1999, 2001). I pazienti tendono a migliorare e a permanere in trattamento indipendentemente dai paradigmi teorici e di intervento utilizzati, purché vi sia consonanza nel modello adottato dai due terapeuti. L'effetto benefico del doppio setting sembra dovuto all'esistenza di un forte raccordo teorico e dialogico fra i due terapeuti. Quando questi ultimi sono di orientamento teorico differente, con conseguente limitazione della loro comunicazione e del loro accordo, la frequenza dei drop-out ridiventa quella, elevatissima, che caratterizza la risposta dei borderline a tutti i tipi tradizionali di terapie condotte in un solo setting (psicoterapia individuale, di gruppo, familiare, o di cura farmacologica). La buona qualità della comunicazione e della relazione fra i due terapeuti, permessa dalla condivisione del modello teorico, è dunque un ingrediente decisivo nell'ottenere quella migliore relazione terapeuta-paziente che porta alla riduzione dei drop-out e al miglioramento clinico del paziente. Ciò che vale per i pazienti borderline, se può essere ricondotto alla disorganizzazione dell'attaccamento, vale anche per altri pazienti in cui la disorganizzazione del senso di unicità personale e del confine tra sé e non sé (che con la disorganizzazione dell'attaccamento ha inizio) svolge un ruolo chiave nella genesi del disturbo. È possibile che la psicoterapia del paziente con doppia diagnosi comporti esperienze ripetute e logoranti di allarme, di confusione o di collera nel terapeuta; esperienze emotive che, se colte dal paziente, gli confermeranno inevitabilmente l'instabilità caotica e drammatica delle proprie relazioni interpersonali. Se però il clinico non tratta da solo un tale paziente, ma condivide la responsabilità del trattamento con un altro curante, la sua preoccupazione e la sua confusione si ridurranno. Di conseguenza, facendo il paziente l'esperienza di un terapeuta più emotivamente stabile e sicuro, verrà favorita nei colloqui terapeutici la comparsa di esperienze emozionali correttive. Possiamo porre come regola generale: due terapeuti che vogliano utilizzare un modello comune come fondamento per il trattamento combinato ed integrato di pazienti con doppia diagnosi, devono anzitutto accordarsi sui modi con cui, restando ciascuno nel proprio ambito, potranno concordemente restituire al paziente analogo valore ed analogo significato della sua esperienza emozionale. La presenza di due terapeuti, che condividono il modello teorico e di intervento, e che sono in continua collaborazione fra loro, sembrerebbe anche la condizione ideale per il trattamento dei pazienti con doppia diagnosi e con disturbi di personalità. Il paziente si sente protetto, grazie alla presenza di un secondo terapeuta in un setting indipendente ma correlato, dall'eventualità immaginata o temuta di un fallimento della relazione col primo. L'attivazione meno intensa del sistema di attaccamento che ne consegue permette di ridurre la frequenza delle interruzioni premature del trattamento, facilita lo sviluppo delle capacità metacognitive e consente di commentare in maniera più adeguata, ora con l'uno ed ora con l'altro terapeuta, le emozioni provate all'interno della relazione terapeutica. Dall'esplorazione di emozioni che prima era impossibile conoscere adeguatamente (cioè nel loro significato relativo e contestuale), discende la possibilità di integrare, all'interno del dialogo terapeutico, rappresentazioni di sé-con-l'altro che fino a quel momento erano dissociate. La disorganizzazione dei significati si trasforma così in conoscenza organizzata attraverso la costruzione di strutture di significato più duttili e legate al contesto. La terapia dei pazienti con doppia diagnosi (in particolare con disturbi di personalità) può essere perseguita attraverso la co-terapia a partire da diverse prassi di intervento (psicoanalitiche, cognitiviste, relazionali), purché vi sia accordo fra i due terapeuti e purché il filo conduttore dell'intervento sia il riconoscimento del senso e del valore dell'esperienza emozionale del paziente. La convalida del senso dell'esperienza emozionale e l'aiuto fornito affinché ogni emozione divenga sentimento (Damasio, 1994; 1999) devono essere preceduti da interventi miranti ad incrementare le capacità metacognitive del paziente circa la continuità-discontinuità della propria esperienza soggettiva. Esempi di Intervento In considerazione delle molteplici relazioni possibili fra uso di sostanze, sintomi psichiatrici e sindromi psicopatologiche, di seguito verranno descritti, come esempio e in modo sintetico, alcuni spunti strategici utilizzabili nel trattamento delle interazioni più frequentemente osservabili nella prassi clinica e derivati dall’analisi dei fattori predittivi di successo della psicoterapia. Doppia diagnosi e disturbi d’ansia La psicoterapia può essere rinviata a meno che l’ansia non interferisca col trattamento della dipendenza, in quanto i sintomi ansiosi possono migliorare o scomparire con l’estinzione dei comportamenti tossicomanici. Gli interventi finalizzati all’espressione delle emozioni dovrebbero essere posposti fino al raggiungimento dell’astinenza da parte del paziente. Possono essere usate tecniche anti-ansia e di autocontrollo (rilassamento, BFB, etc.) con o senza trattamento farmacologico. Anche cambiamenti nello stile di vita del paziente (alimentazione equilibrata, attività aerobica, evitamento della caffeina, eliminazione del tabacco, ecc.) possono contribuire a ridurre le quote d’ansia. Doppia diagnosi e Disturbi di Personalità Quando la comorbilità riguarda l’uso di sostanze e i disturbi di personalità, i progressi nella terapia sono di solito lenti. Realista nelle aspettative, il terapeuta deve avere sempre ben chiaro che il paziente può tentare di metterlo continuamente alla prova; perciò deve essere concreto, avere un atteggiamento serio e ricordare che questi pazienti spesso manifestano quei comportamenti disadattivi che li hanno aiutati a sopravvivere nelle situazioni difficili (“comportamenti di sopravvivenza”). Il contratto terapeutico, scritto o verbale, ha un ruolo importante nel piano di trattamento: deve essere semplice, chiaro, diretto e limitato nel tempo. Per esempio, nel contratto il paziente può promettere di evitare determinati comportamenti etero ed autolesivi o ad alto rischio o di impegnarsi in modi di fare utili (avvisare qualcuno quando percepisce imminente il comportamento disadattivo). È necessario prestare attenzione a diverse questioni particolari quali: comportamenti auto e/o etero aggressivi, possibili comportamenti suicidari, invischiamenti emotivi, rispetto dei ruoli, resistenza al cambiamento, sostituzione del sintomo, lamentale somatiche, astinenza subacuta. Tutti i comportamenti suicidari, minacciati o messi in pratica, devono essere presi in considerazione seriamente ed immediatamente valutati per determinare il tipo di intervento necessario. Va fatta attenzione ai tentativi precedenti e alla loro gravità, alle strategie precedentemente utilizzate, e se il tentativo è fallito intenzionalmente o casualmente. Il terapeuta deve essere pronto a gestire i sentimenti positivi o negativi del paziente e la percezione che questi ha nei suoi confronti, nonché a governare i propri problemi personali irrisolti per non distorcere il processo terapeutico. Quando esperienze personali passate si combinano con i sentimenti provati nel corso della psicoterapia, è estremamente importante commentare il problema con i pazienti. È utile porre dei limiti chiari nei ruoli e nei comportamenti; questi limiti sono norme etiche e pratiche che facilitano il clinico nell’essere terapeuticamente utile al paziente: terapeuta e paziente devono stabilire e rispettare un sistema di regole trasparenti. Questi pazienti spesso assumono diversi ruoli, passando dall’uno all’altro, a dipendere dalle interazioni sociali e dalle situazioni. Alcuni di questi ruoli includono: la vittima, il persecutore, il salvatore. Le costruzioni semantiche che possono derivare da una simile sequenza corrispondono alle trasformazioni di significato conseguenti al muoversi fra i tre poli rappresentativi del cosiddetto "triangolo drammatico". Il triangolo drammatico caratterizza tanto la struttura narrativa di molte fiabe, quanto il nucleo dei copioni del teatro classico e delle forme drammatiche di interazione interpersonale tipiche di molti disturbi psicopatologici (Karpman, 1968). Nel triangolo drammatico, i protagonisti, interagendo fra loro sotto gli occhi degli spettatori, oscillano continuamente fra i ruoli del "salvatore", del "persecutore" e della "vittima", spesso scambiandoseli (o rivestendoli simultaneamente, uno "in piena luce" e l'altro nascostamente). Nel corso dello sviluppo individuale, gli stereotipi rappresentativi del triangolo drammatico divengono simili a temi narrativi, intorno ai quali prendono forma le interpretazioni del significato di molti eventi interpersonali e le "narrazioni" di una memoria autobiografica (Kotre, 1995) inevitabilmente frammentata o dissociata. Se il paziente assume un ruolo specifico (la vittima) gli altri possono essere indotti ad assumere un ruolo complementare (il salvatore o il persecutore). Il terapeuta deve essere di continuo consapevole dei ruoli che questi pazienti possono interpretare, evitando così di assumere egli stesso i ruoli complementari disfunzionali. Il paziente esibisce spesso degli acting-out e sviluppa altri comportamenti disfunzionali come difese psicologiche e tecniche di sopravvivenza, avvalendosi di questi meccanismi nella terapia quando la percepisce come una minaccia. Affrontare questi problemi senza aver prima aiutato il paziente a sviluppare delle strategie alternative sicure intensifica il suo stato di tensione e di confusione. Il terapeuta deve capire ed utilizzare questi meccanismi come opportunità terapeutiche e non come una sfida al trattamento. L’abuso di alcol e della maggior parte delle droghe produce una acuta o una subacuta sindrome da astinenza. A dipendere dalla sostanza usata si possono osservare oscillazioni dell’umore, irritabilità, deterioramento delle funzioni cognitive, problemi alla memoria a breve e a lungo termine e un intenso desiderio (craving) di sostanze. Durante il periodo di astinenza, alcuni di questi pazienti sviluppano altri tipi di comportamenti compulsivi (disturbi alimentari, spese compulsive, gioco d’azzardo, iperattività sessuale). Di seguito verranno descritti due disturbi per esemplificare, nello specifico, alcuni spunti di intervento: il Disturbo Borderline e il Disturbo Antisociale. Essi rappresentano due tra le sfide più faticose per i clinici che si occupano di doppia diagnosi. Doppia diagnosi e Disturbo Borderline di Personalità La fenomenologia del Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzata: da una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé e dell'umore, con marcata impulsività; da ricorrenti minacce e gesti autolesivi; da ricorrenza di sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono e di rabbia immotivata; da ideazione paranoide e/o sintomatologia dissociativa transitoria legate allo stress. Le relazioni interpersonali sono intense ma precarie e questi individui spesso manifestano punte estreme di iper-idealizzazione o di svalutazione, marcati viraggi da un umore normale a uno eccessivo, stati d’ansia elevati e impulsività. Il senso di sé, dai contorni più o meno sfumati e indefiniti, varia marcatamente col mutare del contesto da cui appare dipendente ed è comunque sempre precario. È tipica una marcata difficoltà a tollerare le disconferme anche quando sono minime (bassa soglia alle frustrazione), riguardano aspetti futili e voluttuari (come avere un po' di soldi) o sono solo minacciate. Questi pazienti (spesso con messa a fuoco dall'esterno e campo dipendenti) regolano il senso di sé in base alla capacità, contesto-dipendente, di sintonizzarsi volta per volta sulle aspettative delle figure di riferimento, centrando il mantenimento della coerenza interna sull'atteggiamento e sul giudizio dell'altro. L'assunzione di sostanze psicoattive ad azione depressogena sul sistema nervoso centrale (oppiacei come la morfina e l'eroina, ecc.) o l'abuso di alcol ricorrono frequentemente in risposta alla difficoltà soggettiva di integrarsi in un mondo da cui non ci si sente accettati e di rispondere alle sfide esistenziali. L'assunzione di sostanze stupefacenti esprime spesso una identificazione per opposizione, in cui ci si riconosce in modalità alternative ai comuni schemi e alle regole sociali; inoltre, le modificazioni operate dalle sostanze sul funzionamento cerebrale danno un precario e illusorio senso di poter affrontare la vita con un'arma in più. I rischi connessi con la tossicodipendenza convalidano la ricerca di un proprio valore nell'essere in grado di accettare questi rischi; ciò permette almeno una parziale percezione positiva di sé a chi sente di avere poca importanza per le figure affettivamente significative ed una scarsa considerazione da parte degli altri. A causa dell’orientamento "outward" (centrato sull'alterità e sulla variabilità del contesto relazionale) e campo-dipendente di questi pazienti è consigliabile: utilizzare un doppio setting simultaneo; fare uso di mini-contratti terapeutici per incoraggiare il paziente a stare focalizzato sugli obiettivi terapeutici stabiliti; analizzare immediatamente col paziente tutte le crisi esaminando tutta la settimana (contestualizzazione dell’evento), non solo un giorno particolare; dichiarare gli obiettivi terapeutici seduta per seduta; utilizzare una checklist (homework, punti di debolezza, discussioni con gli altri, problemi giudiziari, problemi scolastici o lavorativi, relazioni familiari e amicali, recidive, pensieri autolesionistici, incubi, flashbacks, situazioni dolorose e brutti ricordi); incoraggiare il paziente a compilare un diario degli stati d’animo e delle fantasie fra le sedute per poi analizzarle e discuterle; cominciare la psicoterapia solamente dopo il recupero delle fondamentali attività della vita quotidiana. Doppia diagnosi e Disturbo Antisociale di Personalità Il Disturbo Antisociale di Personalità richiede una storia cronica di comportamenti antisociali che cominciano prima dei 15 anni e che continuano, successivamente, da adulti. Si manifesta: con una modalità pervasiva di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri; con incapacità di conformarsi alle norme sociali: con disonestà, irritabilità e aggressività; con irresponsabilità abituale e con mancanza di rimorso; con caratteristiche di comportamenti irresponsabili e antisociali (fallimenti scolastici, inadeguatezza nel lavoro, attività illegali, sventatezza, comportamenti impulsivi). I sintomi possono includere disforia, incapacità a sopportare la noia, sensazione di essere vittima e scarsa capacità a realizzare rapporti intimi duraturi. Quando i processi alla base della costruzione dell’identità personale sono di tipo inward (messa a fuoco dall'interno) e campo indipendente, questi soggetti regolano il senso di sé in base alla capacità, contesto indipendente, di prevenire o gestire le situazioni di rifiuto e di abbandono, con mantenimento della coerenza interna centrato sulla gestione delle proprie tonalità emotive, tendendo a fidarsi quindi, in maniera preponderante, delle proprie cognizioni e delle proprie capacità di razionalizzare e spiegare gli eventi vissuti (capacità di autosufficienza in situazioni di inaiutabilità). I pericoli legati alla tossicodipendenza rappresentano una sfida interiore e rabbiosa al pervasivo senso di inutilità che li accompagna, e ciò consente per lo meno una parziale percezione positiva di sé a chi sente di avere uno scarso valore personale. Nel caso dell'assunzione di sostanze psicostimolanti, che inducono euforia, aumentato senso di energia psicofisica e diminuzione della fatica (cocaina e amfetaminosimili come l'ecstasy, ecc.), il soggetto cerca nella droga l'energia, la forza, la potenza, il coraggio, le capacità che ritiene di non avere. Pertanto, le assume quando deve fornire prestazioni lavorative, sociali, sportive, sessuali o quando deve comunque compiere una "impresa" rispondente al bisogno di confermare un senso di sé costantemente fragile, instabile e "non all'altezza" della situazione. I comportamenti antisociali, attraverso modalità diverse da caso a caso, rivelano la difficoltà, la precarietà e l'incapacità a gestire la propria rabbia o la propria disperazione. Come si è già accennato, la volontà autodistruttiva, a volte anche eterodistruttiva, porta non infrequentemente ad associare ad un disturbo antisociale una tossicofilia (alcolismo, tossicodipendenza). I comportamenti disadattivi, anche nell'ambito di un decorso cronico, possono dare luogo a comportamenti a rischio eclatanti, violenti e improvvisi, a volte ostentati con aggressività e spavalderia, da parte di chi si percepisce "uno che non ha più niente da perdere". Nei casi di condotte antisociali con una lettura marcatamente esterna, i soggetti tendono a confermare l'identità confrontandosi e "sfidando" il mondo esterno quando non si sentono riconosciuti e apprezzati per quello che ritengono di valere, senza disporre di un sufficiente patrimonio di regole comportamentali interiorizzate. Si tratta di soggetti con un repertorio emozionale in cui prevalgono attivazioni autoriflessive di inferiorità e di vergogna, mentre manca il senso di colpa (se non nel suo aspetto di "pseudo colpa", quando si pensa di aver deluso qualcuno e si cerca di riallinearsi con il giudizio di questi). La carenza di riferimenti normativi interni è espressa dalla costante ricerca di un consenso di tipo conformistico e dalla notevole intolleranza ad ogni esperienza percepita come disconferma personale, mentre manca invece una lettura etica e normativa. In questi casi la storia di sviluppo mette in evidenza l'immaturità emozionale, centrata più su un generico confronto in rapporto all'adeguamento alle aspettative e alle richieste delle figure prese come riferimento e sulla ricerca di conferme piuttosto che in grado di esprimere un'affettività dialettica e progettuale. Anche nel caso in cui vengono commessi reati gravi e violenti può mancare la colpa, in quanto il soggetto (che si sentiva "non considerato", "svalutato", "disprezzato" dalla vittima e dalla società) si sente uno che "è riuscito a fare qualcosa di importante" per cui "ora non si potrà più dire che non valgo niente o che non sono nessuno". Particolare attenzione, anche con questi pazienti, va posta sulla pianificazione della psicoterapia nelle sue componenti del contesto, della relazione e degli obiettivi: il contesto: - utilizzare preferibilmente, quando possibile, un doppio setting simultaneo; - la psicoterapia deve essere necessariamente coordinata con gli altri trattamenti; - la comunicazione fra tutti gli attori del trattamento deve essere trasparente e sincera, mai confusa o conflittuale; - i contratti col paziente, oltre che necessari, devono essere chiari e non generici; la relazione: - il terapeuta deve essere diretto, non offensivo o intrusivo; - il terapeuta deve identificare, al più presto, i pensieri alla base dei comportamenti antisociali; gli obiettivi: - il paziente deve puntualmente effettuare la registrazione di tutte le violazioni delle regole; - il terapeuta deve rendere il paziente responsabile del proprio comportamento; - il terapeuta deve permettere al paziente di fare esperienza delle conseguenze del proprio comportamento; - il terapeuta deve segnalare al paziente le conseguenze positive dei comportamenti adeguati. Conclusioni Il trattamento della doppia diagnosi consiste in una complessa serie di interventi indirizzati sia alla dipendenza da sostanze, sia ai problemi di personalità, sia ai disordini psichiatrici dell’Asse I. La psicoterapia, non integrata con gli altri interventi, potrebbe non avere nessuna influenza diretta sulla dipendenza, come pure il trattamento tradizionale delle tossicodipendenze e dell’alcoldipendenza potrebbe non curare allo stesso tempo i problemi di personalità e i disturbi psichiatrici. Il trattamento della doppia diagnosi implica la disponibile, globale, integrata e coordinata focalizzazione su en- trambi i tipi di disturbi (problemi psicopatologici e tossicodipendenza) (Dual Diagnosis Subcommittee, 1995). Deve essere un trattamento simultaneo e flessibile che utilizza le conoscenze di base e le tecniche di intervento di entrambe gli ambiti (Tabella 9). Tabella 9 - Criticità nel trattamento della doppia diagnosi risorse assistenziali disgregate con difficoltà all’integrazione problemi interpersonali inespressi fra operatori differenze teoriche fra clinici scarso addestramento al trattamento integrato della Doppia Diagnosi La psicoterapia non può che porsi, quale processo di cambiamento e componente integrata, all’interno del trattamento globale. Al fine della continuità terapeutica con gli altri interventi specifici deve adattarsi alle problematiche della doppia diagnosi attraverso: l’approccio al paziente in un doppio setting simultaneo; l’incremento della comunicazione fra lo psicoterapeuta e gli altri operatori coinvolti (setting allargato); il processo di monitoraggio e di revisione continua del trattamento; la flessibilità terapeutica e, se necessaria, la modificazione del programma di trattamento; il coinvolgimento dei pazienti, delle loro famiglie e di eventuali altre agenzie correlate. In generale, è consigliabile per i disturbi di ansia, affettivi e psicotici differire la psicoterapia se i sintomi sono lievi e il funzionamento globale non è compromesso. Mentre è preferibile iniziare prontamente il trattamento psicoterapeutico se i sintomi sono persistenti, in aumento o producono deterioramento. Non bisogna fare, in ogni caso, affidamento su linee di condotta arbitrarie e scollegate dagli altri interventi (Nace, 1995). Soprattutto i pazienti con doppia diagnosi per l’Asse II o in comorbilità multipla (Asse I e Asse II) e che rivelano nel contempo buoni/ottimi livelli di funzionamento richiedono infatti diversificate e più intensive opportunità terapeutiche che siano in grado di incidere ampiamente sulle relazioni interpersonali, sull’ambiente dove il paziente è collocato, sui bisogni riabilitativi in senso lato, sul contesto familiare, ecc. Per i pazienti le cui problematiche psichiatriche rendano invece maggiore e più evidente la disfunzionalità psicosociale si rende necessaria una maggiore quota di integrazione negli interventi erogati e risulta consigliabile una politica gestionale del servizio a tipo one-stop shop. Con tale termine si intende una strategia particolarmente attenta a evitare che il paziente possa “smarrirsi” tra le divisioni che inevitabilmente si creano all’interno di un sistema di servizi separato che non di rado eroga prestazioni complementari ma non coordinate o, addirittura, le nega a causa di pregiudiziali ideologiche che sostengono la priorità dei propri interventi rispetto a quelli altrui. Tale strategia, oltre a migliorare la compliance generale ai programmi, permette di ridurre l’accesso improprio al Pronto Soccorso, il numero eccessivo di ospedalizzazioni non necessarie, la ricaduta continua nell’uso di sostanze, la perdita di condizioni abitative dignitose (o addirittura la “barbonizzazione”), l’espulsività familiare e tanti altri problemi sociali generalmente legati al discontrollo dell’impulsività. Le difficoltà legate alla gestione, in psicoterapia, dei pazienti in doppia diagnosi impongono un continuo dibattito teorico-clinico e sollecitano l’attenzione sullo studio di forme di assistenza nuove e integrate con gli altri interventi sia di tipo medico che di tipo psicosociale. Sul piano della formazione è necessario uno sviluppo della capacità di discriminazione diagnostica dei disturbi da parte dei clinici coinvolti e una maggior abilità nel riconoscimento di sintomi e nella loro attribuzione alle diverse sindromi rilevate in contemporanea. La limitata e scarsa affidabilità delle tecniche, l’impraticabilità di molte delle soluzioni terapeutiche proposte e l’inefficienza delle strategie di intervento a disposizione sono, per lo più, causate dalla mancata integrazione in relazione ai due versanti del problema e alle tecniche da impiegare a seguito dei differenti bisogni espressi dai pazienti (psicofarmacologici, psicosociali, ambientali, medico-legali, etc.). Lo psicoterapeuta deve essere consapevole del proprio stato di benessere e del proprio equilibrio, che possono essere compromessi dal lavoro con pazienti in doppia diagnosi. Poiché corre il rischio di essere trascinato dai pazienti nel gioco di ruoli disfunzionali, per prevenire ciò deve preoccuparsi di perseguire una continua supervisione, di elaborare sistemi di supporto, di partecipare a delle discussioni di gruppo con altri terapeuti e così via. BIBLIOGRAFIA American Psychiatric Association (1994), DSM-IV. 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