indows sociolo
diretta da Filippo Barbano
windows sociologia
WS2
Andrea Sormano
Sociologia
e linguaggio
ellissi
Estratto della pubblicazione
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
windows sociologia
ellissi
Estratto della pubblicazione
windows sociolog
Diretta da Filippo Barbano
windows sociologia
Andrea Sormano
Sociologia
e linguaggio
ellissi
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
Progetto grafico e copertina a cura di
Gianfranco De Angelis
Finito di stampare presso
«Officina Grafica Iride» - Via Prov.le Arzano-Casandrino, VII Traversa, 24 - Arzano (NA)
per conto della Esselibri
nel mese di febbraio 2003
Tutti i diritti riservati – Vietata la riproduzione anche parziale
©
ellissi è un marchio della ESSELIBRI S.p.A.
Presentazione della collana “Windows Sociologia”
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Si discute se la progressiva diffusione di Internet non provocherà, più o meno a
breve termine, la morte o l’estinzione del libro. Comunque si risponda, se è
vero, com’è vero, che Internet globalizzato (o globalizzata?) non potrà sostituire mai la letteraria individualità del libro, ed anzi si discosterà sempre più dalla
sua umana presenza, senza quindi estinguerla, è anche vero che il libro può
assumere tutte quelle forme e proprietà selettive, in sé e tra il testo ed il lettore,
che Internet globalizzato non potrà mai attribuirsi. Le potenzialità accumulative
stanno ad Internet, come le potenzialità selettive stanno al libro.
Le centinaia di libri, ordinati su metri di scaffali che occupano l’abitazione di
uno studioso professionale, o anche solo di una persona o di una famiglia
colta, non raramente provocano l’ingenuo interrogativo: “Ma li avete letti tutti
questi libri?”. Al che si può rispondere che se, per esempio, una vettura è costituita da decine di parti, centinaia di pezzi e di elementi principali e secondari,
tutti funzionali alla vettura completa come macchina, moltissimi saranno gli
attrezzi del meccanico, gli strumenti dell’aggiustatore, i quali useranno attrezzi
e strumenti non tutti in una sola volta, ma ora l’uno ora l’altro, facendo scelte
funzionali con il tutto e più o meno interattive con le parti.
Anche i rapporti tra ogni singolo testo ed il lettore, fruitore, utente ed i relativi
bisogni di informazione e di formazione sono legati all’interazione. In altre
parole, chi ha una certa quantità e qualità di libri, quando non sia solo un
bibliofilo o un bibliomane, ma uno studioso, o, anche solo un utente del libro,
a scopi vuoi informativi vuoi formativi, usa i suoi libri, né tutti simultaneamente, né uno solo singolarmente, ma sceglie ogni testo e per ogni occasione
interattivamente, sì che, alla fine di una vita, uno può anche dire di aver letto
volta per volta migliaia e migliaia di libri. Questo risultato selettivo non è lo
stesso risultato che quello cumulativo nella testa degli scorridori delle praterie
internettiane.
All’interazione tra i libri può seguire, in più o meno larga misura, una interazione
sia nei testi che nella loro composizione, le quali potrebbero essere perseguite
come un programma di scrittura e di nuova editorialità. Rimando il lettore ad
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Estratto della pubblicazione
Presentazione della collana “Windows Sociologia”
alcune mie precoci elucubrazioni circa la nozione di “editorialità” e la sua evoluzione, da una editorialità della parola scritta, la cui storia risale certamente alla
rivoluzione, a suo tempo avvenuta, della parola stampata, ad una editorialità
dell’immagine, come aspetto conseguente: il passaggio dai media tradizionali
ai media personalizzati, sul piano della esposizione simbolica. (Mi riferisco a
Nuove tecnologie: sociologia e informazione quotidiana, F. Angeli, Milano, 1982,
a cura di F. Barbano, p. 112, nota 115). La Collana “Windows Sociologia”
intende perseguire un programma relativamente nuovo di testi scientifici secondo, appunto, una editorialità innovativa.
L’efficacia, la bontà e la diffusione, sia di mercato che di pubblico, di un libro,
dipendono massimamente dal grado di interattività contenuta nel testo e tra il
testo ed il lettore. Si va da un grado di interattività compatibile con bisogni di
ricezione informativa del lettore (avere nozioni, informazioni, orientamenti pratici, oppure scoprire personaggi, ambienti, trame, storie etc.) ad un grado di
interattività compatibile con un bisogno di ricezione formativa, cioè di lettura
non solo lineare (dal principio alla fine, tipicamente nei testi sistematici e nella
narrativa) cioè in modo sequenziale, ma soprattutto selettivamente, cioè componendo, scomponendo e ricomponendo selettivamente, più e più volte a seconda del bisogno, il testo, con ampie possibilità di scelta. È a questo grado di
interattività selettiva che abbiamo non solo testi ma ipertesti, come intendono
essere quelli della Collana “Windows Sociologia”.
T.H. Nelson, inventore, a quanto mi risulta, della parola “ipertesto” così lo definisce: “Con ipertesto intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e
consente al lettore di scegliere; qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno
schermo interattivo. […] un insieme di brani di testo tra cui sono definiti legami
che consentono al lettore differenti cammini” (T.H. Nelson, Literary Machines
90.1, Muzio, Padova, 1992, ed. or. 1981; citato in G.P. Landow, L’ipertesto.
Tecnologie digitali e critica letteraria, a cura di P. Ferri, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 8, nota 18). Con la parola ipertesto si può anche intendere: “[…]
una serie di blocchi testuali o lessie (unità di lettura) e una serie di collegamenti
o rimandi (links) istituiti tra tali blocchi, tra porzioni di tali blocchi o all’interno
di un singolo blocco” (F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. Introduzione ai
nuovi media, Laterza, Roma-Bari, 1999).
Così, ogni testo di “Windows Sociologia” è composto selettivamente di moduli
espositivi, tali da formare un vero e proprio ipertesto che risponde al bisogno
del lettore, o dello studente, di leggere il libro in maniera non solo sequenziale,
e di usarne in maniera del tutto libera. In altre parole, i testi di “Windows
Sociologia”, in quanto la loro composizione e struttura non si esauriscono nella
esposizione lineare, ma si servono di più moduli espositivi, di “finestre” appunto, favoriscono anche l’Autore, sia nel comporre e ricomporre insieme i mate6
Estratto della pubblicazione
Presentazione della collana “Windows Sociologia”
riali e le fonti che, abitualmente, ciascuno di noi appresta per una buona lezione accademica, sia nell’animare la scrittura con figure e schemi, tavole comparative, cronologiche, sinottiche, immagini e mappe di contenuti; cioè nell’esercitare una fantasia multirappresentativa del testo, propizia, non da ultimo, a
variazioni sui temi di interrogazione e verifica informativa e formativa.
Una collana di testi come quelli di “Windows Sociologia” va alla ricerca di un
adeguamento realistico e ben articolato della editorialità universitaria ai caratteri fondamentali della recente riforma universitaria, con il sistema cosiddetto
3+2 e relative conseguenze di diffusione pubblica e di mercato dei testi, e la
loro produzione circa le classi, le attività formative, il sistema dei crediti, i
prerequisiti conoscitivi e i debiti formativi.
A conclusione di questa breve presentazione della Collana “Windows Sociologia”
vorrei dire che, per l’orientamento critico e formativo che si vuol imprimere alla
Collana nel suo insieme, e che si intende esprimere in ognuno dei suoi testi
nella loro individualità singola, ogni Autore è invitato a dare, tra i blocchi
espositivi analitici, un particolare rilievo ai collegamenti o rimandi (links) di
significato dinamico e/o storicizzato: e di fare ciò, introducendo in ognuno dei
blocchi espositivi analitici, e fra di essi, la considerazione di uno o più processi
storico-sociali e culturali, così da integrare i cosiddetti fondamentali della conoscenza sociologica, nuova e tradizionale, con le loro masse critiche.
Torino, 5 febbraio 2002
Filippo Barbano
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Estratto della pubblicazione
Introduzione. Sociologia e linguaggio, una questione aperta
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Perché Sociologia e linguaggio? Perché questo libro non è dedicato ad una
disciplina specialistica il cui oggetto sia costituito dal linguaggio — alla Sociologia
del linguaggio, ad esempio, o alla Sociolinguistica o alla Sociologia della comunicazione — ma ad una questione a monte e di carattere generale, i cui termini
riguardano la sociologia in quanto tale quando il suo oggetto sia costituito
dall’«attore sociale». Il concetto di «attore sociale», come è noto, ricorre frequentemente nel lessico dell’indagine sociologica, quale che sia la sua specialità, ma
non altrettanto frequentemente chi vi ricorre esplicita anche i termini di tale
concettualizzazione, chiarendo quale sia l’identità sociologica dell’attore, in cosa
precisamente consista la sua socialità, quali siano le differenze che corrono tra
il concetto di attore e quelli ad esso più o meno strettamente o pertinentemente
imparentati, quali ad esempio i concetti di soggetto, individuo, persona e simili.
Proprio tali precisazioni a me pare siano peraltro necessarie al fine di cogliere,
con la specificità di una pratica di concettualizzazione, la parte di «mondo» che
essa consente di osservare e descrivere. A nessun osservatore il «mondo» si presenta allo stato puro, per così dire, ma sempre soltanto concettualizzato - «sensato», con Weber — in questo o quell’altro modo fra i molti che la cultura gli
mette a disposizione. Ciò vale anche per l’osservatore sociologo, e identificare
la specificità del criterio d’osservazione fornito dal concetto di «attore sociale»,
quando proprio quello sia in uso, è la condizione per comprendere quale sia il
«mondo» che per quella via si osserva. È a questo livello che il «linguaggio» —
l’ampia varietà di «mondo» che quest’altro concetto struttura — s’impone all’attenzione del sociologo, oggi come ieri. La questione non è infatti nuova,
essendo stata al centro delle riflessioni «metodologiche» di un padre della
sociologia, Max Weber, non certo insensibile alle espressioni linguistiche di
quell’«essere culturale» che per lui era l’attore sociale. Ma il considerarla ancora
una questione aperta non è inutile, per le ragioni sopra accennate e per l’occasione che tale considerazione offre: prendere in esame queste stesse ragioni
rivisitando quella stessa fonte, Max Weber, alla luce di alcune concettualizzazioni
elaborate da diversi autori operanti in anni successivi e in differenti discipline.
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Estratto della pubblicazione
Sociologia e linguaggio
Da queste stesse concettualizzazioni prenderò dunque le mosse, non prima di
aver posto, a titolo introduttivo dei temi che in questo libro prenderò in esame,
alcuni interrogativi.
Posto che una componente consistente della ricerca sociologica, da Weber in
poi, sia focalizzata sul senso che l’attore sociale conferisce al mondo che lo
circonda, e che l’attore sociale sia innanzitutto un essere parlante, quale parte
può avere una riflessione sulle pratiche del linguaggio nell’identificare i nessi
che intercorrono fra il parlare e l’agire nel definire il senso oggetto d’osservazione? Posto, ancora, che la nozione di senso, nella prospettiva sociologica in
questione, sia strettamente connessa a quelle di potere, ordinamento, istituzione, quale parte può avere una riflessione sul linguaggio in quanto istituzione nel
fornire al sociologo i criteri per definire il tipo di potere che l’attore sociale
consegue in ogni suo atto di parola o di enunciazione? Posto, infine, che nessun
attore sociale parli mai nel vuoto, ma ogni suo atto di parola o di enunciazione
si realizzi sempre all’interno di una qualche contesto, più o meno formalmente
strutturato, quale parte può avere una riflessione sui rapporti che intercorrono
fra linguaggio e cultura — tra regole del parlare e regole del suo contesto — nel
fornire al sociologo i criteri per definire nell’insieme delle sue parti costitutive
quell’«essere culturale» che, fin dall’originaria formulazione weberiana, è l’attore sociale?
Definiti entro questa cornice problematica, i rapporti che il sociologo può stabilire col linguaggio non ne fanno necessariamente uno specialista — del linguaggio o della comunicazione — ma semmai un osservatore
epistemologicamente attrezzato, quale che sia la sua specialità, a cogliere quanto altrimenti gli sfuggirebbe o s’imporrebbe all’insegna dell’ovvietà o dell’evidenza. Che ogni attore sociale parli è evidente a tutti quanti; così anche è evidente che gran parte dei «dati» che il sociologo raccoglie e usa nelle sue ricerche
siano detti, o comunque espressi attraverso il linguaggio, da una varietà di soggetti che il sociologo stesso coinvolge e incontra entro una varietà di contesti
convenzionalmente strutturati della propria disciplina (colloqui, interviste, questionari ecc.). Meno evidente e ancora oggi altamente problematica è l’identificazione della parte che il linguaggio gioca nella costituzione stessa dell’attore
sociale, e per nulla scontata é l’attribuzione dello statuto di azione a quella
«fonte» della ricerca sociologica che sono i dati-detti. Ma in assenza di quella
identificazione l’attore sociale non si distingue dal «soggetto psicologico» al
centro di altre discipline, i «motivi culturali» dell’uno non si distinguono dalle
«motivazioni psichiche» dell’altro, e con ciò è persa l’occasione di fare della
sociologia una «scienza di realtà» distinta dalle «scienze di leggi». Considerazio10
Estratto della pubblicazione
Introduzione. Sociologia e linguaggio, una questione aperta
ni analoghe valgono per i «dati», quando non siano assunti all’insegna dell’ampia varietà del «dire»: per quella via l’attore è arbitrariamente scisso dall’informatore, il modello dell’informazione s’impone su ogni altro, e con ciò è persa
l’occasione di cogliere l’azione laddove si realizza, al presente d’ogni tipo di
interlocuzione. Per quella via la sociologia rischia d’essere una «epistemologia
abortita», per usare l’espressione coniata da un filosofo del linguaggio, Peter
Winch, di cui ci occuperemo tra poco.
Ho diviso il libro in due parti, dedicando la prima alla «questione» sopra
schematicamente richiamata — quali rapporti si possono stabilire fra sociologia
e linguaggio? — presentando i termini in cui si è venuta a definire nell’arco di
quasi un secolo attraverso il contributo offerto da quattro autori, un filosofo e
tre sociologi: Peter Winch, C.Wright Mills, Jeff Coulter e… Max Weber. Come
mai ho lasciato Weber alla fine e non ho neppure seguito l’ordine cronologico
nel presentare i contributi degli altri tre autori? Perché soltanto alla luce di
questi ultimi, e nell’ordine in cui li presento, la sociologia weberiana mi pare sia
leggibile, oggi, in tutta la sua portata rivoluzionaria: come una «grammatica del
senso» dell’agire, focalizzata su quei «vocabolari» linguistico-culturali che sono
i «motivi» in cui si esprime l’intrinseca socialità della mente dell’attore sociale.
Weber, come è noto, è all’origine di un’ampia varietà di sociologie «speciali»,
dalla sociologia della religione alla sociologia dell’economia e della politica,
dell’organizzazione e del lavoro, del diritto e della musica, della conoscenza e
della scienza. Non ne farò qui anche un precursore della sociologia del linguaggio — una disciplina peraltro ancora in cerca di definizione — ma cercherò
piuttosto di mettere in evidenza la centralità che il linguaggio occupa all’interno della riflessione weberiana sul senso dell’agire e del metodo che la fonda,
l’«individualismo metodologico».
Ho dedicato la seconda parte del libro ad una esemplificazione del tipo di
analisi che una «grammatica del senso» consente a chi l’adotti, quando non la
consideri una disciplina sociologica specialistica a propria volta ma un modello
di analisi sociologica del senso dell’agire, scegliendo a tal fine, fra gli infiniti
materiali possibili, un testo letterario, The Catcher in the Rye di J.D.Salinger. La
ragione per cui ho scelto questo «classico» della letteratura del Novecento sta
nell’ampia varietà di «interlocuzioni» — relazioni sociali mediate dal linguaggio
— che lo costituiscono e che in questa sede assumo come idealtipiche, nel
senso weberiano del termine, nonchè emblematicamente rappresentative, forse
ancora oggi a distanza di mezzo secolo, dei «malesseri» associati ad un determinato modo di intendere e di praticare il linguaggio. Che molti malesseri di cui
l’uomo soffre siano da mettere in connessione con le sue pratiche del linguag11
Sociologia e linguaggio
gio non è affatto scontato, neppure dopo le precise indicazioni date da
Wittgenstein in tal senso, ma proprio questa connessione attraversa il romanzo
salingeriano da cima a fondo, rendendolo così ricco anche sotto un profilo
«terapeutico» non convenzionalmente inteso. Holden Caulfield, la voce narrante del romanzo, è un «giovane» le cui insofferenze per il mondo che lo circonda,
lungi dall’essere irrimediabilmente «caratteriali», sono sempre e puntualmente
— ma non anche pedantescamente, bensì letterariamente — messe in relazione
a questa o quella maniera di esprimersi, attraverso il linguaggio ma non soltanto, dei suoi interlocutori. Letto in questa prospettiva, Holden è un giovane che
alla «normalità» del linguaggio — al giocare questo o quel gioco linguistico in
base alle sue regole — affida la possibilità di costituire se stesso come «giocatore» in senso proprio, libero in quanto assoggettato soltanto alle regole impersonali di questo e quel gioco e non anche alle altrui pretese personalistiche di
potere.
Rileggendo le pagine che Filippo Barbano dedica alla Presentazione della Collana che ospita questo mio contributo mi rendo conto di quanto scarsa sia
stata, nel comporlo, la mia «fantasia multirappresentativa del testo» (Barbano
2002, 7). Ho bensì aperto alcune Finestre, nell’ambito dei vari capitoli, ma il
loro numero non è così ampio, e il paesaggio che si scorge affacciandovisi non
è così vario come Barbano certamente si attendeva nel propormi questo lavoro.
Più che a una villa palladiana, aperta all’esterno in ogni sua struttura, questo
libro assomiglia a un fortilizio le cui feritoie, più che finestre, sono poche e
scomode da raggiungere. Ma una volta raggiunte — lo dico ad evitare che il
Lettore, giunto a questo punto, chiuda senz’altro il libro e passi ad altra lettura
— si scorge qualcosa di molto importante, a mio giudizio, per chi in sociologia
si occupi del senso dell’agire: il paesaggio popolato da alcuni fra i filosofi e i
linguisti che più hanno contribuito e contribuiscono a delineare i rapporti che
in ogni atto individuale di parola si stabiliscono fra individuo, linguaggio, società. Li presento nella prima finestra (Finestra 1), insieme agli altri autori che
tratto nei vari capitoli, con titoli e date (in ordine storicamente decrescente), e
con anche l’indicazione della loro collocazione interna a questo volume. Il Lettore che lo desideri potrà così idealmente «cliccare» su questo o quel testo,
andando direttamente al capitolo o alla «finestra» in cui è presentato. Questo
libro essendo però anche rivolto ad un pubblico studentesco, a conclusione di
ciascun capitolo ho ritenuto opportuno aprire una Finestra riassuntiva in cui
elenco, a titolo di verifica della lettura appena conclusa o di criterio orientativo
di un’eventuale rilettura, i principali concetti che in ciascun capitolo ho presentato e che lo studente potrà assumere come altrettanti oggetti di domande virtuali d’esame.
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Estratto della pubblicazione
Introduzione. Sociologia e linguaggio, una questione aperta
Finestra n. 1
1995 John R.Searle, The Constuction of Social Reality (trad.it. 1996, La costruzione della realtà sociale), F.8.
1989 J.Coulter, Mind in Action (trad. it. 1993, Mente, conoscenza, società), Cap. 3
1980 R.Barthes, F.Flahault, Parola, F.3, F.9
1970 E. Benveniste, L’appareil formel de l’énonciation (trad. it. 1985, L’apparato formale
dell’enunciazione), F.2, F.7
1963 Id., Coup d’oeil sur le développement de la linguistique (trad. it. 1971, Uno sguardo allo sviluppo
della linguistica), F.10
1958 P.Winch, The Idea of a Social Science and its Relation to Philosophy (trad. it. 1972, Il concetto di
scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia) Cap. 1
1951 J.D.Salinger, The Catcher in the Rye (trad. it. 1961 [2002], Il giovane Holden), Seconda parte
1945-1949 L.Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (trad. it. 1967 , Ricerche filosofiche), Cap.
3.1, 3.2, 3.3, 4.1, F.5, 4.5, 4.6, 4.9
1929-1948 Id., Zettel (trad. it. 1986 Zettel), Cap. 4.3, 4.6
1940 C.W.Mills, Situated Actions and Vocabolaries of Motive (trad. it. 1971, Azioni situate e vocabolari
di motivi), Cap. 2.3
1940 Id., Methodological Consequences of the Sociology of Knowledge, (trad. it. 1971, Conseguenze
metodologiche della sociologia della conoscenza), Cap. 2.2.
1939 Id., Language, Logic and Culture (trad. it. 1971, Linguaggio, logica, cultura) Cap. 2.1.
1939 E. Benveniste, Nature du signe linguistique (trad it. 1971, Natura del segno linguistico) F. 6
1933-1934 L.Wittgenstein, The Blue Book (trad. it. 1983, Libro blu e Libro marrone), Cap. 4.1
1932 Id., The Big Typescript (trad. it. 2002, The Big Typescript), Cap. 4.1, 4.6, 4.9
1931-1948 Id., Bemerkungen uber Frazers «The Golden Bough« (trad. it. 1975, Note sul «Ramo d’oro» di
Frazer), Cap. 4.9
1929-1934 Id., Philosophische Grammatik (trad. it. 1990, Grammatica filosofica), Cap. 4.3, 4.9
1922 M.Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (trad. it. 1961 [1974b], Economia e Società ), Cap. 4.5, 2.2,
2.3, 4.1, 4.4, 4.5, 4.6
1919 Id., Politik als Beruf (trad. it. 1948 [1976], La politica come professione), Cap. 4.8
1917 Id., Wissenschaft als Beruf (trad. it. 1948 [1976], La scienza come professione ), Cap. 4.7, 4.8, 4.9
1917 Id., Der Sinn der «Wertfreiheit» der soziologischen und okonomischen Wissenschaften (trad. it.
1958 [1974a] , Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche ), Cap. 4.3, 4.9
1907, Id., R. Stammlers «Uberwindung» der materialistischen Geschichtsauffassung (trad. it. 2001,
Rudolf Stammler e il «superameto» della concezione materialistica della storia), Cap. 1.5, 4.5, 4.8
1906 Id., Objektive Moglichkeit und adaquate Verursachung in der historischen Kausalbetrachtung (trad. it.
1958 [1974a], Possibilità oggettiva e causazione adeguata nella considerazione causale della storia), Cap. 4.3
1905 Id., Knies und das Irrationalitatsproblem (trad it. 1980, Knies e il problema dell’irrazionalità), Cap. 4.5
1904 Id., Die «Objecktivitat» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (trad. it. 1958
[1974a], L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale), Cap. 4.1, 4.2, 4.8, 4.9
1903 Id., Roschers «historische Methode« (trad. it. 1980, Il «metodo storico» di Roscher), Cap. 4.5
Tutte le citazioni nel testo che segue si riferiscono alle traduzioni italiane riportate in Bibliografia
13
finestra 1
Autori, titoli, date
Estratto della pubblicazione
sociologia e linguaggio
parte prima
Sociologia e linguaggio in P. Winch, C.W. Mills, G.
Coulter, M. Weber
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Estratto della pubblicazione
Estratto della pubblicazione
parte prima:
Sociologia e linguaggio in P. Winch, C.W. Mills, J. Coulter, M. Weber
1. Sociologia e linguaggio in Peter Winch
In un fortunato saggio del 1958, The Idea of a Social Science and its Relation to
Philosophy, Peter Winch, esponente della seconda generazione della filosofia
analitica inglese, muovendo da posizioni wittgensteiniane pone alle scienze
sociali alcuni interrogativi d’ordine epistemologico che, benché anagraficamente
datati, mi sembrano ancora d’attualità. A partire dalla distinzione tra ricerca
concettuale e ricerca empirica.
1.1. Ricerche empiriche e concettuali
La critica che, come vedremo, Winch muove alla sociologia, si fonda su alcune
premesse che è opportuno ricordare. Contro la concezione secondo la quale la
filosofia, a differenza della scienza, non potrebbe fornire alcuna comprensione
positiva del mondo ma dovrebbe accontentarsi della funzione «puramente negativa» di rimuovere gli impedimenti che la scienza incontra nell’uso del linguaggio, Winch rivendica la funzione positiva della filosofia nell’identificare le
molte confusioni che, all’interno della stessa scienza oltre che della filosofia,
circolano sul linguaggio. Ritenere possibile separare nettamente il «mondo» dal
linguaggio con cui cerchiamo di descrivere il mondo, nonché ritenere che i
problemi della filosofia non siano posti dal primo ma soltanto dal secondo,
secondo Winch significa eludere completamente il «problema centrale della filosofia», oltre che stravolgere completamente la stessa filosofia wittgensteiniana
(Winch 1972, 26). I problemi della filosofia, argomenta Winch, non sorgono
dal linguaggio piuttosto che dal mondo, ma dal linguaggio in quanto mediatore del nostro rapporto col mondo: è mediante il linguaggio che discutiamo su
che cosa si possa considerare «appartenente al mondo», definiamo i concetti
che a loro volta definiscono «la forma» della nostra esperienza del mondo. Ciò
non significa affermare che i nostri concetti non possono cambiare, ma che
quando essi cambiano «cambia anche il nostro concetto di mondo» (Ibid., 28).
Di qui la necessità di distinguere fra ricerche «concettuali» e ricerche «empiriche».
La ricerca filosofica si distingue dalla ricerca scientifica, secondo Winch, per il
fatto di occuparsi non di particolari oggetti e processi reali, ma del concetto
stesso di «realtà». Il senso posto dal filosofo alla domanda «Che cosa è reale?» è
differente da quello posto dallo scienziato: implica il problema concettuale,
non empirico, della relazione tra l’uomo e la realtà. Pensare di risolverlo con
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sociologia e linguaggio
metodi sperimentali è un errore altrettanto grave del pensare che la filosofia, coi
suoi metodi «a priori» di ragionamento, possa competere con la scienza sul suo
terreno. Appellarsi ai risultati di un esperimento non farebbe che eludere questa
fondamentale questione, argomenta Winch, in quanto il filosofo sarebbe costretto a chiedere in base a quale ragione quegli stessi risultati vengano accettati
come «realtà». Vero è che molti tra i più importanti problemi teorici sollevati
nell’ambito della scienza appartengono alla filosofia, e vanno pertanto risolti
mediante un’analisi concettuale «di tipo aprioristico» piuttosto che mediante
una ricerca empirica. Il problema di cosa costituisca un «comportamento sociale» è uno di questi, e lo si può risolvere soltanto chiarificando il «concetto» di
«comportamento sociale» e le sue implicazioni.
Il problema epistemologico relativo alla natura dell’«intelligibilità» del reale e la
parte che in esso gioca il linguaggio, è di fondamentale importanza per la filosofia. Non riguarda però soltanto i filosofi, ma chiunque si occupi della vita
sociale e riconosca la centralità del ruolo che il concetto di «comprensione»
gioca nelle attività proprie delle società umane. Che cosa significa comprendere, afferrare il senso di qualcosa? Rispondere a questa domanda è compito
della filosofia non meno che delle scienze sociali; costituisce un’unica operazione di chiarificazione della natura dell’una e delle altre. Ma il filosofo e lo scienziato sociale possono rispondere a questa domanda soltanto affrontando la
questione del linguaggio o, più precisamente, identificando la natura dei nessi
che intercorrono fra individuo, linguaggio e società.
1.2. Intelligibilità e forme di vita
La nozione di «intelligibilità» — come quella di «realtà» — è «sistematicamente
ambigua», argomenta Winch sulla scia di Wittgenstein, in quanto il suo significato «varia sistematicamente» a seconda del particolare contesto in cui è usata.
Non solo lo scienziato e il filosofo, ma anche lo storico, il religioso, l’artista, il
profeta e così via, cercano di rendere il mondo intelligibile; non coglieremmo
però la realtà della nozione di comprensione e di intelligibilità se non tenessimo conto delle molte e importanti differenze che corrono tra gli usi che ne
fanno gli uni e gli altri. Possiamo bensì ricorrere all’espressione «rendere le cose
intelligibili» riferendola indiscriminatamente a tutti, ma senza con ciò illuderci
che esista una sorta di «proprietà» goduta da tutti. Sarebbe come usare la nozione di «gioco» per riferirsi, oltre che ad una molteplicità di giochi — il calcio, gli
scacchi, il salto triplo e così via — ad una retrostante unità. Pensare che tutti
quei giochi messi assieme configurino un «supergioco» è ridicolo, così come lo
è il pensare che lo scienziato, il filosofo e tutti gli altri messi assieme, configurino un’unica grande «teoria della realtà».
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parte prima:
Sociologia e linguaggio in P. Winch, C.W. Mills, J. Coulter, M. Weber
Interrogarsi su quanto è implicito nel concetto di «intelligibilità» è tutt’altra
cosa dal presupporre una qualsivoglia unità schematica o sostantiva: serve semplicemente a comprendere meglio che cosa significa dire che la realtà è intelligibile. La ricerca epistemologica, così intesa, non può essere una disciplina «speciale» il cui fondamento potrebbe essere soltanto il «pregiudizio» che tutte le
varietà del concetto di intelligibilità possano essere sussunte sotto un unico
schema. Suo compito dev’essere piuttosto quello di descrivere le condizioni che
devono essere soddisfatte perché ci possano «essere» criteri di comprensione in
generale (Ibid., 33).
Comprendere qualcosa della società umana vuol dire, secondo Winch, passare
dalla discussione sulla comprensione della realtà alla discussione sulla comprensione «che l’uomo ha della realtà», e sulla differenza che fa per la vita dell’uomo comprendere il mondo per come esso è «realmente». Le relazioni sociali
di ciascun uomo con gli altri non sono semplicemente «permeate» dalle loro
idee sulla realtà: sono l’«espressione» di quelle stesse idee. Tenere conto di quelle idee è pertanto di fondamentale importanza, innanzitutto, nella prospettiva
di dire qualcosa di sensato sul mondo sociale oggetto della propria osservazione. Chi, come Durkheim, considera «estremamente feconda» l’idea di spiegare
la vita sociale non mediante le nozioni che ne hanno coloro che vi partecipano
ma mediante «cause più profonde» non percepite dalla coscienza, da ricercarsi
nel modo secondo cui gli individui associati sono raggruppati, deve poi anche
provare come sia possibile identificare quel modo «indipendentemente» dalle
nozioni di tali individui (Ibid., 36). Oppure chi, come von Wiese, sostiene che il
compito della sociologia sia quello di darci una rappresentazione della vita
sociale che sia «del tutto indipendente dagli scopi culturali» di chi vive in società, in modo da mettere in rilievo «le influenze risultanti dalla vita comunitaria»
che gli individui esercitano gli uni sugli altri, deve poi anche chiarire che senso
abbia parlare di influenza reciproca «indipendentemente» dalle convinzioni e
dagli scopi di tali individui (Ibid., 37). Posizioni di questo tipo entrano in conflitto con la filosofia, quando sia intesa come «ricerca sulla natura della conoscenza umana della realtà e sulla differenza che la possibilità di tale conoscenza
introduce nella vita umana» (Ibid. ).
Tenere conto delle idee che ciascuno ha della realtà non ha alcun senso
epistemologicamente attendibile, in secondo luogo, se è l’esito di un’arbitraria
astrazione — e della conseguente aprioristica valutazione — di tali idee dalle
«forme» o «modi di vita» entro cui si esprimono. A tale critica si presta, secondo
Winch, la pretesa di scientificità della sociologia «logico-sperimentale» paretiana,
laddove Pareto introduce l’importante distinzione tra azioni «logiche» e «non19
Estratto della pubblicazione
sociologia e linguaggio
logiche» senza peraltro rendersi conto delle difficoltà filosofiche cui va in quel
modo incontro. Il fatto che all’interno delle azioni non-logiche compaiano sia i
riti magici sia certe misure economiche è un esempio tra gli altri, secondo Winch,
di una difficoltà propriamente filosofica impropriamente risolta appellandosi
alla scienza e alla sua empiria. È un esempio della difficoltà, in particolare, di
operare una chiara distinzione concettuale tra azioni «non logiche» e «illogiche».
Cercare di comprendere la magia riferendosi agli scopi e alla natura dell’attività
scientifica, come secondo Winch fa Pareto, vuol dire misconoscerla in quanto
tale, sovrapporre due forme o modi di vita sociale differenti, ciascuno dei quali
caratterizzato da differenti criteri interni di intelligibilità degli atti che si realizzano nel loro ambito. Poiché i criteri della logica non sono un dono di Dio ma
sorgono e sono intelligibili soltanto nel contesto di modi di vivere o forme di
vita sociale, saranno applicabili ad entrambe le forme di vita della scienza e
della religione. Entro la scienza potrà conseguentemente risultare illogico rifiutarsi d’essere vincolati dai risultati di esperimenti correttamente condotti, tanto
quanto potrà risultare illogico, all’interno della religione, «supporre di poter
rivolgere le proprie forze contro Dio» (Ibid., 124).
Sostenere che la pratica della scienza è la forma per eccellenza di comportamento «logico», mentre la pratica religiosa è «non-logica» (in senso logicamente
peggiorativo), secondo Winch non è permesso dallo statuto filosofico, e non
scientifico, del problema in questione; e dal «disimpegno» sul piano dei valori
che deve caratterizzare la ricerca filosofica. Se l’interesse della filosofia è volto a
chiarire e a confrontare i «modi» in cui il mondo è reso intelligibile in diverse
discipline intellettuali, e ciò conduce a propria volta alla chiarificazione e al
confronto di differenti forme di vita, il disimpegno in questione corrisponderà
all’interesse della filosofia a chiarire il proprio stesso «modo di descrivere le
cose»: non per «insana aberrazione narcisistica», ma quale parte essenziale di
quanto la filosofia «cerca di fare» (Ibid., 126). L’intelligibilità scientifica non è la
norma dell’intelligibilità in generale, come sembra credere Pareto, e la scienza
non possiede la chiave della realtà. Fare della scienza in cui si opera il modo di
rendere le cose intelligibili ad esclusione di tutti gli altri è l’esito di un’applicazione inconsapevole dei suoi criteri, laddove applicarli consapevolmente «è far
professione di filosofo».
Tale inconsapevolezza filosofica è «disastrosa», prosegue Winch, se opera all’interno della ricerca sulle società umane, la cui peculiare natura è precisamente quella d’essere costituita da modi di vita diversi e alternativi, ciascuno
dei quali offre un modo diverso di rendere intelligibili le cose. Quando le
«cose» in questione sono puramente fisiche o naturali, i criteri per identificarle
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Estratto della pubblicazione
parte prima:
Sociologia e linguaggio in P. Winch, C.W. Mills, J. Coulter, M. Weber
e per distinguerle le une dalle altre — i criteri per stabilire se due cose sono
«identiche» o «differenti» — saranno esclusivamente quelli dell’osservatore;
ma quando le cose sono intellettuali o sociali il loro «essere» dipende interamente dalla loro appartenenza ad un «sistema di idee o ad un modo di vita»
(Ibid., 132). È soltanto rispetto ai criteri che governano quel sistema di idee o
modo di vita che quelle «cose» possono esistere come eventi intellettuali o
sociali. Ne consegue che se un ricercatore sociale vuole considerare quelle
stesse cose come eventi sociali — ciò che egli è tenuto a fare — deve identificare i criteri che vengono applicati all’interno di quel sistema di idee o modo
di vita per stabilire che cosa è identico o differente: non gli è permesso di
imporre arbitrariamente i propri criteri dall’esterno, pena il far perdere tutto il
loro carattere di «eventi sociali» agli eventi oggetto della sua osservazione. Ciò
che infatti conferisce a tali eventi interesse sociologico, ribadisce Winch a
conclusione della sua critica a Pareto, è la loro «connessione interna con un
modo di vita» (Ibid., 132).1
Winch ricorre alla nozione di forma di vita nella prospettiva di stabilire un più
stretto e proficuo legame tra filosofia e scienze sociali, a partire dalla ricognizione dell’ampio territorio epistemologico comune. L’epistemologia costituisce
innanzitutto, argomenta Winch, il territorio d’incontro delle «ramificazioni filosofiche periferiche»; in quanto si interessa delle condizioni generali sotto cui è
possibile parlare di comprensione, consente alle filosofie periferiche di assolvere correttamente al proprio compito, che è quello di occuparsi delle forme particolari che la comprensione assume in particolari contesti. Posto, con
Wittgenstein, che la capacità dell’uomo di comprendere e le nozioni ad essa
associate vadano localizzate, per essere a loro volta comprese, nel contesto
delle relazioni tra uomini in società, e che tale contesto corrisponda ad una
pluralità di forme di vita, il rapporto tra epistemologia e ramificazioni filosofiche periferiche sarà tale per cui la prima cercherà di chiarire che cosa è implicito
nella nozione di forma di vita «in quanto tale», mentre le filosofie della scienza,
dell’arte, della storia e così via si incaricheranno di chiarire la «peculiare natura»
di quelle forme di vita chiamate scienza, arte e così via (Ibid., 58).
Tale concezione ha importanti conseguenze, secondo Winch, sul modo di concepire le scienze sociali in generale e, in particolare, la parte «teorica» della
sociologia generale e i «fondamenti» della psicologia sociale. Quanto alla
sociologia, quale che sia il modo di intenderla — se scienza sociale par excellence,
teoria unificata della società in generale o scienza sociale sullo stesso piano
delle altre — difficilmente potrà evitare il territorio dell’epistemologia definito
nei termini sopra richiamati; difficilmente potrà evitare di includere al proprio
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sociologia e linguaggio
interno una discussione sulla natura dei fenomeni sociali «in generale». Come
occuparsi di fenomeni sociali senza una chiara comprensione di ciò che è implicito nel «concetto» di fenomeno sociale? (Ibid., 59). Ma comprendere la natura
dei fenomeni sociali in generale vuol dire chiarire il concetto di «forma di vita»,
ed è questo il compito che Winch attribuisce all’epistemologia. Di qui la necessità di stabilire, fra sociologia ed epistemologia, relazioni «molto più strette», e
dunque molto diverse da quelle solitamente «immaginate» (Ibid. ).
1.3. Seguire una regola
È nella prospettiva di stabilire questo genere di relazioni — e dunque di chiarire
le modalità d’approccio epistemologico alle forme di vita in questione — che
Winch introduce il criterio wittgensteiniano del «seguire una regola». È nell’economia di quel criterio che la discussione epistemologica sulla comprensione
che l’uomo ha della realtà può precisarsi in termini tali da illuminare la natura
della «società umana» e delle relazioni sociali «tra uomini». Si consideri l’uso
delle parole «monte Everest»: cos’è che nel mio pronunciare quelle parole rende
possibile dire che io «significo» una certa vetta dell’Himalaya? Poniamo che
con quelle parole io sia in grado di significare qualcosa perché mi sono state
definite da qualcuno, innanzitutto; e che la definizione in questione sia stata, in
secondo luogo, di tipo ostensivo: qualcuno, volando con me sopra l’Himalaya,
ha puntato il dito sul monte Everest e mi ha detto che il suo nome è «Everest».
Da quel momento posso dire d’essere in grado di significare, con quelle parole,
quella determinata realtà. Ma che tipo di connessione precisamente si stabilisce
fra quell’azione passata e le presenti? Come, in termini più generali, una definizione è connessa con l’uso successivo della parola definita? In che cosa consiste «seguire» una definizione? La risposta ovvia è che la definizione «stipula il
significato», e usare una parola nel suo significato corretto vuol dire usarla
«nello stesso modo» stipulato dalla definizione. Ma cosa vuol dire, meno ovviamente, usare la parola «nello stesso modo» stipulato dalla definizione?
Anche la parola «stesso», non meno della parola «intelligibilità», è sistematicamente ambigua e può essere disambiguata soltanto in riferimento al contesto
della sua occorrenza. Chi sull’aereo mi indicava quella vetta poteva anche insegnarmi l’italiano e darmi la definizione della parola «montagna», a me ignota,
piuttosto che la parola «Everest» a me nota; e l’uso corretto della prima non
corrisponde affatto all’uso corretto della seconda. Noi non sappiamo se due
cose devono essere considerate identiche se non quando ci venga innanzitutto
detto il contesto in cui la questione è sorta. Ma in termini più precisi ciò vuol
dire che «è soltanto nei termini di una data regola che possiamo assegnare un
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parte prima:
Sociologia e linguaggio in P. Winch, C.W. Mills, J. Coulter, M. Weber
significato specifico alle parole «lo stesso»» (Ibid., 40). Rispetto alla regola che
definisce l’uso della parola «montagna», chi la usi per riferirsi in un caso al
monte Everest e nell’altro al monte Bianco, l’avrà usata «nello stesso modo»;
ma non si potrà dire altrettanto di chi usi la parola «Everest» per riferirsi in un
caso al monte Everest e nell’altro al monte Bianco. La questione allora, posto
che è soltanto nei termini di una data regola che la parola «stesso» ottiene un
significato definito, diventa la seguente: «in quali circostanze ha senso dire di
qualcuno che sta seguendo una regola in ciò che fa?» (Ibid., 41).
La difficoltà sorge dal fatto che una qualunque serie di azioni che un uomo
realizzi «può essere sussunta sotto una qualche regola», ma ciò non garantisce
affatto che egli stia realmente applicando «quella regola». Poniamo che A scriva
sulla lavagna la successione 1,3,5,7, e chieda a B di continuarla. B, come pressoché tutti, a meno che non ci siano speciali ragioni, proseguirà con 9,11,13,15
e così via. Poniamo che A rifiuti di accettare quelle cifre come continuazione
della sua serie, la prosegua a propria volta con le cifre
1,3,5,7,1,3,5,7,9,11,13,15,9,11,13,15, chieda di nuovo a B di andare avanti
e così via col rifiuto delle soluzioni che B gli avrà fornito. Verrebbe indubbiamente un momento, argomenta Winch, in cui B potrebbe dire «con piena giustificazione» che A stava bensì seguendo una regola «del tutto incontestabile entro
un certo ambito» — ad esempio «sostituire sempre una continuazione diversa
da quella proposta da B» — ma che non si trattava di una regola «matematica».
Tutto questo, conclude Winch, segnala una caratteristica molto importante della nozione di seguire una regola, ossia che tale nozione è «logicamente inseparabile dalla nozione di fare un errore». Nel discutere se il tal comportamento sia
o non sia sussumibile all’interno di una regola non si deve tener conto soltanto
delle azioni della persona in questione ma anche delle «reazioni delle altre persone». Ha senso chiedersi se una persona sta seguendo una regola soltanto se
«almeno in linea di principio» è possibile che altre persone siano in grado di
afferrare quella regola e di valutare se essa viene seguita «correttamente o meno».
Nel caso contrario non avrebbe alcun senso descrivere il comportamento di
qualcuno in quel modo, dal momento che qualsiasi cosa facesse «andrebbe
ugualmente bene». Lo scopo del concetto di regola consiste in altri termini nella
possibilità che ci dà di «valutare ciò che qualcuno ha fatto» in base a quanto è
implicito nell’idea di errore (e di correttezza): «la società umana con le sue
regole socialmente stabilite» (Ibid., 45-46).
È soltanto in una situazione in cui ha senso supporre che qualcun altro potrebbe, almeno in linea di principio, scoprire la regola che io sto seguendo, che si
può sensatamente dire che io sto seguendo una regola. Ma non sarebbe possi23
Estratto della pubblicazione
sociologia e linguaggio
bile scoprire alcuna regola se, con quella, non scoprissimo anche la possibilità
dell’errore. Ciò che è implicito nel fare un errore è la violazione di ciò che si è
«stabilito» come corretto; e stabilire ciò che è corretto, come qualsiasi altro
criterio, non è un’attività sensatamente ascrivibile a un qualsivoglia individuo
«in completo isolamento da ciascun altro» (Ibid., 46), non più di quanto si
possa sensatamente dire di qualcuno che «per primo ha usato un simbolo» o
«per primo ha preso parte a un tiro alla fune» (Ibid., 50). Supporre che qualcuno possa stabilire una regola di condotta «puramente personale», senza aver
mai avuto esperienza della società umana con le sue regole socialmente stabilite, è privo di senso; così come insensato è il dedurre, dal fatto che ci deve essere
stata una transizione da una situazione in cui non c’era alcun linguaggio ad
un’altra caratterizzata dalla presenza del linguaggio, che ci deve essere stato
qualche individuo che per primo ha «inventato» il linguaggio.
In polemica con chi sostiene che la maggior parte del comportamento umano
può essere adeguatamente descritta mediante la nozione di «abitudine» o di
«consuetudine» e che le nozioni di regola e di riflessività, non necessarie a tal
fine, designano soltanto il comportamento consapevole dell’agente, Winch controbatte affermando che non la possibilità di «formulare» la regola da parte
dell’agente costituisce la «prova» che la sua azione sia governata da una regola,
ma la possibilità di domandarsi «se ha senso distinguere fra un modo giusto e
uno sbagliato di fare le cose che fa». Nel caso che ciò abbia senso — abbia
senso identificare nelle regole un criterio pubblico di valutazione — avrà anche
senso dire che l’agente sta applicando una regola in ciò che fa, «anche nel caso
in cui non sia in grado di formularla.» (Ibid., 75). Un’azione per la quale non ci
sia un’alternativa, in termini più generali, non è un’azione; e benché non sia
affatto necessario che l’agente sia in grado di formulare tale alternativa, dev’essere comunque in grado di «comprendere» che cosa avrebbe significato «agire
diversamente». Il cane che risponde allo stimolo del padrone non ha alcuna
«idea» di ciò che sta facendo, e men che meno di che cosa significhi «rispondere
diversamente». Può certamente acquisire un’«abitudine», ma non si tratterà della stessa abitudine — o della stessa «esperienza» — propriamente umana. L’abitudine del cane non implica affatto che esso comprenda che cosa significa «fare
la stessa cosa in circostanze dello stesso genere», mentre è precisamente quel
tipo di sapere che l’uomo deve possedere prima che si possa dire di lui che «ha
acquisito una regola». Così per l’esperienza: è soltanto perché le azioni umane
esemplificano regole che «è possibile dire che l’esperienza passata è rilevante
rispetto al nostro comportamento presente» (Ibid., 79). A differenza del cane,
che non dispone di alcuna regola in senso simbolicamente proprio e conseguentemente di alcuna possibilità d’«azione», un uomo onesto, conclude Winch
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