A LMA M ATER S TUDIORUM – U NIVERSITÀ DI B OLOGNA DOTTORATO DI RICERCA DIRITTO TRIBUTARIO EUROPEO C ICLO XX Settore scientifico disciplinare di afferenza: IUS/12 LA CESSAZIONE DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA NELL’IVA: PROFILI NAZIONALI E COMUNITARI Presentata da: dott.ssa E LEONORA A DDARII Coordinatore Dottorato Relatore Chiar.mo Prof. Adriano Di Pietro Chiar.mo Prof. Adriano Di Pietro Esame finale anno 2008 LA CESSAZIONE DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ' IVA : PROFILI NAZIONALI E COMUNITARI Capitolo I IL RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ’ IMPOSTA SUL V ALORE AGGIUNTO 1 Il concetto di attività economica nelle norme e nella giurisprudenza comunitaria 1 1.1 La nozione economica nelle Direttive Iva 1 1.2 Le caratteristiche dell’attività secondo la Corte di Giustizia 9 1.3 Attività economica ed impresa nel diritto antitrust: una nozione generalmente valida per l’ordinamento comunitario? 23 2 I limiti temporali dell’attività economica 38 2.1 La giurisprudenza sugli atti preparatori 40 2.2 L’applicazione della medesima interpretazione alla fase conclusiva dell’attività 52 2.3 L’autoconsumo e la destinazione a finalità estranee all’impresa in relazione alla cessazione dell’attività 62 2.4 Il principio di neutralità quale ratio della nozione unitaria di attività economica 69 2.5 Attività economica, cessazione e rilevanza delle forme giuridiche 75 3 Prime conclusioni: il ruolo dell’attività economica e della sua cessazione 84 Capitolo II ATTIVITÀ ECONOMICA E CESSAZIONE NELL’ORDINAMENTO NAZIONALE Sezione I 1 L’ attività economica nell’ordinamento nazionale 95 1.1 La bipartizione tra impresa e professioni 97 1.2 L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972 104 1.3 Il rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario 110 a) Imprenditore e impresa nel diritto civile 110 b) Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel diritto civile e il diritto tributario 113 2 Alcune considerazioni su impresa, attività e il significato del termine “esercizio” 117 1 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale 127 1.1 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento tributario: aspetti controversi.. 129 1.2 ..la disciplina 132 a) La cessazione nel sistema delle imposte dirette: cenni 132 b) La cessazione dell'attività economica nell'Iva 137 1.3 La prospettiva del diritto commerciale 139 2 Le forme di cessazione dell’impresa 143 2.1 La liquidazione volontaria 144 2.1.1 La liquidazione dell’impresa nel diritto commerciale 144 2.1.2 Il valore degli adempimenti formali: la cancellazione dal registro delle imprese 151 2.1.3 Iva e liquidazione ordinaria dell’impresa 159 a) L’approccio oggettivo di dottrina e giurisprudenza: la sopravvivenza dell’impresa sino alla completa dismissione dei beni. Critica 159 Il profilo formale della cessazione: la dichiarazione di cessazione ed il suo valore. 170 Sezione II b) II L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni: autoconsumo generalizzato o necessità di destinazione estranea esplicita? 178 2.1.4 Cessione e affitto d’azienda: si verifica la cessazione dell’impresa? 185 2.1.5 I possibili effetti dell’incertezza riguardo al momento di cessazione sull’applicazione dell’imposta 192 2.2 Le procedure concorsuali: 197 2.2.1 L’esercizio dell’impresa e il fallimento 197 2.2.2 L’Iva nelle procedure concorsuali 205 a) L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle vendite fallimentari 208 b) La dichiarazione prefallimentare come dichiarazione di cessazione dell’attività. Critica 211 3 Alcune considerazioni conclusive: la cessazione dell’impresa ed il suo ruolo nell’ordinamento interno 221 c) Capitolo III S ISTEMA COMUNITARIO DELL ’ IMPOSTA E REGIME NAZIONALE A CONFRONTO 1 La compatibilità tra la disciplina comunitaria ed il regime nazionale 230 1.1 La centralità del vincolo di destinazione dei beni nell’individuazione del momento di cessazione dell’impresa in contrasto con l’irrilevanza dell’organizzazione. 231 La frammentazione della disciplina nazionale in contrasto con l’approccio unitario che emerge dalla giurisprudenza comunitaria: l’indifferenza della forma di cessazione.. 237 ..e della natura giuridica del soggetto passivo 242 1.2 1.3 III 1.4 La compatibilità delle interpretazioni nazionali nella prospettiva applicativa dell’imposta 245 2 Il ruolo dell’attività economica e della sua cessazione a confronto 247 CONCLUSIONI 256 BIBLIOGRAFIA 268 IV Capitolo I IL RUOLO DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA NELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO S OM M A RI O 1- Il concetto di attività economica nelle norme e nella giurisprudenza comunitaria 1.1- La nozione economica nelle Direttive Iva 1.2- Le caratteristiche dell’attività secondo la Corte di Giustizia 1.3- Attività economica ed impresa nel diritto antitrust: esiste una nozione generalmente valida per l’ordinamento comunitario? 2- I limiti temporali dell’attività economica 2.1-La giurisprudenza sugli atti preparatori 2.2- L’applicazione della medesima interpretazione alla fase conclusiva dell’attività 2.3- L’autoconsumo e la destinazione a finalità estranee in relazione alla cessazione dell’attività 2.4- Il principio di neutralità quale ratio di una nozione unitaria di attività economica 2.5- Attività economica, cessazione e rilevanza delle forme giuridiche 3- Prime conclusioni: il ruolo dell’attività economica e della sua cessazione 1- I L CONCETTO DI ATTIVITÀ ECONOMICA NELLE NORME E NELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA 1.1 La nozione economica nelle Direttive Iva Nata allo scopo di favorire e promuovere la creazione del mercato unico europeo e consentire l’affermazione concreta dei principi di libertà sanciti dai trattati istitutivi, anche attraverso l’armonizzazione dell’imposizione indiretta, ovvero promuovendone la neutralità, l’Iva si caratterizza per la sua natura di imposta comunitaria, per questa ragione differente dalle altre che compongono gli ordinamenti tributari nazionali. La necessità di costruire un sistema uniforme a livello europeo ha fatto sì che la normativa comunitaria prevedesse un sistema d’imposta proprio, il più possibile indipendente da quelli nazionali, che ha introdotto nozioni tipiche, spesso lontane dalla tradizionale costruzione degli istituti giuridici degli ordinamenti interni degli Stati membri, nozioni ampie e generiche che individuano i limiti all’interno dei quali i legislatori nazionali possono muoversi nel recepimento delle Direttive, ma che non possono essere legittimante superati, o Capitolo I disattesi, per ampliarne o limitarne la portata 1 . L’introduzione di un sistema comune, armonizzato, di imposizione indiretta necessariamente richiedeva questa scelta. Troppo diverse le legislazioni continentali rispetto a quelle di stampo anglosassone; troppo distinti fra loro gli stessi ordinamenti di “civil law”, la cui matrice comune non consente, tuttavia, la creazione di un sistema tributario uniforme senza l’insorgere di grandi difficoltà di adattamento e coordinamento dell’intero ordinamento. L’allontanamento dalle nozioni tradizionali dei singoli ordinamenti interni si caratterizza parimenti per un’altra peculiarità: molte delle categorie individuate dal legislatore comunitario si discostano altresì da un sostrato strettamente giuridico, per abbracciare l’oggettività propria del mondo economico, delineando categorie universalmente applicabili, ma giuridicamente piuttosto generiche. Nella forma delle caratteristiche disposizioni di largo respiro proprie dello strumento legislativo adottato, la direttiva 2 , il legislatore comunitario ha codificato, dunque, nell’ordinamento europeo nozioni 1 In questo senso C O M E LLI , La natura dell’imposta, in L’imposta sul valore aggiunto – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario a cura di F. T E S AU R O , Utet, 2001, p. 4 ss., il quale afferma che “ [..] la Sesta Direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE (e più in generale il sistema dell’Iva) prevede alcune definizioni aventi portata comunitaria, come risulta dall’esperienza della Corte di Giustizia, nel senso che alcuni concetti fondamentali sono definiti in modo unitario, e sono svincolati, pertanto, dalle nozioni contemplate dai singoli ordinamenti nazionali, posto che il legislatore interno non può interferire su di essi nella fase della trasposizione [..] ”. 2 La Direttiva, diversamente dal regolamento, funge generalmente da modello, da guida per la legislazione nazionale di recepimento, dettando i principi e gli elementi fondamentali cui le norme nazionali dovranno attenersi. E’ però frequente anche l’emanazione di norme dettagliate che, dettando una disciplina di per sé già esaustiva, devono ritenersi di diretta applicazione all’interno dell’ordinamento degli Stati membri, anche senza la mediazione del legislatore nazionale. Per una ricostruzione in termini istituzionali degli strumenti legislativi tipici dell’ordinamento comunitario si veda, G.T E S AU R O , Diritto Comunitario, III ed., Padova 2003, p. 135 ss. 2 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto capaci di comprendere il contenuto dei vari istituti tipici degli ordinamenti nazionali, nonché sufficientemente elastiche da abbracciare quelle novità che si presentino nella realtà, cui una legislazione rigida difficilmente sarebbe in grado di adattarsi. Tale tecnica legislativa, forse lungimirante, non è però priva di conseguenze negative se la si osserva da un punto di vista strettamente nazionale e si valutano le difficoltà di inserimento di queste nozioni in ordinamenti più rigidi, perché necessariamente – si conceda l’espressione- più giuridici. Difficoltà che si manifestano già ad un livello generale e superficiale, ma che ancor più si rendono evidenti quando l’allontanamento dalle categorie tipiche riguarda elementi fondanti lo stesso sistema dell’imposta. L’impostazione di stampo economico si rileva, infatti, con maggiore forza nella definizione del presupposto impositivo, sia sotto il profilo oggettivo, nell’individuazione delle operazioni imponibili 3 , sia nei riguardi dell’elemento soggettivo, indicando quali siano i soggetti passivi dell’imposta. Concentrando in particolare l’attenzione su quest’ultimo elemento, sono innegabili l’ampiezza delle disposizioni che determinano l’ambito soggettivo di applicazione dell’imposta e la genericità, quanto meno iniziale, che le caratterizza. Stabilisce, infatti, l’art. 9, c.1 della Direttiva IVA 4 che sia considerato soggetto passivo “chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”, 3 Con riguardo, ad esempio, all’ordinamento italiano, è possibile notare come il contenuto delle due principali categorie di operazioni imponibili – cessione di beni e prestazione di servizi- determinato ai fini dell’imposta non coincida pienamente con la classificazione delle medesime operazioni in altri ambiti dell’ordinamento. 4 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, pubblicata su GU L 347 del 11-12-2006 ed entrata in vigore in data 1-1-2007. Essa è il risultato della rifusione della Sesta Direttiva e delle successive modifiche, cui si aggiungono anche le norme tuttora in vigore della Dir. 67/227/CEE (cd. Prima Direttiva). 3 Capitolo I specificando che per attività economica deve intendersi qualsiasi attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, cui si unisce ogni forma di sfruttamento di un bene materiale o immateriale cui consegua un guadagno stabile 5 Come si può notare, l’estensione della nozione delineata –chiunque eserciti un’attività, indipendentemente dallo scopo o dai risultativiene delimitata espressamente da due sole caratteristiche: l’indipendenza e la stabilità, i cui elementi vengono all’interno della 5 Disponeva l’ art. 4 della Dir. 77/388/CEE (Sesta Direttiva) 1. Si considera soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività . 2. Le attività economiche di cui al paragrafo 1 sono tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonchè quelle delle professioni liberali o assimilate. Si considera in particolare attività economica un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità . 3. Gli Stati membri possono considerare soggetti passivi anche chiunque effettui a titolo occasionale un'operazione relativa alle attività di cui al paragrafo 2 e in particolare una delle operazioni seguenti: a) la cessione, effettuata anteriormente alla prima occupazione, di un fabbricato o di una frazione di fabbricato e del suolo attiguo; gli Stati membri possono determinare le modalità di applicazione di questo criterio alla trasformazione di edifici nonchè il concetto di suolo attiguo. Gli Stati membri possono applicare criteri diversi dalla prima occupazione, quali ad esempio il criterio del periodo che intercorre tra la data di completamento dell' edificio e la data di prima consegna, oppure del periodo che intercorre tra la data di prima occupazione e la data della successiva consegna, purchè tali periodi non superino cinque e due anni rispettivamente. Si considera fabbricato qualsiasi costruzione incorporata al suolo; b) la cessione di un terreno edificabile. Si considerano terreni edificabili i terreni, attrezzati o no , definiti tali dagli Stati membri. 4. L'espressione « in modo indipendente », di cui al paragrafo 1, esclude dall'imposizione i lavoratori dipendenti ed altre persone se essi sono vincolati al rispettivo datore di lavoro da un contratto di lavoro subordinato o da qualsiasi altro rapporto giuridico che 4 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto stessa Direttiva ripetuti e precisati. Nel successivo art. 10 si specifica, infatti, cosa debba intendersi per attività indipendente, escludendo tutti i soggetti vincolati da un rapporto di subordinazione, avendo riguardo alle condizioni di lavoro, alla retribuzione e al regime di responsabilità connesso al lavoro svolto. Diverso è, invece, il modo in cui il legislatore comunitario ha precisato l’elemento della stabilità, il cui rilievo viene ribadito, a contrario, prevedendo nell’art. 12 l’opzionalità dell’imposizione sulle operazioni occasionali. Da questa seconda caratteristica vengono fatti discendere due introduca vincoli di subordinazione in relazione alle condizioni di lavoro e di retribuzione ed alla responsabilità del datore di lavoro. Con riserva della consultazione di cui all' articolo 29, ogni Stato membro ha la facoltà di considerare come unico soggetto passivo le persone residenti all' interno del paese che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi. 5. Gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gli altri organismi di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni. Se però tali enti esercitano attività od operazioni di questo genere , essi devono essere considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non assoggettamento provocherebbe distorsioni di concorrenza di una certa importanza. In ogni caso, gli enti succitati sono sempre considerati come soggetti passivi per quanto riguarda le attività elencate nell' allegato D quando esse non sono trascurabili. Gli Stati membri possono considerate come attività della pubblica amministrazione le attività dei suddetti enti le quali siano esenti a norma degli articoli 13 o 28” Non sono molte le differenze rispetto al testo della Direttiva attualmente vigente. La rifusione operata ha avuto principalmente lo scopo di riordinare le norme Iva suddivise nei diversi testi via via emanati. L’effetto più evidente è stato dunque quello della rinumerazione degli articoli. Per quanto qui ci interessa, si nota come dal lunghissimo articolo appena ricordato siano derivate cinque diverse norme (artt. dal n. 9 al n. 13) di contenuto sostanzialmente identico alla disciplina precedente. 5 Capitolo I corollari considerati essenziali perché l’attività economica sia tale da attribuire la soggettività passiva: - l’abitualità, cui si faceva espresso riferimento solo nella Seconda Direttiva 6 , ma che sembra essere sottintesa allo stesso carattere di stabilità; - la professionalità dell’attività svolta, quale elemento che, in aggiunta ai precedenti, marchi ancor più le differenze dall’attività occasionale 7 , o giustifichi l’assoggettamento all’imposta di colui che, 6 Dir. del Consiglio 67/228/CEE, che conteneva l’iniziale disciplina di armonizzazione, poi sostituita ed abrogata dalla Sesta Direttiva. 7 Il requisito della professionalità ha sempre presentato delle peculiarità. Come sottolineato, la normativa comunitaria non vi fa alcun riferimento. Esso è stato dedotto quale corollario dell’abitualità in sede interpretativa, probabilmente sotto l’influenza delle categorie nazionali, che vedono tale requisito fra quelli indispensabili per l’esistenza dell’imprenditore. Anche a livello nazionale, si tratta comunque di un elemento controverso, le cui caratteristiche sono difficilmente distinguibili dall’abitualità. Con riferimento alla normativa comunitaria si veda B OU R GE O IS , I soggetti passivi dell’imposta in Lo Stato della Fiscalità nell’Unione europea, a cura di Di Pietro, 2003, 30, il quale sottolinea come la necessità del carattere professionale possa desumersi dall’analisi testuale dell’art.4 della Sesta Direttiva, nel quale il legislatore riferendosi ai soggetti (produttore, commerciante, prestatore di servizi) e non alle attività, rinvierebbe implicitamente alla professionalità tipica delle categorie richiamate. Una curiosità in proposito può emergere dal confronto delle versioni della Direttiva nelle diverse lingue ufficiali. Il testo dell’art. 4 della Sesta Direttiva si riferiva, in tutte le lingue esaminate, alla qualifica del soggetto. Nel testo attualmente vigente si incontrano invece delle differenze tra la versione inglese e francese, che ancora parlano di producers e producteur, e le versioni italiana e spagnola che sembrano invece aver abbandonato il riferimento alla “qualifica” del soggetto a favore di un’indicazione ancor più oggettiva della semplice tipologia dell’attività. Come nel testo italiano si parla infatti di “attività di produzione, commercializzazione, etc” così anche nel testo spagnolo si parla di “todas las actividades de fabricación, comercio o prestación de servicios [..] ”. Una simile variazione non sembra ad ogni modo possa influire sulla determinazione del carattere professionale dell’attività svolta, caratteristica che, come già ricordato, può ricollegarsi ad altri elementi della normativa stessa. 6 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto pur dando vita ad un’unica operazione isolata, rispetti determinati standard di professionalità tali da distinguerlo da un soggetto privato e da giustificare l’applicazione dell’imposta, in deroga alla norma generale. Fatti salvi questi pochi elementi, il testo della Direttiva conserva un linguaggio quanto mai generico, carattere sottolineato ancor più dalla dichiarata indifferenza dello scopo e del risultato dell’attività -cui non viene richiesto il fine lucrativo, ma il semplice rispetto del criterio di economicità nonché dal mancato riferimento ad elementi quali la natura e la forma giuridica o l’organizzazione dell’attività. Esaminando il contesto in cui queste norme sono state elaborate ed emanate è possibile individuare due ragioni principali per le scelte del legislatore comunitario. Come già si è ricordato, il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto nasce quale ulteriore passo per la creazione del mercato comune, allo scopo di eliminare quanto più possibile le distorsioni create dai diversi regimi impositivi degli Stati membri. La creazione di un sistema neutrale è dunque funzionale alla realizzazione di un mercato pienamente concorrenziale che veda, da un lato, un pari trattamento dei soggetti economici indipendentemente dalla nazionalità e, dall’altro, consenta di ridurre al minimo l’influenza del fattore fiscale sull’esercizio delle attività economiche, consentendo agli operatori economici di non restare incisi dall’imposta grazie al meccanismo della detrazione. 8 Di conseguenza, una volta individuati in questi due aspetti del principio di neutralità i criteri che ispirano tutto il sistema Iva, è facile comprendere il perché di un ambito di applicazione soggettiva così esteso: quanto più varia è la tipologia dei soggetti passivi e quante più sono le attività economiche soggette al regime uniforme, tanto più si 8 Non si deve dimenticare che, diversamente dal ruolo centrale che viene attribuito al sistema impositivo negli ordinamenti nazionali, in ambito europeo le imposte vengono valutate più come elemento potenzialmente distorsivo della concorrenza e del mercato, la cui influenza deve pertanto essere il più possibile limitata, che come meccanismo essenziale al finanziamento e alla vita dello Stato. 7 Capitolo I potranno favorire la neutralità fiscale e l’equo funzionamento del mercato, coinvolgendo tutti gli operatori e tutte le fasi della produzione antecedenti all’immissione al consumo dei beni e dei servizi. Sulla base di queste considerazioni, si giustifica, allora, la scelta di adottare nozioni che sono state definite pregiuridiche 9 , più legate alla realtà del mercato e ai criteri oggettivi del mondo economico che ai rigidi criteri giuridici propri degli ordinamenti nazionali 1 0 . L’approccio tipico del legislatore europeo si sostanzia, allora, nella definizione secondo parametri oggettivi dello stesso profilo soggettivo, non concentrandosi sugli elementi che caratterizzano il soggetto, quali lo scopo perseguito o la struttura organizzativa e giuridica, quanto piuttosto sulle peculiarità che l’attività svolta deve presentare perché il presupposto impositivo possa dirsi integrato 1 1 , evidenziandosi in tal modo ancor di più la distanza rispetto ai modelli giuridici degli ordinamenti nazionali, il cui richiamo avrebbe necessariamente comportato riferimenti soggettivi, stante la diversità della struttura stessa di legislazione nazionale e comunitaria. Ad esso si aggiunga che, come emerge anche dall’esperienza in altri settori del diritto comunitario, la scelta adottata a livello europeo risulta essere in qualche modo obbligata, in considerazione del fatto che non solo è quasi impossibile rinvenire, negli ordinamenti dei diversi Stati membri, nozioni giuridiche uniformi relative all’impresa o ad altre forme di esercizio dell’attività economica, ma risulta a dir 9 10 Cfr. C O M E LLI , Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000, 469. La necessità che l’applicazione dell’imposta sia quanto più vasta ed uniforme possibile spiega così anche l’atteggiamento di maggiore rigidità e precisione sia del testo della Direttiva che della giurisprudenza nei confronti delle norme derogatorie che prevedono, ad esempio, l’esenzione dall’imposta in ragione di criteri soggettivi, come nel caso dei soggetti pubblici che agiscano nell’ambito delle proprie funzioni. 11 In questo senso C E N T O R E , Iva europea- aspetti interpretativi ed applicativi dell’Iva nazionale e comunitaria, Milano, 2006, 152 e C O M E LLI , Iva comunitaria cit., 469. 8 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto poco complesso anche solo individuarne elementi comuni, che non siano quelli propri della realtà economica 1 2 . 1.2 Le caratteristiche dell’attività secondo la Corte di Giustizia Essendo questo il fondamento normativo della disciplina Iva, è stato inevitabile che l’opera della Corte di Giustizia assumesse un ruolo fondamentale nella precisazione del contenuto e del significato delle norme. È amplissima la casistica relativa al profilo soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, con sentenze che, da un lato, distinguono quali tipi di attività siano qualificabili come economiche ai fini dell’imposta e, dall’altro, ne individuano le caratteristiche principali. Principio costantemente affermato dalla Corte di Giustizia è quello dell’ampiezza della nozione di soggetto passivo dell’imposta e di attività economica, nonché del suo carattere oggettivo in ossequio al principio di neutralità 1 3 che caratterizza tutto il sistema. Quanto sancito nella sentenza Commissione/Paesi Bassi 1 4 nel 1987, 12 Si veda in seguito l’esame dell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza nell’ambito del diritto anti trust, con riguardo alla nozione di impresa comunitaria. Per un esame comparato della nozione e del regime fiscale applicato all’impresa nei paesi europei si veda O FFE R M AN N S R., The entrepreneurship concept in a European comparative tax law perspective, The Hague [etc.], Kluwer law international, 2002.Per una ricostruzione della disciplina Iva in base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia si veda TERRA B.- KAJUS J., Vat- an introduction to europea Vat and other indirect taxes, IBFD, 2006 13 Chiarissime in proposito le parole dell’Avvocato generale Van Gerven nelle conclusioni del 25 settembre 1990, Causa C- 186/89, Van Tiem, p. 7 “In primo luogo la Corte ha sottolineato ripetutamente che l'art. 4 della Sesta Direttiva mirava a determinare una sfera d' applicazione molto ampia per l’IVA. Infatti, il sistema dell'IVA mira a garantire una neutralità assoluta mediante l’imposizione quanto più generale possibile di tutte le fasi della produzione, della distribuzione e della prestazione di servizi; la nozione di "attività economica" deve quindi venire interpretata in senso ampio, tenuto conto di detto principio di neutralità” 14 CGCE, sentenza 26 marzo 1987, causa C-235/85, Commissione- Paesi Bassi, 9 Capitolo I uno dei primi precedenti in materia, ovvero che “la nozione di attività economica è definita all'art. 4, n.2 nel senso che vi sono incluse tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese in particolare quelle inerenti alle professioni liberali o assimilate. L'analisi di queste definizioni mette in rilievo la vastità della sfera d'applicazione determinata dalla nozione di attività economiche, [..], nonché il suo carattere obiettivo, nel senso che l'attività viene considerata di per sè, indipendentemente dalle sue finalità o dai suoi risultati”, viene ripetuto costantemente ed arricchito nel suo significato ogni qual volta la Corte si trovi ad affrontare il tema della soggettività passiva Iva e, dunque, il contenuto della nozione di attività economica 1 5 . Posti in evidenza i caratteri fondamentali di generalità e obiettività 16 p.7-8 15 In questo senso, ex pluribus, CGCE sentenza 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, punto 19; sent. 15 giugno 1989, causa C- 348/87, SUFA, p. 10; sent. 4 dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem, punto 17; sentenza 12 settembre 2000, causa C-260/98, Commissione/Grecia, p. 26; sentenza 26 giugno 2003, causa C-305/01, MGK- Kraftfahrzeuge-Factoring, punto 42; sentenza, 27 novembre 2003, causa C-497/01, Zita Modes , punto 38; sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., punto 44; CGCE, 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of Huddersfield p. 45 ss; CGCE, sent. 26 giugno 2007, Causa 284/04, T-mobile Austria, p. 33 ss 16 In proposito si vedano, ad esempio, CGCE, sent. 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group, p. 24; sentenza 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of Huddersfield cit. p. 48 e 49; sentenza 26 giugno 2007, causa C-284/04, T-mobile Austria cit., p. 35 nonché le conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 7 settembre 2006, causa C- 284/04, cit. il quale precisa che “non rilevano pertanto le finalità soggettive che il soggetto interessato persegue tramite l’attività; in caso contrario l’amministrazione tributaria dovrebbe effettuare indagini volte ad accertare tali finalità, cosa che sarebbe incompatibile con gli obiettivi del sistema comune dell’IVA. Tale sistema, infatti, mira a garantire la certezza del diritto e ad agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’IVA dando rilevanza alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi, salvo in casi eccezionali (p. 45)” . Sulla necessità della certezza del diritto e, dunque, dell’obiettività dell’interpretazione delle nozioni su cui l’imposta si fonda, si sono espresse anche 10 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto della nozione europea, nonché la sua ratio, la Corte si è concentrata altresì nella precisazione del significato letterale della norma in conformità a tali caratteristiche. In primo luogo, la Corte ha inteso chiarire che l’elencazione contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 4 Sesta Direttiva (ora art. 9) è da ritenersi meramente esemplificativa delle tipologie di attività che possono considerarsi implicitamente economiche ai fini dell’imposta senza che sia necessaria alcuna altra indagine, se non quella relativa all’abitualità e professionalità del suo esercizio. Precisato questo elemento della norma, molte sono le pronunce che si concentrano, invece, sul significato del secondo paragrafo dello stesso articolo, ovvero sull’esatto senso del termine sfruttamento. Anch’esso viene posto in relazione con la nozione generale in qualità di ulteriore specificazione, non di diversa fattispecie 1 7 . La necessità di un’interpretazione ampia ha, inoltre, portato spesso la Corte ad utilizzare questo secondo elemento, chiarendo quali attività specifiche, non qualificabili ai sensi del primo comma della norma, costituiscano sfruttamento di un bene al fine di trarne introiti potenzialmente stabili 1 8 . In particolare, la delimitazione di questo elemento è stato utile al giudice comunitario per evidenziare la differenza tra utilizzo a fini economici di un bene e semplice godimento della proprietà dello le sentenze 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group, punto 24 e 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of Huddersfield, punto 49. 17 Cfr. sul tema S. C ON FA LO N IE R I , Iva- cessione di partecipazioni, locazione di beni e nozione di attività economica nella VI Direttiva 77/388/Cee, in Riv. Dir. Trib., 1997, II, 13 18 Come anche recentemente è stato sostenuto nella sentenza 21 ottobre 2004, causa C-8/03, BBL, punto 36: “Tale nozione di «sfruttamento» si riferisce, conformemente ai presupposti che implica il principio della neutralità del sistema comune dell’IVA, a qualsiasi operazione, indipendentemente dalla sua forma giuridica”. Fra le altre pronunce si vedano anche le sentenze 4 dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem, punto 18; 11 luglio 1996, causa C -306/94, Régie dauphinoise, punto 15; 29 aprile 2004, causa C-77/01, EDM, punto 48; . 11 Capitolo I stesso 1 9 . Sono due, infatti, gli elementi fondamentali che vengono posti in rilievo con la definizione del significato di sfruttamento: l’indifferenza della forma giuridica e degli scopi dell’attività 2 0 e la necessità del suo carattere economico 2 1 , perché rilevi nell’ambito dell’imposta. Con riferimento a quest’ultima caratteristica, i giudici europei hanno dichiarato che, ferma restando l’indifferenza della finalità ultima cui l’attività è diretta, indifferenza che porta ad escludere la necessità che il fine dell’attività sia principalmente il lucro da essa ritraibile, in essa deve essere comunque rinvenibile un obiettivo imprenditoriale o un fine commerciale 2 2 . Anche in questo caso, secondo il proprio indirizzo tradizionale, la Corte non ha provveduto a chiarire l’esatto significato di tali 19 L’argomento della differenza tra esercizio del diritto di proprietà e svolgimento di un’attività economica è stato rilevato in particolare nelle pronunce relative all’acquisto e alla detenzione di quote societarie –nelle quali è emerso il principio per cui si considera che l’attività economica rilevante ai fini Iva sussisterebbe solo laddove vi sia un’interferenza diretta o indiretta sulla gestione della società partecipata- nonché alla locazione di beni mobili e immobili. In proposito, si vedano, ad esempio, le sentenze 20 giugno 1991, causa C-60/90, Polysar Investments Netherlands, punto 13 ss.; 22 giugno 1993, causa C- 333/91, Sofitam, punto 12; 20 giugno 1996, causa C- 155/94, Wellcome Trust, punto 35; 11 luglio 1996, causa C- 306/94, Régie Dauphinoise, punto 18; 26 settembre 1996, causa C- 230/94, Enkler, punto 22; 6 febbraio 1997, causa C-80/95, Harnas & Helm, punto 15; 26 giugno 2003, causa C- 442/01, KapHag, punto 37. In merito si veda anche A RM E LLA S., La nozione di attività economica ai fini Iva, Dir. Prat. Trib., 1998, III, 573 20 Come precisato da giurisprudenza e dottrina l’espressione “per ricavarne introiti” non si riferirebbe infatti allo scopo dell’attività, quanto alla natura delle operazioni svolte, che devono di per sé essere potenzialmente idonee a produrre ricavi in modo non occasionale, senza che conti la loro effettiva realizzazione. In merito si veda S. C ON FA LO N IE R I , op. loc. cit. 21 CGCE, sentenza T-mobile Austria cit., p. 34; 26 maggio 2005, causa C-465/03, Kretztechnik, punto 18 22 In proposito cfr. sentenze 14 novembre 2000, causa C-142/99, Floridienne e Berginvest, punti 27 ss; sentenza Régie Dauphinoise cit. 12 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto affermazioni, limitandosi ad enunciarne il principio. Secondo quanto sottolineato dall’avvocato generale Legèr che, nella causa EDM 2 3 , ha tentato di definirne il contenuto, l’obiettivo imprenditoriale implicherebbe “la predisposizione [..] di risorse umane e logistiche stabili e organizzate, che superino in entità le risorse proprie di un investitore privato utilizzate per la sola soddisfazione delle sue esigenze personali”. La seconda nozione, relativa al fine commerciale, postulerebbe, invece, “la volontà di garantire la redditività dei suoi capitali, sicché i prestiti devono essere stipulati a condizioni paragonabili a quelle di mercato, come se lo fossero stati da parte di un istituto finanziario con i suoi clienti” 2 4 . Pur se riferite al caso specifico delle attività finanziarie e volte ad individuarne le ipotesi di imponibilità, queste pronunce evidenziano caratteristiche importanti della categoria attività economica delineata dalle norme europee. L’obiettivo imprenditoriale, collegato alla presenza di una struttura organizzativa stabile di mezzi e persone, da un lato, potrebbe ad un primo sguardo apparire come un avvicinamento dell’elaborazione comunitaria a quelle nazionali in tema di impresa, ponendo l’accento sull’elemento organizzativo. Tuttavia, la rilevanza attribuita alla necessità che l'attività poggi su di una struttura, sia logistica che personale, stabile non sembra far assumere all’organizzazione, intesa come azienda, un ruolo centrale. Al contrario, esso appare come un elemento a conferma di una delle caratteristiche già poste in luce dalla dottrina, ovvero la necessità di stabilità e di quel tanto di strutture organizzative che caratterizzano le 23 CGCE, causa C-77/01, EDM, nella quale venne chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla sussistenza di soggettività passiva ai fini dell’imposta di una holding che erogava finanziamenti alle proprie partecipate. 24 Conclusioni del 12 settembre 2002, paragrafi 44 ss. In esse l’Avvocato Generale coglie l’occasione per ricostruire in termini più o meno generali la nozione di attività economica ai fini Iva, in particolare attraverso la giurisprudenza della Corte in tema di soggettività passiva delle holding e di imponibilità delle attività finanziarie. 13 Capitolo I attività svolte professionalmente, distinguendole perciò dalle operazioni meramente occasionali 2 5 . Sembra corretto ritenere, dunque, che l’obiettivo imprenditoriale, così come emerge dalla giurisprudenza comunitaria, si riferisca ad un requisito strutturale minimo, tale da distinguere l’attività rivolta al mercato da quella di mero godimento o, in ogni caso, finalizzata alla semplice realizzazione di un'utilità per lo stesso operatore economico. In questo senso, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dalla sua propensione ad estendere la nozione di attività 25 Nello stesso senso si veda anche Causa C-8/03, conclusioni dell’Avvocato Generale Poiares Maduro del 18 maggio 2004, punti 9 ss: “ Secondo la Corte, in effetti, l’assoggettamento all’IVA presuppone un’attività svolta nell’ambito di un obiettivo imprenditoriale o ad un fine commerciale, contraddistinto in particolare dall’intento di garantire la redditività dei capitali investiti. In base alla giurisprudenza indicata, per attività economica deve dunque intendersi un’attività che può essere esercitata da un’impresa privata in un mercato, organizzata in modo professionale e generalmente caratterizzata dall’intento di generare profitti. Va evidenziato come tale nozione presenti una particolarità, se la si confronta con la definizione che ne è stata data in altri settori, come quello del diritto della concorrenza, in cui essa ha anche la funzione di definire il campo di applicazione del diritto comunitario. In ambito fiscale, la nozione è individuata attraverso un doppio criterio: non solo un criterio funzionale relativo all’attività, ma anche e soprattutto un criterio strutturale, relativo all’organizzazione. Una tale definizione è conforme all’obiettivo perseguito da parte del sistema comune dell’IVA, che è quello di trattare in maniera uguale, ai fini dell’imposta, l’insieme dei soggetti attivi stabiliti nel territorio della Comunità”. In questo caso l’Avvocato Generale sembra forse sottolineare troppo il requisito organizzativo, che presenta come tipico della nozione tributaria se posto a confronto con la nozione di attività economica che emerge in seno al diritto della concorrenza. Tale affermazione non sembra potersi condividere. Come si vedrà in seguito, la presenza di una struttura organizzata viene considerato nell’ambito di quella disciplina elemento necessario per l’esistenza dell’impresa, soggetto destinatario delle norme sulla concorrenza. Tuttavia, l’interpretazione estensiva della nozione di impresa, sino a coinvolgere anche le persone fisiche, porta ad escludere una rilevanza determinante del requisito organizzativo dell’ordinamento. 14 anche in quel settore Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto economica in via interpretativa, sia svalutando il profilo strettamente giuridico sia valorizzando il concetto di sfruttamento contenuto nelle norme della Direttiva, si deve ricordare che la nozione di attività economica valida ai fini dell’imposta sul valore aggiunto si riferisce alle iniziative economiche in senso generale senza che vengano definite distinzioni in ragione della tipologia o della natura giuridica delle attività e degli operatori coinvolti, proprio perché la nozione di attività accolta e, quindi, l'imposta stessa, si pongono come funzionali agli obiettivi economici che il legislatore comunitario si prefigge attraverso l'affermazione della neutralità del sistema. Per questo motivo, non sembrerebbe corretto sostenere che il requisito organizzativo, inteso quale creazione di una struttura organizzata di fattori produttivi strumentale all’esercizio dell’attività e prevalente rispetto all’apporto del soggetto, assuma una rilevanza determinante, poiché questo implicherebbe l’esclusione di attività caratterizzate dall’apporto del lavoro personale del soggetto più che dalla creazione e dall’utilizzazione di una organizzazione che ecceda il minimo necessario a supportare l’opera personale. Data l’ampiezza dell’accezione di attività accolta nell'ambito dell'imposta -vincolata al collegamento con il mercato ed estesa, per questo motivo, anche oltre i propri limiti tradizionalmente dettati dal principio di effettività e dall'esercizio 2 6 - e la sua sostanziale omogeneità a fronte delle molteplici esperienze concrete che essa può racchiudere, è infatti evidente come non sia possibile negare la rilevanza ai fini dell’imposta, di quelle attività che, svolte in modo abituale, professionale e rivolte al mercato, siano tuttavia prive di quel requisito organizzativo che nel contesto nazionale distingue l’impresa dalle altre forme di iniziativa economica ad essa non riconducibili. Il secondo requisito posto in luce dalla Corte, il fine commerciale, 26 Motivo per cui, come si vedrà in seguito, i confini temporali dell'attività ai fini Iva appaiono dilatati rispetto alle nozioni tradizionali ed includono, sia all'avvio che nella fase terminale, fasi prive di esercizio tipico, ma tuttavia ancora collegate con l'attività e capaci di influire sull'equilibrio e la neutralità del sistema. 15 Capitolo I esprime, forse con maggiore forza, il principio in base al quale possono considerarsi attività imponibili quelle che siano dirette al mercato, ne rispettino le regole di funzionamento e abbiano ad oggetto, dunque, beni o servizi che siano rivolti a terzi e siano oggetto di rapporti giuridici tra l’operatore economico-soggetto passivo e soggetti terzi 2 7 . Dalle osservazioni svolte appare chiaro come tali caratteristiche vadano interpretate in senso lato, proprio in virtù dell’ampiezza della nozione di attività economica, che non include solo attività tipicamente d’impresa. Anche il fine commerciale deve quindi rappresentare, in termini generali, l’economicità e la direzione al mercato dell’attività, ossia la necessità che beni e servizi non siano prodotti solo per se stessi, senza che di tale requisito sia data un’interpretazione limitata a ciò che generalmente si intende per fine commerciale e, quindi, propriamente imprenditoriale, ma ricomprendendo all’interno della nozione comunitaria tutte le attività che pur non essendo classificabili come impresa secondo le diverse discipline nazionali mostrino un carattere economico. Precisate le caratteristiche che rendono rilevante in ambito Iva 27 Questo principio è stato costantemente affermato dalla Corte in particolar modo nei casi in cui si è discusso della natura dell’Iva quale imposta sul consumo e della necessaria onerosità delle operazioni imponibili. Il giudice comunitario ha infatti affermato la necessità che esista un rapporto con un terzo, consumatore, che possa trarre una qualche utilità dall’operazione imponibile. È la stessa struttura dell’imposta a richiedere un simile requisito, in quanto prevede che sia solo il consumatore finale a restare inciso dall’imposta, mentre prevede la pressoché completa neutralità nei confronti dei soggetti passivi, quanto meno quando agiscano in quanto tali. In proposito, cfr. CGCE, sent. 29 febbraio 1996, causa C-215/94, Mohr, commentata da A. C OM E LLI , L’Iva quale imposta sul consumo, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, p. 1136 ss., il quale sottolinea che “è necessario che un operatore economico fornisca beni e servizi per il consumo da parte di clienti identificabili in cambio di un prezzo corrisposto da questi o da terzi” (p. 1143) . In merito si veda anche C O R D E IR O G U E R R A R., L’Iva quale imposta sui consumi: riflessi applicativi secondo la Corte di Giustizia, Rass. Trib., 2000, 322 16 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto un’attività di sfruttamento, la giurisprudenza ha posto l’accento sugli effetti della natura del bene che ne è oggetto. Nel cercare di chiarire quale attività possa considerarsi economica nel senso richiesto dal sistema dell’imposta, i giudici europei hanno, infatti, specificato che un’analisi più specifica dovrà essere condotta solo nei casi in cui il bene oggetto dell’attività si presti ad un utilizzo promiscuo o sia ad esso stato destinato. Nel caso in cui, al contrario, si tratti di un bene che, per sua stessa natura, possa essere utilizzato solo a scopi economici, la sussistenza dell’attività economica e, dunque, del soggetto passivo dovrebbe considerarsi implicita, senza la necessità di ulteriori accertamenti 2 8 . Si tratta, ad ogni modo, di accertamenti di fatto che la Corte demanda di volta in volta al giudice nazionale, anche in questo caso, senza riferirsi a categorie astrattamente identificate, quale potrebbe essere quella dei c.d. beni strumentali per natura comune agli 28 Molto chiari in proposito i principi affermati dalla Corte con la sentenza Enkler cit. dove si legge (p. 26 ss.) “ [..] la Corte ha dichiarato che fra i dati in base ai quali le autorità tributarie devono stabilire se un soggetto passivo abbia acquistato beni per le esigenze delle sue attività economiche figura la natura dei beni considerati. Tale criterio deve anche consentire di accertare se un privato abbia utilizzato un bene in modo tale da far qualificare "attività economica" ai sensi della Sesta Direttiva la sua attività. Il fatto che un bene si presti ad uno sfruttamento esclusivamente economico basta, di regola, per far ammettere che il proprietario lo utilizza per esercitare attività economiche e, quindi, per realizzare introiti aventi un certo carattere di stabilità. Per contro, se, per sua natura, un bene può essere usato sia per scopi economici sia a fini privati, occorre esaminare l' insieme delle circostanze del suo sfruttamento per stabilire se esso sia utilizzato per ricavarne introiti aventi effettivamente un certo carattere di stabilità. In quest’ultimo caso il raffronto fra le circostanze nelle quali l'interessato sfrutta effettivamente il bene e quelle in cui viene di solito esercitata l'attività economica corrispondente può costituire uno dei metodi che consentono di verificare se l'attività considerata sia svolta al fine di realizzare introiti aventi un certo carattere di stabilità.” Nello stesso senso si vedano anche sentenza 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz e le conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa T-mobile Austria cit., punto 68. 17 Capitolo I ordinamenti nazionali, ma individuando e qualificando i beni secondo l'interpretazione funzionale propria della giurisprudenza comunitaria. 2 9 La Corte anche in questo si dimostra coerente con la propria impostazione tradizionale, restia ad accogliere categorie giuridiche predefinite; certo è che, trattandosi di verifiche affidate al giudice nazionale queste stesse categorie troveranno giustamente diretta interpretazione per opera di questo, non sussistendo elementi che impongano di giudicare in modo differente, se non nei casi di palese incompatibilità con le indicazioni provenienti dalla norme europee. A ben vedere, comunque, la natura dei beni e la loro destinazione allo sfruttamento economico è solo uno dei criteri, unitamente al vaglio delle modalità di esercizio e delle caratteristiche stesse dell’attività come descritte dalla Corte, utilizzabili per la qualificazione dell’attività. Criterio che la giurisprudenza giudica risolutivo nel caso di beni passibili unicamente di sfruttamento economico, ma che, al contrario, risulta non determinante in tutti gli altri casi, in cui prevarranno altri aspetti, prime fra tutti le modalità di svolgimento dell’attività. Infine, come ulteriore importante rilievo fatto dalla giurisprudenza, deve segnalarsi l’interpretazione del requisito dell’indipendenza, sancito dall’art. 4, pp. 1 e 4 della Sesta Direttiva 3 0 . Tre sono gli elementi fondamentali che la Corte indica per la qualificazione di un’attività come autonoma: l’organizzazione, le modalità di retribuzione e la presenza di rischio economico e, infine, 29 Anche questo rilievo appare importante, perché si pone coerentemente in linea con l’indirizzo oggettivo e casistico che contraddistingue la giurisprudenza comunitaria e sottolinea, anche in questo caso, la distanza del giudice europeo dalle categorie giuridiche elaborate a livello nazionale. Si deve però chiarire che si tratta di una distanza concettuale, di un principio affermato dalla giurisprudenza a garanzia di una propria libertà di giudizio che possa garantire l’adattamento delle norme al caso concreto, nella sostanza, però, molti dei rilievi e delle considerazioni della Corte coincidono con il contenuto delle suddette categorie. 30 Ora art. 9, 10 e 11 della Dir. 2006/112/CE 18 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto la responsabilità connessa all’esercizio dell’attività 3 1 . Si è dunque precisato che, prevedendo le norme l’assenza di un qualsiasi vincolo di subordinazione, dovrà in primo luogo valutarsi se l’attività sia autonomamente organizzata o se, al contrario, il soggetto sia inserito nella struttura da altri predisposta. Come sottolineato dall’Avvocato Generale Tesauro 3 2 è evidente infatti che “la possibilità di autorganizzarsi (scelta dei propri collaboratori, delle strutture necessarie per l'espletamento dei propri compiti e degli orari di lavoro), unitamente all'assenza di un inserimento organico in un'impresa o amministrazione, sono elementi tipici di un'attività svolta in regime di autonomia”. A tal fine dovrà verificarsi anche il profilo di eventuali poteri di controllo e direzione, a nulla rilevando, però, l’esistenza di specifiche norme o previsioni legislative che regolino le modalità di svolgimento di un’attività, né una dipendenza funzionale da un altro soggetto 3 3 che abbia il potere di impartire direttive o svolgere una qualche funzione disciplinare. Oltre a chiarire uno degli elementi costitutivi della nozione di indipendenza, tali affermazioni sembrano fornire la chiave di interpretazione dell’obiettivo imprenditoriale di cui prima si è discusso, enunciando un criterio di organizzazione autonoma (riferita ad orari e luogo di lavoro, potere direttivo, più che ad elementi 31 Cfr. CGCE, sentenza Commissione/Paesi Bassi cit.,p. 14 32 Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla, conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro del 4 giugno 1991, par. 5 e 6 33 CGCE, sentenza 25 luglio 1991, Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla, punti 9 ss. In questo caso la Corte venne chiamata a stabilire se l’attività svolta dagli esattori delle imposte per conto del comune di Siviglia potesse considerarsi svolta in modo indipendente. I giudici comunitari, richiamandosi alla giurisprudenza precedente, ed in particolare a quanto stabilito nella più volte citata sentenza Commissione/Paesi Bassi, hanno ribadito che in presenza di un’autonoma organizzazione, non tanto strutturale, quanto dei tempi e dei modi di svolgimento dell’attività, il fatto che esistano specifici regolamenti o una dipendenza funzionale da un altro ente non è sufficiente ad escludere il carattere autonomo dell’attività e, di conseguenza, la soggettività passiva Iva di chi la svolge. 19 Capitolo I materiali) sufficientemente ampio da includere anche le attività professionali o, comunque, non organizzate ad impresa. Tale criterio potrebbe forse indicare una nozione generale di organizzazione ai fini Iva valida nell’ordinamento comunitario, come si vedrà, ben distinta dalle nozioni rinvenibili a livello nazionale, soprattutto in seno alla dottrina. Quanto al secondo criterio di valutazione, la commisurazione dei compensi alle singole prestazioni svolte e, quindi, il carattere aleatorio degli stessi vengono considerati indiscutibili indizi della natura autonoma del rapporto di lavoro. Ad esso deve aggiungersi che, a differenza delle ipotesi di lavoro subordinato, l’incertezza circa la retribuzione delle prestazioni fornite fa sì che il rischio economico connesso all’attività gravi direttamente sull’operatore considerato 3 4 , elemento questo che depone senza dubbio a favore di una qualificazione in termini di autonomia. Ciò che da ultimo la Corte pone in evidenza è la necessità che, così come il rischio economico, anche la responsabilità connessa allo svolgimento dell’attività ricada direttamente sull’operatore e non su altri soggetti. Ciò significa che ogni qual volta il soggetto considerato possa essere chiamato a rispondere del proprio operato, sia nei confronti del cliente sia nei confronti di un altro soggetto cui sia legato da un rapporto contrattuale e per conto del quale fornisce determinati servizi o svolge determinate operazioni 3 5 , l’attività dovrà considerarsi indipendente, stante il fatto che, in caso di lavoro subordinato, tutta la responsabilità ricade sul datore di lavoro e non sul dipendente. Il criterio dell’indipendenza merita un’ulteriore precisazione: come posto in evidenza nelle conclusioni presentate nel caso Heerma 3 6 , la normativa comunitaria porta alla luce due diversi tipi di indipendenza, una giuridica ed una economica. La prima, definita a contrario dall’attuale art. 10, è quella che 34 Cfr. conclusioni del avvocato generale Tesauro cit. 35 Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla cit. p. 14-15 36 Causa C-23/98, Heerma, conclusioni dell’A.G. Cosmas del 20 Maggio 1999 20 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto sinora abbiamo descritto relativa alla sussistenza o meno di un vincolo di subordinazione in funzione di un rapporto giuridico fra due soggetti. La seconda, invece, viene fatta discendere dalle disposizioni dell’art. 11 (ex art. 4, 4 c. 2) nel quale si prevede che, previa autorizzazione da parte del Comitato Iva, gli Stati membri possano considerare come un unico soggetto passivo le persone stabilite nel territorio dello stesso Stato membro che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi. Unitamente, dunque, alla valutazione del rischio economico e del regime di attribuzione della responsabilità, nella valutazione dell’indipendenza dell’agente si dovrà tenere conto anche della sua autonomia economica, ossia dell’eventuale presenza di legami finanziari o strategici con altri soggetti. Come accade nel campo del diritto della concorrenza 3 7 , si stabilisce dunque che, qualora due soggetti giuridicamente indipendenti presentino legami tali da apparire nella sostanza come un soggetto unico e, soprattutto, così operino sul mercato, vada negato il requisito dell’indipendenza e, superato l’argomento formale della diversa soggettività giuridica, li si consideri quale unico soggetto passivo, attribuendo dunque anche una diversa valutazione alle operazioni che essi possano porre in essere fra loro. Ovviamente, tale criterio dovrà operare anche in senso contrario, riconoscendo l’autonomia e, se del caso, la soggettività passiva a quei soggetti che giuridicamente indipendenti, risultino anche economicamente tali, pur se in qualche modo vincolati l’uno all’altro. La centralità del mercato e dei riflessi dell’attività economica su questo fanno sì, dunque, che le norme comunitarie guardino con particolare attenzione non tanto alla struttura materiale del soggetto passivo, quanto, come in questo caso, alla sua organizzazione 37 Ci si riferisce al principio dell’unità economica. In questo caso è la stessa Direttiva che sancisce il riferimento alla situazione di fatto, pur se in contrasto con il dato giuridico dell’indipendenza formale dei soggetti; nel campo della concorrenza si applica lo stesso criterio, giurisprudenziale. 21 definito però dall’elaborazione Capitolo I giuridico-finanziaria che, manifestandosi attraverso forme di collegamento e controllo fra soggetti apparentemente autonomi, è in grado di influire sull’andamento del mercato alterandone le condizioni di funzionamento. Come risulta, infatti, dalla ricostruzione sin qui condotta, fondamentale nell'individuazione e, di conseguenza, per l'esistenza di un'attività rilevante ai fini dell'imposta risulta essere il suo collegamento e, in generale, la sua proiezione verso il mercato, caratteristica che rende necessaria l'applicazione del sistema impositivo armonizzato e la tutela della sua neutralità, al fine di garantire una più ampia tutela del mercato stesso. Come si è visto, questo giustifica l'ampiezza della ricostruzione giurisprudenziale e la creazione di un modello in parte distante da quelli tradizionali. Posta, dunque, la rilevanza fondamentale dell'economicità intesa sia quale metodo di esercizio dell'attività che, e soprattutto, quale direzione al mercato dell'attività, la creazione di un modello ad esso funzionale comporta modifiche, apprezzabili dal confronto con le nozioni nazionali, anche nella ricostruzione degli altri requisiti dell'attività, come accade, ad esempio, con l'organizzazione. Lontana dal ruolo spesso determinante attribuitole con riferimento alla nozione nazionale di impresa ed intesa in termini piuttosto generici, aperti ad un'interpretazione senza dubbio ampia, essa, come si è visto, viene richiamata nella giurisprudenza non tanto in termini materiali, quanto piuttosto in termini funzionali al mercato, inclusa nella nozione di obiettivo imprenditoriale, che non richiede la predisposizione di una struttura prevalente rispetto al lavoro diretto dell'operatore economico, ma la semplice presenza di una struttura anche minima che dimostri la stabilità dell'attività, più che le sue dimensioni e potenzialità produttive. Come si vedrà successivamente nella ricostruzione della nozione di attività in una prospettiva dinamica, è attraverso il collegamento con il mercato e gli elementi che con esso si pongono maggiormente in relazione, funzionali alla realizzazione al principio di neutralità 22 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto dell'imposta, che la stessa giurisprudenza finisce per estendere la durata dell'attività, anticipandone l'inizio e posticipandone la conclusione, anche in assenza di un esercizio effettivo che sia in grado di integrare pienamente le caratteristiche sin qui individuate. 1.3 Attività economica ed impresa nel diritto antitrust: una nozione generalmente valida per l’ordinamento comunitario? Ad ulteriore dimostrazione delle caratteristiche della nozione di attività economica sinora delineate ed allo scopo di ricercare elementi utili a rendere tale quadro più completo, giova senza dubbio esaminare come l’ordinamento comunitario si riferisca ad essa anche nell’ambito di altri settori. A tal fine, esperienza di grande valore è quella maturata in seno alla disciplina della concorrenza, settore primario dell’ordinamento comunitario direttamente rivolto alla regolamentazione degli operatori economici e del mercato. Nonostante, infatti, le norme dettate dal diritto comunitario siano tipicamente settoriali e, di conseguenza, poco inclini ad essere ricondotte a categorie generali valide per l’intero ordinamento, tra il settore della concorrenza e quello impositivo è possibile riscontrare notevoli somiglianze, dovute principalmente all’affinità fra gli scopi che le norme dettate nei due ambiti si propongono. Si è ricordato analizzando il presupposto Iva come la disciplina dell’imposta sia volta a favorire la creazione del mercato unico europeo, garantendo l’uniformità nel trattamento fiscale degli operatori, proprio al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato che, nell’impostazione comunitaria, mira ad essere pienamente concorrenziale. Ciò implica che, pur nella particolarità delle due discipline e nelle differenze che essa porta con sè, legate principalmente alla considerazione che le norme sul regime di concorrenza, a differenza della Direttiva Iva, dettano una disciplina sostanziale di controllo degli operatori e di tutela del corretto funzionamento del mercato che ha su 23 Capitolo I questo un effetto diretto, è possibile individuare elementi comuni che interessano sia la nozione di attività economica e le sue caratteristiche sia l’estensione dell’ambito di applicazione delle norme considerate, proprio perché, ognuna nell’ambito che le è proprio, ciascuna delle discipline considerate è funzionale alla realizzazione di uno scopo comune. L’analisi della disciplina della concorrenza è utile anche sotto un diverso profilo. Essa infatti rappresenta un’ulteriore conferma della tecnica normativa utilizzata dal legislatore comunitario, costituita da una scarsa attenzione al dato strettamente giuridico -collocato su un piano differente dalla sostanza economica e spesso considerato come un ostacolo da superare e sacrificato alle ragioni del mercato- una quasi esclusiva rilevanza del fenomeno economico e, conseguentemente, da un utilizzo dei termini con significati a volte molto diversi da quelli cui corrispondono sul piano nazionale, alimentando le difficoltà di trasposizione e coordinamento cui già si è fatto riferimento. Nella legislazione in materia di concorrenza non è possibile rilevare un riferimento all’attività economica genericamente intesa, ma al contrario è posta in evidenza una nozione di impresa, la cui formulazione presenta indubitabili analogie con il tema sinora esaminato. Anche l’individuazione di una categoria di impresa “comunitaria” appare compito arduo: come avviene per l’attività economica in ambito Iva, anche in materia di concorrenza il legislatore fa espresso riferimento all’impresa 3 8 quale soggetto destinatario della disciplina, senza però fornire una definizione che ne delinei i tratti salienti. L’assenza dell’esatto contenuto del concetto “impresa” dipende, da un lato, dall’eterogeneità che i diversi ordinamenti europei presentano, ragione per cui individuare una nozione unitaria non sarebbe stato 38 Cfr. artt. da 81 a 86 TCE e Regolamento n. 139/2004 sul sistema di controllo delle concentrazioni tra imprese. 24 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto assolutamente agevole e, dall’altro, dal diverso ruolo che tale istituto svolge a livello nazionale e a livello comunitario. Ciò perchè, mentre la definizione nazionale è funzionale all’individuazione e alla qualificazione del soggetto imprenditore cui si rendono in tal modo applicabili particolari norme in ogni settore dell’ordinamento – in Italia, il c.d. statuto dell’imprenditore- a livello comunitario il concetto di impresa rileva principalmente nella prospettiva funzionale della disciplina degli effetti che il suo esercizio produce all’interno del mercato comune 3 9 , costituendo essa stessa il soggetto cui le norme si riferiscono. La difficoltà ad individuare una nozione unitaria è stata giustificata anche dalla frammentarietà della disciplina rivolta all’impresa – differente a seconda del Trattato o della fonte secondaria cui si fa riferimento- e dal conseguente affermarsi dell’interpretazione c.d. funzionale volta all’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina e diversa, quindi, a seconda del settore interessato e degli obiettivi che la singola disciplina si prefigge all’interno dell’ordinamento 4 0 . 39 In questo senso M. V E N E ZIA , La nozione comunitaria di impresa, in Lezioni di diritto commerciale comunitario a cura di M. Cassottana- A. Nuzzo, Torino, 2006, 269. Per un esame della nozione d’impresa nel diritto comunitario si vedano anche A N TO N U C C I , La nozione d’impresa nella giurisprudenza comunitaria ed italiana, Cons. Stato, 2003, II, 569 ss; B AE L - B E LLIS , Competition law of the European Community, The Hague, 2004, 29 ss; C OR AP I - D E D O NN O , L’impresa in Il diritto privato dell’Unione Europea a cura di B E SS O N E , T IZ ZA N O , Trattato di diritto privato a cura di vol. XXVI, t. II, Torino, 2006, 1202 ss; D I V IA , L’impresa, Trattato di diritto privato europeo a cura di Lipari, Padova, 2003, 54 ss.; F R IGN AN I - P AR D O LE S I , Le fonti del diritto della concorrenza nella CE, in La Concorrenza, Trattato di diritto privato dell’Unione Europea a cura di Ajani - Benacchio, VII, Torino, 2006, 7 ss.; A. S P AD AFO R A , La nozione di impresa nel diritto comunitario, in Giust. civ., 1990, II, 283 40 Opinione questa largamente condivisa dalla dottrina. Si vedano, ad esempio, D I V IA , L’impresa cit., 56; C O R AP I - D E D ON NO , L’impresa cit., 1209. Quanto affermato in tal senso non si ritiene però del tutto condivisibile. Come si vedrà successivamente, grazie anche all’opera interpretativa della giustizia comunitaria, 25 Capitolo I La mancanza di un’espressa definizione è stata colmata dall’opera interpretativa di Commissione, Tribunale di Primo Grado e Corte di Giustizia, che hanno nel tempo elaborato la nozione comunitaria di impresa allo scopo garantire il raggiungimento degli obiettivi europei 4 1 . La definizione fornita dalla Corte individua l’impresa nella “attività di natura economica, produttiva di beni o di servizi (che non abbia carattere esclusivamente sociale) tale da poter ridurre, anche solo è possibile individuare una nozione di attività economica e di impresa comunitaria che presenta caratteri comuni, indipendentemente dal settore cui le norme appartengono. Tale considerazione sembra inoltre emergere dal fatto che, come viene riconosciuto dalla stessa dottrina, la disciplina dell’impresa viene costruita sul dato economico costituito dalla presenza di un’attività che possa incidere sugli equilibri del mercato. Dato questo elemento indispensabile attorno a cui ruota tutta la disciplina comunitaria e che, inevitabilmente, fornisce un modello tipico, ciò che muta in dipendenza del settore di volta in volta considerato è il dato concreto, il soggetto di riferimento individuato in sede di interpretazione ed applicazione delle norme, non la nozione stessa, intesa quale categoria generale. Si intende dire che la diversità del soggetto interessato in sede di applicazione non è in grado di influire sulla definizione generale, proprio perché questa è volutamente poco precisa per consentirne l’applicazione più ampia possibile e, di conseguenza, il coinvolgimento di fenomeni tra loro anche molto differenti. 41 Nel vigilare l'applicazione delle regole di concorrenza in materia di accordi, di associazioni di imprese e pratiche concordate (articolo 81) e di abusi di posizione dominante (articolo 82) che possano imporre restrizioni alla concorrenza, la Commissione è dotata di diversi poteri, tra cui fondamentale è quello di adottare decisioni, svolgere indagini ed irrogare sanzioni. La Commissione esercita tali poteri quando, agendo d'ufficio o in seguito a denuncia, accerta caso per caso la violazione degli articoli 81 e 82 del Trattato. Attualmente, l’applicazione delle regole di concorrenza stabilite dal Trattato è disciplinata dal Reg. 1/2003, adottato dal Consiglio il 16 dicembre 2002, che ha sostituito il Regolamento CEE n. 17/62, con decorrenza dal 1° maggio 2004, istituendo un sistema decentrato di controllo sulla concorrenza che coinvolge anche le autorità nazionali, evitando così di sovraccaricare e, di fatto, bloccare l’attività della Commissione, cui non è più obbligatorio notificare preventivamente accordi e intese fra imprese. In ultima istanza, i provvedimenti adottati dalla Commissione 26 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto potenzialmente, la concorrenza sul mercato ed il cui esercizio è rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, indipendentemente dalla natura pubblica, privata, individuale o collettiva del soggetto che vi è preposto”. 4 2 Il raggiungimento di questa definizione è passato attraverso una prima interpretazione, più ampia, che riteneva impresa soggetta alla disciplina sulla concorrenza ogni entità che esercitasse un’attività economica a prescindere dallo status giuridico, dalle modalità di finanziamento e dal fine lucrativo perseguito 4 3 . Questa nozione è stata con il tempo delimitata escludendo tutti quei soggetti nei quali prevalga la finalità di pubblico interesse e del perseguimento di una funzione esclusivamente sociale. 4 4 Due gli elementi costitutivi dell’impresa: l’entità che la esercita e l’attività economica da esso svolta. Anche in questo caso, l’approccio funzionale alla disciplina del sono impugnabili di fronte alla Corte di Giustizia. 42 M. V E N E Z IA , op. loc. cit.. 43 Cfr. CGCE sent. 23 aprile 1991, causa C- 41/90, Hoefner- Elser/ Macroton p. 21; sent. 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany, p. 77 ss. 44 In particolare, a partire dagli anni ’60 i giudici comunitari hanno posto in evidenza quale dato fondamentale dell’impresa l’accertamento dell’effettivo svolgimento di un’attività economica tale da poter influire sul mercato, a prescindere dal tipo di soggetto cui essa possa essere ricondotta. Fra le pronunce più rilevanti in materia cfr. CGCE, sentenza 17 febbraio 1993, cause riunite C-159 e 160/91, Poucet e Pistre, p. 17 ss, nella quale la Corte pone in evidenza come il carattere strettamente solidaristico e sociale dell’attività svolta da un fondo pensionistico obbligatorio, in cui, soprattutto, l’ammontare delle prestazioni erogate era indipendente dalle somme versate a titolo di contributo, porta ad escluderlo dall’ambito di applicazione delle norme sulla concorrenza, in quanto non configura un’impresa ai sensi del diritto comunitario. Il tema dei fondi previdenziali è spesso affrontato dalla Corte in materia di concorrenza, soprattutto sotto il profilo della qualificabilità come impresa di tali attività. Altro precedente di grande rilevanza che definisce le caratteristiche necessarie a tal fine è CGCE, sent. 16 novembre 1995, causa C- 244/94, Federation francaise des societes d'assurance . Per la ricostruzione dell’evoluzione di questa giurisprudenza cfr. M. V E N E Z IA , op. loc. cit.. 27 Capitolo I mercato porta a sottovalutare il profilo soggettivo in favore dell’elemento oggettivo costituito dal tipo di attività svolta 4 5 . La nozione di entità viene quindi delineata in modo molto ampio, quale “organizzazione di elementi personali, materiali e immateriali” 4 6 , a prescindere dalla forma giuridica che essa assuma, fino a ricomprendere, dunque, anche le persone fisiche 4 7 . Requisito indispensabile è che tale soggetto agisca sul mercato rilevante in modo autonomo, senza vincoli di subordinazione 4 8 o equivalenti. 45 Cfr. A. P AP P ALAR D O , Il diritto comunitario della concorrenza, Torino, 2007, 54 ss. 46 Cfr. Decisione della Commissione, 18 giugno 1969, 69/195/CEE, Christiani & Nielsen 47 Chiarissime in proposito le parole dell’Avvocato Generale Jacobs nelle conclusioni delle cause riunite da C-180/98 a 184/98, Pavlov, p. 107: “la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un'attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento. Dal momento che secondo tale approccio funzionalistico lo status giuridico è irrilevante, anche le persone fisiche possono essere qualificate come imprese. L'idea alla base è che non si deve trarre nessun vantaggio dalla forma giuridica con la quale viene esercitata un'attività economica. Un'attività economica consiste nell'offrire beni e servizi in un dato mercato.” Per un esame della giurisprudenza circa l’applicabilità della disciplina della concorrenza si veda B AS T IA N O N ,D U e pronunce, tanti problemi, nessuna soluzione: ovvero, gli avvocati e l’antitrust secondo la Corte di giustizia, Foro it., IV, 1, 188. 48 L’importanza del requisito è sottolineato anche da quella giurisprudenza che ha elaborato la nozione di unità economica, sulla base della quale non è applicabile la disciplina sulla concorrenza ai rapporti tra società madre e figlia, in quanto si tratta di soggetti che non agiscono indipendentemente, ma si pongono sul mercato come un unico soggetto, pur avendo identità giuridicamente distinte. In proposito fra le prime affermazioni in tal senso, si legge nella dec. Christiani e Nielsen cit.: “[..] considerando, peraltro, che l'applicabilità dell'articolo 85, paragrafo 1, del trattato presuppone che fra le imprese in causa sussista una concorrenza che può venire ristretta; che questa condizione non è necessariamente soddisfatta, nei rapporti fra due imprese che svolgono la loro attività nel medesimo settore, dalla semplice constatazione della personalità giuridica di ciascuna di dette imprese; che al riguardo è determinante sapere, in base agli elementi di fatto, se sia 28 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Per lo stesso motivo è stata elaborata una nozione di attività economica che comprende “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato” 4 9 , purchè sia esercitata a titolo oneroso e con assunzione del rischio d’impresa da parte del soggetto che la svolge, pur se in assenza di uno scopo di lucro. 5 0 Uniche eccezioni a tale ampia nozione sono costituite dalle attività svolte a fini sociali o da soggetti che esercitano prerogative statali, in ragione del fatto che tali soggetti non operano sul mercato in posizione di parità rispetto agli altri soggetti, chi per le caratteristiche dell’attività, chi per la fonte da cui tale attività deriva, e dunque non sono considerati sottoposti alle ordinarie regole della concorrenza 5 1 . Confrontando i dati emersi, da un lato, nel sistema Iva e, dall’altro, in materia di concorrenza, è possibile notare come lo svolgimento possibile sul piano economico un'azione autonoma dell'affiliata rispetto alla società madre [..] ”. 49 Si tratta di un orientamento costante della giurisprudenza comunitaria. Fra le sentenze più recenti si veda sent. 12 settembre 2000, Pavlov cit. e la giurisprudenza in essa citata. Un’ulteriore specificazione della nozione di attività economica viene fornita dall’Avvocato Generale Jacobs nelle conclusioni presentate il 27 ottobre 2005 nella causa C-222/04, Ministero Economia e Finanze/ Cassa di Risparmio di Firenze, p. 78 e ss. Egli ha infatti sostenuto che “un ente deve essere qualificato come impresa ai fini del diritto comunitario non solo quando offre beni e servizi sul mercato, ma anche quando esercita altre attività che hanno natura economica e che potrebbero distorcere un mercato concorrenziale. [..] nel valutare se un’attività abbia natura economica il criterio fondamentale deve consistere nello stabilire se essa almeno in principio possa essere svolta da un’impresa privata a scopo di lucro” 50 In giurisprudenza si vedano sent. Albany cit.; sent. 19 febbraio 2002, causa C-309/99 Wouters, p. 48 e 49; sent. 18 giugno 1998, causa C- 35/96, CNSD, p. 36 e37; sent. 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre. Per quanto riguarda la prassi della Commissione, fra le pronunce più significative si vedano: decisione della Commissione 27 ottobre 1992, 92/521/CEE, Pacchetti turistici, punto 43; decisione della Commissione 30 gennaio 1995, 95/188/CE, COAPI, decisione della Commissione 26 maggio 1978, 78/516/CEE, Rai/Unitel. 51 A. P AP P A LA R D O , cit., 59. 29 Capitolo I dell’attività economica si trasformi da elemento autonomamente rilevante a presupposto caratteristico della fattispecie impresa, necessario affinché un’entità organizzata possa classificarsi come tale nell’accezione comunitaria del termine. Emerge, invece, all’interno della disciplina della concorrenza un elemento che, come si è visto, ricopre un ruolo marginale nel settore impositivo, ovvero la struttura organizzativa su cui l’attività si fonda 5 2 . Anche in questo caso il legislatore e la stessa giurisprudenza non si addentrano in definizioni dal contenuto preciso, accogliendo un concetto di organizzazione elastico al pari dell’altro presupposto e sicuramente non limitato all’accezione, spesso considerata in ambito nazionale come preminente, di organizzazione come sinonimo di azienda 5 3 . Ad una prima osservazione, definendo il soggetto di riferimento per l’esercizio dell’attività economica come organizzazione di elementi personali, materiali e immateriali, la giurisprudenza in materia di 52 Il requisito dell’organizzazione era posto in particolare rilievo da larga parte della dottrina degli anni passati, la quale riteneva altresì che si trattasse di requisito implicito ai fini della individuazione dell’impresa comunitaria, in quanto per sua natura la disciplina della concorrenza si sarebbe rivolta ad operatori economici di dimensioni tali da permettere di svolgere l’attività a livello transnazionale. In tal senso si veda P. V E R R U C C O LI , La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario e nel diritto italiano: evoluzione e prospettive, in La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, a cura di P. V E R R U C C O LI , Milano, 1977, 396 ss, il quale confronta le nozioni d’impresa nel diritto nazionale e nel diritto comunitario e ne pone in evidenza le differenze, legate alle diverse prospettive adottate dai due ordinamenti, sostenendo che “ciò che interessa alla normativa comunitaria è l’organizzazione d’impresa la cui esistenza, rectius, la cui attività si riflette nell’area comunitaria, mentre ciò che ha interessato il legislatore italiano è, fondamentalmente, la percezione o individuazione del fatto imprenditoriale nel quadro della disciplina che lo crea e lo svolge”. 53 Come sostiene A. G R IS O LI , voce Impresa comunitaria in Enciclopedia Giuridica, 1989, vol XVI, “il concetto di organizzazione acquista rilievi diversi da settore a settore con un’elasticità e una varietà di contenuti direttamente proporzionali alle concrete esigenza della realtà da disciplinare”. 30 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto concorrenza sembra utilizzare l’organizzazione come elemento di identificazione soggettiva, per individuare l’entità che, in quanto svolge l’attività sul mercato, sarà soggetta alle norme sulla concorrenza. Tuttavia, a ben vedere, la stessa estensione della nozione di organizzazione ad ogni insieme di elementi materiali e immateriali, sino a ricomprendere le persone fisiche ed i professionisti, fa sì che anche nel settore della concorrenza sia difficile attribuire un ruolo determinante al requisito organizzativo. Sembrerebbe più giusto allora ritenere che il riferimento all’entità organizzata indichi, in senso generalizzato, il soggetto cui è imputata l’attività economica svolta, che deve presentare quei requisiti genericamente strutturali precedentemente delineati, necessari per individuare un’attività svolta in modo professionale, rivolta al mercato ed in grado di poter influire in qualche modo su questo, non finalizzata, quindi, alla mera soddisfazione delle necessità del soggetto agente 5 4 . La ricostruzione in questi termini del profilo soggettivo dell'impresa, individuato come si è visto semplicemente in funzione dell'attività svolta e non di modelli giuridici predeterminati, conduce a rilevare che, anche nel settore del diritto della concorrenza, il profilo giuridico inerente al soggetto assuma un ruolo del tutto marginale, soprattutto se esaminato nell'ottica dell'integrazione automatica della fattispecie prevista dalle norme. Come si vedrà più ampiamente con riguardo al sistema dell'Iva e al rapporto tra forma giuridica e soggettività in una prospettiva dinamica dell'attività, nemmeno nell'ambito della concorrenza sembra sussistere un criterio di attribuzione automatica della qualifica di impresa nel senso europeo sulla base della natura giuridica dell'operatore economico, come ad esempio accade a livello nazionale nel caso delle società commerciali. Questa irrilevanza delle caratteristiche del soggetto ai fini dell'applicazione delle norme implica altresì che la nozione d'impresa 54 In questo senso, D I V IA , L’impresa cit., 68 ss. 31 Capitolo I e, di conseguenza, la soggezione alla regole concorrenziali del mercato europeo non dipenda dalle vicende del soggetto giuridico in quanto tale, quanto piuttosto dalla possibilità di integrare il modello d'impresa chiarito dalla giurisprudenza attraverso il requisito fondamentale costituito dall’esercizio concreto di un’attività economica. Nonostante le differenze nella costruzione del presupposto applicativo delle due discipline, dal confronto fra le due nozioni emerge una sostanziale identità, tanto che non appare errato sostenere che il legislatore comunitario utilizzi spesso i due termini, in senso atecnico, come sinonimi, entrambi riferibili al medesimo fenomeno economico 5 5 . A prima vista potrebbe sembrare che l’attività economica rilevante a fini impositivi sia un concetto più ampio, proprio perché non vincolata dall’esistenza di una qualsiasi struttura organizzativa, ma al contrario espressamente estesa anche alle attività autonome diverse dall'impresa, la cui struttura solitamente non integra il modello di organizzazione tipico dell’attività imprenditoriale. Tale valutazione risulta, però, contraddetta dall’interpretazione fornita dal giudice comunitario, il quale ha, al contrario, affermato la soggezione dei liberi professionisti e degli artisti alla disciplina sulla concorrenza, fin tanto che svolgano un’attività rivolta al mercato. 5 6 55 Indicazioni in tal senso, desumibili principalmente in via interpretativa, sembrano potersi individuare nella stessa giurisprudenza comunitaria. Si vedano ad esempio le parole usate dall’Avvocato Generale Kokott nelle conclusioni presentate il 6 marzo 2008 nella causa C- 49/07, Motosykletistiki Omospondia Ellados NPID (MOTOE) che, nel delineare la nozione di impresa ai fini del diritto alla concorrenza, parla, al punto 32, espressamente di attività economica come impresa, sottolineando, implicitamente, la sostanziale identità delle due nozioni. Tale considerazione viene fondata, come appare dai precedenti richiamati dallo stesso Avvocato Generale, sul fatto che l’impresa, nell’accezione comunitaria, è integrata dall’esistenza di un qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che svolga un’attività di produzione o scambio di beni e servizi rivolta al mercato, per questo motivo, quindi, in grado di alterarne l’equilibrio attraverso pratiche anticoncorrenziali. 56 Cfr. sent. CNSD, Macroton, Albany e Pavlov cit., nelle quali la Corte si è 32 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Se si accoglie dunque l’interpretazione prima esposta sul requisito organizzativo, quanto meno ad un livello teorico le due categorie verrebbero a coincidere 5 7 . Pur nella diversità della ratio propria delle due discipline di cui una, quella concorrenziale, disciplinando direttamente il comportamento degli operatori economici che agiscono sul mercato, è volta a creare e tutelare il corretto funzionamento di un mercato che mira ad essere pienamente concorrenziale, attraverso il controllo della posizione degli operatori e sanzionando le pratiche anticoncorrenziali, e l’altra, quella impositiva, che agendo, sul fattore fiscale con l'obiettivo di eliminare le distorsioni alla concorrenza attraverso l'affermazione di neutralità dell'imposizione e parità di trattamento degli operatori economici, istituisce non un sistema di controllo, ma un sistema direttamente funzionale agli scopi del mercato europeo, esse sembrano infatti rivolgersi alla stessa tipologia di soggetti –gli operatori economici che agiscono sul mercato- individuati sulla base di una nozione unitaria dell’attività economica che essi svolgono. Ad ogni modo, ciò che anche l’esperienza in materia di concorrenza pone in luce è la scelta del legislatore di discostarsi quanto più possibile dalle strutture giuridiche degli Stati membri, preferendo porre in rilievo elementi concreti provenienti dal mondo economico, su cui costruire nozioni giuridiche proprie ed indipendenti. Ecco dunque che, anche in questo caso, assistiamo all’utilizzo di un linguaggio atecnico e non giuridico, volutamente molto ampio e generico e che rifugge dalla creazione di un qualsiasi modello rigido, prima fra tutti la suddivisione in categorie distinte degli operatori economici sulla base della propria forma giuridica, al fine di pronunciata a favore dell’estensione della qualifica di impresa anche alle attività professionali, pur se regolamentate da norme nazionali e soggette a precise autorizzazioni. In tal senso anche la dec. COAPI cit., punto 85; tra le pronunce più recenti si veda anche CGCE, sentenza 13 marzo 2008, C- 446/05, Doulamis. 57 Anche se, a livello applicativo, è possibile riscontrare alcune differenze come nel caso delle attività agricole, soggette all’imposta sul valore aggiunto, ma escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sulla concorrenza. 33 Capitolo I permetterne l’adattamento alle differenti situazioni esaminate. Come rilevato da dottrina e giurisprudenza comunitaria 5 8 si assiste all’elaborazione di un concetto che si può definire relativo, variabile a seconda dell’attività concretamente esaminata e del mercato interessato, funzionale essenzialmente a due scopi: l’individuazione delle categorie di soggetti agenti destinatari delle norme e l’individuazione, in concreto, del soggetto cui il comportamento è imputabile. 58 Si veda A. G R IS O LI , voce Impresa comunitaria cit. il quale pone in evidenza come “per l’uso disinvolto con che la Corte mostra di fare di concetti e categorie giuridiche provvisti nel diritto degli Stati membri di proprie e precise connotazioni, risulta in modo inequivocabile come al diritto comunitario faccia difetto una nozione unitaria di impresa e che la Corte non abbia mai fatto alcuno sforzo per determinarlo. Infatti, mentre non risulta siasi mai manifestata, a livello ufficiale, l’esigenza di determinare a priori un concetto immutabile di impresa, la Corte ha chiaramente mostrato in più occasioni di non sentirne il bisogno, se l’aderire ad un siffatto paradigma fosse andato a scapito di esigenza di giustizia emergenti dal caso concreto”. Negli stessi termini si veda anche la dottrina richiamata dallo stesso Autore, R. F R AN C E S C H E LLI , L’impresa comunitaria, appendice a Imprese e imprenditori, Milano 1972, 355 ss. e V. A FFE R N I , Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973, 154, nonché B ON E LLI , La nozione d’impresa nelle regole di concorrenza del Trattato CEE, in La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, cit., p. 38 ss. Per una riflessione più recente si veda altresì P AP P A LA R D O , cit. Una conferma in tal senso si può trovare ad esempio nelle stesse conclusioni dell’Avvocato Generale Jacobs presentate il 28 gennaio 1999 nella causa C-67/97, nelle quali sostiene che “D'une part, nous estimons que, dans l'économie de l'article 85, la notion d'«entreprise» répond à un double but. En premier lieu, et cette fonction est la plus évidente, elle permet de déterminer les catégories d'acteurs auxquels les règles de concurrence s'appliquent [..] D'autre part, cette notion sert à identifier l'entité à laquelle un comportement déterminé peut être imputé. Ce deuxième but apparaît, par exemple, dans les affaires dans lesquelles les rapports entre filiales et sociétés mères sont impliqués. Ces affaires soulèvent le point de savoir s'il s'agit d'une unité économique indépendante agissant pour son propre compte ou simplement d'un «agent» ne jouissant pas d'une autonomie réelle dans la détermination de sa ligne d'action. D'autre part, la Cour a affirmé 34 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Sembra, dunque, corretto ritenere che anche nell’ambito del diritto anti-trust comunitario la nozione di impresa, pur se costruita in termini spiccatamente economici e, quindi, oggettivi, recuperi in parte la funzione che la stessa svolge a livello nazionale. Essa infatti identifica il centro di imputazione degli effetti giuridici legati allo svolgimento dell’attività economica ed il soggetto destinatario della disciplina dettata dalle norme 5 9 . Sotto questo profilo, essa non è costruita diversamente dal presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto. Se soggetto passivo dell’imposta è “chiunque esercita un’attività economica” ed impresa nel diritto antitrust è “ogni entità che eserciti un’attività economica” appare evidente come il termine impresa, nel senso comunitario, altro non sia che l’espressione della medesima nozione, costruita, come si è detto, sul concetto di attività economica nell’accezione individuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Essendo chiara l'intenzione del legislatore comunitario, ossia la costruzione di un soggetto di riferimento delle norme giuridiche in funzione della presenza di un’attività qualificata come economica nel senso comunitario, evitando di adottare modelli giuridici preesistenti e non ricavati dal dato economico concreto, sembra possibile, unendo le considerazioni appena svolte e chiarite per quanto è possibile le nozioni di attività economica ed organizzazione ricavabili dalla giurisprudenza esaminata, delineare una sorta di paradigma della nozione rilevante a livello europeo che presenta caratteristiche generalmente valide, indipendentemente dalla materia considerata e dai termini di volta in volta utilizzati nel testo delle norme. Ne emerge così un modello differente da quello degli ordinamenti que «la notion d'`entreprise', placée dans un contexte de droit de la concurrence, doit être comprise comme désignant une unité économique du point de vue de l'objet de l'accord en cause». La notion d'«entreprise» revêt donc un caractère relatif et est à apprécier concrètement, en fonction de l'activité spécifique examinée” 59 In tal senso si veda, A N TO N U C C I , La nozione di impresa cit, 569 ss. 35 Capitolo I nazionali, perché costruito più su statuizioni negative, che su elementi definitori di carattere positivo. Poste l’indifferenza della forma giuridica dell’agente -considerata più come uno schermo da superare che come criterio di individuazione del soggetto destinatario delle norme- l’irrilevanza dello scopo di lucro -sicché è sufficiente lo svolgimento dell’attività secondo l’ordinario criterio di economicità 6 0 - ed infine la relativa rilevanza dell’elemento organizzativo -cui si assegnano significati così ampi da renderlo un elemento difficilmente distintivo e decisivo- otteniamo una nozione che, a volte sotto il nome di impresa, a volte sotto quello di semplice attività economica, comprende qualsiasi fenomeno economico -e di conseguenza abbraccia ogni tipo di soggetto che lo ponga in essere- che si rivolga al mercato e sia, pertanto, in grado di influenzarlo ed alterarne gli equilibri 6 1 . Deve ritenersi, dunque, questo il fulcro del tipo comunitario, questo l’elemento da cui desumere le caratteristiche positive del modello, quali l’abitualità, o professionalità, e l’effettività, intesa quale concreto esercizio dell’attività e quindi reale collegamento con il mercato. Sembra allora confermato anche dall’esperienza in materia di diritto della concorrenza che, nel tentativo di allontanarsi dalle strutture giuridiche proprie degli ordinamenti nazionali, il legislatore comunitario abbia compiuto un processo normativo inverso e speculare a quello degli Stati membri: invece di creare un modello giuridico in base al quale classificare le diverse situazioni di fatto ed identificare un soggetto giuridico indipendente ed autonomo cui attribuirne gli effetti, ha dettato una disciplina che, al contrario, individuati gli elementi caratterizzanti del fenomeno concreto, qualifica esso stesso 60 Ovvero, l’esercizio a titolo oneroso, che quanto meno consenta l’equilibrio tra costi e ricavi, pur in assenza di utili. 61 Alle stesse conclusioni sembra giungere L AR O M A J E ZZ I , Gli aiuti fiscali: i poteri del giudice nazionale e la nozione d’impresa tra diritto tributario e diritto comunitario della concorrenza (commento a Cass., ord. N. 8319/2004), Rass. Trib., 2004, III, 1073 36 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto come soggetto giuridico, indipendentemente dalle profonde differenze che possono sussistere tra soggetto e soggetto nell’ambito di una categoria così ampia 6 2 . Da questa costruzione discendono le maggiori difficoltà di applicazione nazionale del diritto comunitario e di coordinamento tra i due ordinamenti, perché anche laddove esiste una disciplina largamente armonizzata, come in materia di Iva o di concorrenza, inevitabilmente si scontrano l’esigenza di dare attuazione alle norme europee, unendo in categorie onnicomprensive realtà diverse per il diritto nazionale, e l’impossibilità di abbandonare questi modelli giuridici sicuramente più rigidi, a tutela della uniformità e della completezza dell’ordinamento interno, che le norme comunitarie, ancora tipicamente settoriali, non possono sostituire. La scelta compiuta dal legislatore comunitario, qui dimostrata dall’esame e dal confronto tra le due discipline, non si limita però ad essere espressione di una diversa tecnica legislativa, preferibile a causa della necessità di creare disposizioni uniformi a più ordinamenti diversi. Essa produce infatti notevoli conseguenze anche sul piano della disciplina sostanziale, creando un particolare collegamento tra gli elementi che la caratterizzano. Si vuol dire, la costruzione del presupposto soggettivo di applicazione delle norme non su un modello di soggettività giuridica indipendente dotato di proprie caratteristiche specifiche, ma in funzione di un dato concreto, che allo stesso tempo costituisce il presupposto oggettivo delle medesime norme, crea fra questi due elementi un collegamento ed un’interdipendenza del tutto particolare, tipica delle due discipline esaminate, legame che impedisce di condurne un esame disgiunto 6 3 . Ciò significa, in concreto, che se da un lato l’elemento materiale 62 Il medesimo approccio, nel senso di partire dal fatto piuttosto che dalla costruzione giuridica della fattispecie, viene riconosciuto al legislatore nazionale in materia di Iva da S AM M AR T IN O , Profilo soggettivo del presupposto dell’Iva, Milano, 1975, p. 49 63 Così D I V IA , L’impresa cit., 62. 37 Capitolo I costituito dall’esercizio di un’attività economica è indispensabile per l’identificazione e la qualificazione del soggetto agente quale destinatario delle norme, dall’altro l’apporto e l’influenza di tale soggetto sull’attività stessa non possono essere ignorati. Questo tipo di approccio, se appare di secondaria importanza nella fase centrale dell’esercizio dell’attività economica, in cui acquistano una rilevanza del tutto preponderante gli elementi oggettivi e materiali propri dell’esercizio stesso, recupera la propria centralità, come si cercherà di dimostrare in seguito con riguardo all’Imposta sul valore aggiunto, in momenti particolari della vita dell’attività, come la fase preparatoria e quella finale, in cui, in assenza dell’esercizio e di manifestazioni tipiche dell’attività rilevante, il profilo soggettivo può fornire elementi di indubbia rilevanza proprio nella determinazione dell’esistenza della stessa attività. 2-I LIMITI TEMPORALI DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA Esaminato il tema dell’attività economica rilevante ai fini dell’imposta nel suo aspetto statico, ossia sotto il profilo delle caratteristiche proprie dell’attività considerata imponibile, è ora necessario esaminare tale nozione nel suo aspetto dinamico, prestando cioè attenzione alle sue fasi iniziale e conclusiva, per valutare quali siano gli elementi che in tale prospettiva vengono in risalto. Vista l’assenza di norme che disciplinino specificamente tali ipotesi, anche in questo caso il principale contributo va attribuito alla Corte di Giustizia e all’opera interpretativa da essa svolta. Nell’ambito delle pronunce interpretative dell’art. 4 della Sesta Direttiva, i giudici comunitari hanno infatti dovuto precisare quali elementi possano costituire un’attività rilevante ai fini dell’imposta anche in una prospettiva dinamica, individuando pertanto il momento di avvio e quello di cessazione dell’attività, giudicando sull’imponibilità, ma soprattutto sulla spettanza del diritto alla detrazione con riguardo agli atti preparatori, precedenti quindi all’avvio effettivo dell’attività, e agli atti liquidatori antecedenti alla 38 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto definitiva cessazione. La chiave interpretativa adottata in questi casi è stata principalmente quella di tutela del diritto alla detrazione riconosciuto al contribuente a fronte di normative nazionali che, spesso sulla scorta del proprio ordinamento civilistico, rischiavano di restringerne la portata o porlo addirittura in discussione con effetto retroattivo. Nonostante siano numericamente superiori la sentenze in tema di atti preparatori, avendo la Corte raramente affrontato il problema della cessazione dell’attività, è possibile individuare il principio che le accomuna, pur se forse in una diversa prospettiva. L’interpretazione della Corte volge infatti sempre alla tutela e al rispetto concreto del principio di neutralità che informa tutto il sistema dell’imposta. In questa prospettiva, dunque, l’estensione dell’attività economica dalla fase preparatoria alla liquidazione permette di dare piena attuazione al principio, garantendo in concreto che l’imposta non incida sull’operatore economico in assenza di un’ipotesi di consumo in capo allo stesso. Ciò che caratterizza l’interpretazione della norma comunitaria è un approccio di tipo sostanziale, che rifugge, come si vedrà, da criteri automatici nell’individuazione dei momenti di inizio e cessazione dell’attività rilevante. A questo approccio sembra, tuttavia, accompagnarsi una certa attenzione sia al profilo soggettivo, costituito dalla reale intenzione del soggetto passivo, sia ai profili formali che le stesse norme prevedono cui, pur se viene negato un effetto costitutivo, sembra doversi riconoscere valore quanto meno di manifestazione certa delle intenzioni del soggetto, valore destinato a venire meno solo nei casi che risultino oggettivamente fraudolenti. All’esame della giurisprudenza in tema di inizio e cessazione dell’attività, deve unirsi infine lo studio della disciplina in tema di autoconsumo, estremamente rilevante nella fase terminale dell’attività. Come si vedrà, in questo senso il tenore della norma comunitaria appare molto chiaro nell’individuare le ipotesi di applicazione dell’imposta per autoconsumo, riconducendo ad esse il semplice possesso di beni in seguito alla cessazione dell’attività. Questo 39 Capitolo I elemento appare importante soprattutto per due profili: da un lato, esso integra una norma di chiusura che si colloca nel solco della tutela del principio di neutralità ed equo trattamento tra operatori economici e consumatore finale che versino nella stessa condizione; dall’altro, individua l’ipotesi estrema di applicabilità dell’imposta, permettendo forse di identificare con maggiore sicurezza il momento di cessazione dell’attività, quanto meno ai fini dell’imposta. 2.1 La giurisprudenza sugli atti preparatori Come si è detto, l’importanza della definizione degli esatti limiti temporali dell’attività rilevante ai fini Iva è inizialmente emersa in ambito comunitario con riguardo alla fase iniziale dell’attività, in riferimento a cui la Corte è stata chiamata a stabilire se gli atti preparatori debbano ritenersi già parte dell’attività e siano, dunque, in grado di attribuire la soggettività passiva e, conseguentemente, il diritto alla detrazione dell’imposta versata a monte nel compimento di tutte quelle operazioni organizzative precedenti all’avvio dell’esercizio. Già nel primo caso esaminato 6 4 la Corte ha fondato la propria interpretazione sulle caratteristiche del sistema IVA, in particolare sul principio di neutralità, così come sulle norme che disciplinano la detrazione ed il concetto di soggetto passivo, precisandone ulteriormente il contenuto. In primo luogo, la Corte ha dichiarato che il sistema delle detrazioni è inteso a sollevare interamente l’imprenditore dall'onere dell’Iva dovuta o pagata nell'ambito di tutte le sue attività economiche, dovendo garantire che, indipendentemente dallo scopo, l’imposizione sia per questi soggetti assolutamente neutrale. Inoltre, essa ha precisato che, come risulta dal disposto dell’art. 4 (ora art. 9), l’attività economica può consistere in più operazioni consecutive e gli atti preparatori, come ad esempio l'acquisizione di 64 CGCE, sent. 14 febbraio 1985, C-268/83, Rompelman 40 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto beni d’investimento, fanno parte di tali operazioni e devono essere trattate come diretta manifestazione dell’attività economica. La Corte, dunque, accoglie un'interpretazione estensiva del concetto di attività economica che comprende gli atti accessori allo svolgimento delle attività commerciali o professionali che attribuiscono la soggettività passiva. In questo senso, i giudici comunitari hanno precisato che non assume alcun rilievo la forma giuridica con cui tali atti vengono compiuti, dovendosi unicamente attribuire valore al loro legame con la successiva attività, senza che sia necessario attendere che i beni o i servizi acquistati confluiscano in un esercizio produttivo di reddito imponibile. Escluderne la rilevanza, negando la possibilità di detrarre l’Iva pagata nella fase di allestimento dell’attività economica, significherebbe per la Corte creare un’ingiustificata differenziazione tra le spese d’investimento affrontate inizialmente e quelle invece sostenute durante l’effettivo esercizio, violando il principio di neutralità che informa l’intero sistema dell’imposta 6 5 . 65 Si legge infatti nella sentenza Rompelman cit. ai punti 22 ss. “ [..] per quanto riguarda la questione del momento in cui ha inizio lo sfruttamento di un bene immobile, si deve sottolineare anzitutto che le attività economiche di cui all’art. 4, n. 1, possono consistere in vari atti consecutivi, come si desume dal testo stesso del n. 2 di detto articolo, che si riferisce a tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi. Gli atti preparatori, come il procurarsi i mezzi per esercitare siffatte attività e, pertanto, anche l’acquisto di un bene immobile, devono già ritenersi parte integrante delle attività economiche. In proposito è irrilevante la distinzione tra le varie forme giuridiche che possono assumere tali atti preparatori[..] . Inoltre, il principio della neutralità dell'Iva per quanto riguarda l'imposizione fiscale dell'operatore economico esige che le prime spese d'investimento effettuate ai fini di una data operazione siano considerate come attività economiche. Sarebbe in contrasto con tale principio il fatto che queste attività abbiano inizio soltanto nel momento in cui un bene immobile viene effettivamente sfruttato, cioè quando comincia a produrre un reddito imponibile. Qualsiasi altra interpretazione dell'art. 4 della Sesta Direttiva porrebbe a carico dell'operatore, nell'esercizio della sua attività economica, l'onere dell'Iva, senza dargli la possibilità di effettuarne la detrazione in conformità all'art. 17 e si 41 Capitolo I Puntualizzati così i principi generali che secondo la Corte impongono di considerare iniziata l’attività economica già dal compimento dei primi atti preparatori, essa ha avuto successivamente modo di precisare ulteriormente la propria interpretazione, specificando di volta in volta elementi differenti. Così, in un caso successivo 6 6 si è chiarito che è l'acquisto da parte di un soggetto passivo che agisca in quanto tale, a comportare l’applicazione del sistema dell’imposta e, quindi, a garantire il diritto alla detrazione. Da ciò deriva che a nulla rilevi l’effettiva utilizzazione del bene o il tempo che intercorra tra l’acquisto e l’impiego all’interno di operazioni imponibili, riguardando questo aspetto solo la misura della detrazione iniziale o la necessità di una sua successiva rettifica, ma non la stessa sussistenza del diritto. Questa affermazione è stata il punto di partenza per un’ulteriore estensione della nozione di attività economica sotto il profilo degli atti preparatori rilevanti. Dovendosi ritenere applicabile l’imposta sin dal primo investimento effettuato dall’operatore economico funzionale al futuro svolgimento dell’attività economica, indipendentemente dall’immediata e concreta utilità della spesa sostenuta, la Corte ha finito per attribuire rilevanza anche a semplici studi sulla possibilità di avviare l’attività in futuro, senza che a ciò rilevi se tale attività sia poi stata realmente intrapresa 6 7 . risolverebbe in una arbitraria distinzione tra le spese d' investimento effettuate prima e durante l'effettivo sfruttamento di un bene immobile. Anche nei casi in cui, dopo l'inizio dell'effettivo sfruttamento di un bene immobile, avesse luogo un rimborso dell'imposta pagata a monte per gli atti preparatori, il bene sarebbe gravato da un onere finanziario durante il periodo, talvolta abbastanza lungo, intercorrente fra le prime spese d’investimento e lo sfruttamento effettivo. Chiunque compia siffatti atti d'investimento strettamente legati e necessari allo sfruttamento futuro di un bene immobile deve, di conseguenza, essere considerato come soggetto passivo ai sensi dell'art. 4.” 66 CGCE, sent. 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz 67 Così in CGCE, sent. 29 febbraio 1996, causa C-110/94, Inzo in cui la Corte ha riconosciuto la detraibilità dell’imposta relativa ad uno studio di redditività che era stato commissionato proprio per valutare la fattibilità e la convenienza di un 42 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto In tal modo, la Corte ha precisato altri due principi di grande rilevanza, tra loro strettamente collegati. In primo luogo essa ha sostenuto che una volta che l’Amministrazione Finanziaria abbia riconosciuto la qualità di soggetto passivo in capo ad un operatore economico, questa non possa essere contestata con effetto retroattivo, a meno che non sia evidente un intento fraudolento. Di conseguenza, il diritto alla detrazione che il soggetto abbia maturato diviene acquisito e non potrà più essere contestato nella sua legittimità una volta che i presupposti necessari siano venuti meno 6 8 . Unendo, dunque, il profilo dell’attività economica con le norme che disciplinano il diritto alla detrazione, esaminati sempre sotto la lente del principio di neutralità, la Corte estende l’ambito della soggettività passiva all’imposta, facendovi confluire anche i soggetti che compiano solo atti strumentali ed accessori ad una futura attività economica. Tali operazioni dovranno pertanto ricevere il medesimo trattamento fiscale di quelle che sono diretta espressione dell’attività commerciale o progetto, al cui termine, dati gli esiti negativi, non si era intrapresa l’attività, ma si era al contrario liquidata la società appositamente creata. 68 Si legge infatti nella sentenza Inzo cit. ai punti 19 ss. Che “ [..]Ne deriva che, a queste stesse condizioni, l'IVA versata per un tale studio sulla redditività può in via di principio essere detratta in conformità all'art. 17 della direttiva. Contrariamente a quanto sostengono il governo belga ed il governo tedesco, questa detrazione rimane acquisita anche se, successivamente, si è deciso, in considerazione dei risultati di questo studio, di non passare alla fase operativa e di mettere la società in liquidazione, di modo che l' attività economica prevista non ha dato luogo ad operazioni soggette ad imposta. Infatti, come fa rilevare la Commissione, il principio della certezza del diritto si oppone a che i diritti ed gli obblighi dei soggetti passivi dipendano da fatti, circostanze o eventi che si sono verificati successivamente al loro accertamento da parte dell'amministrazione tributaria. Ne deriva che, a decorrere dal momento in cui quest' ultima ha accettato, sulla base dei dati trasmessi da un'impresa, che sia ad essa concessa la qualità di soggetto passivo, questo status non può più, in via di principio, esserle revocato successivamente con effetto retroattivo a causa del verificarsi o meno di taluni eventi.” 43 Capitolo I professionale. Come confermato anche nella giurisprudenza successiva, elemento centrale e distintivo diviene, allora, nella prospettiva della giurisprudenza comunitaria, l’intenzione manifestata dal soggetto che assume, in questo contesto, un ruolo di maggior rilevanza rispetto all’oggettività che solitamente caratterizza il presupposto dell’Iva. La dichiarata intenzione di intraprendere un’attività economica è quindi un elemento sufficiente per l’applicazione dell’imposta e l’attribuzione della soggettività passiva che, una volta riconosciuta, consente di maturare i diritti ad essa connessi pur se successivamente ne vengano meno i presupposti 6 9 . La Corte si è però premurata di specificare quali sono i limiti della rilevanza della volontà del soggetto. Da un lato, il suo riconoscimento non esclude, infatti, che le amministrazioni fiscali possano richiedere che l’intenzione di avviare l’attività economica sia comprovata da elementi oggettivi. Dall’altro, nei casi in cui l’intenzione del soggetto si riveli in realtà fraudolenta, l’amministrazione potrà disconoscere la soggettività passiva e richiedere la restituzione delle somme portate illegittimamente in detrazione 7 0 . 69 Così anche CGCE, sent. 21 marzo 2000, C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa p. 47 dove si legge “Di conseguenza, chi ha l'intenzione, confermata da elementi obiettivi, di iniziare in modo autonomo un'attività economica ai sensi dell'art. 4 della Sesta Direttiva ed effettua a tal fine le prime spese di investimento deve essere considerato come soggetto passivo. In quanto agisca come tale, egli ha quindi, conformemente agli artt. 17 e seguenti della Sesta Direttiva, il diritto di detrarre immediatamente l'IVA dovuta o pagata sulle spese di investimento sostenute in vista delle operazioni che intende effettuare e che danno diritto alla detrazione, senza dovere aspettare l'inizio dell'esercizio effettivo della sua impresa.” 70 Si legge, infatti, nella sentenza Inzo cit., punti 23 e 24 “come la Corte ha constatato nella sentenza Rompelman, soprammenzionata, punto 24, che incombe a colui che chiede la detrazione dell' IVA l'onere di provare che sono soddisfatte le condizioni per tale detrazione e che l' art. 4 non osta a che l'amministrazione tributaria esiga che l'intenzione dichiarata di avviare un'attività economica che dà 44 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Complessivamente, quindi, dall’interpretazione della Corte risulta che qualora vi sia un’intenzione oggettivamente dimostrabile ad intraprendere un’attività economica e non ci siano elementi che pongano in dubbio la buona fede del soggetto, dimostrandone gli intenti fraudolenti, dovrà riconoscersi la soggettività passiva, applicando l’imposta alle operazioni attive, ma soprattutto riconoscendo il diritto alla detrazione dell’imposta versata a monte, anche nel caso in cui in un momento successivo l’attività non venga concretamente avviata o per scelta del soggetto stesso o per fatti a lui non imputabili 7 1 . luogo ad operazioni imponibili venga confermata da elementi oggettivi. In tale contesto occorre sottolineare, come ha fatto la Commissione, che la qualità di soggetto passivo è definitivamente acquisita solo se la dichiarazione dell'intenzione di avviare l' attività economica programmata sia stata effettuata in buona fede dall'interessato. Nelle situazioni fraudolente o abusive in cui ad esempio quest'ultimo ha finto di voler avviare un'attività economica specifica, ma ha cercato in realtà di far entrare nel suo patrimonio privato beni che potevano costituire oggetto di una detrazione, l'amministrazione tributaria può chiedere, con effetto retroattivo, il rimborso delle somme detratte poiché queste detrazioni sono state concesse sulla base di false dichiarazioni” 71 In proposito CGCE, sent. 15 gennaio 1998, C-37/95, Ghent Coal Terminal. Nelle conclusioni presentate dall’Avvocato Generale Colomer in questo caso si legge: “In conformità dell'insegnamento contenuto nelle sentenze citate, la Ghent Coal poteva detrarre l'IVA da essa versata acquistando i beni o pagando i servizi legati alla costruzione del terminale carboniero poiché: a) non è necessario che i beni e i servizi acquistati nel corso delle operazioni preparatorie all'esercizio di un'attività siano immediatamente utilizzati per operazioni soggette all'IVA (sentenza Rompelman), senza che si abbia alcun dubbio quanto allo scopo perseguito dalla Ghent Coal mediante tali acquisti, che si ricollegano direttamente all'esercizio della sua attività imprenditoriale; b) a rigore, non è nemmeno necessario che tali beni e servizi siano utilizzati per realizzare operazioni successive, soggette all'IVA, quando sono stati acquistati nel corso di fasi preliminari all'esercizio di un'attività prevista che, per motivi legittimi, non ha raggiunto in seguito la fase operativa (sentenza Inzo); c) qualsiasi sospetto di frode o d'abuso è in tal caso escluso, giacché la Ghent Coal è stata in realtà costretta a rinunciare al suo progetto di costruzione, 45 Capitolo I La Corte prescrive, dunque, il compimento di un esame prospettico degli atti preparatori volto a dimostrarne l’oggettiva idoneità all’avvio dell’attività. Questo giudizio costituisce il risvolto oggettivo necessario per la valutazione delle intenzioni manifestate dal soggetto agente, che non possono valere sul piano della sola volontà, ma devono consentire riscontri concreti. In questo senso, in rapporto alla rilevanza degli atti preparatori e al momento in cui sorge il diritto alla detrazione, la Corte ha infine affrontato il tema degli adempimenti formali che le norme nazionali impongono ai soggetti passivi e che le stesse norme comunitarie prevedono. I giudici comunitari hanno infatti sostenuto che, se da un lato gli Stati sono autorizzati ad introdurre norme e adempimenti formali volti a tutelare i propri interessi erariali e a contrastare i comportamenti fraudolenti, dall’altro queste norme non possono limitare in modo automatico l’esercizio dei diritti garantiti dall’ordinamento comunitario. In particolare, dunque, nonostante siano le stesse norme europee a sancire l’obbligo per il soggetto passivo di dichiarare l’inizio, la variazione e la cessazione dell’attività economica 7 2 , il diritto alla detrazione non può ad ogni modo essere condizionato da tali adempimenti o da altri che siano previsti dalle norme nazionali 7 3 . La già avviato, a causa delle esigenze di una pubblica amministrazione che agiva nell'esercizio delle sue funzioni. La conclusione che si ricava da quanto precede è che, in forza dell'art. 17, n. 2, della sesta direttiva, un'impresa come la Ghent Coal ha il diritto di detrarre l'IVA da essa versata a causa dell'acquisto di beni e della fruizione di servizi per opere di investimento destinate, in linea di principio, ad essere utilizzate per la sua attività imprenditoriale, ma che, per successive circostanze, estranee alla sua volontà, non sono mai state effettivamente utilizzate.” 72 Disposizione prima contenuta nell’art. 22 della Sesta Direttiva ed ora prevista nell’art. 213 della Direttiva 2006/112. 73 Principio espresso in CGCE, sent. 21 marzo 2000, C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa dove si legge “ A tal riguardo è importante sottolineare che, come ha giustamente rilevato la Commissione, l'art. 22, n. 1, della Sesta Direttiva prevede soltanto l'obbligo per i soggetti passivi di dichiarare l'inizio, il cambiamento e la 46 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto necessità che l’ordinamento comunitario trovi piena attuazione ed il principio di proporzionalità da sempre affermato dalla Corte impongono, dunque, che le norme nazionali si limitino a prevedere quanto strettamente necessario a prevenire comportamenti illegittimi per la tutela dell’integrità del proprio ordinamento, ma non possono in alcun modo restringere i diritti riconosciuti dal diritto comunitario, se non laddove sia esso stesso a prevederne delle limitazioni espressamente 7 4 . cessazione delle loro attività, ma non autorizza affatto gli Stati membri, in mancanza di tale dichiarazione, a posticipare l'esercizio del diritto alla detrazione sino all'inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili oppure a precludere al soggetto passivo l'esercizio di tale diritto. Nell’affermare questo principio la Corte si richiama alla propria giurisprudenza costante ed in particolare al principio di proporzionalità, in base al quale le misure adottate dagli Stati membri non devono andare oltre quanto è necessario lo scopo che si prefiggono, cosa che accadrebbe se le misure nazionali riducessero o rendessero eccessivamente difficile l’esercizio di un diritto quale quello alla detrazione che regge tutto il sistema dell’imposta. 74 Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p.52 ss. “Inoltre, si deve ricordare che i provvedimenti che gli Stati membri possono adottare ai sensi dell'art. 22, n. 8, della sesta direttiva per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le frodi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine. Essi non possono quindi essere utilizzati in modo tale da rimettere sistematicamente in questione il diritto alla detrazione dell'IVA, il quale è un principio fondamentale del sistema comune dell'IVA istituito dalla normativa comunitaria in materia (v., in tal senso, sentenza 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e a., Racc. pag. I-7281, punto 47). [..] non solo subordina l'esercizio del diritto a detrarre l'IVA pagata da un soggetto passivo prima dell'inizio dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili alla presentazione di una domanda espressa e all'osservanza di un termine di un anno tra tale domanda e l'inizio effettivo delle operazioni imponibili, ma per di più sanziona il mancato rispetto di tali condizioni con il differimento sistematico dell'esercizio di tale diritto fino all'inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili. Una siffatta normativa può anche comportare la perdita del diritto alla detrazione se le dette operazioni non cominciano o se tale diritto non viene esercitato in un termine di cinque anni dal momento in cui è sorto. Pertanto, una 47 Capitolo I Secondo la giurisprudenza comunitaria, di conseguenza, tali disposizioni devono in ogni caso essere interpretate in modo restrittivo, così come accade per le altre disposizioni che comportano delle diversità dalla struttura fondamentale dell’imposta, quali quelle che disciplinano i casi di esenzione. In questo modo, inoltre, la Corte distingue nettamente tra quelle che sono norme sostanziali del tributo e quelle che ne delineano unicamente l’aspetto formale, imponendo gli adempimenti cui è tenuto il soggetto passivo. Da questa distinzione discende l’ulteriore conseguenza che, laddove non sia la stessa Direttiva ad imporlo, le seconde non possono avere effetti sul contenuto o l’applicazione delle prime. All’interno di questa giurisprudenza, tuttavia, gli adempimenti formali prescritti sia dalla Direttiva che dalle norme nazionali finiscono per assumere un ulteriore rilievo anche nella prospettiva opposta. Se infatti si riconosce la soggettività passiva anche in assenza di operazioni attive imponibili, sulla sola base della manifestata intenzione di avviare un’attività, e si sancisce l’impossibilità di disconoscere la soggettività così riconosciuta al di fuori dei casi manifestamente fraudolenti, la dichiarazione di inizio dell’attività presentata in buona fede dal contribuente diviene punto di riferimento principale per l’attribuzione della soggettività, quale manifestazione dell’intenzione rilevante 7 5 . siffatta normativa eccede quanto è necessario per conseguire gli obiettivi di assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le frodi. 75 Tale considerazione può ben ricavarsi dalla già citata sent. Inzo, laddove la Corte (p.21) sostiene che “il principio della certezza del diritto si oppone a che i diritti ed obblighi dei soggetti passivi dipendano da fatti, circostanze o eventi che si sono verificati successivamente al loro accertamento da parte dell' amministrazione tributaria. Ne deriva che, a decorrere dal momento in cui quest' ultima ha accettato, sulla base dei dati trasmessi da un' impresa, che sia ad essa concessa la qualità di soggetto passivo, questo status non può più, in via di principio, esserle revocato successivamente con effetto retroattivo a causa del verificarsi o meno di taluni eventi.” Favorevoli a questa interpretazione F AZ Z IN I , Il diritto alla detrazione nel 48 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Le due diverse prospettive appaiono chiaramente nella pronuncia Gabalfrisa, in cui dapprima, richiamando la propria giurisprudenza precedente, la Corte riafferma che la dichiarazione in buona fede dell'intenzione di avviare un'attività economica è già di per sé sufficiente al riconoscimento della soggettività passiva all'imposta 7 6 , riferendosi evidentemente alla presentazione da parte del soggetto delle prescritte dichiarazioni formali di inizio attività. Successivamente nella stessa pronuncia la Corte puntualizza, tuttavia, anche l'altro profilo delle dichiarazioni formali, nell'intenzione di limitare le possibili restrizioni al riconoscimento del diritto alla detrazione causata dall'imposizione di formalità burocratiche ad effetto costitutivo da parte degli Stati membri. In questo senso, dunque, i giudici comunitari precisano altresì che l'attribuzione della soggettività passiva e, quindi, il riconoscimento della detrazione non possono essere subordinate alla presentazione di dichiarazioni formali quando, pur in assenza di questa, sussistano tutti requisiti richiesti dalle norme e sia in concreto riconoscibile un’attività economica 7 7 . Da quanto affermato dalla Corte emerge con ancor maggiore rilevanza il ruolo attribuito nella prospettiva dell'attribuzione della soggettività passiva al profilo soggettivo costituito dalle intenzioni del soggetto. Ritenutele sufficienti al riconoscimento della soggettività e del diritto alla detrazione, la Corte ammette che esse vengano manifestate in ogni modo, escludendo valore di per sé costitutivo a particolari forme o formalità. Ciò significa che avranno ugualmente valore tanto le dichiarazioni formali rese in buona fede e non contraddette da comportamenti fraudolenti, quanto semplici tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, 29; G IO R G I , Detrazione e soggettività passiva nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, 165 ss. 76 Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p. 46 “In tale contesto occorre sottolineare che la qualità di soggetto passivo è definitivamente acquisita solo se la dichiarazione dell'intenzione di avviare l'attività economica programmata sia stata effettuata in buona fede dall'interessato” 77 Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p.51 ss., supra nt.73 49 Capitolo I comportamenti materiali, pur se irregolari dal punto di vista formale. Anche in questa prospettiva, nell'ottica della tutela della neutralità e della certezza del diritto, pare che la Corte non imponga meccanismi rigidi, neppure nell'attuazione delle norme a contenuto formale della stessa Direttiva, ma sia piuttosto attenta a limitare gli spazi in cui le autorità nazionali potrebbero agire restringendo o condizionando l'applicabilità dell'imposta, e garantisce, di fatto, la legittimità della sola richiesta di riscontri oggettivi a conferma della buona fede del soggetto, condizionando, invece, gli altri strumenti utilizzabili alla verifica della propria proporzionalità. Da quanto finora esaminato risaltano elementi molto importanti per un esame che guardi al profilo temporale dell’esistenza dell’attività economica e, dunque, del soggetto passivo. Elemento chiave dell’interpretazione comunitaria è la tutela della neutralità dell’imposta, in ragione della quale viene ampliato o ristretto il contenuto degli elementi fondamentali dell’attività economica. In questa prospettiva, quindi, con riguardo alla sua fase iniziale, si limita la rilevanza dell’effettivo esercizio di un’attività rivolta al mercato, restringendo conseguentemente anche il rilievo delle altre caratteristiche proprie dell’attività, nel tentativo di scongiurare gli effetti negativi che un ritardo nel riconoscimento della soggettività passiva potrebbe avere, addossando all’operatore economico il costo fiscale della fase di avvio dell’attività, come se questi fosse un consumatore finale. Per questo motivo, si attribuisce valore ad elementi maggiormente soggettivi, rappresentati dall’intenzione del soggetto ad intraprendere concretamente un’attività economica. La necessità, però, che vi sia un riscontro oggettivo di questa volontà imprenditoriale porta ad affiancare ad essa un esame di fatto sulla situazione, alla ricerca di elementi che confermino la veridicità dell’intenzione dichiarata. Il giudizio prospettico sull’effettiva idoneità degli atti preparatori all’avvio della successiva attività diviene, così, fondamentale per la loro rilevanza al fine della 50 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto concessione del diritto alla detrazione, senza che però a nulla rilevi la concreta utilizzazione dei beni o dei servizi nella futura attività. A questo profilo si collega inevitabilmente l’affermazione del rilievo esclusivamente formale delle dichiarazioni richieste dagli Stati membri per l’inizio dell’attività ed il riconoscimento del diritto alla detrazione, cui si contrappone la considerazione che emerge dalla giurisprudenza per cui la soggettività passiva si acquista già nel momento in cui sia oggettivamente dimostrabile l’intenzione di avviare un’attività economica imponibile. Nonostante la condivisibile negazione della portata costitutiva delle dichiarazioni formali, è molto importante altresì sottolineare l’altro profilo che posto in luce dalla giurisprudenza e che affida alle dichiarazioni un ruolo positivo nell’identificazione dell’attività e nell’attribuzione della soggettività passiva. Se infatti gli unici limiti alla validità delle intenzioni del soggetto sono costituiti dall’assenza di riscontri oggettivi o dalla presenza di elementi che testimonino un comportamento fraudolento, il medesimo ragionamento dovrebbe potersi fare con riguardo alle dichiarazioni formali. Esse, in quanto diretta manifestazione delle intenzioni del soggetto, dovrebbero mantenere la propria validità fintanto che non si dimostrino prive di elementi concreti a proprio sostegno o contrarie alle reali intenzioni del soggetto, provate da comportamenti abusivi. Nel momento in cui si attribuisce rilievo alla sfera soggettiva attraverso la valutazione della volontà, facendo dipendere l’acquisto della soggettività passiva dalla concreta manifestazione delle intenzioni, sulla base di un giudizio prospettico che valuta le potenzialità economiche degli atti già compiuti, diviene inevitabile attribuire valore anche a quelle dichiarazioni formali che il sistema impone e che ben possono rappresentare l’intenzione rilevante. La mancanza di un effetto costitutivo richiede, infatti, che ad esse non sia riconosciuto un effetto automatico, favorevole o sfavorevole al contribuente, ma non implica in alcun modo che ne venga escluso qualsiasi tipo di valore, soprattutto quale manifestazione diretta e temporalmente certa dell’intenzione del soggetto ad intraprendere 51 Capitolo I un’attività economica. Anche riconoscendo tal valore alle dichiarazioni formali, la dimostrazione delle concrete potenzialità economiche degli atti preparatori va collegata ai tradizionali meccanismi che regolano l’onere della prova, suddividendolo tra soggetto che richiede la detrazione, a dimostrazione del proprio diritto, ed amministrazione che lamenta un comportamento abusivo, a sostegno dei propri rilievi. L’insieme di queste considerazioni emergenti dall’interpretazione della Corte di Giustizia, risulta di grande importanza con riferimento alla necessità, prima ricordata, di tenere sempre presente lo stretto legame esistente tra profilo soggettivo ed oggettivo nel sistema dell’imposta e di compiere, per questo motivo, un esame congiunto dei due elementi. La giurisprudenza richiamata sugli atti preparatori, nell’attribuire rilevanza alle intenzioni del soggetto passivo, mostra, infatti, come la stessa Corte senta la necessità di condurre un esame ampio, che, nonostante l’oggettività dell’imposta costantemente affermata, prenda in considerazione elementi diversi, tra cui quello del soggetto e delle sue intenzioni, e che, attraverso una valutazione complessiva della fattispecie e della situazione concreta, garantisca la corretta applicazione dell’imposta e la tutela dei suoi principi informatori. 2.2 L’applicazione della medesima interpretazione alla fase conclusiva dell’attività La giurisprudenza comunitaria ha affrontato raramente il caso della cessazione dell’attività economica. Sono infatti poche le pronunce in merito, alcune in tema di cessazione per trasferimento dell’azienda ed una sola in tema di diritto alla detrazione durante il periodo di liquidazione 7 8 . 78 Sul diritto alla detrazione dell’Iva relativa alle spese sostenute per il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, si vedano in particolare CGCE, sent. 22 febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National;CGCE, sent. 27 novembre 2003, causa C- 497/01, Zita Modes; CGCE, sent. 29 aprile 2004, causa C-137/02, 52 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Anche in questo caso i principi che guidano l’interpretazione della Corte vanno individuati nella neutralità del sistema e nella conseguente necessità di garantire all’operatore economico la detrazione di tutta l’imposta versata a monte per beni o servizi che siano confluiti in sue operazioni imponibili, pur se l'esame della fase terminale dell'attività deve altresì coinvolgere l'ulteriore profilo dell'imponibilità delle operazioni compiute, profilo che non sembra emergere con riguardo alla fase preparatoria. Nell’ambito di queste pronunce, la Corte estende ulteriormente la nozione di attività economica rilevante, riducendo la portata del principio di effettività dell’esercizio in favore, in questo caso, soprattutto del nesso individuabile tra le operazioni a monte e quelle a valle, pur se cessate. Riprendendo le fila del ragionamento svolto in tema di atti preparatori, la Corte sviluppa infatti il ruolo del diritto alla detrazione, specificandone le caratteristiche ed i presupposti, particolari in una fase come quella conclusiva dell’attività. Appare in questo senso molto interessante ricostruire le motivazioni che hanno portato all’affermazione della sussistenza del diritto alla detrazione nella fase di liquidazione nella sentenza Fini H 7 9 . In essa, in primo luogo la Corte richiama la propria giurisprudenza in tema di attività economica ed atti preparatori, confermando che, essendo l’attività costituita da una pluralità di atti consecutivi, tra Faxworld. Sul diritto alla detrazione nella fase di liquidazione dell’impresa CGCE, sent. 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini H con nota di DEL VAGLIO M., Cessazione dell’attività d’impresa e detrazione Iva, Riv. Dir. Trib., 2005, III, 90. 79 Il caso verteva sulla sussistenza del diritto alla detrazione dell’imposta relativa al canone d’affitto e ai costi delle utenze telefoniche ed elettriche sostenute da una società di ristorazione che aveva cessato la propria attività, ma essendo ancora vincolata dal contratto di locazione da cui non poteva recedere anticipatamente aveva, per tutta la residua durata della locazione, mantenuto aperta la partita Iva e continuato a presentare dichiarazioni ai fini dell’imposta in cui emergeva costantemente un credito, non essendo più compiuta alcuna operazione imponibile a valle. L’amministrazione finanziaria danese aveva contestato la legittimità del comportamento tenuto, ritenendo che l’attività dovesse considerarsi cessata, chiedendo pertanto la restituzione delle somme già rimborsate. 53 Capitolo I questi debbano essere inclusi anche quelli preliminari, indipendentemente dal fatto che essi conducano poi realmente allo svolgimento di un’attività imponibile 8 0 . In questo contesto si inserisce il diritto alla detrazione che, volto ad esonerare il soggetto passivo dal peso dell’imposta, deve essere garantito sia nel caso in cui l’attività non inizi sia nel caso in cui il soggetto non compia più operazioni imponibili. Assumono quindi rilevanza le caratteristiche tipiche della detrazione come specificate nel tempo dalla giurisprudenza della Corte. Perché l’imposta a monte sia detraibile è necessario che esista un nesso immediato e diretto con le operazioni a valle, in assenza del quale, in linea di principio, la detrazione dell’imposta dovrebbe essere negata 8 1 . La giurisprudenza ha però posto in luce come questo nesso non debba essere necessariamente attuale o specifico tra un’operazione a monte ed una a valle, dovendo considerarsi valide per l’attribuzione del diritto alla detrazione anche quelli che vengono considerati costi generali della produzione, così come è necessario garantire la detraibilità anche dell’imposta relativa a quelle spese che il soggetto effettua per il trasferimento della propria attività, in seguito al quale non compirà più operazioni imponibili 8 2 . 80 Sentenza Fini H cit. punti 22 ss. 81 Così CGCE, sent. 8 giugno 2000, causa C-98/98, Midland Bank nella quale la Corte ha precisato (richiamando la sentenza 6 aprile 1995, C-4/94, BLP Group) che il diritto alla detrazione spetta in linea di principio ove sussista un nesso diretto tra le operazioni, pur restando acquisito in alcuni casi in cui l’operazione a valle non venga posta in essere. Ciò che rileva è che l’imposta versata sia relativa a beni o servizi il cui costo confluisce nella determinazione del costo del prodotto dell’attività. 82 Così nella sentenza Abbey National cit., p. 38 ss in cui la Corte afferma “Tuttavia, i costi di tali servizi fanno parte delle spese generali del soggetto passivo e sono, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei prodotti di un'impresa. Infatti, anche nel caso di trasferimento di una universalità totale di beni, qualora il soggetto passivo non effettui più operazioni dopo l'utilizzazione dei detti servizi, i costi di questi ultimi devono essere considerati inerenti al complesso dell'attività economica dell'impresa prima del trasferimento. Ogni altra 54 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Queste precisazioni si rendono necessarie perché sia rispettata la ratio della detrazione e per salvaguardare il sistema dell’imposta nel suo complesso 8 3 , motivo per cui è necessario che il diritto sia garantito immediatamente, nel momento in cui l’imposta diviene esigibile, tanto in assenza di operazioni imponibili, quanto in fasi peculiari dell’attività in cui il volume delle operazioni compiute può essere notevolmente ridotto 8 4 . Stabilito, quindi, che anche le spese sostenute per il trasferimento interpretazione dell'art. 17 della sesta direttiva sarebbe contraria al principio che impone che il sistema dell'IVA comporti una perfetta neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche dell'impresa, purché queste siano di per sé soggette all'IVA, e porrebbe a carico dell'operatore, nell'esercizio della sua attività economica, l'onere dell'IVA senza dargli la possibilità di effettuarne la detrazione. Così, si procederebbe ad un'arbitraria distinzione tra, da una parte, le spese effettuate per le esigenze di un'impresa prima dell'esercizio effettivo di quest'ultima e quelle effettuate durante il detto esercizio e, dall'altra, le spese effettuate per porre fine a tale esercizio. I vari servizi utilizzati dal cedente per le esigenze del trasferimento di una universalità totale o parziale di beni comportano quindi in linea di massima un nesso immediato e diretto con il complesso dell'attività economica di tale soggetto passivo”. Nello stesso senso anche la sentenza Faxworld cit. 83 Come ricordato dall’Avvocato Generale Jacobs nelle conclusioni del 28 ottobre 2004, presentate nella causa Fini H, p. 32, “L’IVA è definita come un’imposta generale sul consumo (finale, privato) e non come un carico gravante su imprese che operano nelle fasi che portano a tali consumi. La Corte ha costantemente evidenziato che il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Le situazioni in cui un soggetto passivo può recuperare l’IVA pagata a monte senza effettuare operazioni tassabili a valle comportano semplicemente la restituzione di somme precedentemente anticipate alle autorità fiscali sul presupposto che le operazioni che le avevano giustificate portassero ad un’ultima operazione tassabile per il consumo finale. Se tale presupposto non è soddisfatto e tale consumo finale non si verifica, manca il fondamento per la riscossione dell’imposta in stadi precedenti. Di conseguenza, gli importi anticipati devono essere restituiti al soggetto passivo su cui grava attualmente il carico fiscale”. 55 Capitolo I dell’azienda danno il diritto alla detrazione e che esso resta acquisito anche in assenza di operazioni imponibili, purchè sussista un nesso con la precedente attività, la Corte ha necessariamente esteso lo stesso principio alla generalità delle fasi liquidatorie, accogliendo le osservazioni dell’Avvocato Generale secondo cui, inevitabilmente, la perdita della soggettività passiva non può essere immediata e coincidente con la cessazione dell’esercizio dell’attività tipica, ossia al compimento dell’ultima operazione a valle, dovendosi imputare al 84 In questo senso appaiono chiarissime le considerazioni svolte dall’Avvocato Jacobs, il quale richiama così i profili principali del diritto alla detrazione (p. 24-28): In primo luogo, benché l’imposta a monte possa essere detratta solo se i beni e servizi a cui si riferisce sono impiegati per operazioni tassabili a valle, e benché in tale contesto sia spesso usata la metafora di una catena di transazioni, la detrazione non dipende dal completamento di una sequenza cronologia di operazioni a monte e a valle specificamente in rapporto tra loro. Pertanto l’imposta pagata a monte è deducibile non appena è esigibile e non è necessario attendere che sia effettuata un’operazione a valle che utilizzi l’acquisizione a monte. Ciò che rileva è stabilire se quell’operazione a monte costituisce una componente del costo di un’operazione tassabile a valle e presenta quindi un nesso immediato e diretto con tale transazione. In secondo luogo, sebbene i costi generali di un’impresa che effettua operazioni tassabili a monte non possano essere attribuiti a operazioni a valle specifiche, essi sono in linea di principio da considerarsi di per sé come componenti del costo laddove presentino un nesso immediato e diretto con il complesso della sua attività economica. In terzo luogo, non solo l’IVA pagata a monte è detraibile, sia su servizi specifici che sui costi generali di gestione, prima ancora che sia effettuata qualsiasi operazione tassabile a valle – per esempio quando viene avviata un’impresa –, ma il diritto di effettuare la detrazione rimane acquisito anche quando l’attività economica prevista non ha dato luogo ad operazioni tassate o il soggetto passivo non ha potuto utilizzare i beni o i servizi acquisiti per circostanze estranee alla sua volontà. Tuttavia in tali casi si presuppone la condizione che vi sia una reale intenzione – dimostrata da prove obiettive che le autorità fiscali hanno pieno diritto di pretendere – di effettuare tali transazioni e che i costi siano stati sostenuti a tale scopo. In quarto luogo, il diritto alla deduzione può continuare ad esistere persino quando il soggetto passivo non realizzi più operazioni a valle dopo aver acquisito le forniture a monte, come ad esempio nel caso di spese 56 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto risultato finale dell’attività anche le spese successivamente sostenute, la cui imposta dovrà essere considerata per determinare il totale dell’Iva imputabile all’attività. Anche in questo caso l’unico limite posto dalla Corte è costituito dalla verifica di un comportamento fraudolento da parte del soggetto passivo, a fronte del quale l’amministrazione sarebbe autorizzata a disconoscere la soggettività e la detrazione con effetto retroattivo. La Corte accenna, però, ad un altro elemento che in questo contesto può assumere grande importanza ai fini della verifica della permanenza del nesso tra le operazioni compiute o le spese sostenute e la precedente attività economica. Ci si riferisce al criterio temporale che emerge dalla considerazione per cui la durata del periodo in cui vengono sostenute spese in assenza di operazioni imponibili è priva d’incidenza sull’esistenza di un’attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 1, della Sesta Direttiva sempreché tale lasso di tempo sia strettamente necessario alla conclusione delle operazioni di liquidazione 8 5 . L’affermazione della Corte si riallaccia in questo modo all’interpretazione adottata in materia di atti preparatori, laddove si sostiene che la detrazione dell’imposta spetta indipendentemente dal se e dal quando i beni verranno utilizzati ai fini dell’attività economica. Non sindacando il comportamento del soggetto in quell’ambito ne consegue che, specularmente, anche la lunghezza del periodo privo di operazioni imponibili nella fase terminale non sia in grado di influire sul diritto alla detrazione, sempre che l’eccessiva durata della liquidazione non sfoci in realtà in comportamenti abusivi. Ciò sembra significare che, se da un lato non si può pensare che da un giorno all’altro un’attività cessi e concluda la propria liquidazione, dall’altro non si possa nemmeno ipotizzare un eterno collegamento tra i beni e l’attività ormai cessata, prolungandone in modo fittizio l’esistenza. Tale considerazione può valere, dunque, sia per evitare sostenute per concludere lo svolgimento dell’attività economica.” 85 Cfr. sentenza Fini H cit., punto 29. 57 Capitolo I abusi da parte del soggetto passivo, sia per limitare, sul fronte opposto, quelle interpretazioni che ravvisano la sopravvivenza dell’impresa nella permanenza, anche dopo molto tempo, di beni ad essa teoricamente riconducibili. Pur nella particolarità del caso esaminato, nell’intento di garantire il rispetto della neutralità del sistema impositivo, il giudice comunitario adotta sicuramente un’interpretazione che riconosce con maggior favore le ragioni del soggetto passivo, limitando il potere del giudice nazionale e dell’amministrazione di disconoscere detrazioni (o negare rimborsi) al solo caso di evidente abuso della norma comunitaria e nazionale, pur attribuendo loro la facoltà di richiedere riscontri oggettivi circa le intenzioni e la buona fede del soggetto passivo. Si assiste perciò ad un ulteriore allargamento delle maglie interpretative della Corte, la quale sembra prescindere, anche nel caso della cessazione, da quelle caratteristiche di effettività che dovrebbero contraddistinguere la nozione di attività economica. Approccio assolutamente comprensibile se si considera che l’attività liquidatoria difficilmente potrebbe essere in grado di presentare quel grado di effettività che si richiede ad una attività economica nel pieno del suo esercizio. Nel fare questo, come nel caso degli atti preparatori aveva teorizzato un giudizio prognostico, la Corte adotta una prospettiva che non guarda al presente, ossia all’effettività dell’esercizio, quanto piuttosto al passato, alla ricerca della permanenza del vincolo tra spese sostenute in fase liquidatoria e precedente attività, qualora non siano più compiute operazioni imponibili. In realtà, la Corte non chiarisce bene quale debba essere tale nesso, quale sia la sua origine, lasciando piuttosto pensare che sia necessario valutare i costi sostenuti nella stessa prospettiva adottata nel corso dell’esercizio. Ciò significa che il collegamento non dovrà necessariamente essere diretto o specifico tra operazioni identificate. Allo stesso modo non sarà garantito dalla natura o dalla destinazione di beni e servizi acquistati, trattandosi, come si è visto, di un criterio non 58 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto necessariamente risolutivo. Osservando questa interpretazione sembrano potersi desumere alcune considerazioni anche sulla fase attiva della liquidazione, cercando di valutare se, nella prospettiva comunitaria, le operazioni di liquidazione antecedenti alla definitiva cessazione dell’attività siano da considerarsi ordinariamente imponibili o estranee all’ambito di applicazione dell’imposta. Se infatti si ammette che l’esistenza dell’attività rilevante venga riconosciuta per la sola presenza di spese collegate al precedente esercizio e con essa si consente di mantenere soggettività passiva e diritto alla detrazione, diviene difficile negare la riconducibilità alla sfera di esistenza dell’attività di una fase di liquidazione attiva, volta a monetizzare il patrimonio dell’attività e ad esaurirne le pendenze giuridiche. In questo senso, non sussistono nella disciplina comunitaria elementi che evidenzino una differenza tra la fase di esercizio e la distinta fase liquidatoria. In realtà, è la stessa natura dell’attività economica rilevante ai fini dell’imposta ad implicare una certa uniformità: se si ritiene che l’attività si manifesti in una serie di atti consecutivi, rilevanti indipendentemente dallo scopo o dalla forma giuridica con cui sono compiuti, che presentino fra loro un certo collegamento, diviene difficile ipotizzare una distinzione tra le operazioni compiute nel corso dell’esercizio e quelle successive, soprattutto quando si tratti di operazioni comunque riconducibili alla categoria di quelle potenzialmente imponibili. Ciò a maggior ragione se si considera che la giurisprudenza della Corte di Giustizia deroga ad un’applicazione rigida del principio di effettività, prolungando l'esistenza dell'attività rilevante ai fini dell'imposta anche a fronte di sole operazioni passive. Necessaria ad individuare alcuni elementi utili può essere anche una considerazione circa la portata degli adempimenti formali. La Corte non affronta in questo caso il tema degli effetti degli adempimenti formali, essendosi trovata a decidere di un caso in cui l’operatore economico aveva mantenuto aperta la propria posizione di 59 Capitolo I soggetto passivo dell’imposta giusto al fine di continuare ad esercitare il diritto alla detrazione da questa derivante. Se dunque l’interpretazione dei giudici comunitari va nel senso di garantire la legittimità di un tale comportamento quando non sussista un comportamento fraudolento e la durata della liquidazione sia, di fatto, giustificata da cause indipendenti dal soggetto, nulla dice sulle ipotesi in cui invece l’attività sia formalmente cessata, ma permangano ancora beni ad essa riconducibili. Unendo le considerazioni circa gli effetti non costitutivi degli adempimenti formali ed il ruolo che in questa giurisprudenza viene attribuito al legame tra beni ed attività, sotto forma di rapporto di inerenza, potrebbe sostenersi che, indipendentemente dalla cessazione formale, le operazioni relative a questi beni dovrebbero continuare a considerarsi imponibili stante la permanenza di questo collegamento. Si ritiene, però, che sia più corretto accogliere qui un’interpretazione che, come accade nel caso degli atti preparatori, unisca l’oggettività del principio di inerenza al profilo soggettivo costituito dalle intenzioni del soggetto passivo e al valore riconosciuto agli adempimenti formali quale dimostrazione di queste. In questa prospettiva la rilevanza centrale del principio di inerenza affermata dalla sentenza esaminata si giustifica con la considerazione che con essa si voleva stabilire la riconducibilità alla sfera dell’imposta della fase liquidatoria garantendo l'applicabilità del diritto alla detrazione e non individuarne un limite temporale, come accade invece nel caso degli atti preparatori. Dovendo individuare tale limite, cui si collega anche la necessità di identificare una causa di interruzione del nesso prima evidenziato, sembra più utile accogliere la valutazione dell’elemento soggettivo che viene fatta in sede di determinazione dell’inizio dell’attività rilevante, non potendosi dimenticare che, in ogni caso, il nesso richiesto è fortemente caratterizzato sotto il profilo soggettivo, derivando la sua esistenza dalla volontà stessa del soggetto e dall’indirizzo da essa impresso. Ciò significa che, se nell’ambito dell’esercizio la valutazione può 60 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto essere condotta su un piano più oggettivo, guardando al vincolo di destinazione dei beni all’esercizio dell’attività, inevitabilmente nello studio delle fasi iniziale e finale assume rilevanza anche quello soggettivo, dovendosi considerare altresì il dato costituito dalla volontà dell’agente, sia che essa sia diretta al raggiungimento di un risultato economico sia che essa sia rivolta alla semplice soddisfazione di soci e creditori attraverso la monetizzazione del patrimonio dedicato all’attività. Anche in questo caso, dunque, escluso qualsiasi valore costitutivo alla dichiarazione di cessazione presentata dal contribuente e data la necessità che ad essa corrispondano elementi di fatto a conferma della buona fede del soggetto passivo, dovrebbe comunque ritenersi valido il principio per cui esse, in quanto espressione delle intenzioni del soggetto, dovrebbero mantenere la propria validità fintanto che non si dimostrino prive di elementi concreti a proprio sostegno o contrarie alle reali intenzioni del soggetto che si sostanziano in comportamenti abusivi. Se quindi la dichiarata intenzione di intraprendere un’attività economica è per la Corte elemento sufficiente a riconoscere la soggettività passiva all’operatore economico, allo stesso modo la dichiarata intenzione di cessarla dovrebbe ritenersi elemento sufficiente a far perdere la soggettività passiva e, soprattutto, ad interrompere il collegamento tra i beni eventualmente residui e la precedente attività, dando vita alle ultime ipotesi di imponibilità o di esercizio della detrazione. In conclusione, dunque, la riconducibilità nell'ambito dell'attività rilevante della fase liquidatoria può sintetizzarsi in due diverse considerazioni: da un lato, in presenza di operazioni attive l'attività dovrà considerarsi ancore in essere grazie al compimento da parte del soggetto passivo di operazioni imponibili, indipendentemente dalla presenza di uno scopo differente da quello dell'esercizio tipico; dall'altro, in presenza di sole operazioni passive, e quindi semplicemente di costi finalizzati alla chiusura dell'attività, essa dovrà considerarsi ancora esistente fintantoché permanga un collegamento tra 61 Capitolo I questi ed il precedente esercizio. Anche questa ricostruzione poggia sulla necessità di garantire la coerenza del sistema e la sua neutralità, da un lato, consentendo comunque di esercitare la detrazione a chi ancora agisca in veste di soggetto passivo e, dall'altro tutelando il trattamento omogeneo delle operazioni rilevanti ai fini dell'imposta, mantenendone l'imponibilità anche al di fuori dell'esercizio tipico quando rappresentino comunque una forma di immissione al consumo, costituita dal distacco dal circuito economico di beni e servizi effettuata da un soggetto passivo. In questo senso, l'imponibilità delle cessioni a titolo oneroso a scopo liquidatorio può collocarsi nella struttura ordinaria dell'imposta, fondandosi sul medesimo presupposto rappresentato da operazioni fra loro omogenee. Ad essa si affiancano, come si vedrà in seguito, le ipotesi di applicazione dell'imposta per autoconsumo a seguito di cessazione dell'attività, assimilate alle ordinarie operazioni imponibili pur in assenza di una cessione effettiva, proprio allo scopo di garantire la coerenza del sistema impositivo, attraverso l'imposizione di ogni forma di immissione al consumo di beni e servizi, e quindi anche attraverso il semplice possesso di beni aldilà della vita economica degli stessi, quando il loro acquisto abbia dato diritto alla detrazione dell'imposta applicata a monte. 2.3- L’autoconsumo e la destinazione a finalità all’impresa in relazione alla cessazione dell’attività estranee Per completare l’analisi sin qui condotta, è necessario, dunque, valutare quali siano, nell’ordinamento e nella giurisprudenza comunitaria, la portata e l’effettiva applicabilità dell’imposta per autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, assumendo tale ipotesi di imponibilità una notevole importanza sia nell’esame del rapporto con l’esercizio dell’attività sia, e soprattutto, nel rapporto con la sua cessazione. Sono diverse le norme che all’interno delle direttive Iva affrontano il caso della destinazione dei beni o dell’utilizzo dei servizi 62 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto dell’impresa a fini ad essa estranei, tra cui figurano anche l’utilizzo per il proprio personale e l’utilizzo privato da parte del soggetto passivo, cui viene equiparato anche il trasferimento a titolo gratuito. Dispone infatti l’art. 16 della Dir. 2006/112/CE 8 6 che è assimilato a una cessione di beni a titolo oneroso il prelievo di un bene dalla propria impresa da parte di un soggetto passivo il quale lo destina al proprio uso privato o all'uso del suo personale, lo trasferisce a titolo gratuito o, più generalmente, lo destina a fini estranei alla sua impresa, quando detto bene o gli elementi che lo compongono hanno dato diritto ad una detrazione totale o parziale dell'Iva. La stessa assimilazione avviene in seno all’art. 26 8 7 per quanto riguarda le prestazioni di servizi. Come chiarito ripetutamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la ratio di tali norme è quella di garantire la parità di trattamento tra il soggetto passivo che preleva un bene o usufruisce di un servizio che gli ha dato diritto alla detrazione dell’imposta versata a monte ed il consumatore finale che, invece, acquisti tali beni sul mercato 8 8 . La condizione di applicabilità dell’imposta in questi casi è il fatto che la detrazione sia stata effettuata e la misura in cui questo è avvenuto. Larga parte della giurisprudenza in materia si è infatti concentrata su questo profilo della norma, ossia sull’effettiva appartenenza dei beni all’impresa e la detrazione effettuata al momento dell’acquisto, stabilendo che il soggetto passivo è libero di scegliere se destinare un bene acquistato interamente all’uso privato, interamente all’impresa o in parte all’uno e in parte all’altra, restando escluso il diritto alla detrazione solo nel primo caso 8 9 . 86 Corrispondente all’art. 5, par. 6 della Sesta Direttiva 87 Corrispondente all’art. 6, par. 2, lett. a e b della Sesta Direttiva 88 In proposito si vedano CGCE, sent. 6 maggio 1992, C- 20/91, de Jong; CGCE, sent. 26 settembre 1996, C- 230/94, Enkler ; CGCE, sent. 27 aprile 1997, C- 48/97, Q8 Petroleum; CGCE, sent. 14 settembre 2006, C-72/05, Woolny. 89 Così in CGCE, sent. 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz; CGCE, sent. 4 ottobre 1995, C-291/92, Armbrecht; CGCE, sent. 8 marzo 2001, C- 415/98, Bakcsi; 63 Capitolo I Accanto a questa fattispecie, che la dottrina definisce come autoconsumo esterno, la disciplina comunitaria prevede anche la possibilità che l’imposta venga applicata nelle ipotesi di autoconsumo cosiddetto interno, che consiste nella destinazione da parte di un soggetto passivo alle esigenze della propria impresa, di un bene prodotto, costruito, estratto, lavorato, acquistato o importato nell'ambito di detta impresa, qualora l'acquisto del bene in questione presso un altro soggetto passivo non gli dia diritto alla detrazione totale dell'Iva 9 0 . La differenza tra le due ipotesi di autoconsumo consiste sostanzialmente nella fuoriuscita o meno del bene dall’attività economica, nonostante vi sia in entrambi i casi un mutamento della sua destinazione specifica 9 1 . In relazione alle due ipotesi sono però le stesse norme ad assumere un atteggiamento diverso: se l’autoconsumo esterno è in ogni caso assimilato alle operazioni imponibili, per quello interno il legislatore ha lasciato agli Stati membri la facoltà di scegliere se considerarlo come operazione imponibile o, al contrario, del tutto irrilevante ai fini dell’imposta. In proposito, un’altra norma assume rilevanza centrale soprattutto ai fini dell’indagine qui svolta. Alle disposizioni su autoconsumo e destinazione a finalità estranee che interessano, nell’ambito della Direttiva, la fase attiva dell’impresa o della professione, deve essere affiancata la norma contenuta nella lett. c dell’art. 18 la quale dispone CGCE, 14 luglio 2005, C-434/03, Charles- Charles- Tijmens 90 Art. 18, par. 1, lett. a Dir. 2006/112/CE. La disposizione era precedentemente contenuta nell’art. 5, par. 7 lett. a della Sesta Direttiva. 91 Sottolinea C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo cit.,1 ss. che l’assimilazione alle cessioni a titolo oneroso del c.d. autoconsumo interno trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di scoraggiare le integrazioni verticali nell’ambito delle imprese e di garantire parità di trattamento, sotto il profilo impositivo, tra beni acquistati e successivamente destinati ai bisogni dell’impresa e che non abbiano consentito la deduzione immediata o completa e beni prodotti dal soggetto passivo (o da un terzo per suo conto) utilizzati per le stesse finalità 64 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto che il possesso di beni da parte di un soggetto passivo o dei suoi aventi causa in caso di cessazione dell’attività economica imponibile, quando detti beni hanno dato diritto ad una detrazione totale o parziale dell'IVA al momento dell'acquisto o della loro destinazione conformemente alla lettera a), può essere dal legislatore nazionale assimilato ad una cessione imponibile. La chiarezza della lettera di questa disposizione è in grado di fornire alcuni elementi di grande importanza, in particolare nella risoluzione del quesito circa la capacità della cessazione dell’attività ad interrompere il legame tra beni ed impresa, dando vita all’ultima operazione imponibile imputabile all’attività cessata. Il legislatore comunitario ipotizza infatti un’ulteriore ipotesi di autoconsumo che si verifica allorquando in seguito alla cessazione dell’attività economica i beni ad essa pertinenti rimangano semplicemente nella disponibilità del soggetto passivo o dei suoi aventi causa, riferendosi presumibilmente in questi casi ai trasferimenti che avvengano mortis causa. Se ne desume pertanto che, al di fuori delle ipotesi che si verificano nel corso dell’esercizio dell’impresa, la presenza di una effettiva utilizzazione a fini privati dei beni non assume rilevanza, potendo l’imposizione conseguire anche alla mera inutilizzazione che, stante la cessazione dell’attività imponibile, ben può configurare un’ipotesi di immissione al consumo. Il legislatore comunitario riconosce, quindi, alla cessazione la capacità di interrompere il vincolo di inerenza tra beni ed attività, proprio perché venendo meno la stessa attività la permanenza del collegamento sarebbe infondata. A ben vedere questa norma si ispira alla stessa ratio delle precedenti, mirando a non creare una disparità di trattamento tra il soggetto che acquisti la disponibilità di un bene che gli ha dato diritto alla detrazione ed il consumatore finale. In tale prospettiva, a poco rileva che il soggetto passivo cessato ritragga un’effettiva utilità dal bene attraverso un utilizzo concreto, potendo tale utilità rimanere ad un livello meramente potenziale, insita nel semplice possesso. Essa rientra dunque fra le norme di chiusura che il legislatore comunitario 65 Capitolo I ha previsto per scongiurare il rischio che alcuni beni escano dal ciclo economico produttivo detassati, in attesa di un’utilizzazione che potrebbe di fatto mai verificarsi. Anche questa ipotesi di autoconsumo rientra tra le opzioni che la disciplina comunitaria lascia al legislatore nazionale, che resta libero di non attribuire rilevanza a tali ipotesi. Laddove però la norma venga adottata all’interno dello Stato membro, si ritiene che la sua applicazione non possa discostarsi da quanto qui evidenziato, anche in considerazione del fatto che la norma comunitaria, pur non essendo stata oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, fornisce elementi sufficientemente chiari da non porne in dubbio la reale portata. In conclusione, dunque, sembra emergere dalla disciplina comunitaria l’intenzione di sottoporre a tassazione tutte le ipotesi 9 2 , diverse da trasferimento o prestazione al consumatore finale, in cui il bene o il servizio fuoriesca dall’orbita dell’attività economica e del circuito economico in generale, facendo venire meno la necessità di esentare il soggetto passivo dal peso dell’imposta sopportata per le spese sostenute a monte. In questi casi, contrariamente a quanto accade nel corso dell’esercizio, per garantire la coerenza del sistema e soprattutto per il rispetto del principio di neutralità, intesa qui come parità di trattamento, non è più necessario tutelare il diritto alla detrazione, ma al contrario si deve garantire l’applicazione dell’imposta nel modo più generale ed esteso, evitando di trascurare ipotesi che, forse, nel regime ordinario non sarebbero rilevanti. Il legislatore comunitario prevede, dunque, operazioni imponibili per assimilazione che non si ricollegano, se non sotto il profilo della 92 L’unico caso che può escludersi, sempre a discrezione del legislatore nazionale, è quello della cessione onerosa o gratuita dell’azienda o del suo conferimento in società, ipotesi in cui l’art. 19 consente la possibilità di considerare il trasferimento come non avvenuto ed il cessionario come continuazione della persona del cedente, venendo dunque meno la necessità di applicare l’imposta all’operazione. 66 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto detrazione effettuata, con l’attività economica. Non c’è la necessità che si rispettino caratteristiche specifiche, né che si svolgano giudizi sul rapporto con l’attività. Considerando in particolare l’ultima ipotesi prevista, l’autoconsumo per possesso dei beni, si possono però trarre importanti indicazioni sul tema che ci interessa. Una prima osservazione è necessaria: se si guarda al contesto fino ad ora esaminato appare evidente che l’autoconsumo in oggetto troverà applicazione solo contestualmente alla cessazione formale, data l’ordinaria imponibilità della fase liquidatoria pur in assenza di esercizio tipico. Una sua applicazione in un momento diverso non avrebbe senso, perché si sovrapporrebbe ad altre ipotesi imponibilità. Da questa considerazione si può trarre un’importante conclusione circa il ruolo e gli effetti della cessazione dell’attività nel sistema dell’imposta. Essa rappresenta l’ultima fattispecie imponibile ipotizzata dalle norme cui consegue la definitiva fuoriuscita del soggetto e dei beni dal sistema Iva. Si deve però chiarire a quale cessazione si fa riferimento; il regime di imponibilità e detrazione ordinaria della fase liquidatoria impone, come si è sostenuto in precedenza, di escludere la rilevanza della cessazione di fatto dell’attività tipica: fintanto che il soggetto passivo si comporti in quanto tale compiendo operazioni attive di liquidazione, collocabili tra quelle imponibili, o sostenendo costi all’attività collegati e sia quindi ancora individuabile un collegamento, sia oggettivo che soggettivo, tra il precedente esercizio e la fase conclusiva della via dell'attività, a poco rileverà il mutamento dello scopo da commerciale a liquidatorio. Come sottolineato dalla Corte nella sentenza Fini H, deve infatti considerarsi sufficiente a garantire la sopravvivenza di un'attività rilevante ai fini dell'imposta e, di conseguenza, il mantenimento della soggettività passiva e della titolarità del diritto alla detrazione, la presenza di un collegamento tra la precedente attività ed i costi sostenuti per la sua chiusura, o comunque in assenza di esercizio. In questi casi, dunque, non potrebbe ancora trovare applicazione la norma in esame che dispone l'autoconsumo alla cessazione dell'attività, 67 Capitolo I perchè secondo l'interpretazione resa dai giudici europei, la cessazione dell'attività imponibile non si è ancora verificata. D’altro canto, la previsione di una norma di chiusura come l’autoconsumo per possesso dei beni residui porta ad escludere la possibilità che il nesso su cui si fonda la detrazione possa mantenersi all’infinito, garantendo la sopravvivenza di attività imponibile e soggetto passivo sino ad una cessione effettiva, salvo rendere del tutto priva di contenuto ed efficacia la norma. Unendo a tali considerazioni a quelle svolte in precedenza circa la rilevanza, dalla stessa Corte dimostrata, del profilo soggettivo nella prospettiva dinamica dell’attività economica, diviene inevitabile attribuire la qualifica di ultima fattispecie imponibile alla cessazione formale dell’attività economica. Essa, diretta conseguenza dell’intenzione di interrompere l’attività manifestata dal soggetto attraverso la dichiarazione di cessazione, e già dimostrata dal compimento della fase liquidatoria e dalla cessazione dell’attività tipica, è in grado di segnare il momento di effettiva fuoriuscita di soggetto e beni dal circuito economico, permettendo di tutelare, da un lato, l’integrità del sistema e, dall’altro, la certezza del diritto per il soggetto passivo, che da quel momento non potrà più considerarsi tale, fatta salva la dimostrazione del suo comportamento fraudolento sancito dalla continuazione, non dichiarata, dell’attività imponibile. 2.4- Il principio di neutralità quale ratio della nozione unitaria di attività economica Dall’esame sin qui condotto emergono profili diversi che caratterizzano l’interpretazione della Corte di Giustizia nelle diverse ipotesi in cui è stata chiamata a pronunciarsi circa l’esistenza dell’attività, o meglio circa la riconducibilità delle operazioni compiute all’attività rilevante ai fini della soggettività passiva all’imposta, dell’imponibilità delle operazioni stesse e del riconoscimento del diritto alla detrazione. 68 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto L’apparente diversità nella prospettiva adottata dalla Corte attraverso l’individuazione di criteri non uniformi non deve però essere considerata come un ostacolo all’individuazione di un filo conduttore che conduca ad unità tali pronunce, quali espressione del principio di neutralità che, inevitabilmente, assume connotati in parte differenti a seconda del contesto in cui viene inserito. Riassumendo brevemente ciò che risulta dall’interpretazione, soprattutto dell’art. 4 della Sesta Direttiva, si può sostenere che: -) quando si tratta di riconoscere la rilevanza di una attività economica concretamente esercitata, la Corte ne esamina la corrispondenza alle caratteristiche indicate dalla norma quali l’economicità, l’obiettivo commerciale, il collegamento con il mercato, l’abitualità e l’indipendenza. Quando sia dunque certo l’esercizio, sotto il profilo del principio di effettività, e non possa porsi in dubbio l’esistenza di un’attività, la Corte si concentra sulla sua rispondenza ai presupposti delineati, sulla base dei quali è possibile riconoscere soggettività passiva, imponibilità delle operazioni e diritto alla detrazione. In questi casi, la Corte procede ad un esame di stampo sostanzialmente oggettivo, in cui assumono rilevanza i dati concretamente riscontrabili, tra cui vengono indicati come possibili indici le modalità di svolgimento dell’attività, la tipologia dei beni utilizzati ed il collegamento tra questi e l’attività svolta. -) la prospettiva della Corte muta quando si tratta, invece, di definire non se un’attività sia economica ai sensi della Direttiva, ma se essa sia già iniziata. In questi casi la giurisprudenza comunitaria abbandona un approccio rigidamente oggettivo, allargando le maglie della propria interpretazione sino ad attribuire rilevanza al profilo soggettivo della fattispecie, rappresentato dall’intenzione manifestata dal soggetto agente. La nozione già ampia di attività economica contenuta nelle Direttive e specificata dalla Corte subisce un’ulteriore estensione, in virtù della quale viene mitigato il carattere stringente 69 Capitolo I delle caratteristiche prima evidenziate, divenendo sufficiente la semplice possibilità che tali caratteristiche si manifestino compiutamente in un momento successivo. Nell’interpretazione resa in tema di atti preparatori, la Corte concilia quindi il proprio approccio generalmente oggettivo e sostanziale, pur presente nella necessità di riscontri obiettivi che, anche in questo caso, possono ricondursi ad una verifica dell’inerenza, con un giudizio prospettico che, inevitabilmente, porta a coinvolgere la volontà del soggetto passivo, rendendo necessaria la valutazione dell’idoneità e della potenzialità economica delle operazioni effettuate, presunta in tutti quei casi in cui la buona fede del soggetto agente non sia contraddetta dalla verifica della presenza di intenti abusivi. -) la prospettiva della giurisprudenza sembra mutare nuovamente quando la Corte deve stabilire la rilevanza delle operazioni, attive o passive, imputabili alla fase di liquidazione dell’attività economica. Anche in questo caso, la valutazione delle sole caratteristiche dell’attività non appare sufficiente, in considerazione del fatto che la vera e propria attività, guidata dal principio di effettività, potrebbe essere non più ravvisabile. Se, dunque, con riguardo agli atti preparatori si rende necessario un esame prospettico della loro idoneità a dare vita ad un’attività che sia economica nell’accezione accolta dal diritto comunitario, in questi casi la Corte introduce un esame rivolto al passato, recuperando un approccio maggiormente oggettivo, al fine di identificare la permanenza di un collegamento tra questa fase e la precedente attività, nesso che da solo è considerato sufficiente al mantenimento della soggettività passiva all’imposta. Nei tre casi esaminati, il ragionamento svolto dalla Corte sembra andare i direzioni differenti, attribuendo importanza centrale di volta in volta ad elementi diversi. A ben vedere, però, esiste un preciso filo conduttore che permette di ricondurre ad unità i giudizi della Corte. Tale legame è costituito dal principio di neutralità caratteristico dell’imposta, la cui applicazione 70 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto porta, a seconda dei casi, ad affermare la prevalenza di alcuni elementi sugli altri. Se nel definire le caratteristiche dell’attività economica esso porta ad estenderne la portata per coinvolgere tutti gli stadi del processo produttivo sino al mercato, escludendo solo quelle tipologie di attività che sono del tutto ininfluenti sul ciclo economico produttivo e sugli equilibri del mercato, nello stabilire quando l’attività rilevante inizi o finisca sono altri gli elementi che l’esigenza di neutralità pone in luce. In questa prospettiva, dunque, con riguardo alla fase iniziale dell’attività economica viene limitata la rilevanza dell’effettivo esercizio di un’attività rivolta al mercato, nel tentativo di prevenire gli effetti negativi che un ritardo nel riconoscimento della soggettività passiva potrebbe avere, addossando all’operatore economico il costo fiscale della fase di avvio dell’attività, come se questi fosse un consumatore finale. In tale contesto, non avendosi un esercizio in base al quale valutare il nesso tra le operazioni, è inevitabile che assuma rilevanza l’elemento soggettivo, pur se mitigato dalla necessità che risulti oggettivamente dimostrabile. Le medesime esigenze di garantire la neutralità dell’imposta per l’operatore economico portano all’ulteriore estensione dell’applicabilità dell’imposta ai casi di liquidazione. In questi casi, esistendo già un’attività che funga da elemento di confronto, recupera centralità il profilo dell’oggettivo collegamento tra le operazioni, senza che sembri necessario valutare l’elemento intenzionale. Dalla centralità della tutela della neutralità del sistema dell’imposta deriva il ruolo fondamentale attribuito al corretto esercizio del diritto alla detrazione, che del principio di neutralità è prima e diretta applicazione. I giudizi della Corte appaiono, dunque, costantemente volti a garantire l’esercizio della detrazione, anche sotto forma di rimborso dell’eccedenza versata, in tutti quei casi in cui non sia dimostrabile un intento fraudolento del soggetto passivo. In questa prospettiva, anche il richiamo alla necessità di un nesso tra le operazioni a monte e quelle a valle assume connotati più sfumati, fino a confluire in un generale 71 Capitolo I collegamento tra le spese sostenute e l’attività economica nel suo complesso, pur in assenza di operazioni imponibili compiute dal soggetto passivo. In questo senso, diventa allora fondamentale il richiamo fatto dalla Corte alla necessità di certezza del diritto, principio che implicherebbe, in assenza di elementi che testimonino un abuso, l’impossibilità per gli organi amministrativi di disconoscere soggettività passiva e detrazione qualora i necessari presupposti vengano meno in un momento successivo al loro iniziale riconoscimento e indipendentemente dal comportamento del contribuente. Da questa linea interpretativa discende, infine, quanto sancito dalla Corte in tema di adempimenti formali, laddove ha affermato che essi non hanno rilevanza costitutiva, nel senso che la loro mancanza non è in grado di influire sul piano sostanziale per quanto attiene ad attribuzione della soggettività passiva e riconoscimento del diritto alla detrazione, dichiarandone tuttavia la capacità a raggiungere tale scopo quando costituiscano manifestazione in buona fede delle reali intenzioni del soggetto interessato. A ben vedere, pertanto, le pronunce della Corte relative alle diverse fasi dell’attività economica possono considerarsi manifestazione dello stesso principio, alla cui affermazione tutta l’opera dalla giurisprudenza comunitaria è volta. Ne consegue che nel sistema dell’imposta il ruolo dell’attività economica deve considerarsi unitario, indipendentemente dalla fase in cui essa si trovi, fulcro della struttura impositiva e, in virtù di questa funzione, necessario perché la sua neutralità, in quanto principio fondamentale, e l’esercizio della detrazione, quale strumento primario per l’attuazione di tale principio, trovino compiuta realizzazione. Ciò significa anche che, laddove non sia sancito il contrario e ne sussistano concrete possibilità, le indicazioni ricavabili in relazione ad un particolare momento della vita dell’attività dovrebbero trovare applicazione anche nelle altre, attribuendo una maggiore omogeneità all’approccio frammentario e casistico che solitamente caratterizza 72 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto l’opera della Corte di Giustizia e l’ordinamento comunitario nel suo complesso. Sulla base di questa considerazione si ritiene che il ragionamento applicato alla fase degli atti preparatori, nel senso del ruolo dell’intenzione del soggetto e degli adempimenti formali, debba guidare altresì l’interpretazione che tenti di individuare il momento di cessazione dell’attività rilevante, valutando anche in quel contesto il ruolo del soggetto e della sua volontà di porre fine all’attività economica, rappresentata in questo caso dalla dichiarazione di cessazione che, come si è visto, le stesse norme comunitarie impongono. In particolare, inoltre, l’idea che la manifestazione dell’intenzione della volontà di cessare possa assumere un qualche rilievo, sia nella determinazione del momento di reale cessazione sia dal punto di vista dell’applicazione dell’imposta, appare del tutto coerente con le disposizioni in materia di autoconsumo che si sono illustrate ed in particolare con il disposto dell’art. 18, par. 1 lett. c), da cui si ricava che il legislatore comunitario ha voluto riconoscere alla cessazione dell’attività un’efficacia estintiva sul nesso che lega tra loro le operazioni compiute ed i beni con l’attività. In questo senso, date l’inclusione della liquidazione nell’attività economica rilevante e l’applicabilità dell’imposta per autoconsumo alle ipotesi di beni che residuino nella disponibilità del soggetto passivo, deve ritenersi che, esaurita o meno la fase liquidatoria, l’esistenza dell’attività rilevante ai fini dell’imposta cesserà nel momento in cui avvenga la sua formale chiusura, ovvero quando il contribuente concretizzerà la propria intenzione di cessare l’esercizio anche attraverso le necessarie formalità, momento in cui, per il rispetto della neutralità e della coerenza dell’Iva, essa verrà applicata sul valore di tutti quei beni che abbiano in passato garantito il diritto alla detrazione. In questo momento dovrebbe potersi ritenere definitivamente conclusa l'attività rilevante ai fini dell'imposta e conseguentemente persa la soggettività passiva ad essa collegata. Coerentemente con la 73 Capitolo I struttura dell'Iva e con il meccanismo di attribuzione della soggettività passiva in funzione del riconoscimento dell'esistenza dell'attività economica, nella prospettiva dell'imposta il soggetto dovrebbe terminare la propria esistenza contemporaneamente alla cessazione definitiva dell'attività, a nulla rilevando profili legati alla struttura e alle differenti vicende giuridiche del soggetto stesso. Come si illustrerà brevemente in seguito, non sembrano infatti potersi rilevare a livello comunitario differenze nella disciplina o negli orientamenti interpretativi che dipendano dalla natura giuridica del soggetto e, di conseguenza, dalla disciplina sostanziale ad esso applicabile. Essendo l'attività l'elemento centrale della costruzione del modello di soggettività passiva, ne discende che siano le vicende di questa ad avere la capacità di influire sull'esistenza o la sopravvivenza del soggetto e non, nella prospettiva dell'imposta, il contrario. A sostegno della ricostruzione qui proposta dovrebbe potersi portare, infine, anche il suggerimento proveniente dalla Corte di Giustizia sul profilo temporale della fase liquidatoria. Come si è detto, essa, indipendentemente dall’esercizio effettivo dell’attività tipica o dal compimento di operazioni attive, viene ricondotta nel solco dell’attività rilevante ai fini dell’imposta fintanto che la sua durata non manifesti intenti fraudolenti del soggetto passivo. L’ordinamento comunitario non entra nel merito sotto un profilo sostanziale, non fornendo alcun elemento, diverso dal nesso con la precedente attività, che permetta di distinguere tra fase liquidatoria rilevante o non rilevante, né sotto il profilo della tipologia delle operazioni compiute né sotto quello, si è detto, della durata. Ciò significa che, argomentando a contrario, è possibile sostenere che, quanto meno ai fini dell’imposta, il contribuente sia libero di determinare la cessazione dell’attività economica nel momento che ritenga più opportuno, a nulla rilevando il completamento della liquidazione dell’attività o, addirittura il suo svolgimento. Ciò significa che difficilmente potranno individuarsi indici di cessazione dell’attività ai fini dell’imposta unicamente sul piano oggettivo, fondandosi sul rapporto di inerenza o sulla tipologia delle 74 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto operazioni, ignorando le indicazioni che emergono invece da un analisi condotta anche sul piano soggettivo, proprio perché, come si è visto, da un lato, la fase liquidatoria, ordinariamente inserita nel sistema impositivo, è vincolata alla volontà del soggetto passivo, sia sotto il profilo sostanziale, quanto al suo svolgimento e alle modalità, che sotto quello temporale, quanto alla durata, e, dall’altro, a nulla sembra rilevare la cessazione di fatto dell’attività tipica ed il conseguente mancato rispetto dell’effettività propria dell’esercizio. In conclusione, pertanto, sembra potersi ritenere che la natura complessa riconosciuta al presupposto costituito dall’attività economica, l’irrilevanza dell’esercizio effettivo nella fase terminale e la presenza di una norma all’interno della stessa Direttiva che prevede comunque l’applicazione dell’imposta al momento della cessazione rendano necessaria, nella ricerca di criteri per determinare la cessazione dell’attività, un’analisi più ampia di quella esclusivamente oggettiva e fondata sul rapporto di inerenza, imponendo di valorizzare e valutare accanto ad esso anche l’elemento soggettivo, rappresentato dal soggetto passivo e dalle sue intenzioni, manifestate anche attraverso gli adempimenti formali prescritti dall’ordinamento. 2.5 Attività giuridiche economica, cessazione e rilevanza delle forme Ricostruita in questi termini la nozione di attività economica rilevante ai fini dell’imposta, sia sotto il profilo statico sia nelle sue diverse fasi, occorre svolgere alcune brevi considerazioni circa il ruolo che in questo contesto possono avere le forme giuridiche con cui l’attività viene svolta, al fine di determinare se, all’interno dell’ordinamento comunitario, sia possibile individuare differenze simili a quelle che, come si esporrà in seguito, sono ben evidenti nel contesto nazionale. All’inizio dell’esposizione si è sottolineata come principale peculiarità del sistema d’imposta creato dalle norme comunitarie il loro fondarsi su nozioni proprie, costruite su concetti principalmente 75 Capitolo I economici, in termini generali ben distinti dagli istituti giuridici tipici degli ordinamenti nazionali. In particolare, con riguardo all’attività economica ed al suo ruolo di elemento qualificante per l’attribuzione della soggettività passiva, si è sottolineata la particolare tecnica giuridica che, individuato un fenomeno economico concreto, fa di esso stesso oggetto e soggetto della disciplina, attraverso una costruzione caratterizzata da statuizioni negative più che dalla costruzione di un modello positivo. Manca dunque nelle norme comunitarie la costruzione di una specifica fattispecie giuridica in base a cui qualificare i fatti esaminati, come invece accade negli ordinamenti degli Stati membri. Questa particolarità della legislazione europea unita alla ratio dell’imposta, che impone la ricerca del più vasto ambito di applicazione, ha fatto sì che più volte la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia si sia pronunciata circa la sostanziale irrilevanza, ai fini dell’integrazione del presupposto, delle forme giuridiche assunte da operazioni che nella sostanza corrispondono all’esercizio di un’attività economica rilevante ed appaiono con essa collegati. Ma cosa significa questo allontanamento da una costruzione strettamente giuridica? Si ritiene che la risposta a questo interrogativo vada riassunta nell’assenza all’interno della disciplina comunitaria dell’imposta di qualsiasi automatismo nella qualificazione dei fatti esaminati, automatismo che sarebbe logica e naturale conseguenza della previsione di fattispecie giuridicamente ben definite. L’assenza di questo rapporto diretto tra previsione normativa e qualificazione del dato fattuale appare ben evidente in relazione a diversi elementi dell’imposta. In primo luogo, deve guardarsi alla stessa definizione delle operazioni imponibili. Le norme comunitarie, per ovvie ragioni connesse alla natura di norme di armonizzazione, non potevano assumere modelli negoziali tipici, a meno che non si volesse procedere ad una precisa elencazione di tutte le forme che all’interno dei paesi membri possono assumere cessioni di beni e prestazioni di servizi. Le operazioni imponibili non vengono dunque distinte e classificate 76 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto in base a modelli contrattuali tipici né, di fatto, in base ai propri possibili effetti giuridici, ma al contrario vengono individuate sulla base del proprio contenuto economico e, dove questo non è apparso sufficiente, in base alla natura del loro oggetto 9 3 . L’indifferenza dell’ordinamento comunitario di fronte alla forma giuridica delle operazioni imponibili è del resto confermata dall’interpretazione della Corte di Giustizia che ha ribadito un approccio sostanziale e non formale nei confronti delle operazioni che costituiscono l’attività rilevante 9 4 . Lo stesso atteggiamento di sostanziale indifferenza sembra doversi riconoscere anche per quanto riguarda la prospettiva soggettiva dell’imposta, ovvero nell’identificazione del soggetto passivo. Anche in questo caso, non essendo previsto un particolare modello giuridico di per sé rilevante, il soggetto passivo viene identificato con il soggetto agente cui è imputabile l’attività economica rilevante ai fini dell’imposta, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche del singolo soggetto. Sembra, dunque, che il legislatore comunitario, spinto dalla necessità di estendere quanto più possibile l’ambito di applicazione dell’imposta, collochi tutti i soggetti sullo stesso piano, non attribuendo rilevanza alle loro caratteristiche intrinseche quanto piuttosto al loro ruolo di esercenti un’attività economica. Del resto, nel sistema dell’imposta un soggetto esiste esclusivamente in due forme ben definite: soggetto passivo o consumatore finale, senza che sia possibile identificare altre posizioni rilevanti. 93 Diversamente da quanto accade, ad esempio, nell’ordinamento italiano che individua le operazioni in base a modelli contrattuali tipici o, comunque, in funzione degli effetti giuridici, creando, tra le altre cose, ipotesi di non corrispondenza e, quindi, di difficile coordinamento con le classificazioni proprie di altri settori dello stesso ordinamento 94 Si vedano ad esempio CGCE, sent. 14 febbraio 1985, C-268/83, Rompelman cit., p. 22 ss; sent. 21 ottobre 2004, causa C-8/03, BBL, punto 36; sent. 4 dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem, punto 18; 11 luglio 1996, causa C-306/94, Régie dauphinoise, punto 15; 29 aprile 2004, causa C-77/01, EDM, punto 48. 77 Capitolo I L’irrilevanza della forma giuridica, anche in questo caso, è ben dimostrata sia dalla lettera della Direttiva sia dalle pronunce interpretative della Corte di Giustizia. Primo elemento è infatti costituito dal chiunque che apre l’art. 9 della Direttiva Iva, prescindendo da qualsiasi distinzione sia sotto il profilo della qualifica dell’attività (impresa o professione) sia sotto il profilo della struttura propria del soggetto (persona fisica o ente collettivo; soggetto di diritto privato o di diritto pubblico). Come appena detto, il soggetto passivo è identificato in funzione dell’attività economica e quindi del suo ruolo di agente, tanto basta perché il presupposto sia integrato. L’attribuzione della soggettività passiva passa sempre attraverso il vaglio della rilevanza dell’attività svolta o che si è intenzionati a svolgere, non sussistendo elementi che ne consentano un riconoscimento automatico sulla base della sola struttura giuridica del soggetto 9 5 . Questa considerazione appare ben evidente anche nella giurisprudenza, laddove si osservi che i giudici europei si pronunciano in modo uniforme indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto 9 6 . Allo stesso modo, l’assenza di un qualsiasi meccanismo di attribuzione automatica indipendente dalla verifica dell’attività è chiaro se si osserva quel filone giurisprudenziale che nega la soggettività passiva, ad esempio, delle holding pure, società che esercitando un’attività ritenuta non economica ai fini dell’imposta sono considerate esterne al suo ambito di applicazione, sia sul lato passivo –in relazione al diritto alla detrazione- che su quello attivo – circa l’imponibilità delle operazioni compiute- 9 7 . 95 Come accade ad esempio nell'ambito dell'ordinamento italiano, laddove si prevede una presunzione di soggettività per le società commerciali. 96 Si pensi, ad esempio, alle sentenze in tema di atti preparatori che esprimono principi uniformi riferibili sia alle persone fisiche (Rompelman, Lennartz) sia alle società (Inzo, Gabalfrisa). 97 Si veda in particolare CGCE, sent. 20 giugno 1991, causa C-60/90, Polysar Investments Netherlands. 78 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Sulla base di queste osservazioni appare chiaro come l’attività economica sia considerata un concetto unitario e a sé stante, indipendente sia dalla specifica forma giuridica che assumono le operazioni di cui si compone sia da quella che caratterizza il soggetto cui l’attività si a riferibile. Individuata questa nozione unitaria, le differenti forme giuridiche potranno eventualmente assumere una qualche rilevanza, soprattutto sul piano nazionale, al fine di individuare la tipologia degli atti che possono assumere rilevanza ai fini dell’esercizio dell’impresa. O meglio, posta la categoria attività economica, dotata di proprie caratteristiche ben individuate sia dal legislatore che dalla giurisprudenza, ciò che muta in funzione soprattutto della natura del soggetto passivo è l’oggetto materiale, il tipo di atti che possono essere ricondotti all’attività, non le caratteristiche dell’attività stessa. Ciò implica, si crede, che nell’esaminare gli aspetti problematici e controversi relativi all’attività si debba tentare di individuare una soluzione unitaria e generale che guardi all’attività in quanto tale, sfuggendo ad un approccio casistico che dovrebbe, necessariamente, tenere conto anche delle differenze generate dalle diverse forme giuridiche disciplinate a livello nazionale. Poste queste premesse, il medesimo ragionamento dovrebbe risultare applicabile a tutte le fasi dell’attività, quindi anche alla sua cessazione. Dovrebbe, dunque, potersi affermare che, a livello comunitario, è possibile individuare una soluzione unitaria circa la riconducibilità della liquidazione all’attività stessa e all’individuazione del momento di cessazione, prescindendo da quegli Nello stesso senso, in dottrina, C OM E LLI , Iva comunitaria cit., 353 ss.; F IC AR I , Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, Riv. Dir. Trib., 1999, I, 562 ss.; G IO R G I , La detrazione cit., p.123 ss.; I D E M , L'effettuazione di operazioni nel campo di applicazione dell'Iva nell'attribuzione della soggettività passiva e del diritto alla detrazione d'imposta: profili comunitari ed interni, in Rassegna Tributaria, 1999, n. 1; T ERRA - W ATTEL, European Tax Law, Kluwer Law International, 2006, 331 ss. 79 Capitolo I elementi che, invece, a livello nazionale creano le maggiori difficoltà, ossia la natura individuale o collettiva del soggetto passivo. Sulla base della giurisprudenza richiamata, principio fondamentale individuato dalla Corte di Giustizia per garantire il diritto alla detrazione anche nella fase conclusiva dell’attività è la sussistenza di un collegamento tra le spese sostenute e la precedente attività, legame in grado di sopperire, in funzione del principio di neutralità, alla mancanza di un esercizio effettivo e, quindi, di operazioni imponibili. Nella prospettiva opposta, ovvero con riguardo alle operazioni attive di liquidazione, si è ritenuto che non sia individuabile né nelle norme né nella giurisprudenza un elemento che individui una cesura tra fase produttiva e fase meramente liquidatoria, da considerarsi dunque, nella prospettiva comunitaria, parte integrante dell’attività stessa senza che la differenza di scopo, mutato da produttivo a liquidatorio, possa di fatto influire sulla riconoscibilità dell’esercizio in corso. Pertanto, integrando una possibile fase liquidatoria all’interno dell’attività stessa ed accogliendo il principio espresso dalla giurisprudenza per cui anche solo in presenza di costi collegati all’attività precedente e necessari per la sua chiusura, sembra potersi sostenere che vengono individuati due principi che, riguardando l’attività economica rilevante in quanto tale non dovrebbero essere influenzati dalle diverse tipologie di soggetto passivo, sia esso persona fisica o società o ente commerciale. Del resto, la pronuncia Fini H richiamata parla di soggetto in termini generici e, pur riguardando nel caso concreto una società di persone, non sembra contenere elementi che ne rendano i principi non applicabili, ad esempio, anche alle persone fisiche. Non dovrebbero quindi trovare spazio, nel contesto comunitario, le differenze che, nella disciplina sostanziale a livello nazionale, vengono ricondotte alla distinzione tra persona fisica, la cui attività cesserebbe immediatamente in coincidenza con la cessazione dell’esercizio dell’attività tipica, e la società che, obbligata ad un procedimento di liquidazione, vedrebbe la cessazione della propria 80 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto attività solo al compimento della liquidazione, che coincide solitamente con l’estinzione dello stesso soggetto giuridico. In primo luogo, come si è visto, la necessità di garantire la neutralità dell’imposizione conduce la giurisprudenza della Corte di Giustizia ad attenuare la portata del principio di effettività, motivo per il quale l’attività economica nell’accezione comunitaria continua ad esistere anche in assenza di esercizio. A fronte di un collegamento tra i costi per la cessazione e l’attività che in precedenza ha consentito l’attribuzione della soggettività passiva sembra divenire irrilevante la diversa natura giuridica del soggetto agente che da sola non è in grado di incidere sull’esistenza di tale legame. Infatti, pur in assenza di un patrimonio separato, come nel caso della persona fisica, è ben possibile che il collegamento precedentemente impresso possa permanere anche sul piano oggettivo, soprattutto nel caso in cui i costi sostenuti trovino la propria ragione direttamente nell’esercizio passato. Da questo punto di vista, non dovrebbe influire nemmeno lo svolgimento o meno di una fase liquidatoria, il cui compimento ha la capacità unicamente di incidere sotto un profilo temporale anticipando o posticipando l’interruzione delle operazioni attive e del legame tra costi e attività. Ciò significa che, anche nel caso della persona fisica, l’abbandono dell’attività tipica potrà avere la valenza di una cessazione definitiva ai fini dell’imposta, generando eventualmente un’imposizione in autoconsumo, quando non siano identificabili né una fase liquidatoria attiva né costi ad essa collegati in grado di garantire il mantenimento della soggettività. Se invece anche l’imprenditore individuale darà luogo ad una fase liquidatoria, come accade per gli enti collettivi, la cessazione dell’attività ai fini dell’imposta dovrà necessariamente collocarsi in un momento successivo. Per quanto riguarda più strettamente gli enti collettivi, mancando una previsione che vincoli sul piano comunitario soggettività passiva ed esistenza stessa del soggetto, l’inserimento all’interno del sistema dell’imposta della fase liquidatoria o, comunque, di una fase priva di esercizio antecedente all’estinzione del soggetto giuridico dovrebbe 81 Capitolo I valutarsi secondo gli stessi principi, verificando se le operazioni compiute o i costi sostenuti manifestino ancora un legame con l’attività garantendone la sopravvivenza. Del resto, anche a livello nazionale dove esiste una presunzione di soggettività legata alla forma giuridica, è ben possibile che l’attività rilevante ai fini dell’imposta venga meno, ma il soggetto giuridico sopravviva, come può accadere nel caso in cui a seguito di un cambiamento dell’oggetto sociale l’attività svolta non sia più qualificabile come economica ai fini dell’imposta. In questi casi, in una prospettiva aderente all’ordinamento comunitario, dovrebbe esserci una perdita della soggettività passiva ai fini dell’imposta, pur restando in vita il soggetto giuridico in quanto tale. Secondo questa ricostruzione, dunque, come accade in rapporto all’avvio e all’esercizio dell’attività, le differenze tra una tipologia di soggetto giuridico e l’altro dovrebbero ritenersi in grado di incidere unicamente sul piano materiale, ovvero sulla tipologia degli atti in grado di integrare il presupposto, ma non sul piano dei principi generalmente applicabili. Come più volte evidenziato dalla stessa giurisprudenza comunitaria, il collegamento richiesto agisce su un piano oggettivo che si ricollega all’attività in quanto tale, non essendo vincolato alla natura del soggetto che da sola non può garantire la presenza della soggettività passiva, nemmeno nel caso degli enti tipicamente commerciali. Su questo punto è però necessaria un’ulteriore precisazione. Nelle pagine precedenti, si è infatti sostenuta la necessità, sulla scorta anche delle pronunce in materia di atti preparatori, che venga attribuita una maggiore rilevanza al profilo soggettivo del presupposto. L’elemento soggettivo cui ci si riferisce non è però legato alla natura del soggetto, quanto piuttosto al ruolo che la volontà del soggetto può avere sull’esistenza e sul mantenimento di quel legame che si è visto necessario e che si manifesta in termini oggettivi. Come riconosciuto dalla giurisprudenza in tema di diritto alla detrazione e legame tra operazioni passive ed attività, la destinazione di un bene o di un servizio all’esercizio dell’attività è un fatto 82 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto tipicamente volontario, tant’è vero che la possibilità di detrarre integralmente o parzialmente l’imposta corrisposta dipende da una scelta del soggetto passivo. Allo stesso modo, l’elemento soggettivo assume un’importanza centrale nella determinazione dell’avvio dell’attività, laddove pur in assenza di operazioni imponibili che integrino esercizio è riconosciuta la possibilità di attribuire la soggettività passiva sulla base dell’intenzione manifestata in buona fede di intraprendere un’attività economica. Sullo stesso piano, il medesimo ruolo dovrebbe riconoscersi anche nel caso della cessazione, attribuendo alle intenzioni del soggetto la possibilità di interrompere il collegamento precedentemente impresso, con conseguente perdita della soggettività passiva. Anche in questo caso, dunque, lungi dal prevedere meccanismi automatici incompatibili con la struttura dell’imposta comunitaria, dovrebbe riconoscersi alla volontà del soggetto, individuato in funzione dell’attività economica, la possibilità di definire un limite dell’attività rilevante, pur senza influire su quella che è la sua sostanza. In questo senso, dunque, anche nel caso della cessazione dell’attività, riacquistano rilevanza gli adempimenti formali, pur senza riconoscere ad esse alcuna portata costituitiva. A ben vedere, dunque, in questa prospettiva il soggetto assume un ruolo quale elemento generico, indipendentemente dalle proprie caratteristiche giuridiche. Come si vedrà in seguito riguardo all’ordinamento nazionale, e come appare del resto chiaro anche nella prospettiva comunitaria, la sola valutazione sul piano oggettivo, pur essendo imprescindibile, non è sufficiente quando si tratti di individuare i cosiddetti limiti temporali dell’attività economica, sia perché conduce ad un approccio casistico difficilmente riconducibile a principi condivisi, non è quindi in grado di fornire criteri certi e precedentemente valutabili, sia perché, quanto meno sul piano del collegamento, non è in grado di determinarne il momento di interruzione, fondamentale per individuare la cessazione dell’attività rilevante. 83 Capitolo I 3- P RIME CONCLUSIONI : IL RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA E DELLA SUA CESSAZIONE Da quanto sin qui esposto è possibile trarre alcune prime conclusioni sul ruolo che l’attività economica e, di conseguenza, la sua cessazione ricoprono all’interno del sistema impositivo. Nell’esaminare le caratteristiche delle diverse fasi dell’attività si è cercato soprattutto di dimostrare la molteplicità degli aspetti e delle funzioni che caratterizzano questo elemento, ponendone in luce una complessità che supera il piano meramente oggettivo cui solitamente viene ricondotta. Come si è evidenziato, le discipline comunitarie relative all’attività economica appaiono costruite secondo un particolare schema che fa dell’attività stessa presupposto oggettivo ed elemento necessario all’individuazione del soggetto cui la disciplina è rivolta, creando un legame del tutto particolare e di reciproca influenza tra i due elementi. Questo rapporto appare ben evidente all’interno della disciplina dell’Iva. In primo luogo, essa funge da elemento indispensabile per l’individuazione del soggetto passivo: dove è possibile affermare l’esistenza di un’attività qualificata come economica ai sensi dell’ordinamento comunitario, allora si avrà anche la qualifica del soggetto agente come soggetto passivo dell’imposta, destinatario della disciplina dettata dalle norme europee e nazionali. Conseguentemente, fondamentale importanza assume la determinazione degli esatti confini temporali dell’attività, attraverso i quali sarà possibile individuare il momento iniziale e finale della stessa soggettività passiva che, all’interno dell’Iva, significa di fatto l’esistenza o l’inesistenza del soggetto ai fini dell’imposta. La presenza di un’attività che sia qualificabile come economica in senso comunitario riveste altresì il ruolo fondamentale di identificazione e qualificazione del presupposto oggettivo 84 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto dell’imposta, dipendendo l’imponibilità dalla riconducibilità ad essa delle operazioni compiute, attraverso la loro imputabilità al soggetto passivo. In questo senso, l’ordinamento comunitario fa propria la definizione di attività quale insieme di atti fra loro vincolati e per questo unitariamente rilevanti, facendo dipendere l’applicabilità dell’imposta dall’esistenza di questa visione unitaria. Anche con riferimento al piano oggettivo è l’esistenza dell’attività a costituire l’elemento discriminante tra ciò che rileva ai fini dell’imposta e ciò che, al contrario, ne è totalmente estraneo. La particolarità del sistema dell’imposta risiede proprio in questo: il fatto che sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo vengano determinati sulla base dello stesso elemento rende inevitabile che i due piani si intersechino, tanto sotto il profilo applicativo quanto nella definizione dei confini e del contenuto di questo elemento, che non potrà determinarsi né sulla base della sola presenza di operazioni potenzialmente imponibili né sull’esistenza di soggetti considerati potenzialmente passivi per loro caratteristiche intrinseche. Ne è evidente testimonianza già il contenuto delle norme impositive laddove si individuano categorie di operazioni potenzialmente imponibili che saranno tali solo se effettuate da un soggetto passivo che agisca in quanto tale nell’esercizio dell’attività economica e si sancisce, per quanto riguarda il soggetto passivo, l’irrilevanza della forma giuridica e degli scopi da questo perseguiti a fronte della dimostrazione dell’esistenza dell’attività. Importante dimostrazione di questo legame è data, inoltre, dalla funzione e dalle caratteristiche del diritto alla detrazione che, come noto, costituisce uno degli elementi cardine del sistema dell’imposta, proprio perché scelto come strumento principale per la realizzazione della neutralità tra gli operatori economici che l’imposta si prefigge. Nell’applicazione della detrazione assumono, infatti, rilevanza tanto il profilo oggettivo, costituito dal collegamento tra operazioni a monte ed operazioni imponibili a valle, quanto quello soggettivo, costituito 85 Capitolo I dal fatto che l’imposta per cui si chiede la detrazione sia stata versata da un soggetto che abbia agito in qualità di soggetto passivo, nell’esercizio dell’attività economica. Nessuno dei due elementi è da solo sufficiente ad attribuire il diritto a detrarre l’imposta versata, pur se, come si è visto, in fasi particolari dell’attività può aversi una prevalenza dell’uno sull’altro. Se dunque nel corso dell’esercizio l’attenzione è rivolta maggiormente al collegamento tra le spese sostenute e le operazioni effettuate, nel momento iniziale dell’attività è la stessa giurisprudenza ad attribuire una maggiore rilevanza al dato soggettivo, costituito dall’intenzione del soggetto ad intraprendere un’attività economica, pur in assenza di una concreta utilizzazione dei beni o dei servizi acquistati. Un equilibrio differente tra le due componenti, come si è visto, caratterizza anche la fase terminale dell’attività, momento in cui, anche in assenza di operazioni imponibili, è il collegamento con essa delle spese sostenute a sancire la legittimità della detrazione dei costi sostenuti, ma deve necessariamente unirsi alla valutazione della volontà del soggetto per individuare il momento in cui questo collegamento viene meno. A ben vedere, dunque, l’esistenza –attuale, futura o addirittura passata- dell’attività economica costituisce il presupposto per l’attribuzione e l’esercizio del diritto alla detrazione e proprio con riferimento ad essa manifesta lo stretto collegamento che si determina tra piano oggettivo e soggettivo nell’applicazione dell’imposta. Sulla base di queste considerazioni si ritiene che la sovrapposizione dei due piani nella determinazione della fattispecie -per cui, si ripete, il soggetto passivo viene individuato sulla base dell’attività economica e questa, per contro, è influenzata dall’esistenza del soggetto e dai suoi comportamenti- meriti di essere valorizzata, sulla scorta delle pronunce della Corte di Giustizia, soprattutto nell’ottica di un’analisi dinamica che prenda in considerazione le diverse fasi dell’attività per determinarne, per quanto possibile, gli esatti confini temporali. Prestando particolare attenzione alla cessazione dell’attività, sembra 86 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto possibile, secondo l’impostazione adottata, fornire una lettura differente di questa fase, nel tentativo di determinarne il ruolo e gli effetti all’interno dell’imposta, nonché il momento concretamente rilevante ai fini Iva. Il tema deve, in termini generali, essere suddiviso in due diversi aspetti tra loro strettamente connessi costituiti, da un lato, dall’attività liquidatoria, quale fase dell’attività economica stessa -rilevante sia sotto il profilo dell'imponibilità delle operazioni compiute, sia per il riconoscimento del diritto alla detrazione- e, dall’altro, dalla vera e propria cessazione che, a differenza della prima, consiste in un evento istantaneo determinante la fine della sua esistenza, indispensabile per l'eventuale applicazione dell'imposta in autoconsumo, generato dal possesso di beni precedentemente destinati all'attività economica o, in ogni caso, ad essa connessi. L’orientamento espresso dalla Corte va nel senso di considerare la fase liquidatoria come parte integrante dell’attività economica rilevante ai fini dell’imposta, indipendentemente dal fatto che nel corso di questa vi sia un esercizio effettivo costituito dal compimento di operazioni imponibili. Come confermato dalla sentenza Fini H, infatti, qualora non si ravvisi un abuso delle norme comunitarie e dei diritti da esse attribuiti, in particolare quello alla detrazione, e permanga un collegamento con la precedente attività, nel corso della liquidazione l’imposta dovrà considerarsi pienamente applicabile, sia dal lato attivo, gravando le cessioni eventualmente compiute, sia da quello passivo, consentendo la detrazione dell’imposta relativa alle spese sostenute al fine di cessare l’attività. Sul piano oggettivo, tale interpretazione trova il suo fondamento nelle caratteristiche stesse dell’attività economica come definita dall’ordinamento comunitario. Da un lato, infatti, stante l’irrilevanza dello scopo cui è destinata l’attività, a nulla rileva che esso muti da commerciale a meramente liquidatorio, quando si manifesta, comunque, nel compimento di operazioni che, per loro natura, rientrano nella categoria di quelle potenzialmente imponibili. Dall’altro, data la natura unitaria dell’attività, si ritiene sufficiente che 87 Capitolo I le spese sostenute manifestino un collegamento con essa, collegamento che può anche non essere determinato sulla base di elementi attuali, ma esistenti nella precedente fase di esercizio. Queste considerazioni potrebbero però non essere sufficienti, laddove si volesse sottolineare il fatto che, per sua stessa natura, l’attività implica esercizio effettivo, pena la sua inesistenza. Importante diviene allora la valorizzazione del profilo soggettivo e dell’influenza che esso esercita sulla determinazione dell’esistenza, o semplice sopravvivenza, dell’attività economica rilevante. Prendendo spunto da quanto affermato in tema di atti preparatori, per cui spetta il diritto alla detrazione al soggetto passivo che agisca in quanto tale, indipendentemente dal concreto esercizio dell’attività economica, si può qui sostenere che l’applicabilità del regime ordinario anche alla fase liquidatoria discende dalla constatazione del fatto che il soggetto passivo, riconosciuto tale in base all’attività precedentemente esercitata, continui ad agire in questa qualità, mantenendo vivo il collegamento oggettivo con l’attività sino alla manifestazione, non contraddetta da fatti che ne dimostrino il carattere abusivo, della volontà di cessare. Le stesse osservazioni possono applicarsi anche alle operazioni attive compiute nel corso della liquidazione. Generalmente esse costituiscono cessioni di beni potenzialmente imponibili, sia per la natura dell’operazione sia per il fatto che hanno ad oggetto beni in precedenza destinati all’attività o da essa prodotti. Se però si volessero, anche in questo caso, valorizzare il principio di effettività e l’intero sistema impositivo, incluse dunque le norme che sanciscono l’imposizione per autoconsumo, l’applicabilità del regime ordinario alla fase liquidatoria potrebbe essere messo in discussione e sostituito dall’autoconsumo già al momento della cessazione di fatto dell’esercizio, proprio perché la conclusione di questo importerebbe, su un piano meramente oggettivo, l’interruzione del collegamento tra cessioni effettuate e attività rilevante, causando la perdita della soggettività passiva. Anche in questo senso, dunque, è necessario valorizzare il profilo 88 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto soggettivo della fattispecie, considerando come sia proprio il fatto che il soggetto passivo continua ad agire in quanto tale a mantenere vivo il collegamento tra le operazioni e l’attività. In questo senso trova applicazione anche nella fase conclusiva dell’attività il principio espresso dalla giurisprudenza comunitaria, in base al quale l’intenzione del soggetto ad esercitare un’attività economica è in grado di determinare l’applicazione dell’imposta, a condizione che sia oggettivamente riscontrabile e non contraddetta da comportamenti che costituiscono abuso delle norme comunitarie 9 8 . Da queste considerazioni sulla fase liquidatoria è possibile trarre importanti osservazioni sull’individuazione del momento di cessazione dell’attività ai fini dell’imposta. La prima è implicita nella stessa affermazione dell’assoggettabilità al regime ordinario della liquidazione: ai fini Iva a nulla rileva la cessazione di fatto dell’esercizio dell’attività tipica. L’ordinamento comunitario, per voce della Corte di Giustizia continua, pertanto a considerare esistente l’attività economica fintanto che permangano le condizioni già esposte (un collegamento tra le operazioni e la precedente attività tipica ed un soggetto passivo che continui ad agire in quanto tale) limitando la portata del principio di effettività, sacrificato alle ragioni della coerenza del sistema impositivo e alla concreta realizzazione della sua neutralità. Esclusa la rilevanza di questo elemento di fatto, diviene allora necessario tentare di individuare quale sia il momento cui l’ordinamento collega la cessazione dell’attività rilevante e, di conseguenza, la perdita della soggettività passiva. In questo senso, si ritiene che, al fine di evitare una possibile soggezione all’imposta senza fine, debbano essere valorizzati il profilo soggettivo e quello formale, quale diretta manifestazione del primo. In proposito diviene importante un’altra considerazione fatta in merito alla fase liquidatoria. Sancitane la soggezione al regime 98 Cfr. CGCE, Gabalfrisa cit. ,p.47; Ghent Coal Terminal cit.; Inzo cit., p. 23 e 24 89 Capitolo I impositivo ordinario pur in assenza di operazioni attive, la Corte afferma nella pronucie Fini H che a nulla rileva la sua durata, salvi, come sempre, i casi di abuso. Da questa affermazione si è ricavata la conclusione che, di fatto, le caratteristiche, le modalità e la durata di questo momento sono lasciati alla libera scelta del soggetto passivo. Ciò implica che questi sia libero di determinarne la conclusione nel momento che ritenga più opportuno, non essendo vincolato da stringenti disposizioni di natura sostanziale 9 9 . Se dunque la liquidazione costituisce, di fatto, l’ultima fase dell’attività economica rilevante ai fini dell’imposta e la sua durata, o addirittura il suo svolgimento, sono lasciati nella maggior parte dei casi alla volontà del soggetto passivo, se ne desume che le scelte effettuate dal soggetto influiranno necessariamente sull’individuazione del momento di cessazione dell’attività. Come si è già ricordato, così come l’intenzione di intraprendere un’attività economica è in grado di determinare l’acquisto della soggettività passiva, allo stesso modo, e alle stesse condizioni, l’intenzione di cessarla deve avere effetti sulla sua perdita. Diversi sono gli elementi che portano a questa affermazione. Tra questi merita di essere valorizzato il ruolo che il soggetto esercita nella determinazione del legame tra operazioni e beni con l’attività. Deve infatti sempre tenersi presente che, accanto agli elementi di collegamento oggettivo quali, ad esempio la natura dei beni, fondamentale per l’individuazione del legame necessario è l’indirizzo impresso dal soggetto, sia sulla destinazione dei beni sia sulla riconducibilità o meno delle operazioni all’attività economica, come conferma la Corte quando afferma che la destinazione dei beni all’esercizio dell’attività dipende dalla scelta del soggetto e, sulla base di questa scelta, verrà determinata la spettanza e la misura del diritto alla detrazione 1 0 0 . 99 Di fatto nemmeno sul piano nazionale, laddove si consideri che le norme che disciplinano, ad esempio, la liquidazione delle società sono volte a scandirne il procedimento, non ad individuarne puntualmente l’oggetto. 100 Cfr. retro pg. 51 90 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto Da ciò deriva la considerazione che, necessariamente, dovrà tenersi presente l’influenza del comportamento e della volontà del soggetto sulla permanenza di quel collegamento che la giurisprudenza ritiene necessario per l’applicazione dell’imposta alla fase liquidatoria. Per questo, dovrebbe essere difficile contestare l’estinzione di tale legame nel momento in cui il soggetto passivo manifesti concretamente la propria intenzione a porre fine all’attività economica. Il riscontro oggettivo di tale intenzione richiesto dalla giurisprudenza dovrebbe risiedere di per sé già nell’abbandono dell’attività tipica e nel compimento della fase liquidatoria, uniti alla mancata ripresa dell’esercizio, soprattutto non in forma irregolare. Si ritiene altresì che un dato importante a questi fini possa essere costituito dalla dichiarazione di cessazione dell’attività che la stessa Direttiva impone al soggetto passivo. Non si vuole qui contestare la costante giurisprudenza comunitaria che nega la portata costitutiva degli adempimenti formali 1 0 1 , pienamente accoglibile; si ritiene tuttavia che sarebbe utile, in particolare ai fini della certezza del diritto, attribuire ad essi una portata potenzialmente presuntiva ai fini della dimostrazione del proprio contenuto, soprattutto con riguardo ad ipotesi spesso controverse come, appunto, la cessazione dell’attività. Sembra, infatti, del tutto coerente con il pensiero espresso dalla giurisprudenza comunitaria ritenere che il contenuto delle dichiarazioni formali, di fatto diretta manifestazione della volontà del soggetto passivo, possa considerarsi corrispondente alla realtà, fintanto che non ci siano concrete manifestazioni del contrario, unendo a ciò la considerazione del fatto che, in ogni caso, si tratta di adempimenti imposti dalla stessa normativa comunitaria che, in quanto obbligatori, non possono essere totalmente privati di rilevanza. Ciò non significa attribuire valore di presunzione assoluta o costituivo agli adempimenti formali, significa però individuare un indice certo di cessazione dell’attività, cui ricondurre, soprattutto temporalmente, gli 101 Cfr. ad esempio quanto affermato, circa la dichiarazione di inizio attività e le altre formalità previste dagli ordinamenti nazionali, nella sent. Gabalfrisa cit. in nt. 72 91 Capitolo I effetti della cessazione, sia sotto il profilo dell’interruzione del necessario legame di operazioni e beni con l’attività precedentemente esercitata sia sotto quello della definitiva perdita della soggettività passiva. Da questa ricostruzione della nozione di attività economica all’interno dell’imposta e dall’analisi svolta circa le ipotesi di applicazione dell’imposta in autoconsumo nel caso di possesso di beni residui alla cessazione dell’attività discende un’ulteriore importante considerazione non tanto sul momento di cessazione dell’attività, quanto sulla funzione che la stessa cessazione svolge all’interno dell’imposta. Unendo i dati emersi è infatti possibile qualificare la cessazione non solo come momento terminale dell’attività rilevante ai fini dell’imposta, ma altresì come ultimo atto dell’attività imponibile, l’ultima ipotesi di operazione imponibile, secondo quanto sancito dalle norme comunitarie. Il momento di cessazione dell’attività ai fini dell’imposta non rappresenta, dunque, solo la manifestazione esterna e definitiva di un processo già precedentemente concluso, ma costituisce manifestazione propria dell’esperienza economica di cui segna la fine, dando vita all’ultima fattispecie imponibile prevista dal sistema. In questo, pertanto, l’evento cessazione presenta le stesse funzioni e la stessa complessità che si sono attribuite all’attività economica, naturalmente in senso opposto. Esso è infatti al contempo necessario alla determinazione del termine della soggettività passiva, influendo quindi sul piano soggettivo, e all’individuazione dell’ultima operazione imponibile, in rapporto al profilo oggettivo dell’imposta. Come accade per l’attività economica, anche per la cessazione questa duplicità di funzioni comporta il crearsi di uno stretto legame tra i due piani altresì nell’individuazione stessa del momento di cessazione, rendendoli necessariamente complementari. Questo rapporto è chiaramente dimostrato dall’incapacità della cessazione di fatto dell’esercizio a determinare la cessazione 92 Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto dell’attività ai fini dell’imposta che, in assenza di un comportamento nella stessa direzione tenuto dal soggetto passivo, non comporta altro che un mutamento nell’attività. Allo stesso modo, nemmeno il dato soggettivo può da solo ritenersi sufficiente a determinare la cessazione dell’attività quando non corrisponda, sul piano oggettivo, ad una interruzione definitiva dell’attività. Secondo questa impostazione diviene allora fondamentale per individuare il momento di cessazione dell’attività non tanto compiere una verifica della realizzazione dell’uno o dell’altro elemento, oggettivo e soggettivo, quando piuttosto individuare il momento in cui essi si manifestano congiuntamente, momento cui potranno ricondursi tutti gli effetti della cessazione ai fini dell’imposta, ossia l’imponibilità del possesso di beni residui che abbiano dato diritto alla detrazione e la definitiva perdita della soggettività passiva all’imposta. In conclusione, ciò che si vuole affermare con le osservazioni che precedono è la necessità che nell’esame della nozione di attività economica ai fini Iva e delle sue vicende si presti attenzione alla complessità e ai molteplici aspetti che essa presenta, valorizzando in particolare il legame fra gli stessi, tipico del sistema dell’imposta. Ciò significa che non appare corretto appiattire l’interpretazione sulla valutazione del solo dato oggettivo, nemmeno in virtù della centralità del dato economico nella nozione individuata dal diritto comunitario. Come si è visto, la preminenza del dato economico su quello giuridico e la spiccata oggettività che ne consegue non implicano il completo abbandono di un’analisi di natura soggettiva, del tutto ingiustificata proprio sulla scorta dell’asserita complessità della fattispecie attività economica nell’ambito dell’imposta. Sembra più giusto, dunque, adottare un metodo interpretativo che tenga conto e, al contrario, valorizzi l’interdipendenza tra presupposto oggettivo e soggettivo all’interno dell’imposta con riferimento al ruolo dell’attività economica, tenendo in conto anche che essa stessa quale fenomeno unitario non può esistere in assenza di una volontà e di un 93 Capitolo I esercizio che la rendano tale, diversa quindi da un semplice gruppo di operazioni. 94 Capitolo II ATTIV ITÀ ECONOMICA E CESSAZIONE NELL ’ ORDINAMENTO NA ZIONALE Sezione I 1- L’ attività economica nell’ordinamento nazionale 1.1- La bipartizione tra impresa e professioni 1.2- L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972 1.3- Il rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario a) Imprenditore e impresa nel diritto civile b) Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel diritto civile e il diritto tributario 2- Alcune considerazioni su impresa, attività e il significato del termine “esercizio” S OM M A RI O 1- L’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ’ ORDINAMENTO NAZIONALE L’esame della nozione di attività economica valida nell’ordinamento nazionale richiede alcune osservazioni iniziali, necessarie per illustrare il percorso in seguito svolto. In primo luogo, è necessario precisare che l’ordinamento italiano, in realtà, non conosce una categoria attività economica che possa essere assimilata a quella ricavabile dall’ordinamento comunitario. Come si è tentato di sottolineare nelle pagine che precedono, la nozione comunitaria proviene direttamente dal mondo economico e non trova un proprio referente immediato nell’ambito delle nozioni giuridiche nazionali, piuttosto le racchiude in sé, non prestando grande attenzione alle differenze tra loro esistenti. Questo fenomeno è ben evidente nel nostro ordinamento, laddove il legislatore, anche nel trasporre le direttive Iva è rimasto fedele alla struttura giuridica sua propria, ponendo al centro della disciplina due distinte categorie di fenomeni economici, le attività professionali e l’impresa, nonostante la dichiarata intenzione di discostarsi dal modello già elaborato nelle altre branche dell’ordinamento. A questo proposito, ciò che si continua a presentare più problematico, e quindi meritevole di un’analisi specifica, è il Capitolo II presupposto costituito dall’esercizio d’impresa che all’interno della disciplina dell’imposta, soprattutto attraverso l’interpretazione che ne viene fornita, mostra l’intenzione di allontanarsi quanto più possibile dalle teorizzazioni sviluppatesi nell’ambito del diritto commerciale. È infatti soprattutto con riguardo alla nozione d’impresa rilevante ai fini dell’imposta che si è tentato di sottolineare l’oggettività ritenuta tipica del sistema comunitario, prendendo le distanze dalla costruzione più marcatamente soggettiva propria del settore giuridico d’origine. Come si vedrà, questo tentativo di affermarne ad ogni modo la portata oggettiva porta ad attribuire rilevanza decisiva ad elementi che non sempre sono tali nell’ordinamento comunitario, il quale, come si è illustrato nelle pagine che precedono, porta alla luce un fenomeno complesso non riconducibile, secondo l’interpretazione esposta, alla mera oggettività. Nel tentativo di dimostrare che una lettura delle disposizioni nazionali che tenga conto del vincolo di interpretazione conforme all’ordinamento comunitario deve necessariamente recuperare e valorizzare quegli elementi spesso trascurati, come il profilo soggettivo nel suo complesso, soprattutto con riguardo alla volontà dell’agente e alle sue manifestazioni, si rende necessaria un’analisi che guardi contemporaneamente sia all’ordinamento tributario sia a quello commerciale, dal quale giungono importanti suggerimenti, soprattutto se si ritiene corretta l’impostazione per cui le norme impositive non sono tali da introdurre nozioni del tutto differenti ed autonome, ma che piuttosto esse prendono il via dalle norme commerciali e ne valorizzano solo gli aspetti strettamente rilevanti ai fini dell’applicazione dell’imposta, lasciando inalterato ciò che della disciplina sostanziale non è espressamente derogato. Ciò che si afferma è, dunque, che la nozione d’impresa deve ritenersi unitaria all’interno dell’ordinamento, rendendo possibile una circolazione tra i diversi settori delle riflessioni svolte in merito, salvi i casi in cui queste non si dimostrino incompatibili con le finalità e l’integrità delle diverse discipline esaminate, così come si è tentato di dimostrare con riguardo ad attività economica ed impresa 96 L’attività economica nell’ordinamento nazionale nell’ordinamento comunitario. Tutto questo porta, come si è detto, a rivalutare anche ai fini dell’imposta, nell’individuazione dell’impresa rilevante e, soprattutto, del suo momento di cessazione, elementi diversi dalla sola destinazione dei beni o dal rapporto di inerenza, nell’ambito di un’analisi rivolta all’integrità dei requisiti tipici del fenomeno imprenditoriale, come si è visto non solo compatibile con lo spirito delle norme europee, ma ad esse pienamente applicabile. 1.1- La bipartizione tra impresa e professioni In tema di attività economica rilevante ai fini dell’imposta, già ad un primo sguardo disciplina nazionale e comunitaria appaiono molto diverse tra loro, pur se in gran parte ad un livello meramente formale. La prima particolarità della disciplina domestica consiste nel mancato riferimento alla categoria attività economica utilizzata dal legislatore europeo cui si è sostituita la suddivisione tra le due tipologie di fenomeni economici, e dunque di operatori, già conosciute dall’ordinamento, ovvero l’impresa e le attività professionali ed artistiche, di cui si occupano gli art. 1, 4 e 5 del Dpr. 633/1972. Già da questo primo dato emerge un elemento di diversità che si può ritenere significativo. Si è posto in evidenza che il legislatore comunitario, noncurante delle classificazioni giuridiche, ha collocato a base della disciplina dell’imposta la nozione di attività economica, facendo convergere all’interno di essa qualsiasi forma di attività indipendente rivolta al mercato che consista nella produzione, nel commercio, nella prestazione di servizi o nello sfruttamento di un bene materiale o immateriale. Confrontando questa con le norme nazionali è possibile vedere chiaramente come il legislatore italiano, estraneo ad una definizione talmente ampia ed onnicomprensiva, abbia preferito utilizzare -anche per l’ovvia necessità di inserire e coordinare il sistema dell’imposta con l’ordinamento tributario nazionale, in particolare con le Imposte sui Redditi- e piegare le proprie categorie giuridiche alle esigenze 97 Capitolo II dell’imposta comunitaria, adattandole con le ripetute e successive modifiche che le norme hanno subito 1 0 2 . Si è dunque creata una bipartizione 1 0 3 della nozione di attività economica che comporta, tra l’altro, la necessità di un più attento esame delle situazioni concrete al fine di darne una corretta qualificazione 1 0 4 , rilevante non solo sul piano formale, ma anche, e soprattutto, sul piano applicativo dell’imposta. Il principale appunto che può essere mosso alla disciplina nazionale 102 L’art. 4, in particolare, ha subito numerose e ripetute modifiche proprio al fine di renderlo più conforme al dettato comunitario. La prima modifica è intervenuta a seguito dell’attuazione della VI Direttiva. Per rendere la norma maggiormente aderente al dettato comunitario la sua struttura venne integralmente modificata ad opera del DPR 29 gennaio 1979, n. 24 con il quale venne eliminato il rinvio agli art. 2082 e 2083 c.c. e sostituito con il semplice rinvio alle attività commerciali ed agricole di cui agli artt. 2195 e 2135 c.c., creando dunque un presupposto il più possibile indipendente dalle qualificazioni civilistiche. Una seconda significativa modifica è intervenuta ad opera del Dlgs. 2 settembre 1997, n. 313 con il quale si è armonizzata la nozione di esercizio d’impresa ai fini Iva con quella dettata dal TUIR, estendendo la soggettività passiva anche a quelle attività che, seppur non commerciali per natura, vengano esercitate attraverso un’organizzazione in forma d’impresa. Va altresì ricordata l’ulteriore modifica apportata alla norma con l’intento di uniformarla al dettato comunitario sulla scorta delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria. Ci si riferisce alla limitazione della portata della presunzione di soggettività applicabile alle società nel caso in cui possiedano immobili o partecipazioni societarie, non oggetto di un’attività economica, ma a titolo di mero godimento (art. 4, c.6 lett. a e b). 103 In questo senso C E N T O R E , Iva europea. Aspetti interpretativi ed applicativi dell’Iva nazionale e comunitaria, Milano, 2006, 148 e ss., 104 Circa questa scelta del legislatore italiano si rileva in dottrina l’effetto distorsivo rispetto alle indicazioni del legislatore comunitario. In proposito G IO R G I , Detrazione e soggettività passiva cit., 83 e ss. sottolinea come “la definizione dei criteri di attribuzione della soggettività passiva sul modello delle imposte dei redditi determina delle distorsioni nel meccanismo di funzionamento del sistema comune d’imposta [..] distorsioni ancor più incomprensibili se si considera che mentre nel sistema delle imposte sui redditi la distinzione tra redditi d’impresa e 98 L’attività economica nell’ordinamento nazionale è il forte scostamento, quanto meno formale, dalla struttura dell’imposta prevista a livello europeo, allontanamento che comporta una moltiplicazione dei criteri di individuazione dell’attività imponibile e del soggetto passivo, attribuendo un ruolo decisivo ad elementi che il legislatore comunitario, direttamente o per voce della giurisprudenza, ha dichiarato irrilevanti ai fini dell’imposta. Laddove, infatti, il legislatore comunitario ha previsto l’assoluta indifferenza delle forme giuridiche o delle modalità di esercizio, privilegiando semplicemente caratteri quali l’indipendenza, la stabilità e l’oggettiva economicità dell’attività, quello nazionale ha preferito richiamare concetti familiari al proprio ordinamento e già ben definiti, salvo poi modificarne il contenuto per piegarlo al sistema Iva. In questa prospettiva vengono ad assumere importanza elementi legati alla forma giuridica, alle modalità di esercizio (ulteriori rispetto all’indipendenza e alla professionalità) ed in generale a tutto quell’apparato normativo che disciplina le singole categorie, implicitamente richiamato dal riferimento ad esse. Come sottolineato dalla dottrina, le ricorrenti modifiche del dettato normativo già di per sé dimostrano l’inadeguatezza dell’utilizzazione delle categorie nazionali ad avere il medesimo ambito di applicazione del presupposto comunitario. Ripetutamente si è quindi reso necessario estendere o limitare soprattutto il dettato dell’art. 4, al fine di renderlo corrispondente al disposto della Direttiva Iva 1 0 5 . di lavoro autonomo trova una giustificazione nell’esigenza di discriminare il prelievo, nel sistema dell’Iva la distinzione tra attività d’impresa ed attività artistiche o professionali non sembra trovare alcuna giustificazione che non sia quella di uniformare il sistema dell’Iva a quello delle imposte sui redditi e quella della volontà di distinguere gli obblighi formali delle due categorie di soggetti; appare quindi evidente la scarsa sensibilità del legislatore per la cogenza e per gli obiettivi del diritto comunitario in quanto il raggiungimento della libera circolazione delle persone rende, sotto il profilo soggettivo, del tutto irrilevante sia la veste giuridica sia la qualificazione dell’attività con cui il soggetto passivo effettua le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che rientrano nella sfera di applicazione del tributo”. 105 Sempre G IO R G I , cit., 55 ritiene che l’inadeguatezza delle nozioni adottate dal 99 Capitolo II Queste successive e ripetute modifiche hanno senza dubbio ottenuto un notevole avvicinamento al contenuto della norma comunitaria, tanto che ora risultano, seppur nella diversità della terminologia utilizzata, sostanzialmente equivalenti. Non si può però non sottolineare come la scelta compiuta dal legislatore nazionale possa ancora determinare delle divergenze rispetto alle fonti comunitarie, non tanto nel contenuto, quanto piuttosto nella tipologia dei criteri utilizzati per l’identificazione del soggetto passivo che risultano frammentati in una pluralità di ipotesi 1 0 6 . In particolare, la tecnica legislativa appare molto differente e molto più complessa. Ciò anche perché, il legislatore nazionale non accogliendo la nozione di attività economica, ha contemporaneamente omesso di adottare quale criterio estensivo della sua portata il concetto di sfruttamento di beni materiali o immateriali, così ampiamente utilizzato dalla giurisprudenza comunitaria. La mancata utilizzazione di queste nozioni generali, sostituite da nozioni tipiche più limitate, si unisce quindi ad interventi di estensione dell’ambito di applicazione delle norme che seguono lo stesso legislatore italiano a definire compiutamente il presupposto indicato dal diritto comunitario comporti un’inutile complessità delle norme che, fornita una regola generale tramite il rinvio alle categorie tradizionali, contengono regole di assimilazione o di esclusione necessarie al completamento del proprio contenuto. Tale necessità sarebbe, secondo l’Autore, indice dell’estraneità delle nozioni adottate al meccanismo del tributo, per cui a volte troppo ampie ed altre, al contrario, insufficienti. Per un esame del rapporto tra Direttiva e norme nazionali di attuazione si vedano anche BOSELLO F., L’attuazione delle direttive comunitarie in materia tributaria: l’esperienza dell’imposta sul valore aggiunto, Riv. Dir. Trib. 1998,I, 706 e MANZONI I ., L’imposta sul valore aggiunto . Le deviazioni della neutralità nel modello italiano, Torino, 1973 106 Pone in luce questa moltiplicazione dei criteri di individuazione del soggetto passivo C E N T O R E , cit., 149 ss. il quale riconosce la presenza di un criterio oggettivo fondato sulla natura dell’attività, di uno soggettivo nel caso della presunzione di soggettività per le società ed infine di un criterio di stampo organizzativostrutturale laddove ci si riferisce alle attività non definite commerciali dal codice civile. 100 L’attività economica nell’ordinamento nazionale indirizzo, ossia si riferiscono a nozioni tipiche e puntuali, molto diverse da quelle comunitarie, tra cui figura anche una presunzione di soggettività per le società che non trova alcuna corrispondenza nella legislazione europea. In realtà, dal confronto tra norme comunitarie e nazionali emerge in proposito un’ulteriore differenza che interessa la stessa struttura della disciplina e il rapporto tra gli elementi che la compongono. Sulla scorta della più volte richiamata esigenza di assoluta oggettività che si è riconosciuta all’imposta, la disciplina italiana appare completamente incentrata sulle operazioni imponibili, in base alle quali individua anche il soggetto passivo, secondo quanto disposto dall’art. 17 del DPR. 633/72 1 0 7 . Quanto meno ad un livello più superficiale si perde, dunque, il rapporto diretto tra soggettività passiva ed esercizio dell’attività economica, in favore di un legame mediato dalla preventiva qualificazione delle operazioni compiute come imponibili. Esercizio dell’impresa o della professione vengono intesi in questo senso come requisito qualificante delle operazioni e solo successivamente – e secondariamente- giungono ad identificare il soggetto. È quindi la stessa disciplina a trascurare e porre in secondo piano l’elemento soggettivo, forse svalutando in parte anche il ruolo che in questo senso si è riconosciuto all’attività economica in ambito comunitario 1 0 8 . 107 Il quale dispone che “L'imposta e' dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all'erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell'art. 19,nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo” 108 È interessante in questo senso anche notare che l’art. 17 è l’unico a riferirsi al soggetto passivo. In proposito, si deve ricordare la difficoltà che inizialmente creò la struttura dell’imposta comunitaria quanto al profilo soggettivo, così diverso dalla struttura tipica delle imposte nazionali. Il dibattito in dottrina fu su questo aspetto molto acceso, soprattutto con riguardo al ruolo di soggetto agente e consumatore finale. Questa difficoltà si nota già nel dettato normativo e nella struttura del Dpr. 633/72, nel quale la soggettività passiva sembra assumere un rilievo marginale. La centralità delle operazioni imponibili e la marcata oggettività 101 Capitolo II Certamente, non si può negare che nella stessa legislazione europea le operazioni imponibili costituiscano elemento fondamentale dell’imposta, essendone il presupposto applicativo, si ritiene però, anche sulla base dell’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale, che esse si pongano in posizione subordinata rispetto all’elemento rappresentato dall’attività economica, che davvero ricopre un ruolo cardine nel sistema impositivo, ruolo chiarito dalla molteplicità di funzioni che ad essa viene assegnato, ivi compresa l’identificazione tra soggetto agente e soggetto passivo. All’interno della disciplina italiana questo ruolo sembra invece in parte perdersi in favore di un maggior rilievo attribuito alle operazioni in sé. Ovviamente esse vengono definite imponibili solo nel caso in cui siano riconducibili ad un’attività d’impresa o professionale, ma una volta che tale qualificazione sia stata attribuita, quanto meno apparentemente, sono esse stesse a definire la soggettività passiva, non più l’attività globalmente intesa. Questa differenza appare evidente già guardando al testo delle norme: laddove la Direttiva introduce all’art. 9 la definizione di attività economica come elemento identificativo del soggetto passivo, la legislazione italiana non fa alcun riferimento alla soggettività passiva, ma semplicemente specifica il contenuto dell’espressione esercizio d’impresa o professione utilizzato nella definizione delle operazioni imponibili. La prima norma che, invece, nel DPR. 633/72 si riferisce al soggetto passivo è il citato art. 17, dove appunto si attribuisce la soggettività passiva a chi compia operazioni imponibili. Se confrontate in questo senso le due discipline sembrano adottare un procedimento logico in parte differente, salvo giungere ai medesimi risultati. Questo proprio in funzione del ruolo assegnato all’esercizio dell’attività economica in relazione ai due presupposti impositivi. L’art. 2 della Dir. 2006/112/CE definisce imponibili le operazioni compiute dal soggetto passivo che agisca in quanto tale, ricollegandosi dell’impostazione nazionale, e dell’interpretazione che ne deriva, sembrano dunque rendere nulla l’influenza delle vicende soggettive sull’imposta. 102 L’attività economica nell’ordinamento nazionale logicamente al successivo art. 9 che definisce soggetto passivo chiunque eserciti un’attività economica. Al contrario, la normativa italiana definisce come imponibili le operazioni effettuate nell’esercizio dell’attività, specifica quali attività siano da ritenere rilevanti e, infine, stabilisce che sia soggetto passivo chi compie tali operazioni. A ben vedere, gli elementi che compongono il ragionamento sono i medesimi, così come il risultato che da un punto di vista sostanziale essi raggiungono. La diversità del percorso seguito si riflette, però, nella rilevanza attribuita ai diversi profili nell’ambito dell’imposta e dell’interpretazione della sua disciplina. La struttura della normativa nazionale porta forse a sopravvalutare il lato oggettivo dell’imposta, a discapito della rilevanza che invece dovrebbe attribuirsi anche all’aspetto soggettivo, allontanandosi di conseguenza da quell’equilibrio che sembra caratterizzare la disciplina comunitaria. Essa, infatti, pur dimostrando la propria oggettività attraverso la centralità di una nozione di attività economica lontana dai tradizionali schemi giuridici e costruendo su di essa anche la soggettività passiva, non sminuisce affatto il ruolo del soggetto, ma anzi da esso muove per individuare gli altri elementi fondamentali per il sistema dell’imposta. Queste osservazioni possono non avere alcuna rilevanza quando si tratti di esaminare la fase di pieno esercizio dell’attività, momento in cui tutti gli elementi vengono a coincidere; diventano, invece, maggiormente incisive quando si guardi all’evoluzione dell’attività, e quindi al suo inizio e alla sua cessazione, nei quali spesso tale coincidenza viene a mancare e l’assenza di un elemento deve essere sopperita dal ruolo attribuito agli altri. Quanto accade in ambito comunitario è già stato illustrato e si è visto come sia la stessa giurisprudenza a fornire le basi perché si compia questo bilanciamento tra i diversi elementi costitutivi dell’imposta. In ambito nazionale esso appare più difficilmente accolto, quanto meno esaminando le posizioni assunte da dottrina e 103 Capitolo II giurisprudenza maggioritarie, che nel nome dell’oggettività dell’imposta trascurano spesso caratteristiche e vicende che interessano il soggetto, attribuendo una rilevanza centrale al compimento di operazioni, a volte considerate imponibili sulla sola base di un presunto vincolo di destinazione tra i beni che ne sono oggetto e l’attività esercitata, soprattutto nel caso dell’impresa. 1.2 L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972 Individuata la struttura della disciplina nazionale e la funzione che in essa sembra attribuita alle due tipologie di attività riconosciute come rilevanti ai fini dell’imposta, si rende necessario esaminare il contenuto di esse, in particolare dell’esercizio d’impresa, che solleva i maggiori interrogativi sia in relazione alla sua individuazione in rapporto al diritto commerciale, sia con riguardo all’esame della sua cessazione. Stabilisce l’art. 4, c.1 che per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività, organizzate in forma d'impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'articolo 2195 del codice civile. La norma in esame individua due diverse ipotesi di esercizio di impresa rilevante ai fini Iva: un primo incentrato sulla tipologia di attività esercitata ed il secondo caratterizzato invece dalle modalità con cui essa viene svolta. Nel primo caso, conformemente al dettato comunitario, viene posto in risalto il carattere professionale ed abituale dell’esercizio, indipendentemente dalla presenza o meno di una struttura organizzata. Il richiamo alle norme del Codice Civile potrebbe in un primo momento trarre in inganno, facendo pensare ad un rinvio integrale alla disciplina in materia di imprenditore ed impresa dallo stesso dettata. A ben vedere, invece, il legislatore ha più semplicemente inteso rinviare 104 L’attività economica nell’ordinamento nazionale a quelle attività di produzione, scambio ed intermediazione che le norme civilistiche definiscono come commerciali ed agricole 109 , assumendo dunque un approccio oggettivo nei confronti della disciplina dell’impresa e trascurandone il profilo soggettivo connesso alla figura dell’imprenditore. Ciò che in particolare rileva di questa prima previsione è il ruolo secondario che viene assegnato al requisito dell’organizzazione, ritenuto di per sé ininfluente, elemento che segna la distanza presa dal legislatore nei confronti della nozione di impresa propria del diritto commerciale. Si è rispettata, dunque, in questo caso l’indifferenza per le modalità di esercizio, intese quali esistenza di una struttura appositamente creata per lo svolgimento dell’attività 1 1 0 . A confronto, però, con l’ampiezza della nozione comunitaria una disposizione siffatta non sarebbe stata di fatto sufficiente ad includere tutte le ipotesi previste. Questo è il motivo per cui il legislatore nazionale individua un secondo caso che qualifica come esercizio d’impresa anche lo svolgimento di attività di prestazione di servizi che, seppur non ritenute naturalmente commerciali in quanto non comprese nell’elenco di cui all’art. 2195 c.c., vengano condotte per mezzo di una struttura organizzata in forma d’impresa. E’ evidente come, in questo caso, si sia ritenuto che il requisito 109 Sottolinea in particolare l’indifferenza del legislatore tributario circa l’esistenza dell’impresa in senso civilistico e l’utilizzo in senso atecnico del termine impresa F AN T O Z Z I , Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’Iva, Milano, 1982 110 Questo ha permesso inoltre di superare le controversie esistenti nella dottrina commercialistica circa l’imprenditorialità del piccolo imprenditore e dell’imprenditore agricolo, riunendo tutti all’interno della stessa fattispecie: non sussistendo un rinvio alla nozione civilistica di imprenditore, disciplinato dall’art. 2082 c.c., e richiamando invece espressamente l’art. 2135 che disciplina le attività agricole, non si creano all’interno del sistema dell’imposta quelle differenze rilevate nel settore d’origine tra imprenditore cosiddetto civile ed imprenditore commerciale, né quelle differenti classificazioni dovute alla prevalenza del lavoro proprio o della eterorganizzazione, considerata tipica delle imprese commerciali. 105 Capitolo II organizzativo possa sopperire alla mancanza di commercialità 1 1 1 strettamente intesa e serva ad inserire alcune prestazioni di servizi nell’ambito dell’impresa piuttosto che in quello dell’attività professionale 1 1 2 . Si è cercato, dunque, di definire, quanto meno a fini impositivi, quella “zona grigia” di confine tra attività imprenditoriale e lavoro autonomo, area che comprende tutte quelle attività che non si ritengono professionali ai sensi del codice civile, perché non riconducibili al novero delle professioni intellettuali e non espressamente disciplinate, e che lo stesso codice esclude dalla categoria delle attività commerciali perché, ad esempio, sprovviste della caratteristica dell’industrialità 1 1 3 . Elemento comune ad entrambe le ipotesi è costituito dall’esercizio per professione abituale, requisito su cui molto si è dibattuto. In particolare, si è sostenuto che l’espressione abbia un carattere pleonastico 1 1 4 , non essendo ben chiara quale possa essere la differenza 111 Deve rilevarsi in proposito che, come già sottolineato, simili esigenze sono totalmente estranee al sistema comunitario in cui, tecnicamente quanto meno, non si fa alcun riferimento al requisito della commercialità dell’attività. Del resto, se per commercialità si intende, come avviene nel diritto commerciale, la finalità di produzione e scambio rivolta al mercato, tale qualità appare intrinseca alla stessa nozione di attività economica contemplata dalla Direttiva, pur se in termini forse più lati e generici. 112 In tal senso F IC AR I , Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, Riv. Dir. Trib., 1999, I, 562 ss. 113 Esamina e sottolinea il valore di tale elemento anche in ambito tributario, P O LAN O , Attività commerciali ed impresa nel diritto tributario, Padova, 1984 che pone in evidenza la necessità di una maggiore considerazione di questo elemento, inteso quale autonomia tecnica dell’organizzazione dell’impresa, al fine di distinguere correttamente attività imprenditoriali e lavoro autonomo. 114 Sono numerose in dottrina le voci in tal senso. In particolare esse sottolineano come il concetto di abitualità sarebbe di per sé insito in quello di professionalità e, dunque, servirebbe unicamente ad indicare la possibilità di svolgere più attività contemporaneamente. Si vedano ad esempio, F AN T O Z Z I , cit.,73 e ss; F IC AR I , Il profilo cit. 557 ss.; F IO R E S E , La soggezione delle unità sanitarie locali all’imposta sul valore aggiunto in Il regime tributario delle unità sanitarie locali a cura di T OS I , Rimini, 1992, 129; G IO R G I , cit., 102 ss.. Svolge un’ampia 106 L’attività economica nell’ordinamento nazionale tra la professionalità e l’abitualità, posta l’interpretazione che pacificamente si dà della professionalità nel senso di stabilità, abitualità, sistematicità e continuità. Una distinzione fra i due termini può essere rilevata attribuendo all’uno una connotazione qualitativa e all’altro una connotazione temporale 1 1 5 . In sostanza dunque, il requisito dell’esercizio professionale dovrebbe attenere alle modalità con cui l’attività viene svolta, al fatto che essa, per il proprio carattere complesso, richieda un certo impegno ed un certo impiego di fattori economici 1 1 6 e che, proprio in virtù delle modalità con cui viene svolta, sia in grado di qualificare chi la svolge anche a livello sociale. Il requisito dell’abitualità dovrebbe invece rientrare in una prospettiva temporale, quale reiterazione e continuità dell’attività 1 1 7 , tale per cui si possa disamina del tema, pur se in materia di imposte sui redditi, I N GR O S SO , Reddito d’impresa, organizzazione in forma d’impresa e piccola impresa, Riv. Dir. Trib. 1993, I, 73 e ss. il quale, dopo aver esposto la tesi del significato pleonastico dell’espressione, la nega sostenendo che “l’aggettivo abituale non denota una qualità della professionalità, bensì funge da condizione. Si può avere professionalità pur senza che l’attività svolta sia esclusiva, ma si richiede che tra più attività concomitanti quella commerciale, che rappresenta la fonte del reddito d’impresa, sia “professionale”, abituale. si rende [..] abituale, significativo cumulandosi con dell’enfatizzazione del il sostantivo processo di normalità (o tipizzazione) dell’esercizio di attività d’impresa commerciale” (p.77). 115 Chi rileva invece la ripetizione insita nell’espressione professione abituale, attribuisce allo stesso requisito di professionalità una connotazione ambivalente, che si incentra sulla ripetitività degli atti, sulla reiterazione duratura e costante delle operazioni oggetto dell’attività tali da rendere questa ordinaria, anche ad una percezione esterna. In tal senso cfr. F IC AR I , Il profilo soggettivo cit. 558 ss.. 116 È grazie all’interpretazione di questo requisito che viene riconosciuta la rilevanza ai fini dell’imposta anche dell’attività costituita da un unico affare. La distinzione di questa dall’attività meramente occasionale viene fondata appunto sulla complessità, sulla durata, sull’impiego stabile di fattori produttivi organizzati e sull’entità degli introiti da questa ricavati. In tal senso si vedano ad esempio Cass.,10 maggio 1996, n. 4407; Cass., 12 marzo 1996, n. 2021; 117 In tal senso cfr. L U P I , voce Imposta sul valore aggiunto, Enc. Giur., 1989, vol. e C E N T O R E , Iva europea cit., 155; 107 Capitolo II distinguere l’attività d’impresa dall’operazione meramente occasionale 1 1 8 . Abitualità e professionalità unitamente analizzate sono state interpretate anche come giustificazione della non necessaria esclusività dell’attività svolta, ritenendosi, da un lato, assolutamente possibile l’esercizio di più attività contemporaneamente e, dall’altro, che una di esse, condotta appunto in modo professionale ed abitualmente, sia tale da qualificare le operazioni come imponibili e attribuire la soggettività passiva ai fini dell’imposta 1 1 9 . I successivi commi dell’art. 4 individuano tutta un’altra serie di ipotesi equiparate ai fini dell’imposta all’esercizio d’impresa, casi che in parte riprendono le articolate disposizioni dettate dalla direttiva 1 2 0 . Nessun riferimento al testo comunitario ha invece la disposizione di cui al comma secondo, laddove il legislatore nazionale ha introdotto un presunzione di imponibilità per le operazioni compiute dalle società, stabilendo che l’attività da esse svolta si considera in ogni caso attività d’impresa 1 2 1 , creando dunque un meccanismo automatico 118 Tenendo ad ogni modo sempre presente che l’abitualità dovrà valutarsi in funzione della tipologia di attività e non in modo assoluto, non essendo in ogni caso richiesto un esercizio ininterrotto. Per questo motivo, viene pacificamente riconosciuto il carattere imprenditoriale delle attività stagionali. Per la stessa ragione si ritiene che non si debba valutare l’imprenditorialità dell’attività esaminata sulla base della sua durata ininterrotta, non essendo necessario prevedere periodi minimi. In tal senso si veda F IC AR I , op. loc. ult. cit. Contra P O LAN O , Attività commerciale e impresa cit., 25 il quale sostiene che l’impresa per potersi considerare tale ed integrare il carattere di stabilità richiesto debba ad ogni modo rispettare un requisito temporale minimo, predeterminato o predeterminabile. 119 In tal senso I N GR OS S O , op. loc. cit. 120 Ci si riferisce in particolare alle disposizioni dettate in materia di enti non commerciali e pubblici o di attività di natura immobiliare. 121 Recita infatti l’art. 4, c. 2, n. 1 che si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio dell’impresa “le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice, dalle società per azioni e in accomandita per azioni, dalle società a responsabilità limitata, dalle società cooperative, di mutua assicurazione e di armamento, dalle società estere di cui 108 L’attività economica nell’ordinamento nazionale di attribuzione della soggettività passiva. A prescindere dal dibattito circa la possibile esistenza di società senza impresa, stante la finalità di esercizio di un’attività economica e non specificamente di impresa connaturata alla stessa nozione di società, il tenore di questa presunzione ha da subito posto in luce i possibili contrasti con il dettato delle norme comunitarie 1 2 2 . Essa è, infatti, in aperto contrasto con quanto sottolineato circa la rilevanza delle forme giuridiche in ambito Iva ed ancor di più con la necessità, posta in luce dalla giurisprudenza comunitaria, di verificare che un’attività economica sia effettivamente svolta, sia sotto il profilo della rilevanza dell’attività in ambito Iva, sia sotto quello del suo effettivo esercizio. E’ stato in particolare per risolvere la prima ipotesi di contrasto che la norma è stata modificata, accogliendo i suggerimenti emersi dalle pronunce della Corte di Giustizia relativi alla non rilevanza delle ipotesi di mero godimento o esercizio del diritto di proprietà 1 2 3 , sia nel caso di sfruttamento di un bene immobile, sia nel caso di possesso di partecipazioni societarie 1 2 4 . Molte altre sono le fattispecie considerate nella norma, che nel corso del tempo, si è arricchita di sempre maggiori specificazioni, spesso a discapito della propria chiarezza. Gli elementi principali restano ad ogni modo quelli appena richiamati, dall’analisi dei quali emerge una sostanziale conformità alle norme comunitarie, seppur con le differenze evidenziate. Sopra ogni cosa si nota la difficoltà del legislatore nazionale ad abbandonare strutture tradizionali del proprio ordinamento, a favore di una nozione ampia e maggiormente oggettiva che, forse, non gli appartiene. Nonostante questo, e più che altro forse per le esigenze stesse del sistema tributario, le norme che disciplinano, seppur come si all’art. 2507 c.c. e dalle società di fatto” 122 Lo rileva C O M E LLI , Iva comunitaria cit., 492 ss. 123 Cfr. supra nt. 18 e 19 e la giurisprudenza ivi citata. 124 La norma contiene anche ulteriori limitazioni alla portata della norma, introdotte in particolare in chiave antielusiva per contenere il fenomeno delle società di comodo. 109 Capitolo II è detto in via mediata, il presupposto soggettivo Iva abbandonano un approccio di tipo soggettivo, incentrato sulla figura dell’imprenditore, privilegiando invece l’oggettività data dal semplice riferimento alle diverse tipologie di attività, indipendentemente dal fatto che queste integrino pienamente le fattispecie definite dal diritto sostanziale 1 2 5 . 1.3 Il rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario a)- Imprenditore e impresa nel diritto civile Il cuore della disciplina civilistica dell’impresa è costituito dall’art. 2082 c.c. il quale, definendo la figura dell’imprenditore, delinea automaticamente anche i tratti fondamentali dell’impresa 1 2 6 . Quattro sono gli elementi fondamentali che la compongono: - l’attività economica, intesa quale insieme di atti coordinati 125 Sottolinea questa profilo, F ILIP P I , Imposta sul valore aggiunto, in Trattato di diritto tributario a cura di A M AT U C C I , vol. IV, Padova 2001, 230 ss. 126 In proposito, uno dei dibattiti più vivi nella dottrina commercialistica, sin dall’emanazione del codice civile, è stato quello del rapporto tra imprenditore ed impresa. Molte sono le teorie elaborate in tal senso; si va dall’impresa intesa come istituzione (S AN T O R O P AS S AR E LL I ), all’idea dell’impresa come autonoma e prevalente rispetto all’imprenditore (S E GN I ), all’impresa come centro di interessi propri, all’impresa intesa come azienda, sino all’interpretazione che la considera una “situazione giuridica attiva” posta alla base di un diritto soggettivo dell’imprenditore all’impresa (N IC O LÒ ). La dottrina maggioritaria ritiene invece che l’impresa vada considerata come un’attività svolta dall’imprenditore per mezzo dell’azienda (G R A ZIAN I , S AN T IN I ). Su questa interpretazione della nozione di impresa si innesta un’ulteriore dibattito sulla prevalenza giuridica di una figura o dell’altra, dibattito che vede, da un lato, chi (O P PO , S P AD A ) vede l’impresa come fattispecie primaria in funzione della quale viene individuata la figura dell’imprenditore, destinatario delle norme, e chi (B U ON O C O R E ), al contrario, ritiene che elemento centrale e dunque fattispecie definita dalle norme sia l’imprenditore, in base al quale si definisce successivamente l’impresa, quale oggetto del suo agire. Per una ricostruzione di quanto qui brevemente riportato si veda B UO NO C O R E , L’impresa in Trattato di diritto commerciale a cura di B U ON O C O R E , Torino, 2002, 52 ss e le indicazioni bibliografiche lì riportate. 110 sez. I, tomo 2.1, L’attività economica nell’ordinamento nazionale teleologicamente e perciò autonomamente rilevanti nel loro insieme. Requisito fondamentale è l’economicità, caratteristica che si sostanzia nell’utilizzazione di un metodo cosiddetto economico, ovvero in modo che i ricavi ottenuti con l’attività siano almeno pari ai costi sostenuti 1 2 7 . – - la professionalità, intesa quale stabilità ed abitualità dello svolgimento dell’attività. Si ritiene che questa caratteristica sia strettamente connessa allo stesso concetto di attività, intesa quale reiterazione di atti, ma che comunque rivesta un ruolo autonomo e fondamentale soprattutto nelle distinzione tra impresa ed attività occasionale. Il contenuto di questo requisito necessita di alcune precisazioni in termini negativi sulle quali vi è concorde opinione sia in dottrina che in giurisprudenza. – La professionalità intesa come stabilità non significa, infatti, né continuità in senso assoluto –motivo per cui sono pacificamente ritenute imprese anche le attività per natura temporanee, come quelle stagionali-, né prevalenza o esclusività –è cioè possibile la concorrenza con l’esercizio di altre attività- né, infine, principalità dell’attività d’impresa rispetto ad altre. - l’organizzazione dell’attività, intesa dalla dottrina maggioritaria come creazione di una struttura coordinata dei fattori produttivi funzionale all’esercizio dell’attività economica 1 2 8 . 127 La dottrina è ormai concorde nel considerare questo il contenuto dell’aggettivo economico. In passato, invece, si riteneva che il concetto di economicità implicasse la produzione di una qualche utilità, il che in sostanza rendeva tale requisito ridondante rispetto al fine di produzione proprio dell’impresa. L’attività definibile come economica è invece quella che viene svolta in modo da essere astrattamente idonea a coprire i costi con i ricavi, anche in assenza di scopo di lucro o di effettivo raggiungimento della copertura. Rilevante è, dunque, il metodo con cui l’attività viene condotta che deve uniformarsi ad un criterio quanto meno di economicità, in modo tale che l’impresa tragga da se stessa i mezzi per la propria sopravvivenza. In tal senso, B UO NO C O R E , cit., 61 ss e J AE G E R D E N O ZZ A - T O FFO LE T T O , Appunti di diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2006, 13 ss. 128 Il ruolo di questo elemento all’interno della definizione di impresa è stato ed 111 Capitolo II - il fine di produzione e scambio, espressamente enunciato dalla norma, dal quale si deduce dunque la necessità che l’attività si caratterizzi per la propria produttività, non potendosi qualificare come impresa un’attività di mero godimento. In dottrina, alcuni ricollegano alla richiesta di produttività dell’attività la necessità che essa sia rivolta al mercato, quale naturale destinazione del risultato dell’impresa 1 2 9 . b)- Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel diritto è tuttora molto dibattuto. La dottrina si divide, infatti, tra chi lo ritiene elemento necessario ed imprescindibile e chi, al contrario, lo definisce come pseudorequisito, non idoneo ad avere un portata discriminante. L’aspetto più fortemente discusso dell’organizzazione. è quello Inizialmente relativo si alla riteneva, dimensione infatti, che ed all’oggetto l’organizzazione predisposta dall’imprenditore dovesse avere ad oggetto capitale, beni ed in particolare lavoro altrui, raggiungendo dunque determinate dimensioni ed escludendo la rilevanza di quelle organizzazioni che non includessero tutti gli elementi indicati. E’ proprio sulla base di questo e sulla constatazione che, pur in assenza di alcuno di quei fattori, si può essere in presenza di un ‘attività organizzata in forma d’impresa, che è nata l’opinione per cui si dovrebbe ritenere in realtà sufficiente anche la semplice autorganizzazione del lavoro proprio, come può accadere nel caso del piccolo imprenditore. Gli oppositori di questa interpretazione ritengono, invece, che essa porti alla totale confusione tra attività d’impresa e lavoro autonomo. Si ritiene, dunque, che sia necessaria una forma anche solo essenziale di organizzazione, senza che vi sia necessità di una presenza contemporanea di tutti i fattori produttivi, giungendo così a teorizzare la possibilità di impresa senza azienda, così come dell’impresa senza lavoro altrui. Fra gli autori che svalutano il ruolo dell’organizzazione si vedano G A LG AN O , voce Imprenditore, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., vol. VII, 1992, 13 ss.; S P AD A , voce Impresa, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., vol. VII, 1992, 47 ss.; J AE G E R , Appunti cit., 18 ss. in senso opposto si sono invece espressi, tra gli altri, B U ON O C O R E , L’impresa cit., 109 ss; I D EM , voce Imprenditore, Enc. Dir., 1970, vol. XX, 516 ss.; O P PO , voce Impresa e Imprenditore- diritto commerciale, Enc. Giur., 1989, vol. XVI, 6 ss.; P AN U C C IO , Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 154 ss.; I D E M , voce Impresa, Enc. Dir., 1970, vol. XX, 618. 129 Si veda, in tal senso, la ricostruzione fatta da ss. 112 B U ON O C O R E , L’impresa cit., 147 L’attività economica nell’ordinamento nazionale civile e il diritto tributario Alcune osservazioni possono essere svolte sul confronto tra la nozione di impresa che emerge nel diritto civile e quella utilizzata dal legislatore tributario ai fini dell’imposta. Si tratta, a dire il vero, di un tema che ha occupato la dottrina per lungo tempo, nel tentativo di definire il livello di autonomia dell’impresa fiscale rispetto all’impresa comunemente intesa. Un primo dato che innegabilmente emerge dal confronto fra le norme è la diversa estensione che la categoria impresa assume all’interno dell’ordinamento tributario. Laddove infatti il codice civile fornisce una definizione generale, ancorata a precisi presupposti, tra cui l’organizzazione e la qualificazione soggettiva di chi esercita l’attività, cui affianca ulteriori classificazioni in funzione delle modalità o del tipo dell’attività svolta, le norme impositive si concentrano unicamente sul dato oggettivo costituito dall’esercizio dell’attività, creando un’unica categoria generale 130 . A tal fine il legislatore tributario riunisce tutte le tipologie di attività qualificabili come economiche, raccogliendo espressamente 130 Numerosissimi sono i contributi su questo tema. Si vedano in proposito, tra le pubblicazioni monografiche che si occupano espressamente del tema F AN T O ZZ I , Impresa e imprenditore cit.; S AM M AR T IN O , Profilo soggettivo cit.. Interessanti osservazioni si trovano anche in F AN T O ZZ I , Il concetto di imprenditore nella determinazione fiscale del reddito d’impresa, in Riforma tributaria e diritto commerciale, Atti del convegno di Macerata, 12-13 novembre 1976, Milano 1978, 97 e ss; F IC AR I , Il profilo soggettivo cit., 555 e ss.; F ILIP P I , voce Valore aggiunto (imposta), Enc. Dir., vol. XLVI, Milano, 1993, 135 ss.; I N GR OS S O , Reddito d’impresa cit., 61 e ss; I N T E R DO N AT O , Gli imprenditori, in L’imposta sul valore aggiunto- giurisprudenza sistematica di diritto tributario a cura di T E S AU R O , Torino, 2001, 131 e ss; M AS I , Categorie privatistiche e nuovo regime dell’Iva, Riv. Dir. Civ., 1980, 413 ss.; M IC H E LI , Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riforma tributaria e diritto commerciale cit., 34 e ss; O P PO , Categorie commercialistiche e riforma tributaria, in Riforma tributaria e diritto commerciale cit., 9 e ss; V E R R U CO LI , Riforma tributaria ed evoluzione del concetto d’impresa, in Riforma tributaria e diritto commerciale cit., 57 e ss; 113 Capitolo II dalla nozione civilistica solo il carattere di professionalità, il cui contenuto deve ritenersi assolutamente equivalente in entrambe le discipline. Ciò che in misura maggiore differenzia le disposizioni in materia di esercizio di impresa è il ruolo attribuito al requisito strutturale, ovvero alla presenza di un’organizzazione in forma d’impresa. Si è rilevato che, a prescindere dalle diverse posizioni espresse dalla dottrina commercialistica, l’elemento organizzazione riveste un’importanza rilevante, sia nella distinzione tra impresa e lavoro autonomo, sia nell’individuazione di sottocategorie come quella del piccolo imprenditore. In proposito, inoltre, indipendentemente dalla tipologia dei fattori utilizzati o delle dimensioni assunte, ciò che viene ritenuto elemento caratterizzante è la sua rilevanza esterna, portando quindi ad escludere dal novero delle attività imprenditoriali quelle meramente autorganizzate. Il legislatore Iva assume, invece, a questo riguardo un atteggiamento ambivalente, mostrando disinteresse nel caso in cui l’attività rientri tra quelle commerciali o agricole individuate dal codice civile e ritenendolo, invece, elemento qualificante nel caso in cui l’attività consista nella prestazione di servizi che non possono definirsi per loro natura commerciali, perché esclusi dalla disciplina di cui all’art. 2195 c.c. Non si giudica corretto sostenere che, sulla base di questa esclusione, il legislatore tributario abbia voluto segnare un netto distacco dall’istituto civilistico elidendone uno degli elementi fondamentali, al contrario, sembra più opportuno ritenere che, proprio in virtù del risalto attribuito al dato oggettivo costituito dalla natura dell’attività svolta, di per sé già idoneo a distinguere le due categorie di impresa e lavoro autonomo, si sia voluto porre in secondo piano il requisito organizzativo-dimensionale, non essendo decisive, quanto meno ai fini dell’imposta, le ulteriori suddivisioni operate dalla normativa civilistica 1 3 1 . 131 Essendo disciplinate espressamente dalla stessa norma tributaria le deroghe 114 L’attività economica nell’ordinamento nazionale Questo spiegherebbe anche perché, laddove la natura dell’attività non sia espressamente qualificata, il requisito organizzativo riassuma il proprio ruolo centrale nella distinzione tra le due categorie di attività e soggetti passivi 1 3 2 . Si ritiene, altresì, che l’espresso riferimento alla scarsa importanza dell’organizzazione possa rilevare sotto un altro profilo: esso dimostra come il legislatore non abbia voluto ripudiare la nozione tradizionale di impresa per crearne una propria, ma che al contrario sia partito da questa ed abbia scelto di dare rilevanza solo ad alcuni elementi ritenuti necessari nel settore impositivo. Apparentemente, dunque, la nozione definita in ambito tributario appare più ampia di quella individuata dal codice civile, anche se, di fatto, unendo le diverse categorie di imprenditore, commerciale o agricolo, nonché quella di piccolo imprenditore, si può notare come il al regime ordinario previste per particolari categorie di attività e soggetti passivi. L’irrilevanza dell’apparato organizzativo si spiega, allora, con la considerazione che altri sono i criteri che il legislatore tributario individua per la suddivisione interna alla categoria, criteri quantitativi, come il volume d’affari, più coerenti con lo scopo e la materia disciplinata, laddove invece le norme del codice civile utilizzano elementi qualitativi come l’organizzazione e la sua dimensione. 132 In tal senso è interessante, ma isolata, la posizione sostenuta da I N GR O S SO , op. loc.cit., il quale ritiene errata la prospettiva assunta dalla dottrina nel senso di distinguere la nozione d’impresa nei due settori, ritenendo piuttosto che le scelte effettuate dal legislatore tributario in ordine alla rilevanza dell’organizzazione non incidano tanto sul piano sostanziale quanto su quello probatorio. Secondo l’Autore, infatti, “il legislatore, nelle ipotesi di attività rientranti nell’art. 2195 c.c., nient’altro si è proposto che liberare l’ufficio dall’onere delle prova di qualificare come impresa commerciale le attività di fatto esercitate dal contribuente, quando esse siano omologhe a quelle elencate dallo stesso art. 2195 c.c. Egli, in quelle ipotesi, dà allora per “presunta” l’esistenza della specifica organizzazione imprenditoriale. [..] La formula legislativa quindi non svuota di significato e di contenuto “l’organizzazione”, ma comporta come conseguenza giuridica l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (79) ”. Nel senso che il requisito organizzativo sarebbe comunque presunto dal legislatore tributario, ma sullo stesso piano sostanziale, si vedano, ad esempio, F AN T O Z Z I , Imprenditore e impresa cit. e V E R R U C C O LI , Riforma tributaria cit. 115 Capitolo II contenuto di esse sostanzialmente coincida, salvo lasciare qualche incertezza classificatoria nel punto in cui piccola impresa e professione si intersecano. E, fatta salva la diversa ampiezza della categoria, non sembra si possano rilevare nella supposta impresa tributaria caratteristiche differenti da quelle della tradizionale nozione di impresa. Non si ritiene, infatti, siano da accogliersi le osservazioni di chi ritiene che la nozione di attività contenuta nell’art. 4 non richieda quel carattere di economicità e di direzione al mercato che invece l’impresa civilistica richiede 1 3 3 . Quanto all’economicità, non sembra potersi fondatamente ritenere che essa sia esclusa solo perché non espressamente richiamata dal legislatore. La norma, da un lato, rinvia al contenuto degli art. 2135 e 2195 c.c, disposizioni che definiscono e qualificano attività tipicamente imprenditoriali e dunque economiche; per altro verso, inoltre, non si può dimenticare che origine della disciplina nazionale sono le direttive comunitarie, le quali per l’appunto contemplano esclusivamente attività definite economiche, motivo per cui, anche se si ritenesse la qualifica irrilevante sulla base del diritto nazionale, essa assumerebbe rilevanza in funzione delle indicazioni provenienti dal diritto comunitario e dalla relativa giurisprudenza. Per quanto, invece, attiene l’osservazione che non sarebbe necessario un collegamento con il mercato, fondata sul fatto che il sistema dell’imposta prevede l’imponibilità anche in caso di autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, inclusa l’assegnazione dei beni ai soci, si ritiene che non si possa desumere un carattere di ordine generale dalla presenza di due ipotesi che non rientrano nel novero delle operazioni naturalmente imponibili, ma sono ad esse espressamente assimilate dal legislatore. Del resto, la stessa natura dell’imposta, quale imposizione sul consumo, nonché la sua 133 Lo sostengono I N T E R D O N AT O , Gli imprenditori cit., 129 e ss. e, in merito alla scarsa rilevanza della destinazione al mercato, F IC AR I , Il profilo soggettivo cit., 555-556, il quale, invece, conferma la necessità dell’economicità dell’attività svolta, nel senso dell’adozione di un metodo economico. 116 L’attività economica nell’ordinamento nazionale ratio ispirata all’affermazione del principio di neutralità sul mercato, rendono evidente la necessità che l’attività sia ad esso rivolta e che non sia, al contrario, destinata alla mera soddisfazione delle necessità del soggetto agente. Le diversità rilevate tra i due ordinamenti, quello civile e quello tributario, non sembrano, dunque, giustificare l’opinione che esista una nozione di impresa fiscale e che essa vada intesa e disciplinata apertamente in deroga alle norme di diritto civile, quantomeno non laddove le norme tributarie non dispongano esplicitamente in tal senso. Esse dimostrano solo che, all’interno delle norme impositive, partendo dalla nozione tradizionale propria dell’ordinamento nazionale, si è scelto di dare rilevanza ad alcuni elementi piuttosto che ad altri, in ambito Iva sicuramente anche sulla scorta delle indicazioni delle norme comunitarie che, come si è posto in evidenza, non hanno alcun interesse a creare suddivisioni interne alla generale categoria delle attività economiche e, libere da un’impostazione strettamente giuridica, hanno creato una nozione più ampia, che riunisce in sé ciò che le norme nazionali hanno suddiviso e diversamente qualificato. 2- A LCUNE CONSIDERAZIONI TERMINE “ ESERCIZIO ” SU IMPRESA , ATTIVITÀ E IL SIGNIFICATO DEL Nelle osservazioni che precedono si è tentato, seppur brevemente, di porre in evidenza le caratteristiche dell’impresa così come delineate sia dalle norme tributarie che dal diritto civile, sottolineandone la sostanziale omogeneità. Si è, per così dire, condotto un esame del profilo statico dell’impresa, prendendo in considerazione quegli elementi che risultano imprescindibili per qualificare in tal senso un fenomeno economico. È, ora, necessario svolgere alcune ulteriori considerazioni che investono il profilo dinamico del fenomeno, ovvero cercando di individuarne le caratteristiche nel suo divenire, nel corso di quello che viene chiamato esercizio dell’impresa. E’ necessario in questo caso prendere le mosse dalla qualificazione 117 Capitolo II giuridica dell’impresa come attività, elaborata dalla dottrina civilistica. La categoria giuridica dell’attività, la cui elaborazione ha inizio successivamente all’emanazione del codice civile, ha suscitato notevoli dibattiti, vista la difficoltà iniziale di definirne un’esatta collocazione, che tenesse conto delle sue caratteristiche e la distinguesse sia dall’atto che dal fatto giuridico 1 3 4 . Per attività si intende, dunque, quel complesso di atti teleologicamente orientati, aventi una continuità, una durata ed una direzione ad uno scopo. Queste caratteristiche fanno assumere agli atti una rilevanza giuridica unitaria, distinta da quella che essi avrebbero ove singolarmente considerati 1 3 5 . Una volta delineata questa nozione generale, argomento altrettanto controverso è stata l’individuazione del contenuto dell’attività, ovvero la specificazione di quale tipologia di atti potesse assumere tale rilevanza unitaria. La dottrina tradizionale riteneva che dovesse necessariamente trattarsi di atti giuridici in senso proprio la cui disciplina andava estesa all’attività, sia in tema di imputazione che di effetti. Diverse sono invece le conclusioni cui è giunto ora lo studio di 134 Per una ricostruzione dell’evoluzione del dibattito sviluppatosi in materia si vedano A LC A R O , L’attività- profili ricostruttivi e prospettive applicative, Napoli, 1999 e R O ND IN O N E , L’attività nel Codice Civile, Milano 2001. A LC A R O in particolare pone in evidenza l’autonomia della categoria giuridica, in quanto dotata di caratteristiche proprie e giuridicamente rilevante in modo indipendente dagli atti che la compongono. Nello stesso senso anche P AN U C C IO , Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 97 ss. Diverse invece le posizioni di altri autori; R ON D IN O N E , cit., 7 e ss. la ritiene sì una categoria autonoma, rientrante però nell’ambito del fatto giuridico, inteso in senso lato. Per contro, O P PO , Impresa come fattispecie in Scritti giuridici, I, Padova, 1992, 246 colloca l’impresa, in quanto attività, nell’ambito degli atti giuridici, pur specificando che non si tratta di atti negoziali, stante la natura comportamentale della fattispecie. Per un’analisi complessiva si veda anche A U LE T T A , voce Attività, Enc. Dir., Milano, 1958, 981 e ss. 135 In tal senso, P AN U C C IO , op.loc.cit. 118 L’attività economica nell’ordinamento nazionale questa categoria, con il quale si è posta in luce la complessità e la diversità delle componenti di un’attività, elementi che vanno dall’atto giuridico al comportamento meramente materiale. La conclusione è dunque che l’attività debba essere considerata quale comportamento attuativo unitario 1 3 6 rispetto al quale assume rilevanza qualsiasi “fatto di manifestazione” 1 3 7 e che, nella sua unitarietà, assume rilevanza preminente rispetto alle singole frazioni in cui potrebbe essere teoricamente scomposto 1 3 8 . Due sono i principi fondamentali che regolano l’attività così individuata: il principio di effettività, in base al quale assume rilevanza il dato fattuale consistente nel concreto esercizio della stessa, e la naturale tensione ad un risultato, elemento finalistico che riconduce ad unità gli elementi di cui l’attività si compone 1 3 9 . Da questi principi, ed in particolare da quello di effettività, discendono due importanti corollari che integrano la disciplina dell’attività: l’irrilevanza della volontà dell’agente circa gli effetti giuridici dell’attività –nel senso che essi discendono direttamente dal concreto esercizio, anche ove non voluti o conosciuti- e la conseguente mancanza di valore costitutivo delle dichiarazioni formali da questo rese, qualora sia la volontà che la sua manifestazione fossero in evidente contrasto con il dato fattuale 1 4 0 . Volontà e relative 136 La qualificazione in questo senso dell’attività si deve a O PP O , Impresa come fattispecie cit., 113 e ss; I D E M , Impresa e imprenditore- diritto commerciale, Enc. Giur., 1989, 2 e ss. 137 138 In questo senso, R ON D IN O N E , L’attività cit., 23. Si veda in proposito A LC A R O , L’attività cit., 26 e ss, il quale ritiene che l’attività debba essere considerata “un fenomeno in itinere” e che proprio in virtù delle sue caratteristiche essa “[..] costituisce un modello logico-giuridico non scomponibile in frammenti espressivi singolarmente di una funzione omogenea ed univoca” 139 In tal senso cfr gli Autori citati alle note precedenti. Per una disamina generale del principio di effettività P IO VAN I , voce Effettività, Enc. Dir., Milano, 1965, 420 e ss. 140 di È sulla base di queste considerazioni che si è negata per l’attività la natura atto giuridico negoziale, essendo sufficiente 119 la sola volontarietà del Capitolo II dichiarazioni potranno, dunque, avere valore semplicemente indiziario, in particolare con riguardo all’elemento teleologico dell’attività 1 4 1 . All’interno della categoria attività così individuata viene, dunque, inserita l’impresa, definita come un’attività specificamente qualificata, le cui caratteristiche sono quelle di economicità, professionalità e organizzazione sopra esaminate. In questo senso, pertanto, l’elemento costituito dall’esercizio effettivo dell’attività assume rilevanza centrale all’interno della fattispecie, mostrando da un punto di vista diverso gli altri elementi che la compongono ed i rapporti fra gli stessi 1 4 2 . In particolare, la centralità dell’attività nella prospettiva dinamica propria di questa interpretazione, attribuisce all’intera fattispecie un carattere maggiormente oggettivo, che la avvicina, tra l’altro, a quanto in precedenza rilevato sia a livello di ordinamento tributario, sia di ordinamento comunitario, consentendo di ipotizzare una nozione unitaria e sistematica. Dalla qualificazione dell’impresa come forma di attività discende l’applicazione anche ad essa del principio di effettività, da cui derivano importanti conseguenze, soprattutto in relazione al tema del suo inizio e della sua cessazione. Il requisito dell’effettivo esercizio viene generalmente applicato in modo molto puntuale dalla disciplina sostanziale, motivo per cui, ad esempio, non si riconosce l’acquisto della qualità d’imprenditore a comportamento, non degli effetti ad esso conseguenti. 141 Chiarissime in proposito le considerazioni di P AN U C C IO , Teoria giuridica cit., 113 ss. il quale, nel rilevare la differenza tra finalità dell’attività e causa di un atto negoziale, sottolinea il carattere inevitabilmente oggettivo che lo scopo assume in conseguenza del principio di effettività, che porta a svalutare l’elemento psicologico. In base a ciò, dunque, voluto e dichiarato possono fungere da indicatore dell’orientamento dell’attività in concreto, pur senza costituirne parte essi stessi. 142 Si ricorda in particolare la dottrina che vede nell’impresa e non nell’imprenditore la fattispecie primaria, attribuendo a quest’ultimo solo il ruolo di destinatario delle norme. In tal senso O P PO , L’impresa come fattispecie cit., 113 ss. 120 L’attività economica nell’ordinamento nazionale meno che l’attività non sia esercitata di fatto 1 4 3 . La citata rigidità ha un riscontro immediato nel caso dell’imprenditore individuale, per il quale l’esercizio effettivo dell’attività è imprescindibile e sufficiente anche in assenza degli adempimenti formali richiesti; diversa è invece l’applicazione nei confronti delle società, degli enti e delle persone giuridiche in generale, per le quali non si può in ogni caso prescindere dai requisiti formali, non tanto in ordine alla qualifica di imprenditore, quanto per il perfezionamento stesso della fattispecie che determina la nascita del soggetto giuridico, fondamentale per l’imputazione dell’attività. In questa prospettiva è possibile anche valutare diversamente l’altro requisito tipico dell’impresa, ovvero la sua struttura organizzativa, in particolare l’azienda. Disciplinata dall’art. 2555 c.c., l’azienda, cui spesso 144 l’organizzazione intesa in senso generale viene ricondotta , consiste in quell’insieme di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Già dalla semplice analisi del testo normativo emerge la funzione strumentale dell’azienda, indicata come il mezzo di cui il soggetto si serve per lo svolgimento dell’attività. Spesso in dottrina, in particolar modo da parte di chi sostiene la centralità del requisito organizzativo, viene riconosciuto all’azienda un ruolo essenziale, quasi prevalente rispetto agli altri elementi che compongono la fattispecie impresa, specie in virtù dell’autonomia che 143 Il noto dibattito circa la riconducibilità degli atti preparatori all’esercizio dell’impresa non investe il piano dell’effettività, quanto piuttosto quello della professionalità, negata da coloro che vedono l’inizio dell’impresa solo con l’inizio dell’attività propria, non essendo sufficiente quella meramente organizzativa. Per un esame del tema in rapporto sia al diritto commerciale che al diritto tributario so veda T AS S AN I , Gli atti preparatori e l’inizio dell’impresa, in Rass. Trib., 2000, 455. Per una esame dei profili fiscali dell’inizio dell’impresa si veda anche F ILIP P I , Fase di costituzione o inizio dell’attività imprenditoriale, in A M AT U C C I (a cura di) Gli aspetti fiscali dell’impresa- in B UO NO C O R E (a cura di) Trattato di diritto commerciale, 1.8, Torino, 2003, 183 ss. 144 Soprattutto da parte delle teorie oggettive già ricordate che identificano l’impresa stessa con l’azienda. 121 Capitolo II essa, una volta costituita ed avviata, assume anche rispetto all’elemento soggettivo dell’impresa. Senza volersi addentrare nelle discussioni circa il rapporto di prevalenza tra un elemento e l’altro della fattispecie, sembra però potersi sostenere che, in un’analisi dinamica dell’impresa, il ruolo dell’organizzazione in quanto azienda assuma caratteristiche diverse. Nell’ambito della teoria dell’impresa come attività qualificata è stato, infatti, sottolineato come l’organizzazione assuma una veste duplice. Da un lato, essa costituisce un carattere proprio dell’attività, espressamente richiesto dall’art. 2082 c.c. In secondo luogo, come appare evidente in particolare dal richiamato art. 2555 c.c., essa diventa componente ulteriore della fattispecie, elemento strumentale, funzionalmente collegato all’attività per l’esercizio di questa 1 4 5 . La particolarità che caratterizza l’organizzazione, e soprattutto l’azienda, è il fatto che essa, una volta creata ed avviata, assuma un carattere oggettivamente autonomo dall’attività e dal soggetto agente 1 4 6 . Questo è uno degli elementi che hanno sicuramente portato ad attribuirle una centralità nella nozione d’impresa, giungendo anche a ritenere, all’estremo, che sia l’attività funzionale all’organizzazione, quale mezzo per il suo mantenimento. Come è stato evidenziato, però, una simile interpretazione porta a creare una confusione fra due piani, necessari ma differenti, che costituiscono l’impresa: da un lato, l’attività e l’agente e dall’altro, i mezzi da questi utilizzati 1 4 7 . A ciò si aggiunga che, laddove si colga un’accezione ampia di attività d’impresa che comprenda anche la fase preparatoria e si 145 In questo senso, O P PO , Impresa come fattispecie cit., 243 e ss.; P AN U C C IO , Teoria giuridica cit., 71 ss.; A LC AR O , L’attività cit., 18 ss. 146 Evidenzia questo aspetto O PP O , op.loc.ult.cit. individuando, sulla base di questo, un’ulteriore differenza tra attività e azienda. Secondo l’Autore, infatti, l’attività è strettamente legata al soggetto agente, oltre il quale non potrebbe durare; l’oggettività che invece raggiunge un’organizzazione quale l’azienda consente che essa mantenga la propria funzione anche in caso di mutamento del soggetto cui fa capo. 147 In tal senso, P AN U C C IO , Teoria giuridica cit., 71 122 L’attività economica nell’ordinamento nazionale valorizzi il ruolo dell’attività nell’ambito della nozione, l’organizzazione può assumere l’ulteriore volto di risultato di quella parte dell’attività definita come organizzativa 1 4 8 . Affrontato in questi termini il problema del rapporto tra impresa e organizzazione sembra facilmente deducibile che l’organizzazione di per se stessa non possa ritenersi sufficiente, in assenza degli altri elementi, ad integrare la fattispecie, né tanto meno a mantenerla in vita quando essi vengano meno. Una simile considerazione nasce dalla stessa qualificazione dell’impresa come attività. Si è detto che il principio di effettività pone in secondo piano gli elementi volitivi e formali, scindendo, dunque, piano oggettivo e soggettivo e attribuendo a quest’ultimo un rilievo minore; è però la stessa natura dell’attività come fenomeno dinamico e teleologicamente orientato a rendere insufficiente l’azienda ai fini dell’esistenza dell’impresa. Ciò che, sulla base di questa interpretazione, diviene imprescindibile è, dunque, la sussistenza di quel nesso capace di fare di un insieme di atti e comportamenti un’attività giuridicamente rilevante 1 4 9 . Questo elemento deve, in virtù del principio di effettività, emergere da dati oggettivi, ma appare inevitabilmente collegato anche al profilo soggettivo 1 5 0 , costituito dall’agente, e, nel caso dell’impresa, dall’imprenditore. Ne deriva, dunque, che soprattutto in un’ottica temporale dell’attività, quando ci si accinga a valutarne momento iniziale e finale sarà necessario svolgere un esame che tenga conto del fenomeno nel 148 Si vedano O P PO , op. loc. cit. Le affermazioni dell’Autore vengono ripresa anche da B UO NO C O R E , L’impresa cit., 119. Insiste sull’importanza dell’attività organizzativa anche I N GR OS S O , Reddito d’impresa cit., 88 e ss. 149 L’importanza dell’elemento teleologico è stata rilevata anche in materia tributaria. In particolare, si veda F IC AR I , Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004; I D E M , Tipo societario e qualificazione dell’attività economica nell’imposizione sul reddito e sul valore aggiunto, Rass. Trib., 2004, 1240. 150 Cfr. supra nt. 141. 123 Capitolo II suo complesso e del collegamento fra questi diversi profili, evitando di concentrarsi unicamente su uno di essi e prestando attenzione anche a quegli elementi formali che poco prima sono stati definiti indiziari. Non si ritiene, infatti, che, pur nell’ambito di una fattispecie che più di altre rileva sotto un profilo strettamente oggettivo, possa prescindersi completamente da ciò che emerge a livello soggettivo, anche in considerazione che l’effettività implica l’irrilevanza della volontà circa gli effetti, non della volontarietà iniziale del comportamento in se stesso. In conclusione, si ritiene che i rilievi emersi dall’esame delle diverse posizioni sostenute nell’ambito della teoria commercialistica possano essere utilmente applicate in modo più generale anche in ambito tributario, prendendo spunto da essi per formulare un’interpretazione che appaia più vicina alla lettura data dell’ordinamento comunitario. Si è tentato di evidenziare in precedenza come, in realtà, la nozione d’impresa non presenti grandi differenze tra le diverse discipline, poggiando su un sostrato concettuale comune. A ciò si aggiunga che l’interpretazione che vede la centralità dell’attività anche in materia commerciale, consente di avvicinare ancor di più le differenti norme, superando, quanto meno in parte, l’approccio esclusivamente soggettivo attribuito alla disciplina del codice civile, e facendole assumere una connotazione oggettiva più simile a quella posta alla base sia della nozione d’impresa comunitaria sia di quella tributaria. Questo avvicinamento è in tal modo possibile anche in senso opposto; si è visto, infatti, come la nozione stessa di attività comporti la necessità di vagliare non solo inizialmente o nella fase conclusiva, ma in realtà durante tutta la durata del suo esercizio, la presenza di un nesso che unificando gli atti li renda un’attività giuridicamente rilevante. Elemento che deve emergere dal dato oggettivo, ma non solo, perché strettamente collegato alla figura dell’agente, e dunque al piano soggettivo della fattispecie. Una simile considerazione può forse essere in grado di mitigare il criterio rigidamente oggettivo cui si 124 L’attività economica nell’ordinamento nazionale poggiano le norme tributarie e limitarne alcune conseguenze potenzialmente negative. Si tratta, dunque, di spostare l’attenzione sugli atti compiuti dall’agente e verificarne l’effettiva appartenenza all’attività e, dunque, all’esercizio dell’impresa, non limitandosi, come accade in alcuni casi, a considerare unicamente la natura dei beni che ne sono oggetto, ma valutandoli anche sotto il diverso profilo soggettivo. In questo modo sembra possibile garantire il bilanciamento fra i diversi elementi costitutivi, valorizzando altresì, anche nell’ordinamento nazionale, la complessità e la molteplicità dei ruoli che il legislatore europeo ha assegnato all’attività economica nell’ambito dell’imposta 1 5 1 , ponendo nella giusta luce, anche in ambito nazionale, il legame inscindibile esistente tra attività economica, operazioni imponibili e soggetto passivo dell’imposta. Come si è affermato con riguardo all’ordinamento comunitario, questo legame importa necessariamente un’influenza reciproca fra le diverse componenti caratteristiche del sistema dell’imposta, influenza che vede nell’attività economica l’elemento centrale, sia nel proprio profilo oggettivo che in quello soggettivo. La possibilità di cogliere indicazioni in tal senso già nell’ordinamento interno dimostra come una valorizzazione della nozione di attività, tanto nella prospettiva oggettiva quanto in quella soggettiva, non sia del tutto estranea all’impostazione nazionale tradizionale. Di conseguenza, appare più semplice individuare una linea interpretativa differente da quella sinora applicata, interpretazione che sia in grado di conciliare il vincolo comunitario e l’utilizzo delle proprie categorie tradizionali atte a garantire la coerenza interna dell’ordinamento. Del resto, come già si è accennato e come meglio si illustrerà in seguito con riferimento alle diverse ipotesi di cessazione, le differenze 151 Analizza la nozione di attività all’interno dell’ordinamento comunitario, sottolineandone l’originalità rispetto alle tradizionali impostazioni dell’ordinamento nazionale A LC AR O , L’attività: profili applicativi e normativa comunitaria in L’attività cit., 83 e ss. 125 Capitolo II che si rilevano allo stato attuale tra regime nazionale e disciplina comunitaria interessano il piano interpretativo, e non –tranne alcuni profili- la disciplina normativa. 126 Sezione II S OM M A RI O : 1- La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale 1.1- La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento tributario: aspetti controversi.. 1.2- ..la disciplina a)- La cessazione nelle imposte dirette: cenni b)La cessazione dell’attività economica nell’Iva 1.3- La prospettiva del diritto commerciale 2-Le forme di cessazione dell’impresa 2.1- La liquidazione volontaria 2.1.1-La liquidazione dell’impresa nel diritto commerciale 2.1.2- Il valore degli adempimenti formali: la cancellazione dal Registro delle imprese 2.1.3- Iva e liquidazione ordinaria dell’impresa a)- L’approccio oggettivo di dottrina e giurisprudenza: la sopravvivenza dell’impresa sino alla completa dismissione dei beni. Critica b)- Il profilo formale della cessazione: la dichiarazione di cessazione ed il suo valore c)- L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni: autoconsumo generalizzato o necessità di destinazione estranea esplicita?. 2.1.4Cessione e affitto d’azienda: si verifica la cessazione dell’impresa? 2.1.5- I possibili effetti dell’incertezza riguardo al momento di cessazione sull’applicazione dell’imposta 2.2- Le procedure concorsuali: 2.2.1- L’esercizio dell’impresa e il fallimento 2.2.2- L’Iva nelle procedure concorsuali a)L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle vendite fallimentari b)- La dichiarazione prefallimentare come dichiarazione di cessazione dell’attività. Critica 3- Alcune considerazioni conclusive: la cessazione dell’impresa ed il suo ruolo nell’ordinamento interno 1- L A CESSAZIONE DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ’ ORDINAMENTO NAZIONALE . L’individuazione del momento di cessazione dell’impresa o, quanto meno, di plausibili indici dell’avvenuta cessazione costituisce un tema particolarmente controverso sia nell’ambito del diritto tributario che del diritto commerciale, stante la pressoché totale assenza di indicazioni normative a riguardo. Nonostante questo, la sua importanza appare già ad un primo sguardo innegabile, essendo la sua prima e principale funzione quella di segnare il limite finale per l’applicazione di un determinato statuto giuridico cui segue, come accade nell’Iva, la successiva totale estraneità del soggetto e delle sue azioni ad esso. Ogni settore dell’ordinamento valuta questo avvenimento secondo 127 Capitolo II prospettive diverse, accomunate però dalla comune percezione di esso esclusivamente, appunto, come un evento che segna un limite, speculare agli atti preparatori che del medesimo statuto giuridico indicano l’avvio. Sotto questo profilo, diritto commerciale e diritto tributario sono ancor più vicini di quanto non accada con riferimento all’individuazione e alla disciplina dell’impresa, questo in quanto la normativa fiscale si limita a dettare specifiche norme che regolano il regime impositivo della fase conclusiva dell’esperienza imprenditoriale, sotto ogni altro aspetto lasciata alla disciplina del codice civile o delle leggi ad esso collegate. Non si creano, quindi, in questo contesto contrasti o differenze tra la nozione civilistica e la nozione fiscale, essendo le due discipline perfettamente complementari e, anzi, profondamente collegate. Dato il senso comune con cui viene percepita l’espressione cessazione dell’impresa, le norme ed il dibattito, sia in dottrina che in giurisprudenza, si concentrano sulla fase terminale dell’impresa, in particolare sulla sua liquidazione, tentando di valutarne, da un lato, l’appartenenza o meno all’impresa stessa e, dall’altro, di trarre da essa indicazioni valide circa il momento di effettiva cessazione. In questo senso, la particolarità dell’ordinamento nazionale è la persistente frammentazione sia della disciplina sia delle risposte interpretative, diverse in funzione delle modalità o, più in generale, delle cause che portano al verificarsi del fatto cessazione, anticipato o posticipato, riconosciuto o negato, a seconda che si abbia a che fare con una liquidazione volontaria, un trasferimento di azienda o una procedura concorsuale. La frammentarietà e la diversità della disciplina normativa comportano, soprattutto in ambito impositivo, la difficoltà ad individuare principi comuni alle differenti ipotesi che vedono, a volte, valutato e reso decisivo il dato meramente fattuale ed altre sembrano invece attribuire una maggiore rilevanza ad elementi strettamente giuridici e, dunque, più formali. La stessa mancanza di uniformità e, quindi, la medesima assenza di 128 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale certezza si riscontrano anche nel diritto commerciale, le cui differenze poggiano principalmente sulla tipologia di imprenditore. Sembrano mancare, tuttavia, in quel settore dell’ordinamento diversità consistenti in funzione delle forme di cessazione, rese più uniformi dalla prospettiva unitaria della teoria dell’impresa. Seguendo le indicazioni dell’esame sinora condotto si rende pertanto necessario analizzare le risposte fornite dall’ordinamento alle diverse ipotesi considerate, nel tentativo di individuare quegli elementi comuni che sembrano trascurati, esaminando contemporaneamente sia il profilo strettamente tributario sia quello commerciale, come si è detto, in questo particolare ambito strettamente vincolati. Ricostruita in questi termini la disciplina della cessazione dell’impresa nel diritto tributario, ed in particolare con riferimento all’Iva, sarà possibile valutarne le caratteristiche e la funzione in rapporto a quanto emerso dall’esame dell’ordinamento comunitario che, a differenza di quello nazionale, appare totalmente indifferente di fronte alle diverse forme di cessazione, fornendo una disciplina ed un’interpretazione uniformi, guidate da principi, quale quello di neutralità, comuni all’intero sistema dell’imposta. 1.1- La cessazione dell’attività tributario: aspetti controversi… economica nell’ordinamento Partendo da un esame in termini generali, diversi sono i profili che emergono con riguardo alla fase terminale dell’impresa nell’ambito dell’ordinamento tributario. Da un lato, essa può determinare l’applicazione di un particolare regime impositivo con regole differenti rispetto a quello ordinariamente applicabile all’impresa, dall’altro influisce sull’applicabilità stessa dell’imposta, che nell’Iva viene meno, rendendo estranee al suo ambito di applicazione le successive operazioni compiute. Come si vedrà più dettagliatamente in seguito, il regime ai fini Iva e quello ai fini delle imposte sui redditi sono tra loro molto diversi, ma devono affrontare entrambi le medesime incertezze applicative ed 129 Capitolo II interpretative intrinseche alla materia, non diverse da quelle che la caratterizzano in modo trasversale in tutto l’ordinamento, seppur connotate dalle particolarità del settore impositivo. Dall’analisi di dottrina e giurisprudenza che si sono occupate del problema della cessazione dell’impresa emergono differenti opinioni, spesso opposte, che richiamano in larga parte gli interrogativi che caratterizzano il dibattito commercialistico e propongono soluzioni non del tutto convincenti. Concentrando l’attenzione su quella che sembra essere l’opinione maggioritaria, accolta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, emerge quello che si ritiene sia un vizio di fondo della prospettiva su cui essa si basa, costituita esclusivamente dal trattamento dei beni residui. Nel tentativo di giustificare l’imponibilità delle operazioni di cui essi siano oggetto anche successivamente alla cessazione dell’esercizio tipico e, addirittura, in un momento successivo alla chiusura della liquidazione, viene assegnato un ruolo essenziale all’elemento oggettivo della fattispecie, svalutando automaticamente la rilevanza dell’esercizio dell’attività e del profilo soggettivo ad esso necessariamente connesso. La prospettiva adottata porta alla teorizzazione di un’impresa fiscale diversa da quella cui ci si è riferiti sinora, che, in realtà, non sembra apparire giustificabile nemmeno sulla base del carattere oggettivo che si è detto tipico della disciplina tributaria, né sulla necessità di garantire la tassazione di determinati beni al momento della loro uscita dal circuito economico, dal momento che le norme stesse individuano le modalità con cui possono soddisfarsi le esigenze di chiusura del ciclo fiscale dei beni dell’impresa senza protrarne artificialmente la vita. Sulla base di questa presunta impresa fiscale, di fatto corrispondente all’azienda nella sua accezione più classica, nell’ambito dell’Iva si giunge a dilatare la nozione stessa dell’impresa sine die, con la conseguenza che essa potrebbe perdurare o addirittura riapparire, esclusivamente a fini impositivi, anche molto dopo l’effettiva 130 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale cessazione dell’attività da parte del soggetto, alla cui volontà e alle cui vicende sostanzialmente viene negata qualsiasi rilevanza, con conseguenze che interessano soprattutto la certezza del diritto e del regime impositivo di volta in volta applicabile. Essendo questo il principio ispiratore dell’interpretazione maggioritaria, diverse sono le prospettive che di essa emergono sul piano applicativo, in relazione alle diverse imposte. Nell’ambito delle imposte dei redditi, ad esempio, la stessa linea interpretativa è stata applicata al problema delle plusvalenze che emergono in sede di cessazione, con particolare attenzione al problema delle cessioni a titolo gratuito. Asserendo la perdurante destinazione imprenditoriale dei beni –in particolare dell’azienda- in grado di garantire la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, si voleva escludere l’emersione di plusvalenze imponibili nel caso di cessioni a titolo gratuito laddove il legislatore nulla disponeva, spostando, di conseguenza, il momento di imposizione alla definitiva uscita, a titolo oneroso, del bene dal circuito economico inteso in senso generale 1 5 2 . In entrambe le imposte si pone, poi, il problema dell’esatta applicazione delle norme che attribuiscono rilevanza anche alle ipotesi di autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, quali norme di chiusura che limitano il rischio che alcuni beni sfuggano del tutto alla tassazione. Come si vedrà, la dottrina maggiormente legata all’oggettività dell’impresa nell’ordinamento tributario ritiene necessario che, per l’espulsione dei beni dal regime tipico dell’impresa, vi sia anche in questi casi una differente destinazione espressa, non ritenendosi sufficiente la mera inutilizzazione successiva alla cessazione dell’attività. 152 Attualmente, il problema delle plusvalenze in caso di trasferimento a titolo gratuito è stato eliminato in radice perlomeno con riguardo alle vicende dell’azienda nel suo complesso, in quanto ora sono le stesse norme a prevedere che, sia ai fini Irpef che ai fini Ires, la cessione gratuita dell’azienda non comporti emersione di alcuna plusvalenza, il cui valore dovrà invece successivamente al momento della prima cessione verso corrispettivo. 131 calcolarsi Capitolo II Un ulteriore profilo controverso, soprattutto in ambito Iva, è quello che riguarda gli effetti ed il valore attribuibile agli elementi formali, quali la dichiarazione di cessazione dell’attività o la stessa cancellazione dal Registro delle imprese ai sensi delle norme del codice civile, il cui rilievo viene generalmente svalutato in favore di un approccio che valorizza maggiormente il dato sostanziale, sulla scorta della già sottolineata indifferenza mostrata verso il profilo soggettivo dell’impresa, sia in termini di volontà sia in termini di manifestazioni come si è detto forse riconducibile alla struttura stessa della disciplina, incentrata sulle operazioni imponibili e non sul profilo della soggettività passiva. 1.2…la disciplina a)-La cessazione nelle imposte dirette: cenni Il legislatore tributario disciplina espressamente la fase della liquidazione ai fini delle imposte dirette, distinguendo tra il periodo che precede l’apertura della liquidazione e quello della vera e propria fase liquidatoria. Anche nel caso di liquidazione volontaria, così come accade nell’ipotesi del fallimento, possiamo dunque individuare un primo periodo che va dall’inizio dell’esercizio all’apertura della liquidazione, con riguardo al quale dovrà essere presentata apposita dichiarazione, ed un secondo periodo che copre invece tutta la durata della liquidazione, pur se entro i limiti temporali espressamente indicati. L’art. 182 Tuir disciplina compiutamente la fase della liquidazione, indicando le modalità di determinazione del reddito d’impresa, in parte differenti da quelle applicabili per l’esercizio ordinario, e distinguendole in funzione della tipologia di soggetti interessati. Nel caso dell’imprenditore individuale e delle società di persone, se la liquidazione termina entro la residua frazione del periodo d'imposta nel quale ha avuto inizio, il reddito d'impresa è determinato in base al 132 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale bilancio finale di liquidazione. Se la liquidazione prosegue anche negli esercizi successivi, fino ad un massimo di tre, ogni periodo d’imposta verrà considerato separatamente, ma la determinazione definitiva di reddito ed imposta avverrà solo alla fine del periodo di liquidazione. Per questo motivo il reddito d'impresa relativo ai periodi intermedi si determina in via provvisoria, applicando le regole ordinarie adottate dal contribuente, sia fiscali che contabili; il reddito e l’imposta definitiva verranno determinate solo al termine della liquidazione attraverso un bilancio finale nel quale verranno operati i conguagli derivanti dai precedenti bilanci provvisori. Diversamente, nei casi in cui la fase di liquidazione si protragga oltre il triennio, i redditi determinati in via provvisoria si considereranno definitivi e non si procederà al conguaglio finale. È importante sottolineare che tale regime non è necessariamente applicabile per il fatto che, trattandosi di soggetti per i quali non viene espressamente disciplinato il procedimento di liquidazione, essi potrebbero anche ometterlo, giungendo direttamente alla cessazione. In particolare per l’imprenditore individuale, privo di qualsiasi disciplina per la fase conclusiva dell’impresa, la norma in esame precisa che la data di inizio della liquidazione corrisponde a quella indicata nella dichiarazione di variazione presentata ai fini Iva, con la conseguenza che, in caso di omessa presentazione, continuerà comunque ad applicarsi il regime impositivo ordinario 1 5 3 . In tal senso, la mancata comunicazione dell’inizio della liquidazione dovrebbe implicare l’impossibilità di usufruire della tassazione separata, prevista dall’art. 17, c. 1, lett. g Tuir per le plusvalenze derivanti dalla cessione di aziende o la liquidazione di imprese possedute da più di cinque anni. Il regime applicabile alle società di capitali è sostanzialmente uniforme a quello appena descritto, pur se prevede termini differenti, riferendosi in questi casi un periodo quinquennale per la 153 In tal senso L E O , Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2007, II, 2630 ss. 133 Capitolo II considerazione unitaria della fase di liquidazione o, in caso di superamento, la definitività dei redditi determinati in via provvisoria. Chiusa la liquidazione con la redazione del bilancio finale, in base al quale si determinano redditi imponibili e relativa imposta dovuta, l’impresa dovrebbe ritenersi anche fiscalmente cessata, non essendo di fatto prevista alcuna ulteriore formalità. Cessata l’impresa, dunque, per le persone fisiche tornerà ad essere applicabile l’ordinario regime di qualificazione e quantificazione del reddito imponibile. Avvenuta invece l’estinzione delle persone giuridiche, avverrà anche l’estinzione del soggetto passivo, con la conseguenza che anche le pendenze tributarie eventualmente sopravvenute in seguito ad accertamento saranno imputabili agli ex soci secondo il disposto dell’art. 2495 c.c. Questa scelta si giustifica in conseguenza delle modifiche intervenute nella norma del Codice Civile che non permettono più di considerare la società esistente sino alla definizione di tutti i rapporti una volta che sia intervenuta la cancellazione dal Registro delle Imprese. È pertanto automatico che i riflessi di tale disciplina si manifestino anche in ambito tributario, perché scomparendo la persona giuridica è inevitabile che venga meno anche il soggetto passivo dell’imposta, dei cui debiti residui risponderanno coloro che hanno avuto beneficio dallo scioglimento dell’ente, in proporzione a quanto ricevuto. Sotto il profilo reddituale, la cessazione dell’impresa coinvolge diverse altre disposizioni del testo unico, in particolare quelle relative alle plusvalenze generate dalla cessione dei beni relativi all’impresa. Il principale problema che veniva in proposito esaminato dalla dottrina riguardava la possibilità che tali plusvalenze emergessero anche nei casi di trasferimento a titolo gratuito dell’intera azienda, dovendosi valutare un eventuale incremento del valore rispetto a quello fiscalmente riconosciuto anche in assenza di un corrispettivo percepito dall’imprenditore. In proposito, emergevano due orientamenti contrapposti, l’uno che valutando il profilo soggettivo dell’impresa ed il suo collegamento con 134 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale la persona dell’imprenditore riteneva che in ogni caso il trasferimento fosse in grado di far emergere plusvalori in conseguenza del distacco da una specifica impresa, pur se di fatto i beni rimanevano inseriti nel circuito economico, ma destinati ad altra impresa 1 5 4 . L’altro, ponendo invece in risalto il carattere oggettivo della destinazione imprenditoriale dei beni, proponeva l’esclusione dei trasferimenti gratuiti dalle ipotesi di emersione delle plusvalenze, rilevabili solo nel caso di una successiva cessione a titolo oneroso, dovendosi attribuire rilevanza alla permanenza dei beni nel circuito fiscale delle imprese, così da configurare la neutralità del trasferimento che consentisse di mantenere costanti, anche successivamente, i valori fiscali dei beni interessati 1 5 5 . Questa seconda linea interpretativa sembra essere stata accolta dal legislatore che prevede ora, nell’art. 58 TUIR, la non emersione delle plusvalenze nel caso di trasferimento a titolo gratuito o mortis causa, disponendo l’assunzione dell’azienda da parte del beneficiario agli stessi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del cedente e l’emersione delle plusvalenze solo successivamente, al momento della cessione a titolo oneroso, il cui corrispettivo è qualificato come reddito diverso ai sensi dell’art. 67, c. 1, lett. h bis TUIR. Anche con riferimento ai soggetti passivi IRES, l’art. 86 specifica che si ha plusvalenza solo nel caso di trasferimento oneroso, escluse dunque le cessioni o i trasferimenti a titolo gratuito 1 5 6 . Nel novero delle vicende che possono interessare l’azienda, particolare rilievo assume, infine, il caso dell’affitto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale e della sua valenza estintiva nei confronti dell’impresa. Sulla base del dettato dell’art. 67, c. 1, lett. h i redditi derivati 154 155 In tal senso, M IC C IN E S I , Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993 Così S T E V AN AT O , Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994 156 In realtà, nei trasferimenti a titolo gratuito vengono solitamente ricomprese solo donazioni o trasferimenti a causa di morte, contemplando dunque ipotesi che coinvolgono persone fisiche, piuttosto che giuridiche. 135 Capitolo II dall’affitto o dalla concessione in usufrutto dell’azienda devono considerarsi come non conseguiti nell’esercizio dell’impresa, rientrando dunque nell’ambito dei redditi diversi. Da ciò dovrebbe desumersi che il legislatore, accogliendo la tesi che fa discendere dall’affitto dell’unica azienda la perdita della qualifica di imprenditore al locatore, ritiene in questi casi l’impresa cessata, senza considerare dunque i casi in cui, terminato il contratto d’affitto, il soggetto riprenda l’esercizio dell’attività temporaneamente sospesa. In questo senso, dunque, si dovrebbe ammettere l’emersione delle plusvalenze contestualmente alla nascita del contratto, cessando, di fatto, l’impresa del locatore, pur mantenendo questi la titolarità dell’azienda. Le disposizioni dell’art. 67 risultano pertanto controverse, in quanto stabiliscono che, solo una volta cessato l’affitto, la cessione dell’azienda sarà produttiva di plusvalenze, da qualificarsi anche in questo caso come reddito diverso. Un ultimo aspetto che può interessare la fase terminale dell’impresa anche ai fini delle imposte sui redditi è quello relativo all’applicabilità delle disposizioni che equiparano la destinazione all’uso personale dell’imprenditore o a finalità estranee all’impresa rispettivamente a ricavi o plusvalenze, a seconda dei beni che vengono ad interessare 1 5 7 . Si tratta infatti di stabilire, come si vedrà più ampiamente in ambito Iva, se la cessazione dell’esercizio dell’impresa possa di per sé comportare il passaggio in autoconsumo dei beni che eventualmente residuino dalla cessazione o se, come sostenuto da parte della dottrina, sia necessaria una destinazione espressa, non potendosi considerare la semplice inutilizzazione come uso personale. In realtà, stante il ruolo della disposizione in esame, ossia di norma di chiusura che consente l’emersione di materia imponibile anche in ipotesi che secondo le regole ordinarie dovrebbero escludersi, sembrerebbe più opportuno ritenere che una volta cessata definitivamente l’impresa, con la fine dell’esercizio, la liquidazione dell’attività e l’adempimento dei necessari obblighi formali, i beni 157 Cfr. artt. 57, 58, 85 e 86 del TUIR. 136 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale passino automaticamente nella sfera personale del contribuente, in quanto viene meno l’elemento –l’impresa- cui prima erano riferibili e che consentiva un loro trattamento speciale. b)-La cessazione dell’attività economica nell’Iva Come si è già sottolineato, l’importanza dell’individuazione del momento di cessazione e, dunque, estinzione dell’impresa, assume in ambito Iva una rilevanza del tutto differente da quella che la connota in ambito di imposte sui redditi. Dal combinato disposto degli art. 1 e 4 del Dpr. 633/1972 emerge, infatti, che l’esistenza dell’impresa ed il suo esercizio influiscono tanto sull’individuazione delle operazioni imponibili quanto su quella del soggetto passivo dell’imposta, pur se in via mediata, ponendo in luce il particolare legame esistente tra profilo oggettivo e soggettivo dell’imposta. La disciplina dettata dal Dpr. 633/1972 inerente alle fasi conclusive dell’attività economica 1 5 8 si limita a poche norme che non comportano grandi differenze rispetto alla disciplina ordinaria, ma precisano alcuni punti di grande rilievo. La prima ad affrontare la questione è l’art. 2 che al punto 5 include fra le operazioni assimilate alle cessioni di beni imponibili le ipotesi di autoconsumo o destinazione a finalità estranea all’impresa, “anche se determinate da cessazione dell’attività”. Successivamente, l’art. 30, laddove sancisce la possibilità per il contribuente di portare in detrazione le eccedenze emerse in sede di dichiarazione annuale o, in alternativa di chiederne il rimborso, precisa, ovviamente, la sola possibilità della richiesta di rimborso in caso di cessazione dell’attività. 158 Con riguardo alla cessazione difatti il legislatore non distingue tra i due diversi tipi di soggetti passivi, lavoratori autonomi o impresa. Viene dunque adottato un linguaggio più ampio che si riferisce genericamente all’attività economica svolta, applicando la medesima disciplina ad entrambe le ipotesi. 137 Capitolo II Infine, l’art. 35 che contiene la disciplina delle necessarie dichiarazioni di inizio, variazione e cessazione dell’attività volte all’identificazione del soggetto passivo e alla registrazione delle diverse vicende che lo interessano sino alla sua cessazione. Questa norma assume un ruolo centrale nella disciplina della fase conclusiva dell’attività, in quanto, indicando la fine delle operazioni di liquidazione dell’azienda come dies a quo del termine di trenta giorni per la presentazione della dichiarazione di cessazione, precisa l’inserimento di queste nell’ambito delle operazioni imponibili, specificando anche che, per tutta la durata della liquidazione, il soggetto sarà tenuto ai medesimi obblighi di versamento, fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione dell’imposta previsti per l’esercizio ordinario. A ciò si aggiunge la previsione che, in sede di ultima dichiarazione annuale, dovrà tenersi conto anche delle ipotesi di autoconsumo o destinazione estranea assimilate ai sensi dell’art. 2, nonché di quelle operazioni la cui imposta non sia ancora divenuta esigibile per espressa previsione normativa 1 5 9 . Emerge dalle norme richiamate l’omogeneità della disciplina impositiva tra esercizio ordinario e fase terminale dell’attività svolta, includendo per espressa previsione legislativa le operazioni di liquidazione tra quelle imponibili. La disciplina dettata, pur se apparentemente chiara e ben definita, non è però priva di aspetti di controversi che riguardano, da un lato, le ragioni che giustificano l’imponibilità delle attività di liquidazione, richiamando in parte gli stessi interrogativi che emergono nell’ambito 159 L’art. 35, c. 4 dispone infatti che “In caso di cessazione dell’attività il termine per la presentazione della dichiarazione di cui al comma 3 decorre dalla data di ultimazione delle operazioni relative alla liquidazione dell'azienda, per le quali rimangono ferme le disposizioni relative al versamento dell'imposta, alla fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione. Nell'ultima dichiarazione annuale deve tenersi conto anche dell'imposta dovuta ai sensi del n. 5) dell'articolo 2, da determinare computando anche le operazioni indicate nell'ultimo comma dell'articolo 6, per le quali non si è ancora verificata l'esigibilità dell'imposta.” 138 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale del diritto sostanziale circa la natura della fase liquidatoria, il suo reale contenuto ed i suoi effetti, e, dall’altro, alla disciplina delle ipotesi di cessazione in assenza di liquidazione cui il disposto normativo non fa alcun accenno. Infatti, posta l’imponibilità delle operazioni antecedenti alla definitiva estinzione dell’impresa, dai più giustificata dalla natura dei beni che ne sono oggetto – e dunque sulla base di considerazioni unicamente di natura oggettiva- né le norme né tanto meno dottrina e giurisprudenza forniscono indicazioni univoche circa la determinazione del momento di cessazione della fase liquidatoria e, di conseguenza, dell’impresa. 1.3- La prospettiva del diritto commerciale Il problema della corretta individuazione del momento di cessazione dell’impresa assume grande rilievo anche nell’ambito del diritto commerciale, in questo caso soprattutto nella prospettiva dell’assoggettabilità al fallimento dell’imprenditore cessato in base al disposto dell’art. 10 L.Fall. 1 6 0 . Il tema, oggetto di ampio dibattito da sempre, è tornato di grande attualità recentemente, prima grazie all’intervento della Corte Costituzionale 1 6 1 che ha in parte dichiarato l’illegittimità costituzionale 160 Dispone l’art. 10, c. 1 R.D. 267/1942 che “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo.” Precentemente alla riforma intervenuta con il Dlgs. 5/2006 la norma non faceva riferimento alla cancellazione dal registro delle imprese, bensì alla cessazione dell’impresa. 161 Corte cost. 12-03-1999 (8-03-1999), n. 66; Corte cost. 21-07-2000 (11-07-2000), n. 319; Corte cost. 07-11-2001 (06-11-2001), n. 361 (ord.); Corte cost. 22-04-2002 (11-04-2002), n. 131 (ord.). Con la prima delle sentenze citate, la 66/1999, la Corte Costituzionale, pur dichiarando infondata la questione postale, ha espresso un principio che modifica tutta la precedente giurisprudenza, ponendosi in particolar modo in contrasto con 139 Capitolo II della norma citata, laddove non prevedeva che il dies a quo del termine annuale dovesse ritenersi per le società il momento di cancellazione dal Registro delle imprese, ed ora in virtù delle modifiche legislative 1 6 2 che sembrano accogliere i suggerimenti sia del giudice costituzionale che della dottrina. L’argomento, da sempre affrontato anche nel settore d’origine con particolare attenzione all’imprenditore individuale, necessita oggi di alcune riflessioni anche con riferimento all’imprenditore collettivo, a la consolidata giurisprudenza di legittimità. Si afferma infatti che la certezza delle situazioni giuridiche richiede la previsione di un termine ben definito per la dichiarazione di fallimento, tanto dell’imprenditore cessato, quanto del socio non più responsabile. Si è sostenuta dunque la valenza di principio generale del disposto degli art. 10 e 11 L.fall. Con la sentenza 319/2000 la Corte ha dichiarato l’illegittimità parziale degli art. 10 e 147 L.fall. sostenendo che “Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre - appunto secondo il diritto vivente - non già dalla cessazione dell'attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire. E' evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non può nemmeno ipotizzarsi l'esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento. Va chiarito, a tale proposito, che rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l'impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento dev'essere dichiarato dopo la cessazione dell'impresa, così come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi. La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo 140 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale seguito della riforma del diritto societario ed in particolare di alcune norme del codice civile che ne regolano il regime pubblicitario ed i relativi effettivi, ponendo fine al lungo dibattito tra dottrina e giurisprudenza di legittimità 1 6 3 . La tendenza che si va affermando nell’ambio del diritto sostanziale muove, dunque, verso l’attribuzione di un maggior rilievo al dato formale costituito dalle dichiarazioni obbligatorie rese dall’imprenditore, a tutela di una maggiore certezza del diritto e, in tal modo, dei terzi che abbiano rapporto con l’impresa, in particolare i creditori. Come emerge dall’esame delle pronunce e delle novità legislative, la nuova direzione accolta non si contrappone totalmente all’indirizzo così del tutto inutile. Va perciò dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 della legge fallimentare - risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all'art. 147 - nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell'impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l'impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.” Le due successive ordinanze, pur dichiarando l’inammissibilità della questione proposta dai giudici di merito, che lamentavano una disparità di trattamento tra imprenditore individuale e collettivo fondata sull’irrilevanza della cancellazione dal Registro delle imprese per il primo, riaffermano ad ogni modo il principio contenuto nelle sentenze precedenti dichiarando che “successivamente all'entrata in vigore della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), istitutiva del registro delle imprese, va esclusa la configurabilità di un diritto vivente sulla rilevanza, ai fini della decorrenza del termine di cui all'art. 10 della legge fallimentare, della semplice cessazione di fatto dell'impresa individuale” 162 Modifiche che hanno interessato sia il diritto fallimentare (Dlgs. 9 gennaio 2006, n. 5) sia il diritto societario (Dlgs. 17 gennaio 2003, n. 6) 163 Ci si riferisce in particolare all’art. 2495 c.c che riproduce, modificandolo, il dettato del precedente art. 2456 c.c. a seguito della riforma attuata con il Dlgs. 17 gennaio 2003, n. 6, disponendo l’efficacia costitutiva della cancellazione delle società di capitali dal Registro delle imprese. 141 Capitolo II tradizionale, ma con esso si concilia lasciando ampio spazio alla verifica del dato concreto emergente dalla situazione di fatto, in attuazione del principio di effettività, necessariamente operante in relazione all’impresa. Queste novità sembrano, inoltre, potersi mettere in relazione con quanto precedentemente sottolineato circa la necessaria compenetrazione tra profilo oggettivo, diretta conseguenza dell’effettività, e profilo soggettivo, nel senso di attribuire un rilievo, potenzialmente determinante, alle dichiarazioni rese dall’imprenditore le quali, anche se obbligatorie, rientrano senza dubbio nella sfera giuridica propria del soggetto agente, quale manifestazione esterna della sua intenzione di porre fine all’esperienza imprenditoriale. La rilevanza di questi elementi formali risalta, dunque, anche sotto un ulteriore profilo: essi possono infatti costituire il dato oggettivo che comprova e delimita la volontà del soggetto. Questo a maggior ragione nel momento in cui gli effetti giuridici di tali dichiarazioni vengono precisamente individuati dal legislatore. Né una simile disciplina può ritenersi lesiva di alcuno degli interessi coinvolti o del tutto incoerente con le caratteristiche proprie della fattispecie, dal momento che sia le norme che l’interpretazione giurisprudenziale tutelano il profilo sostanziale ed effettivo dell’impresa nei casi di contrasto tra dato formale e dato fattuale. Da un primo esame superficiale di questi elementi sembra allora che si sia voluta definire maggiormente la valenza sistematica di alcune previsioni, soprattutto di quelle relative al regime delle iscrizioni che, sino ad ora, da un lato prescrivevano all’imprenditore di adempiere a precise formalità e, dall’altro, le svuotavano, a livello applicativo, di concreta efficacia giuridica, stante la quasi completa irrilevanza del loro contenuto, quanto meno a fini probatori. Fine primario di queste modifiche è sicuramente l’individuazione di elementi precisi che garantiscano la certezza delle situazioni giuridiche e delle loro modificazioni, fornendo ai soggetti interessati e all’interprete indispensabili punti di riferimento nell’individuazione corretta della disciplina applicabile. 142 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Il contributo che questo orientamento fornisce non dovrebbe, inoltre, limitarsi al solo diritto sostanziale, ovvero alla sola disciplina civilistica dell’impresa, ma potrebbe essere utile strumento anche in ambito impositivo, laddove dall’applicazione dei medesimi principi, quale quello di effettività e di piena rilevanza del solo dato oggettivo, discendono altrettante situazioni di incertezza, conseguenza di una disciplina che collega gli effetti giuridici principalmente al dato fattuale ed ai riscontri oggettivi, per loro natura poco idonei all’individuazione di regole universalmente applicabili, ma piuttosto forieri di un’interpretazione casistica e frammentata. 2-L E FORME DI CESSAZIONE DELL ’ IMPRESA Illustrati in questi termini i caratteri generali della fase liquidatoria e della cessazione dell’impresa sia nell’ordinamento tributario sia in quello commerciale, l’analisi deve proseguire avendo riguardo alle diverse forme di cessazione previste. La disciplina civilistica dell’impresa conosce infatti, sia a livello normativo che a livello di prassi, diverse forme di cessazione, ovvero differenti ipotesi cui ultima conseguenza è, in linea di principio, quella della cessazione dell’attività imprenditoriale. In assenza di indicazioni univoche da parte del legislatore, dottrina e giurisprudenza sono spesso giunte a conclusioni differenti, sia in funzione delle modalità del procedimento adottato a conclusione dell’attività –liquidazione, procedure concorsuali o cosiddette forme di cessazione senza liquidazione-, sia in ragione del soggetto coinvolto, sia esso imprenditore individuale o collettivo. In particolare, l’opera della dottrina si è concentrata nel tentativo di individuare i cosiddetti indici di cessazione sulla base dei quali valutare i diversi casi concreti esaminati. L’esame della fase finale è stato condotto in parallelo a quello della fase iniziale, tentando di applicare ad entrambi i momenti dell’impresa un’interpretazione che rispettasse il principio di effettività 143 Capitolo II caratteristico della fattispecie 1 6 4 . I risultati raggiunti non sono però univoci e, soprattutto, non sono apparsi decisivi nell’indicare una via sicura verso la certezza delle situazione giuridiche. In particolare, c’è da sottolineare la frammentarietà della disciplina e delle soluzioni individuate, dato che ha condotto ad un approccio più casistico che sistematico. È possibile, allora, verificare quali siano le conclusioni raggiunte in proposito, esaminando le ipotesi più importanti, liquidazione volontaria, fallimento e trasferimento dell’azienda, e cercando di evidenziare gli eventuali punti di contatto. Le medesime conclusioni, stante il rinvio integrale alla disciplina sostanziale evidente nella mancanza di norme tributarie derogatorie, dovranno poi verificarsi in rapporto alla disciplina dettata dal legislatore tributario in materia di Iva e con le soluzioni in questo ambito individuate da dottrina e giurisprudenza. 2.1- L A LIQUIDAZIONE VOLONTARIA 2.1.1- La liquidazione dell’impresa nel diritto commerciale Il legislatore disciplina la fase liquidatoria dell’impresa solo in relazione alle società, dettando una normativa dettagliata circa le modalità e gli adempimenti necessari, sia per le società di persone (artt. 2275 e ss., 2308 e ss.; 2323 e 2324 c.c) sia per le società di capitali (artt. 2484 e ss. c.c.). Il fatto che le norme si limitino alla sfera societaria non significa però che lo svolgimento della fase liquidatoria non sia riconoscibile anche a conclusione dell’impresa individuale, in cui, anzi, si pongono 164 Critica questo approccio L U B R AN O DI S CO R P AN IE LLO , Cessazione dell’impresa e procedure concorsuali, Milano 2005, 11 e ss. ritenendo che sia possibile lo studio della fase conclusiva dell’impresa indipendente dalle conclusioni raggiunte in merito al momento iniziale, prescindendo in particolare dalla distinzione tra imprenditore individuale e collettivo. 144 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale problematiche differenti dovute alla mancanza di separazione tra persona fisica ed imprenditore e, in particolare, all’inesistenza di un’autonomia patrimoniale dell’impresa rispetto al patrimonio personale dell’imprenditore. Lo studio della natura e della valenza della liquidazione è stato, infatti, condotto soprattutto con riguardo all’imprenditore individuale, con l’intento, da un lato, di individuarne l’esatto contenuto –vista l’assenza di precise indicazioni normative- e, dall’altro, di determinare in quale momento della fase liquidatoria si verifichi la cessazione dell’impresa. In proposito, si sono nel tempo susseguite diverse opinioni, nessuna delle quali si è in realtà dimostrata decisiva 1 6 5 . Una prima dottrina, più risalente, ha escluso che il periodo di liquidazione e definizione dei rapporti facenti capo all’impresa possa ritenersi parte integrante della stessa. Il principale argomento su cui questa tesi si fonda è costituito dal rispetto del principio di effettività, in base al quale non sarebbe possibile individuare il concreto esercizio dell’attività economica se non durante lo svolgimento della fase produttiva tipica dell’impresa, periodo in cui si possono riscontrare altresì le altre caratteristiche richieste, come la professionalità, l’organizzazione e la finalità di produzione e scambio. Tale opinione applica, dunque, ad entrambe le ipotesi di confine dell’impresa lo stesso principio: come non si può ritenere che l’impresa esista per il solo compimento di atti preparatori, così non si può sostenere che essa sopravviva alla cessazione delle operazioni attive, tipiche della fase produttiva. Sul versante opposto si colloca quella dottrina che riconosce la piena imprenditorialità della liquidazione, ritenendo che tutte le 165 Per una ricostruzione delle diverse posizioni assunte dalla dottrina si vedano B U ON O C O R E , L’impresa in Trattato cit., 168 ss.; L U B R AN O DI S CO R P AN IE LLO , La cessazione cit., 62 e ss; S P AD A , L’impresa in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., vol. VII, Milano 1992, 59 e ss. 145 Capitolo II operazioni volte alla dissoluzione dell’impresa e alla definizione dei rapporti giuridici ad essa facenti capo debbano includersi nell’attività d’impresa, la cui cessazione si avrà, pertanto, al termine della liquidazione. È questa la linea interpretativa che dilata maggiormente il contenuto della liquidazione e dell’impresa, convogliando in essa e, quindi, all’interno dell’impresa tutti quegli atti che portano alla completa disgregazione dell’attività, dell’organizzazione e dei rapporti giuridici da essa derivati 1 6 6 . Un approccio intermedio è quello che, pur collocando nella liquidazione tutte le operazioni che portano al totale dissolvimento di attività e organizzazione, compreso l’esaurimento dei rapporti giuridici pendenti, non ritiene che la cessazione dell’impresa sia necessariamente da collocarsi al termine di questa. In particolare, con riferimento all’imprenditore individuale, al fine di dare concreta attuazione al principio di effettività, si ritiene che la semplice intenzione, o una sua manifestazione, di cessare l’impresa non siano sufficienti a dettare un limite ad essa. Perché ciò accada è necessario che la decisione dell’imprenditore si dimostri definitiva ed irrevocabile sotto il profilo oggettivo, ossia si accompagni alla disgregazione della struttura produttiva con la conseguente impossibilità a riprendere l’attività 1 6 7 . 166 Tale approccio è stato applicato soprattutto dalla giurisprudenza di merito e legittimità con riguardo alle società, per cui si arrivava a negare cessazione dell’impresa ed estinzione del soggetto sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti, nonostante la liquidazione –definita in questo caso formale- si fosse già conclusa con la cancellazione dal registro delle imprese. Sulla distinzione tra liquidazione formale e liquidazione effettiva si veda ad esempio Cass., 8 gennaio 1997, n. 73 167 B UO NO C O R E , L’impresa in Trattato cit., 171 ss. il quale sostiene che si avrà cessazione quando alla delibera dell’imprenditore si unisca la disgregazione del complesso aziendale. Tale effetto si produrrà una volta che sia esaurita la liquidazione dell’attivo, operazione in grado di interrompere il nesso funzionale tra attività e azienda. Circa la necessaria 146 irrevocabilità delle scelte La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Gli autori che hanno sostenuto questa tesi hanno, dunque, teorizzato una distinzione negli atti che compongono la liquidazione, sostenendo che per aversi cessazione dell’impresa, ed in particolare perché si abbia disgregazione dell’azienda, sia sufficiente il completamento della liquidazione dell’attivo dell’impresa, ricomprendendo in esso tutti i beni ed i rapporti giuridici strumentali all’esercizio dell’attività economica. La definizione degli altri rapporti, in particolare la riscossione dei crediti o il pagamento dei debiti, pur facendo parte della liquidazione, si collocherebbe al di fuori della fattispecie impresa, perché, soprattutto le operazioni di definizione delle passività, sarebbero da ritenersi ad essa estranee. Un’ultima tesi sulla possibilità di includere la liquidazione nell’ambito dell’impresa si colloca sempre ad un livello intermedio fra le due tesi antitetiche inizialmente esposte, ma in termini leggermente diversi rispetto alla precedente. Essa pone al centro del proprio ragionamento la nozione di atti obiettivi d’impresa, ossia quelle operazioni oggettivamente e tipicamente riconducibili a ciascuna attività e come tali riconoscibili dai terzi. Così, come nel momento iniziale non si potrà ritenere integrata la fattispecie fino che non ci sia una esteriorizzazione dell’attività attraverso atti oggettivamente legati all’attività tipica 1 6 8 , indipendentemente dal nesso di tipo soggettivo impresso dal soggetto agente, allo stesso modo nella fase finale si dovrà riconoscere l’avvenuta cessazione dell’impresa nel momento in cui siano terminate quelle operazioni tipiche di ciascun tipo di attività 1 6 9 . dell’imprenditore individuale l’Autore richiama, in particolare, le tesi del M IN E R VIN I , L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 34 ss 168 Motivo per cui verrebbero escluse dagli atti preparatori rilevanti le operazioni meramente finanziarie. 169 G H ID IN I , Inizio e cessazione dell’impresa, in Temi, 1962, 416 ss.; M AS I , C ategorie privatistiche cit., 462; O PP O , Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici, I, Padova 1992, 64 ss. Sembra accogliere questa posizione circa la cessazione dell’impresa individuale –e delle società di persone- la giurisprudenza maggioritaria, che non 147 Capitolo II Conseguentemente, la liquidazione potrà considerarsi parte dell’impresa fin tanto che questa tipologia di operazioni 1 7 0 continui ad essere compiuta, mentre non si riterranno parte dell’impresa le ulteriori attività di definizione dei rapporti pendenti 1 7 1 . Nell’ambito di questa interpretazione viene, infine, dato risalto al requisito della professionalità, intesa quale reiterazione e sistematicità degli atti. In virtù di tale caratteristica si suggerisce, dunque, di tenere conto anche del fattore temporale nella valutazione delle singole operazioni: gli atti sporadici, pur se tipici, non integrando più la necessaria professionalità, non sono in grado di mantenere in vita l’impresa, che inevitabilmente dovrà considerarsi cessata in un momento precedente. Dal confronto fra tutte le opinioni emerge la difficoltà ad individuare indici di cessazione univoci, difficoltà motivata anche dalla ricordata assenza di un’esatta definizione della liquidazione, del suo contenuto e del suo termine finale, in riferimento a cui non emergono precise indicazioni nemmeno nelle norme recentemente riformate 1 7 2 . ritiene esercizio d’impresa le operazioni volte unicamente alla disgregazione del complesso aziendale, ma sostiene che si abbia cessazione già al “ compimento dell’ultima operazione intrinsecamente identica a quelle normalmente poste in essere durante l’esercizio dell’impresa”. In tal senso si vedano, ex pluribus, Cass., 21 febbraio 2007, 4105; Cass., 9 agosto 2002, n. 11213; Cass., 28 marzo 2001, n. 4455; Cass., 13 dicembre 2000, n. 15716; Cass., 14 giugno 2000, n. 8099. 170 G H ID IN I , op.loc.cit. fa l’esempio delle vendite di liquidazione che hanno ad oggetto merci o materie prime residue. 171 In particolare vengono escluse le operazioni di realizzazione dei crediti o estinzione dei debiti, perché non viene loro riconosciuta una rilevanza autonoma pur se collegate all’impresa, in quanto volte a definire posizioni creditorie o debitorie generate dall’attività tipica. 172 Non è infatti possibile definire, nemmeno su base normativa, quale debba essere l’esatto contenuto della liquidazione e quali i suoi confini, se cioè debba giungere alla completa definizione di tutti i rapporti facenti capo all’impresa o possa arrestarsi prima. A dire il vero l’imputabilità ai soci dei rapporti sopravvenuti o residui farebbe propendere per la seconda opinione, con cui 148 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Emerge, dunque, che con riferimento all’imprenditore individuale, stante l’esclusiva rilevanza attribuita al dato sostanziale, è difficile individuare non tanto un termine esatto per la cessazione, quanto un elemento univoco che funga anche solo da indicatore della conclusione del fenomeno imprenditoriale nel suo complesso. L’approccio casistico, conseguenza quasi obbligata della necessità di riscontri unicamente oggettivi, non è infatti in grado di fornire indicazioni; né del resto sembrano concederlo, in questo senso, la stessa natura di impresa e liquidazione. Si tratta infatti di fenomeni fluidi, in continuo divenire, difficilmente predeterminati o svolti secondo tempistiche e regole sempre uguali a se stesse 1 7 3 . Certamente, come si è sottolineato anche in dottrina 1 7 4 , il problema fondamentale consiste nel verificare se i comportamenti esaminati, ovvero la fase liquidatoria, siano in grado di integrare la fattispecie impresa e le caratteristiche stabilite dal legislatore. Difficile allora negare il carattere economico o professionale delle operazioni di liquidazione, così come è difficile negarne il legame con la precedente attività gestoria, quanto meno sotto il profilo dei beni interessati. Altrettanto, risulta difficile negare il nesso teleologico tra le operazioni della fase finale, parzialmente diverso da quello che caratterizza la fase produttiva, ma garantito sia sul piano oggettivo che sul piano soggettivo. In questo senso allora potrebbero ritenersi coerenti solo le due tesi contrapposte inizialmente illustrate: se si accetta l’appartenenza contrasta, però, la responsabilità prevista per i liquidatori nel caso di omessa liquidazione di alcuni rapporti dovuta a loro colpa, disposizione che fa quanto meno presumere la necessità di definire tutti i rapporti pendenti. 173 Soprattutto con riguardo alla c.d. disgregazione si sottolinea la difficoltà nell’individuazione del momento di realizzazione del comportamento, che inevitabilmente dipende da scelte del tutto personali dell’imprenditore e non sempre ha un significato univoco. 174 In tal senso, S P AD A , L’impresa cit. 59 e ss. 149 Capitolo II all’esercizio d’impresa degli atti preparatori e si ammette quindi di mitigare la portata del principio di effettività, lo stesso dovrà farsi con la fase liquidatoria, in caso contrario si dovranno escludere entrambe le fasi, in quanto non perfettamente riconducibili all’attività d’impresa intesa quale attività produttiva, rilevante finché concretamente svolta a tal fine. Non è nemmeno pienamente condivisibile il tentativo di distinguere tra atti in qualche modo tipici dell’attività considerata ed atti che invece non lo sono, soprattutto se si considera che, nella maggior parte dei casi, le operazioni di liquidazione consistono nella vendita dei beni dell’impresa, strumentali o merce che siano, operazioni in un certo senso sempre tipiche di qualsiasi attività e che possono, dunque, ritenersi in grado di integrare l’esercizio. Infine, non si può fondatamente sostenere che l’esistenza dell’impresa dipenda dalle vicende dell’azienda che, come già ricordato, costituisce strumento funzionale all’attività, non la sua stessa essenza. In tal senso, la disgregazione dell’azienda non potrebbe ritenersi né un indice univoco, stante la possibilità che l’impresa sia organizzata anche in sua assenza, né un elemento che rende irrevocabile la decisione dell’imprenditore, proprio in quanto si tratta di una definitività valutabile solo nei fatti, perché priva di conseguenze predeterminate e sempre aperta alla possibilità di una riorganizzazione. In conclusione, ciò che appare più evidente è che la mancata individuazione di un contenuto definito, la difficoltà a distinguere tra un tipo di operazione e l’altra al fine di valutarne l’appartenenza all’attività d’impresa e l’approccio casistico adottato, pur rispettando le caratteristiche del fenomeno economico e la sua tendenziale elasticità, creano serie difficoltà sul piano giuridico, perché, definita la sostanza della fattispecie, tenendo conto soprattutto delle sue caratteristiche extra giuridiche, non si sono forniti gli strumenti per individuarne i confini e, anche laddove indicati, li si è privati della 150 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale necessaria efficacia giuridica 1 7 5 . 2.1.2- Il valore degli adempimenti formali: la cancellazione dal registro delle imprese Viste le difficoltà che si incontrano sulla base dei soli riscontri oggettivi è necessario esaminare il ruolo che possono svolgere nell’individuazione della cessazione dell’impresa gli adempimenti formali imposti all’imprenditore, in particolare il regime delle iscrizioni nel Registro delle imprese delle vicende relative all’impresa. Anche in questo caso il tema assume una valenza diversa in rapporto ad imprenditore individuale o collettivo ed è, in conseguenza, stato esaminato anche dalla dottrina in modo differente, questa volta con particolare attenzione al fenomeno societario. Le principali norme che disciplinano il regime delle iscrizioni sono: -l’art. 2196 c.c., che dispone l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’impresa commerciale, delle sue modificazioni e della sua cessazione entro trenta giorni dal verificarsi del fatto dichiarato; -l’art. 2200 c.c. che impone l’obbligo dell’iscrizione a tutte le società –escluse le società semplici- indipendentemente dalla natura dell’attività esercitata; -gli artt. 2330 e 2331 c.c. che regolano l’iscrizione delle società di capitali e gli effetti ad essa conseguenti 1 7 6 ; -l’art. 2495 c.c. che dispone la cancellazione della società di capitali una volta approvato il bilancio finale di liquidazione. Circa l’ambito di applicazione delle suddette norme, l’opinione prevalente ritiene che le norme direttamente riferite alle società dettino una disciplina speciale per l’imprenditore collettivo, 175 Si potrebbe ritenere che, vista la particolarità della materia, il legislatore avesse voluto lasciare la valutazione di alcuni elementi al libero apprezzamento del giudice. Di fatto, però, al momento è la stessa giurisprudenza che si sta movendo verso indici di tipo formale, sulla base dei quali valutare il dato fattuale. 176 In particolare, l’acquisto della personalità giuridica. 151 Capitolo II escludendo pertanto l’applicabilità ad esso dell’art. 2196 c.c., apparentemente diretto al solo imprenditore individuale 1 7 7 . Tale interpretazione si fonda sull’equivalenza dai più affermata, e sostenuta anche dalla giurisprudenza, tra società e impresa, per cui una volta sorta la società inizierebbe automaticamente anche l’impresa. Mentre con riferimento all’imprenditore individuale assistiamo ad una rigida applicazione del principio di effettività per tutta la durata del fenomeno imprenditoriale, in base al quale, dunque, le dichiarazioni e le iscrizioni prescritte dall’art. 2196 c.c. non avrebbero valore in assenza del concreto svolgimento dell’attività o della sua effettiva cessazione 1 7 8 , nel caso delle società viene applicata una diversa disciplina a seconda che si guardi all’avvio dell’impresa o alla sua conclusione. La presunta equivalenza società-impresa 1 7 9 comporta infatti che, quanto alla fase iniziale, si prescinda dall’effettivo svolgimento di un’attività d’impresa, facendo coincidere nascita del soggetto e nascita dell’impresa, basandosi sull’idea che l’indicazione dell’oggetto sociale e la proiezione della società al suo raggiungimento siano elementi già 177 Contra, nel senso di distinguere tra società e impresa e considerare, conseguentemente, applicabile anche alle società l’art. 2196 c.c, laddove non esistano norme specifiche che disciplinino iscrizioni dallo stesso contenuto L UB R AN O DI S C O R P AN IE LLO , cit., 53 ss.; Z O R ZI , Decorrenza e natura del termine annuale ex art. 10 l. fall. per l'imprenditore individuale, Giur. comm. 2002, 5, 563 ss e la dottrina ivi citata; I D EM , Cancellazione della società dal registro delle imprese, estinzione della società e tutela dei creditori. Giur. comm. 2002, 1, 91. per una ricostruzione in termini generali del sistema di pubblicità dell’impresa si veda IBBA C., Il sistema della pubblicità d’impresa, oggi, Riv. Dir. Civ., 2005, I, 587 178 A dire il vero la giurisprudenza si è su questo fronte dimostrata meno rigida nel giudicare l’irrilevanza delle iscrizioni nel registro delle imprese, attribuendo ad esse il valore di presunzione semplice suscettibile in ogni caso di prova contraria. In questo senso, Cass., 15 luglio 2004, n. 13124; Cass., 27 novembre 1999, n. 13921. 179 Per una ricostruzione delle diverse posizioni in dottrina si veda B U ON O C O R E , L’impresa cit., 95 ss.; I D EM , voce Imprenditore cit, 545. 152 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale sufficienti a determinare l’avvio dell’impresa 1 8 0 . Diversa è invece stata fino ad ora la disciplina della fase terminale. Come si è visto, il Codice Civile delinea espressamente, pur senza indicarne una nozione, la fase di liquidazione delle società, con norme parzialmente diverse per società di persone e società di capitali. In particolare, il legislatore stabilisce che al termine della liquidazione si debba chiedere la cancellazione della società dal Registro delle imprese, evento a cui solo ora consegue l’estinzione della società per espressa statuizione del legislatore 1 8 1 . Applicando la stessa linea interpretativa vista per l’avvio dell’impresa, si dovrebbero far coincidere in questo momento cessazione dell’impresa ed estinzione del soggetto agente, prescindendo, dunque, da una puntuale verifica dell’effettività ed includendo la liquidazione nell’ambito dell’impresa. Non così è stato, soprattutto in giurisprudenza. In vigenza del precedente art. 2456 c.c. che, prima della riforma del 2003, disciplinava la cancellazione dal Registro delle imprese senza dichiararne l’efficacia estintiva 1 8 2 , si è sostenuta la teoria per cui non poteva considerarsi estinto il soggetto né cessata l’attività sino alla definizione di tutti i rapporti pendenti, indipendentemente dal fatto che la società avesse concluso la liquidazione formale e richiesto la cancellazione dal Registro delle imprese. Si applicava, dunque, alla fase di cessazione lo stesso principio di 180 Si vedano ad esempio Cass., 26 giugno 2001, n. 8694; Cass., 4 novembre 1994, n. 9084 181 Cfr. il nuovo testo dell’art. 2495 c.c che ha sostituito e modificato l’art. 2456 c.c 182 La norma precedente non dichiarava l’efficacia estintiva, ma nemmeno la escludeva, disponendo in ogni caso che eventuali rapporti sopravvenuti o non definiti fossero imputabili ai soci e, in caso di omissione colposa, agli stessi liquidatori. La distinzione tra liquidazione formale e liquidazione effettiva è di origine giurisprudenziale ed è quella che, presupponendo la sopravvivenza della società, comportava la possibilità di agire contro la società stessa anche successivamente alla cancellazione. 153 Capitolo II effettività valido per l’imprenditore individuale –pur se riferito alla società e non direttamente all’impresa- privando di sostanziale rilevanza, principalmente a tutela dei creditori sociali, le formalità imposte all’imprenditore, con l’effetto di posticipare l’applicabilità dell’art. 10 L. Fall., sino a renderlo quasi inoperante nei confronti delle società 1 8 3 . Le critiche avanzate a questa impostazione sono di due ordini. Con uno sguardo generale al fenomeno imprenditoriale si è da più parti sostenuto che sia ingiustificata una diversa disciplina dell’impresa sulla sola base della forma giuridica con cui essa viene condotta. Si critica, dunque, l’equivalenza società-impresa, sostenendo che, se principio cardine dell’attività d’impresa è l’effettività, esso deve ritenersi universalmente applicabile, con la conseguenza che, per qualificare come imprenditore una società si debba verificare il concreto esercizio dell’attività, sia al suo avvio che al momento della sua cessazione 1 8 4 . 183 Perché ovviamente un eventuale stato di insolvenza presuppone l’esistenza di rapporti pendenti e, dunque, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, l’esistenza della società. Di conseguenza, le società rimanevano sempre soggette al fallimento nei modi ordinari anche quando cancellate dal Registro delle imprese e non più operanti. 184 Tra chi ha mosso critiche a questa impostazione si può distinguere tra gli autori che lamentano una sovrapposizione tra piano soggettivo e attività (L UB R AN O DI S CO R P AN IE LLO ) e quelli che ritengono che, con riferimento alle società, si crei una distinzione tra impresa ed esercizio d’impresa (G H ID IN I ) . Nel primo caso, si ritiene che una cosa sia il disposto dell’art. 2196 c.c. relativo all’impresa in generale e, dunque, applicabile anche alle società, altra invece le disposizioni che disciplinano specificamente le società, a cominciare dall’art. 2200 c.c. Queste ultime investirebbero unicamente la sfera soggettiva, dettando la disciplina relativa alla nascita del soggetto giuridico in quanto tale, non in quanto imprenditore. Ciò comporterebbe pertanto la possibile concorrenza dei due tipi di iscrizioni, non necessariamente coincidenti. In particolare, il regime di cui all’art. 2196 c.c. sarebbe strettamente legato al principio di effettività, dovendosi ricollegare alla nozione generale di impresa e di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c., laddove si richiede appunto l’esercizio dell’attività e non la sua 154 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale In riferimento, invece, alla sola cessazione dell’impresa, e riconosciuta l’equivalenza tra soggetto e attività, si è criticato l’orientamento giurisprudenziale, in particolare, contestando l’idea per cui la cancellazione delle imprese non avesse efficacia estintiva, ma meramente dichiarativa e, soprattutto, non probante. Indicazioni interessanti in proposito vengono dalle recenti riforme legislative che hanno interessato sia il diritto societario che la legge fallimentare. Quanto al primo, la riforma organica della disciplina delle società di capitali ha portato alla modifica del disposto dell’art. 2456 c.c. sostituito dall’attuale art. 2495. La nuova norma interviene nel dibattito tra dottrina e giurisprudenza maggioritaria adottando una soluzione che appare più vicina alle posizioni della dottrina. Essa sancisce, infatti, l’efficacia costitutiva della cancellazione della società dal Registro delle imprese da cui discende l’estinzione del soggetto, con la conseguente imputazione delle eventuali sopravvenienze passive ai soci e ai liquidatori 1 8 5 . Si è semplice previsione quale finalità della società. Parzialmente diverse sono invece le considerazioni svolte da chi individua, nel caso dell’imprenditore collettivo, una scissione tra l’impresa ed il suo esercizio. La prima nascerebbe sulla sola base degli adempimenti formali, essendo sufficiente la previsione dell’oggetto sociale al momento della costituzione della società. L’esercizio dell’attività sarebbe invece verificabile solo in concreto, quando effettivamente svolta. Tra chi contesta l’equivalenza società-impresa e la conseguente attenuazione del principio di effettività, considerando che impresa e società siano due fattispecie differenti, troviamo anche B UO NO C O R E , voce Imprenditore cit. e O PP O , voce Impresa e Imprenditore cit. 185 Fra le prime sentenze che accolgono il nuovo principio si veda Cass., sez. I, 28-08-2006, n. 18618 che si è pronunciata in questi termini: “L’iscrizione nel Registro delle imprese della cancellazione di una società di capitali ne produce l’estinzione, con effetto costitutivo irreversibile, anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti: il principio, che emerge dalla legge di riforma, concerne non la cancellazione in sé, bensì i suoi effetti, e trova applicazione anche alle cancellazioni già iscritte in precedenza”. 155 Capitolo II posta così fine alla prassi consolidata per cui, nonostante la chiusura della liquidazione e la cancellazione, si riteneva che la società sopravvivesse sino all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici a lei imputabili, estendendo di fatto senza limiti la sua esistenza 1 8 6 . Altri elementi interessanti circa il rapporto tra società e impresa, così come tra liquidazione e impresa, emergono dall’esame delle norme che disciplinano la liquidazione delle società di capitali. Abrogato il divieto per i liquidatori di compiere nuove operazioni 1 8 7 , si parla ora di esercizio provvisorio e facoltativo dell’impresa in fase di liquidazione, lasciando forse intendere che i due concetti non siano del tutto sovrapponibili, ma, al contrario, solo eventualmente coincidenti. Sembra, dunque, che la liquidazione venga considerata come fase terminale della società in quanto soggetto esercente l’impresa, non come fase terminale dell’impresa, il cui concreto esercizio viene ritenuto meramente opzionale. Simili considerazioni non hanno in realtà rilevanza univoca in quanto potrebbero essere portate a sostegno tanto dell’erroneità dell’equivalenza tra società ed impresa quanto dell’opposto orientamento che, fondato sulla piena corrispondenza, riconosca un’attenuazione del principio di effettività nella fase di cessazione, per cui pur avendosi impresa non vi sarebbe necessità di un suo effettivo esercizio data la peculiarità e le finalità della fase liquidatoria. Deve inoltre sottolinearsi che tali disposizioni, contenute nel Libro V, Titolo V, Capo VIII, riguardano espressamente lo scioglimento e la liquidazione delle sole società di capitali e non interessano, pertanto, le società di persone. Tale affermazione sembra potersi desumere dal fatto che, anche successivamente alla riforma, con riguardo alle società di persone la giurisprudenza continua ad applicare il medesimo principio di effettività visto per l’imprenditore individuale, non attribuendo efficacia costituiva alla cancellazione dal Registro delle 186 In proposito Cass., 28 maggio 2004, n. 10314; Cass., 24 settembre 2003, n. 14147; Cass., 26 aprile 2001, n. 6078; Cass., 12 giugno 2000, n. 7972. 187 Divieto che permane invece per i liquidatori delle società di persone. 156 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale imprese, ma ritenendo necessaria per l’estinzione dell’ente la definizione di tutti i rapporti giuridici ad esso imputabili 1 8 8 . Indicazioni differenti ci giungono, al contrario, dal nuovo testo dell’art. 10 L. Fall. che, accogliendo le indicazioni della Corte Costituzionale, si spinge oltre e stabilisce che il termine annuale per il fallimento dell’imprenditore cessato, di qualsiasi natura esso sia, dovrà calcolarsi a partire dalla cancellazione dell’impresa dal Registro delle imprese, non più dal momento di effettiva cessazione dell’attività. La rigidità del criterio indicato dal legislatore della riforma è mitigato solo in due casi: per l’imprenditore individuale e le società cancellate d’ufficio si fa salva la possibilità di dimostrare il momento di effettiva cessazione. Ciò significa che i creditori 1 8 9 potranno ad ogni modo far valere la continuazione dell’impresa, dimostrando la falsità dell’iscrizione della cancellazione nel Registro e prolungando, di conseguenza i termini previsti per la dichiarazione di fallimento. Con questa scelta, il legislatore sembra dimostrare, anche attraverso la previsione di una soluzione unitaria per ogni tipo d’imprenditore, la propria intenzione di garantire quanto più possibile la certezza delle 188 Si vedano in proposito, Cass., 2 marzo 2006, n. 4652; Cass., 23 maggio 2006, n. 12114; Cass., 15 gennaio 2007, n. 646; Cass., 11 maggio 2005, n. 9917 con nota di FU M AG A LLI , in Società, 2006, 6, 710. Diverse alcune pronunce dei giudici di merito. Si veda, ad esempio, Corte d’Appello di Napoli, 06-05-2005 in cui si legge “L’estinzione di una società, sia essa società di capitali ovvero sia società di persone registrata, acquista efficacia nel momento in cui è effettuata l’iscrizione della cancellazione presso il competente registro delle imprese, indipendentemente dalla possibile sopravvivenza alla formalità pubblicitaria di rapporti patrimoniali, sostanziali e processuali, attivi e passivi; dopo la cancellazione della società, conseguentemente, i creditori insoddisfatti possono esperire soltanto le azioni previste dal 2º comma dell’attuale art. 2495 e non anche, come prima dell’entrata in vigore del Dlgs.. n. 6/2003, l’azione contro la società, per essere questa ormai definitivamente estinta.” 189 O eventualmente il Pubblico Ministero che abbia avviato la procedura, come specificato dalle ultime modifiche alla norma introdotte con il Dlgs. 12 settembre 2007, n. 169. 157 Capitolo II situazioni giuridiche, tornando ad un approccio di tipo formale che pone in secondo piano le diverse valutazioni di natura sostanziale, fatte comunque salve a garanzia della veridicità delle iscrizioni. La giurisprudenza coglie, infatti, nella riforma un principio universalmente applicabile in base al quale la cessazione assume rilevanza quando portata a conoscenza dei terzi con i mezzi idonei. Pur in assenza di iscrizione, dunque, il termine annuale deve considerarsi applicabile dal momento in cui si abbia concreta manifestazione della cessazione e non, come in precedenza, dall’esaurimento dei rapporti giuridici 1 9 0 . Appare dunque evidente che in un settore che aveva creato numerose difficoltà e dato adito a interpretazioni spesso opposte fra loro, il legislatore ha scelto di valorizzare, anche sulla scorta dell’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale, il ruolo del 190 In tal senso l’interpretazione della Corte di Cassazione che nella sentenza Cass. 28-08-2006, n. 18618 si è così espressa: “In tema di fallimento, il principio, emergente dalla sentenza 21 luglio 2000 n. 319 e dalle ordinanze 7 novembre 2001 n. 361 ed 11 aprile 2002 n. 131 della Corte Costituzionale, secondo cui il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, prescritto dall’art.10 l.fall. ai fini della dichiarazione, di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal Registro delle imprese, anziché dalla definizione dei rapporti passivi, non esclude l’applicabilità del predetto termine anche alle società non iscritte nel registro delle imprese, nei confronti delle quali il necessario bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela del creditori e di certezza delle situazioni giuridiche impone d’individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell’attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata.” Diversa l’opinione espressa in dottrina (B O N FAT T I -C E NS O N I , Manuale di diritto fallimentare, II ed., Padova 2007, 35 e ss).secondo cui in caso di società irregolari dovrebbe farsi comunque riferimento alla cessazione effettiva. Diversa sembra essere anche l’opinione dello stesso legislatore, dal momento che nella Relazione Ministeriale si legge che le società irregolari o di fatto restano soggette al fallimento senza alcun limite temporale. 158 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale regime delle iscrizioni, confermando che, soprattutto a tutela della certezza delle situazioni giuridiche, punto di riferimento debba essere il momento in cui le decisioni dell’imprenditore e le vicende dell’impresa vengono pubblicizzate e portate a conoscenza dei terzi attraverso gli strumenti indicati dalla legge e non la mera valutazione delle situazioni di fatto, troppo eterogenee e poco determinate per poter garantire la sicurezza degli effetti giuridici che conseguono al comportamento del soggetto. In questo senso, prima la Corte Costituzionale e successivamente il legislatore hanno intrapreso un cammino che tende a garantire la tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti attraverso il giusto bilanciamento degli elementi che compongono la fattispecie, vincolando strettamente l’oggettività dei riscontri fattuali richiesti dal principio di effettività con la soggettività delle scelte e della volontà dell’agente che si sostanziano negli adempimenti formali prescritti dalle norme, secondo una prospettiva che sembra rispettare maggiormente le caratteristiche dell’impresa intesa come espressione qualificata della categoria giuridica dell’attività. 2.1.3- Iva e liquidazione ordinaria dell’impresa a)- L’approccio oggettivo di dottrina e giurisprudenza: la sopravvivenza dell’impresa sino alla completa dismissione dei beni. Critica Ricostruita in questi termini la disciplina sostanziale della liquidazione ordinaria, è ora possibile esaminarne i profili rilevanti ai fini fiscali. Affrontando in termini generali la nozione di impresa si è accennato, contestandola, all’esistenza di una tesi, che appare a dire il vero maggioritaria, che desume dalle norme impositive una nozione di impresa in senso fiscale, caratterizzata dalla maggiore estensione rispetto alla fattispecie civilistica e denotata da una più spiccata oggettività rispetto a quello che si giudica l’orientamento 159 Capitolo II esclusivamente soggettivo del diritto sostanziale. Per valutarne le implicazioni in tema di cessazione dell’attività occorre qui brevemente riassumerne i punti fondamentali. Si parte dal presupposto che l’ordinamento tributario proponga un modello che, indipendente da quello civilistico ed incentrato esclusivamente sul profilo oggettivo, prescinde totalmente dall’elemento soggettivo della fattispecie e dal collegamento che possa esistere tra attività e soggetto agente 1 9 1 . Valorizzando questo aspetto dell’impresa si giunge, in coerenza con le esigenze tipiche delle norme impositive 1 9 2 , a considerare elemento realmente rilevante nell’individuazione dell’impresa fiscale la presenza di una struttura produttivo- patrimoniale 1 9 3 , ossia l’esistenza 191 In tal senso S T E VAN AT O , Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, cit., 20 ss. il quale sostiene che l’impostazione oggettiva delle norme impositive “ha un effetto dirompente sul piano dei rapporti imprenditore-impresa, in quanto finisce per dissolvere il connubio tra i due termini a favore di una considerazione oggettivata dell’attività: ciò che conta, per il legislatore tributario, non è che vi sia un soggetto “imprenditore”, ma che sia configurabile l’esercizio di un’attività produttiva di risultati economici su cui esercitare il prelievo”. Nello stesso senso anche S AM M AR T IN O , Il profilo soggettivo cit., 124 192 Che necessariamente guardano ai beni e alla loro circolazione. In proposito S AM M AR T IN O , Inapplicabilità dell’Iva sulle cessioni di beni effettuate dopo la cessazione dell’attività, in Dir. Prat. Trib., 1980, II, 424 sostiene che “ per una corretta identificazione della data di cessazione dell’attività, giova ricordare che la normativa tributaria, in stretta aderenza alla sua finalità specifica, che è quella del prelievo fiscale, non può accogliere il principio di effettività.” Allo stesso tempo, però, riconduce gli atti di liquidazione ad una nozione unitaria di attività, che dunque rispecchierebbe la struttura dell’impresa, costituendone una fase, affermando che “L’impresa cessa con l’ultima operazione di vendita di beni relativi ad essa, realizzata nel contesto di una serie di atti effettivamente posti in essere ed unitariamente considerati dal diritto” 193 Cfr. S T E VAN AT O , Inizio cit., 24 secondo il quale si configura “l’impresa in senso fiscale come un patrimonio autonomo assoggettato ad un particolare regime giuridico. Autonomo e separato perchè la struttura produttiva riceve una particolare qualificazione dal punto di vista tributario che la differenzia dal resto del patrimonio dell’imprenditore: l’esistenza di un regime fiscale cui sono 160 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale di un complesso di beni organizzati per lo svolgimento dell’attività. Da ciò consegue l’ulteriore svalutazione dello stesso profilo dinamico che costituisce l’impresa, ossia l’effettivo esercizio dell’attività economica, per assegnare un ruolo determinante all’elemento materiale della sua struttura 1 9 4 . Questa ricostruzione del presupposto influisce inevitabilmente anche sulle fasi iniziale e conclusiva dell’impresa, attribuendo rilevanza sia agli atti preparatori che alle operazioni di liquidazione, qualificati come esercizio d’impresa perché aventi ad oggetto beni ad essa collegati. Si ammette, dunque, che in casi come questi per l’esistenza fiscale dell’impresa possa essere sufficiente la sola presenza di un patrimonio destinato o di una struttura anche solo potenzialmente idonea all’esercizio di un’attività economica 1 9 5 . Principio fondamentale del fenomeno imprenditoriale non è più allora l’effettività dell’esercizio dell’attività economica, ma la presenza di un vincolo di destinazione dei beni ad essa destinati, con la conseguenza che, ai fini impositivi, l’impresa si considererà cessata e si avrà estinzione del soggetto passivo Iva solo nel momento in cui questo vincolo venga interrotto definitivamente. Sulla base di questa impostazione, dunque, ogni atto di disposizione, anche successivo alla formale cessazione dell’attività e dell’impresa sarà imponibile, perché considerato in ogni caso esercizio dell’attività, ad essa riconducibile in virtù del vincolo che continuerebbe a caratterizzare i beni, salvo nel caso in cui la assoggettati i beni relativi all’impresa consente di attribuire una rilevanza costitutiva alla struttura patrimoniale dell’impresa medesima”. 194 Si ritiene che il nucleo fiscale dell’attività non sia costituito dall’esercizio effettivo di un’attività commerciale, ma dall’apparato produttivo e dal patrimonio funzionale a tale esercizio. Ne consegue che l’organizzazione non assume rilevanza in quanto in forma d’impresa -che costituirebbe solo una modalità di produzione e organizzazione-, ma esclusivamente in quanto azienda, ossia insieme di beni funzionalmente collegati allo scopo di esercitare l’impresa. 195 Così sempre S T E VAN AT O , op.cit., 141. Nello stessi senso anche F IC AR I , Il profilo soggettivo cit, 585 ss. 161 Capitolo II destinazione a finalità extra imprenditoriali o personali del soggetto non venga espressamente disposta già nel momento della cessazione formale 1 9 6 . Questa impostazione non sembra potersi condividere. In primo luogo, perché essa si fonda su una ricostruzione del presupposto impositivo che non si ritiene del tutto corretta. Nel delineare la nozione generale di impresa la si è qualificata una fattispecie rientrante nella categoria delle attività, definita come complesso di atti teleologicamente orientati, aventi una continuità, una durata ed una direzione ad uno scopo definito ed impresso dal soggetto agente, necessariamente rette dal principio di effettività. Sulla base di questa classificazione si è, pertanto, ridefinito il ruolo dei diversi elementi che compongono la fattispecie, sottolineando, in particolare, il ruolo strumentale che l’elemento organizzativo viene ad assumere e la necessaria interdipendenza di profilo oggettivo e soggettivo, necessario sia per l’imputazione dell’attività che per la determinazione dell’elemento finalistico che la caratterizza. La stessa ricostruzione può essere applicata all’ambito tributario per diversi motivi. Emerge chiaramente dalle disposizioni che disciplinano l’imposta sul valore aggiunto come esse si riferiscano all’attività d’impresa, 196 Questo profilo si collega, infatti, alla valutazione degli effetti della cessazione sull’applicabilità dell’imposta per autoconsumo da parte dell’imprenditore prevista dall’art. 2, c. 2, n. 5 e sul valore della dichiarazione di cessazione dell’attività su cui la dottrina si divide. Sulla necessità di una diversa destinazione espressa si vedano F AN T O Z Z I , Imprenditore e impresa cit., 224 ss., F IC AR I , Il profilo soggettivo cit., 586; S AM M AR T IN O , Il profilo soggettivo cit., 127; I D EM , Inapplicabilità cit, 425; S T E VAN AT O , Inizio cit., 182 ss. Contra si vedano invece C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo, Enc. Giur, IV, Roma, 1996, 7; F E D E LE , Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’Iva e nell’Imposta di Registro, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Atti del convegno di S. Remo (21-23 marzo 1980), Padova, 1981, 166; M IC C IN E S I , Le plusvalenze d’impresa, Milano 1993, 167; T AS S AN I , Cessazione dell’impresa e trattamento fiscale dei beni residui, Riv. Dir. Fin., 1999, 3, 79. 162 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale concepita nel suo continuo svolgimento e qualificata, come si è visto, in modo non così differente dall’impresa civilistica. Dall’analisi sistematica della disciplina impositiva risulta inoltre molto chiaro quale sia il ruolo assegnato all’attività economica: l’individuazione delle operazioni imponibili, in quanto effettuate nell’esercizio dell’attività, la determinazione del soggetto passivo dell’imposta cui le norme sono applicabili, in ragione dell’attribuibilità allo stesso dell’attività rilevante, pur se, come si è detto, questo avviene in via mediata attraverso l’imputazione delle operazioni imponibili, ed infine l’indicazione degli acquisti che attribuiscono il diritto alla detrazione, perché effettuati nell’esercizio dell’impresa. Ecco, dunque, riproporsi lo schema che si è appena ricordato e che vede nell’esercizio dell’attività elemento centrale, da un lato, per la delimitazione degli atti riconducibili al fenomeno imprenditoriale e, dall’altro, per l’individuazione del soggetto cui essi vanno imputati, imputazione che, nell’Iva, coincide necessariamente con l’attribuzione della soggettività passiva all’imposta. Se si considera corretta questa impostazione, se ne può desumere che, vista la sostanziale omogeneità dei fenomeni, l’oggettività generalmente richiamata quale caratteristica fondamentale dell’ordinamento tributario, ed in particolare del sistema Iva, non possa spingersi sino all’elisione di elementi costitutivi della fattispecie. Ciò significa che l’elemento soggettivo, nonostante la struttura normativa che sembra porre in rilievo esclusivamente l’elemento oggettivo costituito dalle operazioni imponibili, non può considerarsi del tutto ininfluente, perché necessario alla stessa struttura dell’imposizione e per l’identificazione unitaria dell’attività, e soprattutto che non si può, per via interpretativa, ridurre l’impresa, che lo stesso legislatore richiama in termini di attività ed esercizio – accogliendo pertanto il principio di effettività 1 9 7 - alla mera esistenza di 197 In questo senso F AN T O ZZ I , Impresa e imprenditore cit., 199 ss. 163 Capitolo II beni fra loro funzionalmente legati da un presunto vincolo di destinazione. Questa considerazione appare ancor più evidente laddove si consideri il fatto che il legislatore Iva assegna un ruolo marginale al requisito strutturale-organizzativo e che, anche nei casi in cui attribuisce rilievo al rapporto di inerenza dei beni, lo fa in funzione dell’attività e delle operazioni imponibili, al fine dell’attribuzione del diritto alla detrazione, non per la verifica della stessa esistenza dell’impresa 1 9 8 . Pertanto, ritenere che il presupposto costituito dall’esercizio dell’impresa possa ritenersi integrato, ma soprattutto perdurare, per la sola presenza di un insieme di beni che, nel corso dell’attività ordinaria, erano ad essa strumentali significa privare di ogni rilevanza elementi fondamentali dello stesso presupposto, elementi che il tenore delle norme non porta assolutamente ad escludere, anzi, al contrario, rende necessari per l’applicazione dell’imposta. Ragionare esclusivamente in termini di destinazione dei beni porta, come si è detto, ad una eccessiva dilatazione della durata dell’impresa che finisce per sfuggire, in questo modo, al principio di effettività che dovrebbe informarla, e che viene giustificata dall’inclusione fra le operazioni imponibili delle attività di liquidazione dell’azienda, accolta come un’espressa estensione dell’impresa fiscale in funzione della definitiva espulsione dei beni dall’area giuridica dell’impresa. Si tratta, inoltre, di un approccio che, se in realtà neutrale con riferimento al soggetto passivo società 1 9 9 , rischia di falsare la 198 Così anche T IN E LLI , voce Azienda nel diritto tributario, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., II, Torino, 104 secondo il quale “ai fini della qualificazione dell’attività ai fini Iva, la presenza di un‘azienda, in difetto dei presupposti previsti dall’art. 4, non può considerarsi rilevante, ma soltanto indicativa ai fini dell’accertamento dei requisiti legali per l’individuazione del presupposto soggettivo” 199 Con riguardo a cui, essendo previsto un procedimento formale di liquidazione si pongono meno problemi di coordinamento, se non nel caso delle società di persone che, in assenza di liquidazione, potrebbero trovarsi nella stessa situazione di incertezza dell’imprenditore individuale. 164 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale disciplina della cessazione dell’impresa individuale -per la quale, come noto, non è prevista una fase di liquidazione obbligatoriasoprattutto nel momento in cui si svaluta il profilo formale e si adotta un’interpretazione restrittiva dell’art. 2, c. 2 n. 5 laddove prevede l’imponibilità di autoconsumo e destinazione a finalità estranea all’impresa dei beni in caso di cessazione. Si ritiene, dunque, che sia più opportuno esaminare la fase terminale dell’impresa prestando attenzione a tutti gli elementi che la costituiscono, ponendone in risalto i legami e cercando, su queste basi, di individuare la ragione dell’imponibilità delle operazioni di liquidazione. Posta l’applicabilità del regime impositivo ordinario anche alla fase di liquidazione dell’azienda, sancita espressamente dal legislatore, si rileva in giurisprudenza ed in dottrina un atteggiamento duplice che riassume in sé parte delle opinioni emerse con riguardo al diritto sostanziale. Da un lato, infatti, sembra generalizzarsi il principio in base al quale la liquidazione effettiva non può considerarsi conclusa sino all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici facenti capo all’impresa e, dall’altro, si accoglie l’idea per cui rientrano nell’esercizio dell’impresa tutte le operazioni che portano alla disgregazione del complesso aziendale, momento in cui si considera cessata l’impresa, con riguardo sia all’impresa individuale sia a quella collettiva. Si possono, quindi, richiamare gli stessi dubbi avanzati in merito a queste opinioni in sede di analisi del diritto sostanziale, cui si aggiungono alcune brevi considerazioni legate al sistema dell’imposta. Come si è già sottolineato, attribuire rilevanza costitutiva alla disgregazione aziendale non appare coerente all’interno di un’imposta che considera elemento marginale la presenza dell’azienda o, comunque, di una struttura organizzata, nel senso non di escluderla, ma di ritenerla ininfluente per l’integrazione del presupposto 2 0 0 . 200 In questo senso F E D E LE , La struttura cit., 149, il quale sostiene che “la 165 Capitolo II Questo, unito alla natura tipicamente strumentale del complesso di beni organizzati dal soggetto, porta a concludere che non si possa attribuire valore essenziale e costitutivo alle sue vicende, di per sé inidonee a fornire indicazioni univoche circa le sorti dell’impresa. In secondo luogo, l’idea per cui si avrebbe chiusura della liquidazione e cessazione dell’impresa al definitivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici potrebbe condurre al paradosso dell’impossibilità di determinare tale momento. Se, infatti, la disciplina Iva dispone la possibilità di richiedere il rimborso dell’eccedenza d’imposta versata al momento della cessazione e si pretende far coincidere la cessazione con la definizione di tutti i rapporti giuridici imputati all’impresa, essendo il rapporto tributario niente altro che uno di questi rapporti giuridici in attesa di definizione, si rischierebbe di non poter mai né ottenere il rimborso né considerare cessata l’impresa 2 0 1 . struttura organizzativa sottesa all’attività è, in linea di principio, irrilevante, in quanto l’unica forma di organizzazione necessariamente richiesta per la sussistenza dell’attività attiene alla correlazione fra gli atti ed i comportamenti che la costituiscono” 201 Effetto paradossale, ma in teoria possibile, negato però dalla giurisprudenza che ritiene la richiesta di rimborso come l’ultimo atto di liquidazione che segna il momento di cessazione dell’impresa. In questo senso, ad esempio, Cass., 27 giugno 2003, n. 10227. Di fatto, però, questa ricostruzione può risultare inapplicabile nel caso in cui sorgano contestazioni con l’Amministrazione che comportano la necessità di una definizione successiva dei rapporti. Lo stesso potrebbe poi dirsi nel caso in cui, anche successivamente, l’Amministrazione effettui un accertamento sui periodi d’imposta precedenti alla cessazione. Seguendo l’impostazione che fa corrispondere la cessazione alla definizione di tutti i rapporti giuridici dovrebbe allora ipotizzarsi la sopravvivenza dell’impresa quanto meno sino al momento in cui l’amministrazione non decada dal potere di accertamento, il che equivarrebbe a prolungare artificialmente la vita dell’impresa anche laddove essa sia già estinta. Si notano, quindi, gli stessi profili discutibili già notati con riguardo al diritto commerciale e alla presunta sopravvivenza della società fino all’esaurimento di tutti i rapporti non definiti in sede di liquidazione. 166 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Si pone, pertanto la necessità di verificare l’applicabilità delle altre due tesi che sono emerse nello studio del diritto commerciale anche nell’ambito dell’Iva. Esse, pur se profondamente differenti, sono accomunate da una prospettiva che prescinde dalla natura dei beni oggetto delle operazioni di liquidazione, ma guarda unicamente all’attività e alle sue caratteristiche, valorizzandone l’aspetto finalistico. La prima, che nega l’imponibilità della liquidazione, sostiene l’incompatibilità del concetto di attività con la fase liquidatoria, ritenendo in sostanza che non si possano considerare gli atti finalizzati allo smantellamento della struttura imprenditoriale e produttiva quali parte della stessa attività, sottolineando l’inconciliabilità di fondo esistente fra gli scopi che nei due diversi momenti ci si prefigge 2 0 2 . La seconda, come si è detto, distinguendo all’interno della liquidazione atti rientranti nell’attività d’impresa ed atti ad essa non più riconducibili, ragiona in termini di operazioni obiettivamente d’impresa e, soprattutto, di sistematicità delle stesse, ponendo in evidenza anche la necessità che le operazioni mantengano una certa costanza, non potendosi più attribuire rilevanza agli atti meramente sporadici. Entrambe le posizioni pongono, dunque, in risalto il legame tra gli atti necessario per la configurazione dell’attività, prospettiva che può sicuramente applicarsi anche in ambito Iva, proprio perché legata a Anche in ambito tributario questa impostazione comportava la possibilità di notificare ed eseguire i provvedimenti amministrativi direttamente nei confronti della società anche successivamente alla sua cancellazione. Le modifiche legislative intervenute in merito all’efficacia costitutiva della cancellazione delle società di capitali sembrano doversi applicare anche in materia tributaria, con la conseguenza che, una volta intervenuta la cancellazione e la conseguente estinzione del soggetto, anche il soggetto passivo dell’imposta dovrà considerarsi estinto, comportando la necessità di imputare gli eventuali debiti d’imposta successivamente emersi ai soci. 202 Per una ricostruzione delle diverse posizioni G AFFU R I , Iva e vendite fallimentari, Giur. Comm., 1974, I, 125 167 Capitolo II quegli elementi della fattispecie che si ritiene di accogliere anche all’interno del sistema dell’imposta. La prima impostazione, pur se corretta in una prospettiva che valorizzi l’effettività e lo scopo di produzione e scambio attribuito all’attività d’impresa, appare in realtà eccessivamente restrittiva e, di fatto, in contrasto con la disposta imponibilità degli atti liquidatori, a meno che non si voglia attribuire una diversa qualificazione alle disposizioni che dispongono l’imponibilità delle vendite liquidatorie. Si tratterebbe, allora, di rilevare che l’inserimento della liquidazione nell’ambito dell’attività rilevante non implica una sua equiparazione all’esercizio d’impresa, ma si giustifica, piuttosto per ragioni di coerenza e completezza del sistema dell’imposta in riferimento ai principi che la reggono, in particolare quello di neutralità. Pertanto, così come autoconsumo e destinazione a finalità estranee all’impresa costituiscono una disposizione di chiusura del sistema e vengono assimilate alle operazioni imponibili pur potendo, di fatto, non presentare le caratteristiche proprie delle cessioni o prestazioni ordinariamente imponibili 2 0 3 , allo stesso modo potrebbe qualificarsi la prevista imponibilità della liquidazione. Posta la diversità di scopo che interromperebbe il nesso tra le operazioni, impedendo di qualificarle come attività d’impresa, la norma si giustificherebbe allora come elemento volto a garantire, alla fine dell’esperienza imprenditoriale, il rispetto della ratio dell’imposta, in base alla quale ogni ipotesi di fuoriuscita dei beni dal circuito economico deve essere qualificato come immissione al consumo e pertanto soggetta all’imposta. Questa considerazione si ricollega all’idea della chiusura del ciclo fiscale dei beni d’impresa, per cui l’applicazione dell’imposta si pone in diretta relazione alla detrazione di cui il soggetto passivo ha potuto usufruire al momento della destinazione dei beni all’esercizio dell’impresa. Si prescinderebbe, quindi, in questo caso dalla 203 Perché gratuite o non rivolte al mercato o non ricollegabili all’attività quanto al nesso teleologico. 168 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale persistenza dell’esercizio d’impresa quale presupposto fondamentale, ritenendo sufficiente la presenza di un rapporto di inerenza tra oggetto delle operazioni e precedente attività imponibile 2 0 4 . Una siffatta impostazione consentirebbe, dunque, di fare salva la struttura propria dell’imposta, evitando al contempo di costruire un’artificiale sopravvivenza dell’impresa. Effetto che sarebbe, però, garantito unicamente dalla valorizzazione della dichiarazione di cessazione dell’attività prescritta dall’art. 35, unico elemento che in questo caso sarebbe in grado di fungere da discrimine tra operazioni imponibili, perché effettuate da un soggetto passivo, e operazioni al contrario realizzate da un privato e, conseguentemente, non rilevanti. In assenza di questa valorizzazione si giungerebbe altrimenti alle medesime conclusioni affermate dalla tesi che si è precedentemente contestata, in quanto ci si porrebbe sullo stesso piano di esclusiva rilevanza dei beni e del loro rapporto con la precedente impresa, senza possibilità di individuare il momento in cui questo rapporto viene ad interrompersi 2 0 5 . 204 Del resto si ritiene generalmente che tutte le operazioni che abbiano ad oggetto beni dell’impresa debbano considerarsi ad essa imponibili. In tal senso B O S E LLO , L’imposta sul valore aggiunto, Bologna, 1979; F E D E LE , La struttura cit., 165 ss. 205 Tale ricostruzione potrebbe inoltre apparire difficilmente conciliabile con le posizioni che, come si vedrà in seguito, sono recentemente emerse a livello comunitario in base alle quali, coerentemente con la necessità di rispettare il principio di neutralità che caratterizza l’imposta, il soggetto passivo continua a godere del diritto di detrazione anche con riferimento alle spese sostenute nella fase conclusiva della vita dell’impresa, pur in assenza di operazioni attive. Se si affermasse l’esclusione totale della liquidazione dalla vita dell’impresa, riconoscere il diritto alla detrazione per l’imposta corrisposta a monte in questa fase sarebbe difficile, venendo meno, di fatto, la necessità di rispettare una neutralità che non appare più applicabile, non trattandosi di operazioni che confluiranno in un’attività destinata al mercato e all’immissione finale al consumo, perché non più inserite nel circuito economico dell’impresa. Anche in questo caso, dunque, il diritto alla detrazione potrebbe essere riconosciuto solo in forza del disposto dell’art. 35 che prevede il mantenimento del regime ordinario, pur in 169 Capitolo II La seconda interpretazione proposta sembra, invece, valorizzare un profilo più consono al sistema Iva, concentrando l’attenzione sulla riconducibilità delle operazioni all’impresa in funzione delle proprie caratteristiche e non solo del loro oggetto. La possibilità di valutare il legame delle operazioni effettuate durante la liquidazione su queste basi appare inoltre più coerente con l’applicabilità del regime ordinario sancita dal legislatore, comprensiva dunque di imponibilità a valle e detrazione a monte, permettendo di considerare cessata l’impresa in coincidenza con l’esaurimento di questo vincolo, valutabile in termini oggettivi, ma inevitabilmente collegato al ruolo del soggetto agente e sulla sua capacità di imprimere tale legame. Di fatto poi, all’interno del sistema dell’imposta e con l’ausilio delle disposizioni di cui all’art 2, c. 2 n. 5, questa interpretazione sembra potersi applicare sia ai casi in cui l’impresa venga a cessare in assenza di liquidazione sia a quelli, in realtà più frequenti, in cui si verifichi una forma, seppur semplificata, di liquidazione. Permette, dunque, di individuare una linea interpretativa comune ai diversi tipi di soggetti passivi, a differenza della precedente che, del tutto coerente alle ipotesi di assenza di liquidazione, è più difficilmente conciliabile con i casi in cui questa si svolga. Certamente, come già si è sottolineato, anche questa impostazione non va esente da critiche laddove impone un’analisi necessariamente casistica, che valuti di volta in volta le caratteristiche del singolo caso, tuttavia sembra consentire un maggiore rispetto delle peculiarità della fattispecie impresa, cui la disciplina impositiva non deroga, e delle stesse esigenze del sistema dell’imposta. b)- Il profilo formale della cessazione: la dichiarazione di cessazione ed il suo valore Esaminati gli elementi oggettivi della fase conclusiva dell’impresa, assenza del requisito soggettivo e, dunque, all’esercizio dell’impresa. 170 di riferibilità degli acquisti La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale occorre ora rivolgere l’attenzione anche a quello che si è definito il profilo soggettivo dell’impresa, costituito dal ruolo del soggetto passivo, quale centro d’imputazione dell’attività imponibile. Si tratta, dunque, di valutare se sia possibile, anche nell’ambito della disciplina dell’Iva attribuire una qualche rilevanza alla volontà del soggetto e alle sue manifestazioni, anche indirette, se non in termini di effetti costitutivi, quanto meno sotto il profilo di indice di cessazione, valutandone gli effetti sull’esistenza stessa dell’impresa. Parallelamente a quanto accade nell’ambito del diritto commerciale con le iscrizioni nel Registro delle imprese, anche nell’ambito dell’imposta si tende a non attribuire valore alla dichiarazione di cessazione dell’attività, preferendo, al contrario, riconoscere maggiore rilevanza al dato fattuale, costituito, come si è visto, dall’esaurimento dei rapporti giuridici o dalla completa disgregazione della struttura patrimoniale dell’impresa 2 0 6 . Si ritiene in sostanza che, data la funzione di mera comunicazione all’Amministrazione tributaria priva di effetti sostanziali, la dichiarazione di cessazione avrebbe rilievo ai soli fini di anagrafe tributaria, non influendo né negativamente né positivamente sul rapporto sostanziale 2 0 7 . In realtà, le posizioni soprattutto della giurisprudenza oscillano tra questa interpretazione, che deve ad ogni modo ritenersi maggioritaria 2 0 8 , e l’opposta, in base alla quale la presentazione della 206 Così gli Autori precedentemente citati: F AN T O ZZ I , Imprenditore cit., 224; F IC AR I , profilo soggettivo cit., 586; I N T E R D O N AT O , Gli imprenditori cit., 156; S AM M AR T IN O , Inapplicabilità cit., 426; S T E VAN AT O , Liquidazione cit., 177. 207 In tal senso, Cass., 2 marzo 2004, n. 4234 con nota di CATTELAN G., Rimborso e cessazione di attività in assenza di fase liquidatoria, Corr. Trib., 2004, 1906. In essa affermando appunto l’inefficacia sostanziale della dichiarazione, si nega che la sua mancanza possa influire sul credito d’imposta spettante al contribuente. Le dichiarazioni rientrerebbero esclusivamente nel novero degli adempimenti formali, neutrali nei confronti del rapporto sostanziale. In questo senso CTR Toscana, 10 ottobre 1997, n. 39. 208 Così le più recenti pronunce del giudice di legittimità in materia, a dire il vero non molto numerose. Si vedano in proposito le già citate Cass., 27 giugno 171 Capitolo II dichiarazione segnerebbe il momento oltre il quale l’impresa debba comunque considerarsi cessata con conseguente perdita della soggettività passiva Iva e distacco definitivo dei beni eventualmente residui dalla realtà imprenditoriale 2 0 9 . Il significato attribuibile alla dichiarazione di cessazione e al suo contenuto si collega inevitabilmente all’interpretazione che si ritiene di accogliere circa la natura ed il contenuto della fase liquidatoria. Anche in questo caso sembra dunque necessario valutare la compatibilità e gli effetti di una tesi che, partendo dal presupposto che l’attività d’impresa sussista fintanto che sia possibile verificare la sussistenza del nesso tra le operazioni compiute e l’attività, si colloca in una posizione intermedia tra quelle appena ricordate, inserendo la dichiarazione nel contesto generale dell’impresa e non esaminandone invece gli effetti in senso assoluto. Ragionare in termini di oggettiva assimilabilità degli atti compiuti a quelli tipici dell’impresa, valorizzandone anche il legame sotto il profilo della sistematicità –che dovrebbe integrare il requisito della professionalità- consente infatti di svolgere un’analisi complessiva che pone in risalto anche il ruolo del soggetto e l’influenza delle sue scelte sulla sopravvivenza di questo legame. 2003, n. 10227; Cass., 2 marzo 2004, n. 4234. Fra le pronunce delle corti di merito si veda CTR Lazio, 20 ottobre 2004, n. 39. Pur se emessa con riferimento ad una diversa ipotesi –si trattava di un accertamento induttivo ai fini delle imposte sui redditi giustificato dalla mancata presentazione della dichiarazione- si veda anche Cass., 3 ottobre 2007, n. 20708 nella quale si afferma che la presentazione delle dichiarazione di cessazione dell’attività ai fini Iva non può costituire prova contraria che vinca le presunzioni applicate dall’Amministrazione, nel caso in cui emergano dati di fatto contrari. Tale pronuncia sembra, infatti, dimostrare ulteriormente l’orientamento che non attribuisce rilevanza sostanziale al contenuto della dichiarazione. 209 In questo senso l’orientamento più risalente della Cassazione. Si vedano in proposito, Cass., 19 gennaio 1996, n. 6198; Cass., 10 maggio 1996, n. 8145; Cass., 18 giugno 1996, n. 5589. Conforme anche recentemente CTR Sardegna, 22 gennaio 2003, n. 5. 172 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Si è detto, infatti, che il principio di effettività comporta l’irrilevanza della volontà e delle sue manifestazioni, precisando, però, che si tratta di un’ininfluenza limitata agli effetti derivanti dallo svolgimento dell’attività, che non riguarda, dunque, la volontarietà dei comportamenti. Da questo dovrebbe potersi desumere che la manifestazione di una volontà contraria al proseguimento dell’attività d’impresa, comprovata da elementi oggettivi, quali possono essere appunto la liquidazione e la cessazione delle operazioni tipiche, dovrebbe essere in grado di influire sul nesso presente fra gli atti sino al riconoscimento della sua estinzione. In ambito tributario, la stessa dottrina che riconosce un ruolo fondamentale al vincolo di destinazione dei beni ne riconosce l’innegabile natura di elemento strettamente volontaristico 2 1 0 , dimostrabile con ogni mezzo, salvo poi concludere che l’autonomia tipica dei complessi aziendali organizzati li rende, una volta costituiti, insensibili alla rottura del legame con l’attività o addirittura con il soggetto 2 1 1 . Sembra, invece, che riconosciuta la volontarietà come necessario presupposto, dovrebbe giungersi a conclusioni opposte, nel senso di ritenere che una volta manifestata la volontà di cessare l’attività, 210 211 In tal senso S T E VAN AT O , Inizio cit., 169 Così sempre S T E VAN AT O , Inizio cit., 182 secondo il quale le esigenze di mantenimento del ciclo impositivo sui beni consentirebbe di mantenere costante la destinazione all’impresa e, dunque, il regime fiscale anche nei casi di trasferimento e mutamento della titolarità. In questo senso anche S AM M AR T IN O , Profilo cit., 124 ss., secondo il quale la norma di cui all’art 35, che prevede la possibilità di presentare le dichiarazioni di variazione dei dati relativi all’impresa, dimostrerebbe l’ininfluenza di elementi quali il soggetto e l’oggetto sull’esistenza dll’impresa. Contrario a questa impostazione, nel senso di valorizzare il profilo soggettivo dell’impresa, per cui il mutamento della titolarità comporterebbe l’interruzione del ciclo fiscale dei beni con riferimento a quella impresa, M IC C IN E S I , Le plusvalenze cit., 202. 173 Capitolo II soprattutto se con le dovute formalità, il legame prima impresso dovrebbe ritenersi estinto, salvo prova contraria. La diversa posizione poggia, come si è visto, su una diversa ricostruzione del presupposto che inevitabilmente influenza tutto il ragionamento successivo. L’idea che l’impresa si identifichi a fini fiscali solo ed esclusivamente con il proprio patrimonio conduce infatti sia ad una ingiustificata sottovalutazione del profilo soggettivo 2 1 2 sia ad una dilatazione di fatto artificiale della sua durata, soprattutto laddove si ritenga che il cambio di destinazione debba avvenire in modo esplicito e non sia una diretta conseguenza della cessazione dell’attività. Questa impostazione porta infatti ad assumere l’impresa, o meglio la struttura ad essa destinata, come un qualcosa di assoluto, del tutto autonomo e indenne ai mutamenti che possono intervenire a livello soggettivo. Sembra invece più corretto accogliere una nozione di impresa comprensiva di tutti gli elementi che in realtà la compongono, incluso il soggetto. Se l’azienda è un complesso di beni organizzati che una volta creata diviene in parte autonoma dalla vicende soggettive, potendo benissimo essere trasferita mantenendo inalterate le proprie caratteristiche, lo stesso non può dirsi dell’impresa che, proprio perché fenomeno più complesso, non identificabile con l’azienda, ma soprattutto volontario, è strettamente vincolata al soggetto cui è imputabile. Sulla base di tale ricostruzione, diviene inevitabile attribuire un qualche significato alle manifestazioni, anche indirette, della volontà di questi, valutando gli effetti delle sue scelte. È su queste basi che si dovrebbe dunque valorizzare il significato 212 Quasi come se fosse lo stesso patrimonio a divenire soggetto passivo dell’imposta e non la persona, fisica o giuridica, cui l’impresa è imputata. L’approccio oggettivo connaturato all’Iva non può ad ogni modo condurre a tali conclusioni, del resto non necessarie laddove è lo stesso sistema a prevedere norme di chiusura che mirano a garantirlo dal rischio che alcuni beni giungano al consumo senza essere tassati. 174 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale della dichiarazione di cessazione dell’attività presentata dal contribuente. Pur partendo dalla considerazione incontestabile che essa non assume il valore di una dichiarazione di volontà, visto il proprio contenuto che è di fatto una semplice comunicazione all’amministrazione tributaria di un fatto già verificatosi e non presenta alcun elemento che rientri fra quelli riconosciuti negoziali anche nelle dichiarazioni tributarie 2 1 3 , gli elementi che essa apporta dovrebbero ad ogni modo considerarsi pienamente efficaci nel senso di rendere certa l’avvenuta cessazione dell’attività, salva sempre la possibilità di accertare la continuazione, a questo punto irregolare, dell’esercizio. Diverse sono le ragioni che conducono a questa considerazione. In primo luogo, è dato ritenere che laddove il legislatore stabilisca un obbligo formale, prevedendo altresì una sanzione in caso di mancato adempimento 2 1 4 , non si possa privarlo sul piano applicativo di qualsiasi valore. È lo stesso sistema dell’imposta e del nutrito apparato di formalità che esso prevede ad imporre di tenere conto di quanto contenuto in dichiarazioni che sono espressamente disciplinate 2 1 5 . 213 Così Cass., 2 marzo 2004, n. 4234 nella quale si sostiene la natura, ormai pacifica, di mera dichiarazione di scienza alla quale il legislatore collega specifico predeterminato effetto, che nella specie va identificato solo nella cancellazione della partita 214 Stabilisce infatti l’art. 5, c. 6 D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 che “Chiunque, essendovi obbligato, non presenta una delle dichiarazioni di inizio, variazione o cessazione di attività, previste nel primo e terzo comma dell'articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, o la presenta con indicazioni incomplete o inesatte tali da non consentire l'individuazione del contribuente o dei luoghi ove è esercitata l'attività o in cui sono conservati libri, registri, scritture e documenti è punito con sanzione da € 516,00 a € 2065,00. La sanzione è ridotta ad un quinto del minimo se l'obbligato provvede alla regolarizzazione della dichiarazione presentata nel termine di trenta giorni dall'invito dell'ufficio”. 215 Anche sotto il profilo degli effetti. Così, come nel caso di omessa presentazione sarà onere del contribuente dimostrare l’effettiva cessazione 175 Capitolo II A questo si aggiungono ragioni di natura sistematica e di collegamento sia fra le norme impositive sia fra queste ed il resto dell’ordinamento. Se si guarda infatti alla disciplina della fase liquidatoria ai fini delle imposte sui redditi è possibile notare come le disposizioni dell’art. 182 TUIR, nello stabilire il dies a quo del periodo di liquidazione per l’imprenditore individuale, facciano espresso riferimento alla data indicata nella dichiarazione di variazione ex art. 35 Dpr. 633/72 che il contribuente è tenuto a presentare all’inizio della liquidazione, attribuendo di fatto rilevanza determinante al contenuto di questa nell’individuazione del momento in cui diviene applicabile la disciplina specifica per i redditi collegati alla fase di liquidazione. Se dunque si attribuisce rilevanza decisiva al contenuto di una comunicazione che, di fatto, all’interno dell’Iva non ha alcuna funzione se non quella di mera notifica all’Amministrazione dell’apertura della fase liquidatoria, non influendo sul regime applicabile, non si vede come si possa negare la rilevanza di una dichiarazione che al contrario comporta, ai fini Iva, la cancellazione della partita Iva e, quindi, almeno formalmente l’uscita del contribuente dal sistema dell’imposta. Parimenti, è necessario valutare la portata della dichiarazione di cessazione in rapporto alle altre formalità previste per l’impresa dalla disciplina civilistica. Pur nel disporre la semplice possibilità di presentare la dichiarazione di cessazione ai fini dell’imposta sul valore aggiunto al Registro delle imprese unitamente alle altre di cui è richiesta l’iscrizione, è lo stesso art. 35 a creare un parallelo tra le due discipline, rendendone automatico un confronto. Valutando, dunque, le modifiche recentemente intervenute e la tendenza verso la dell’attività e la conseguente perdita della soggettività passiva per contestare un’eventuale pretesa dell’Amministrazione, nell’ipotesi opposta, di fronte ad una dichiarazione di cessazione correttamente presentata dovrebbe ritenersi compito dell’Amministrazione apportare elementi che dell’esercizio, nonostante la cessazione formale. 176 comprovino la continuazione La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale rivalutazione del dato formale che si è descritta in campo civilistico, sembrerebbe opportuno muoversi nella stessa direzione anche in ambito tributario, applicando le medesime cautele circa la necessaria corrispondenza del dichiarato alla situazione reale. Scelta questa che appare ora quasi obbligata con riguardo alle società essendo venute a cadere, sul piano sostanziale, le premesse per l’interpretazione che ne vedeva l’estinzione solo alla completa definizione dei rapporti giuridici, ammettendone la sopravvivenza alla cancellazione formale. Ora, dunque, alla cancellazione della società corrisponde la sua estinzione come soggetto giuridico, fatto che ha inevitabili conseguenze anche sul piano tributario, venendo meno in senso assoluto il soggetto passivo e non solo le caratteristiche per qualificarlo tale 2 1 6 . Sulla base di queste premesse, ossia del ruolo che la volontà del soggetto svolge all’interno dell’attività d’impresa e della mancanza di norme che specifichino il contenuto della liquidazione, ammettendo pertanto l’ipotesi che essa si chiuda anche prima dell’esaurimento dei rapporti o dell’alienazione di tutti i beni, sembrerebbe opportuno valorizzare il ruolo della dichiarazione di cessazione dell’attività quale elemento che, proprio perché espressione della volontà del soggetto e 216 A dire il vero è difficile che si pongano problemi, anche dal punto di vista impositivo, con riguardo alle società di capitali la cui liquidazione, disciplinata per legge, si chiude solitamente o con la cessione totale dei beni o con l’eventuale assegnazione di questi ai soci, operazioni entrambe imponibili, difficilmente verificandosi l’ipotesi di beni residui non liquidati. Qualche perplessità, come si è visto, potrebbe ancora permanere con riferimento alle società di persone, nei confronti delle quali anche la giurisprudenza tributaria accoglieva l’interpretazione sostanziale, continuando a considerarla soggetto passivo dell’imposta anche successivamente alla cancellazione, qualora sopravvenissero debiti d’imposta. Infatti, anche con riguardo alle eventuali pendenze fiscali sopravvenute alla cancellazione si riteneva che il provvedimento dovesse essere notificato direttamente alla società in persona dell’ex liquidatore, rivalendosi sul patrimonio dei soci o dello stesso liquidatore secondo le norme del codice civile 177 Capitolo II disciplinata dallo stesso legislatore, sia in grado di segnare il limite tra esercizio dell’impresa ed operazioni successive, tra liquidazione imponibile e cessioni non più riconducibili all’impresa, pur tenendo sempre presente la necessità di un’esatta corrispondenza tra dichiarato e riscontri sul piano sostanziale, prevalenti nel caso in cui dimostrino una continuazione dell’esercizio dell’impresa, da non ricondursi però alla mera presenza di beni inutilizzati 2 1 7 . In questo modo potrebbe garantirsi anche in ambito impositivo il giusto bilanciamento tra i diversi profili della fattispecie impresa, unendo l’oggettività casistica alla soggettività formale, valorizzando la natura ed il ruolo dell’attività nei confronti di entrambi i presupposti dell’imposta. c)- L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni: autoconsumo generalizzato o necessità di destinazione estranea esplicita? Nelle pagine precedenti si è criticato quell’approccio di parte di dottrina e giurisprudenza che, portando all’estrema conseguenza il carattere oggettivo della disciplina tributaria, concentrano l’analisi volta alla determinazione del momento di cessazione dell’impresa sulla sola esistenza di un vincolo di destinazione dei beni organizzati a formarne la struttura produttivo-patrimoniale. Si è, infatti, sottolineata l’opportunità di allargare la prospettiva 217 Tale conclusione sembra del resto compatibile sia con il valore presuntivo che la giurisprudenza riconosce agli adempimenti formali in campo civilistico, sia con la considerazione che nel caso di contestazione della cessazione dovrebbe comunque essere l’Amministrazione a fondare su evidenze contrarie la pretesa impositiva avanzata, escluso forse il caso in cui si procedesse ad accertamento induttivo in caso di omessa presentazione della dichiarazione Iva da parte del contribuente. In quel caso, infatti, la semplice dichiarazione di cessazione non potrebbe avere l’effetto di prova contraria sufficiente a vincere la presunzione a favore dell’Amministrazione, ma dovrebbe essere integrata anche da riscontri oggettivi. 178 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale adottata fino a coinvolgere tutti gli elementi costitutivi della fattispecie impresa, non ritenendo di fatto accettabile la conclusione in quella sede raggiunta per cui vi sarebbe sopravvivenza dell’impresa, e quindi continuazione della soggettività passiva, sino al momento in cui persista un gruppo di beni organizzati o inerenti all’attività con cui sarebbe anche solo potenzialmente possibile riprendere l’esercizio dell’attività. L’affermazione dell’insufficienza di questa tesi per l’individuazione del momento di cessazione non implica, pur tuttavia, la svalutazione del profilo da essa esaminato, il quale sicuramente riveste un ruolo importante nell’ambito della disciplina tributaria. Quando si guarda al sistema dell’Iva, il collegamento dei beni oggetto delle operazioni con l’esercizio dell’impresa, pur non rilevando ai fini dell’identificazione dei presupposti dell’imposta, assume sicuramente una determinata importanza con riferimento al suo meccanismo applicativo, laddove garantisce il riconoscimento del diritto alla detrazione 2 1 8 . Posto, dunque, che la disciplina Iva parla di operazioni imponibili, di fatto trascurando natura o tipologia dei beni che ne sono oggetto 2 1 9 , non si può comunque non tenere conto, soprattutto con riferimento alle fase terminale della vita dell’impresa, del profilo dell’inerenza degli stessi all’attività, valutandone anche quello che si è definito vincolo di destinazione all’impresa, in considerazione delle già ricordate esigenze di chiusura del ciclo fiscale dei beni che con l’impresa sono in qualche modo stati collegati, divenendo dunque soggetti al regime impositivo tipico di questa. È per questo motivo che le trattazioni susseguitesi nel tempo si sono 218 Dispone infatti l’art. 19 Dpr. 633/1972 che “è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa.” 219 Sono infatti le stesse norme che specificano, ad esempio, con riguardo alle cessioni imponibili che si considerano tali quelle che abbiano ad oggetto beni di ogni genere, salve le esclusioni espressamente previste. 179 Capitolo II concentrate non tanto sull’individuazione di un effettivo punto di distinzione tra esercizio dell’impresa e sfera privata dell’agente una volta cessato questo, quanto sull’individuazione del trattamento fiscale degli eventuali beni residui, rimasti nella disponibilità dell’imprenditore –in particolare individuale- cessato, lasciando emerge posizioni spesso differenti sia in dottrina che in giurisprudenza. La norma che, in particolare, è stata oggetto di diverse interpretazioni è l’art. 2, n.5 laddove sancisce l’assimilazione della destinazione dei beni all’uso personale dell’imprenditore o della sua famiglia e, in ogni caso, la destinazione a finalità estranee all’impresa alle ordinarie cessioni di beni imponibili indicate nella medesima norma. Come si è detto, essa ha il valore di norma di chiusura volta ad assoggettare all’imposta operazioni che secondo i canoni ordinari non lo sarebbero, giustificata dalla necessità, da un lato, che i beni che hanno dato diritto alla detrazione non giungano sul mercato senza aver scontato l’imposta e, dall’altro, che vi sia una parità di trattamento tra l’imprenditore che preleva un bene prima appartenuto all’impresa, libero, quindi, dall’imposta in virtù della detrazione, ed il consumatore finale che, al contrario, resterebbe inciso dall’imposta 2 2 0 . Portata e ratio della disposizione sono in realtà molto chiare, non comportano particolari problemi interpretativi, se non, forse, sotto il profilo dell’individuazione dell’evento effettivamente in grado di modificare la destinazione del bene e rendere, conseguentemente, obbligatoria l’applicazione dell’imposta. In particolare, posto che la norma richiama espressamente il caso 220 Sulla questa funzione delle norme che dispongono l’imposizione per autoconsumo c’è concordia in dottrina. In questo senso ci vedano ad esempio, C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo cit., F AN T O Z Z I , Imprenditore cit., 235; M AN DÒ M AN DÒ , Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2005, 23 e ss; M IC C IN E S I , Le plusvalenze cit., 159 ss.; S T E V AN AT O , La cessazione dell’impresa nel diritto tributario, in A M AT U C C I , Gli aspetti fiscali dell’impresa in Trattato di diritto commerciale a cura di Buonocore, vol. 1.8, Torino, 2003, 298; 180 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale della cessazione dell’impresa, si è cercato di valutare se la destinazione extra imprenditoriale e l’autoconsumo siano effetto immediato della cessazione o vi sia, al contrario, la necessità di un’interruzione esplicita del vincolo, attraverso l’attribuzione di una diversa funzione al bene 2 2 1 . Secondo l’interpretazione esposta precedentemente, che sostiene l’imponibilità di qualsiasi attività liquidatoria che riguardi i beni dell’impresa anche successivamente alla cessazione formale dell’attività, vi sarebbe la necessità di un cambiamento esplicito di funzione del bene, onde segnarne il distacco dall’impresa. Ciò implicherebbe, pertanto, la non tassazione di quei beni che, non assegnati per uso personale o non imprenditoriale, restassero 221 Le indicazioni della giurisprudenza in merito non sono univoche. Da un lato, infatti, l’orientamento pressoché costante della Commissione Tributaria Centrale era nel senso della necessità di una destinazione esplicita, in assenza della quale non poteva esserci imposizione. In questo senso si vedano ad esempio CTC, 4 febbraio 1992, n. 888; CTC, 22 aprile 1998, n. 2097. La stessa Commissione Centrale si era però precedentemente espressa in senso contrario in CTC, 12 marzo 1986, n. 6972; CTC, 5 aprile 1995, n. 1378 e CTC, 24 febbraio 1998, n. 1010. In queste due ultime in particolare la Commissione poneva in relazione due diversi criteri, il collegamento tra le operazione e l’attività, da un lato, e la cessazione dell’impresa, dall’altro. Si riteneva in sostanza che se le cessioni successive alla formale cessazione fossero in grado, anche per una questione temporale, di mostrare un collegamento con la precedente attività d’impresa allora l’Iva si sarebbe dovuta applicare al momento della cessione, considerata ancora imponibile quale vendita liquidatoria. Ove però tale collegamento non sussistesse ed il periodo intercorso tra cessazione e alienazione fosse tale da escludere qualsiasi riconducibilità alla precedente attività, se ne doveva desumere il passaggio in autoconsumo dei beni residui, con applicazione dell’imposta al momento della cessazione. Nello stesso senso sembrano muovere alcune pronunce della Corte di Cassazione, che individuano nella cessazione la fonte dell’imposizione per autoconsumo, attribuendo un ruolo significativo alla dichiarazione di cessazione quale limite della fase liquidatoria imponibile. In questo senso Cass., 19 gennaio 1996, n. 6198; Cass., 10 maggio 1996, n. 8145; Cass., 18 giugno 1996, n. 5589. 181 Capitolo II inutilizzati fino al momento della cessione o della destinazione ad un uso differente 2 2 2 . Sul fronte opposto si collocano, invece, quelle opinioni che vedono nella cessazione dell’attività un elemento sufficiente all’applicazione della norma a quei beni che non vengano ceduti in fase di liquidazione. La cessazione dell’attività d’impresa avrebbe dunque di per sé sola la forza di interrompere il nesso tra beni e precedente destinazione 2 2 3 , in considerazione del fatto che, in assenza dell’impresa apparirebbe difficile individuare una costanza di destinazione, non ritenendo questa assoluta ed indipendente dalle vicende che interessano l’elemento di riferimento. Determinante torna a questo punto ad essere il momento in cui si ritiene cessata l’impresa, se in coincidenza con l’abbandono dell’esercizio tipico o successivamente, esaurite le operazioni ad esso comunque riconducibili. A favore di un’applicazione automatica dell’imposta al momento della cessazione sembrano deporre in primo luogo le stesse norme del decreto Iva 224 . Da un lato, infatti, è lo stesso art. 2 a sancire la 222 Così si esprime chiaramente S AM M AR T IN O , Inapplicabilità cit., 425 secondo il quale “Posto che la mancata vendita non può indurre a far presumere l’avvenuta destinazione, può affermarsi che, finchè esistono dei beni in attesa di esser venduti e non utilizzati per le finalità di cui all’art. 2, n.5 si ha esercizio d’impresa, non si verifica la cessazione e non decorre il termine per la presentazione della dichiarazione finale” 223 In proposito, C AR P E N T IE R I , Autoconsumo cit., 7 la quale, pur se in tema di imposte dirette, sostiene che “i beni (residui) alla cessazione dell’attività d’impresa sono inevitabilmente destinati a passare dalla sfera dell’impresa alla sfera privata dell’imprenditore e dunque divenire sostanzialmente oggetto di autoconsumo, non potendo rimanere a tempo indeterminato iscritti nell’inventario al solo fine di rinviarne l’emersione delle plusvalenze latenti”. 224 In questo senso anche T AS S AN I , Cessazione cit, secondo cui l’attività di liquidazione deve non solo avere ad oggetto un bene aziendale, ma anche manifestarsi con aspetti tali da poterne individuare la connessione e la continuità con un precedente esercizio imprenditoriale di gestione e, in definitiva, in grado di farne emergere la natura di attività d’impresa. Ne deriva che, ove un simile collegamento non sia riconoscibile, i beni aziendali sconteranno l’imposta al 182 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale possibilità che si verifichi autoconsumo in caso di cessazione dell’attività, ritenendo evidentemente che questo solo fatto sia in grado di spezzare il legame tra bene ed impresa. Dall’altro, l’art. 35, nell’indicare il contenuto dell’ultima dichiarazione annuale presentata in caso di cessazione, prescrive esplicitamente l’inserimento di tali operazioni. Se si considera che la dichiarazione verrà presentata successivamente alla chiusura della liquidazione, quando si presume pertanto che l’imprenditore cessato abbia già disposto circa la sorte dei beni facenti capo all’impresa, si può ritenere che il legislatore volesse ritenere automatica l’applicazione dell’imposta per autoconsumo con riferimento a quei beni rimasti nella disponibilità del soggetto una volta esaurita la liquidazione, senza la necessità di dimostrare quale sia la funzione ad essi effettivamente attribuita, nonostante l’uso del termine destinazione, che secondo i sostenitori della prima interpretazione implicherebbe un’attività del soggetto. Del resto, la possibilità di applicare l’imposta per destinazione ad uso personale rappresenta un’ipotesi di imponibilità pur in assenza di modifiche nella titolarità del bene, che semplicemente passa dalla sfera dell’impresa a quella privata del medesimo soggetto, fatto difficile da dimostrarsi soprattutto con riguardo alle persone fisiche, ma che dovrebbe discendere automaticamente dalla fine dell’esperienza imprenditoriale del soggetto 2 2 5 . Inoltre, vista la funzione della norma esaminata, non apparirebbe con essa compatibile la possibilità di considerare ancora riferibili momento della cessazione dell’attività gestoria dell’impresa (in quanto ultimo momento dell’attività economica) e le successive alienazioni saranno estranee alla sfera di applicazione dell’Iva” 225 In questo senso chiarisce F E D E LE , Considerazioni generali sulla disciplina fiscale degli atti e delle vicende dell’impresa, in AA.VV. Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, Padova 1988, 782 che “la destinazione al consumo familiare o personale dell’imprenditore, pur non implicando alcun trasferimento, costituisce una diretta realizzazione del fine proprio dell’impresa attraverso l’immediata appropriazione dei risultati dell’attività alla sfera personale dell’imprenditore” 183 Capitolo II all’impresa ormai estinta beni non più utilizzati né a quello né ad altro fine. Se si ritiene valida l’asserita necessità di chiusura del ciclo fiscale dei beni, anche al fine di evitare che i beni giungano al consumo detassati e tutelare il meccanismo tipico dell’Iva, in particolare con riferimento a beni che inizialmente hanno garantito il diritto alla detrazione, non si può accettare l’idea che beni, di fatto distaccati dall’attività economica 2 2 6 , ancora nella disponibilità del soggetto, pur se inutilizzati, vadano esenti dall’imposizione unicamente per questo motivo, potendo, potenzialmente restare tali all’infinito. Si ritiene pertanto che un’applicazione puntuale della norma in questione sarebbe in grado di garantire una maggiore certezza nella disciplina della fase estintiva dell’impresa, tutelando al contempo soggetto passivo e struttura dell’imposta. Da un lato, infatti, si eviterebbe il prolungamento artificiale della vita dell’impresa, anche all’insaputa del soggetto passivo, evitando in tal modo il rischio di conseguenze quali la negazione del rimborso, il recupero dell’imposta da parte dell’Amministrazione, applicata ad operazioni non più ritenute imponibili dal contribuente o l’irrogazione di sanzioni per il mancato adempimento di obblighi formali non più ritenuti necessari. Dall’altro, si garantirebbe l’assoggettamento ad imposta dei beni al momento della loro uscita dal circuito economico, eliminando ab origine la possibilità di salti d’imposta o definitiva non tassazione 2 2 7 . Questa interpretazione permetterebbe, altresì, di 226 Nonostante l’oggettiva autonomia che gli organismi aziendali vengono ad assumere, non si ritiene accettabile l’idea di un vincolo di destinazione perpetuo, soprattutto perché sembra abbastanza lineare il ragionamento per cui, posta la differenza ontologica tra impresa e beni ad essa funzionali, venuta meno l’impresa, non possa più esistere qualcosa ad essa destinato, venendo meno il primo termine di riferimento. 227 Secondo S T E VAN AT O , Liquidazione dell’impresa individuale e operazioni successive alla cessazione dell’attività: è possibile far rivivere il regime Iva precedente?, in Rass. Trib., 1997, II, 169 il passaggio in autoconsumo dei beni residui potrebbe fortemente penalizzare il contribuente nel caso di una successiva 184 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale valorizzare, unitamente all’applicazione dell’imposta dovuta ad autoconsumo, il ruolo stesso della cessazione all’interno del sistema dell’imposta, non solo come fatto che implica la fuoriuscita del soggetto e dell’attività dal sistema Iva, ma anche come fenomeno affine all’attività imponibile di cui segna l’estinzione. Accogliendo dunque l’interpretazione già proposta, che unisce la considerazione del dato oggettivo con la valorizzazione del profilo soggettivo, costituito dalla volontà del soggetto passivo e delle manifestazioni di questa, dovrebbe ipotizzarsi, come fa parte della giurisprudenza, l’applicazione dell’imposta in autoconsumo al momento della cessazione formale dell’attività non contraddetta da elementi di fatto di segno opposto, da intendersi quale momento in cui, interrotto anche per volontà del soggetto il collegamento tra beni ed attività, così come tra operazioni ed attività, si estingue l’impresa rilevante ai fini dell’imposta con conseguente definitiva perdita della soggettività passiva. 2.1.4- Cessione e affitto d’azienda: si verifica la cessazione dell’impresa? Ulteriori ipotesi che meritano attenzione, seppur brevemente, sono quelle del trasferimento dell’azienda o della costituzione su di essa di un diritto di godimento attraverso l’affitto o l’istituzione di un usufrutto, molto frequenti anche nella fase liquidatoria dell’impresa. La particolarità di questi casi consiste nella separazione che si verifica tra struttura organizzativa dell’impresa e soggetto cessione soggetta ad esempio ad imposta di registro. Questo perché, pur non configurandosi una doppia imposizione stante la diversità dei presupposti costituita da due diversi trasferimenti del bene, tuttavia di fatto lo stesso bene sconterebbe per due volte l’imposizione. Per questo motivo si riterrebbe più opportuna un’interpretazione che vedesse in queste ipotesi un mantenimento della soggettività passiva Iva pur in presenza di attività quiescente, considerando l’esercizio dell’impresa non temporaneamente sospeso. 185 cessato, ma semplicemente Capitolo II imprenditore, partizione che impone la necessità di valutare se l’impresa sopravviva, e dunque il soggetto possa ancora qualificarsi come imprenditore, o se il trasferimento dell’azienda costituisca un caso di cessazione dell’impresa. Per tentare di individuare una soluzione è necessario riproporre brevemente alcune delle considerazioni già esposte circa il rapporto tra impresa e organizzazione e tra organizzazione in senso lato e l’azienda definita all’art. 2555 c.c. Descrivendo le caratteristiche del fenomeno imprenditoriale si sono esposte le due posizioni contrastanti che vedono, da un lato, chi equipara integralmente impresa e azienda, facendo di quest’ultima l’essenza stessa dell’impresa e, dall’altro, chi, ponendo in risalto l’elemento dinamico costituito dall’attività svolta dall’impresa, assegna all’azienda un ruolo strumentale allo svolgimento dell’attività, distinguendo pertanto i due piani. Deve inoltre ricordarsi come le più recenti riflessioni in tema di organizzazione, superato il dibattito tra auto ed etero organizzazione, abbiano posto in luce come il requisito sia integrato anche in presenza di un livello minimo di organizzazione costituito indifferentemente da beni, lavoro o solo investimento di capitale 2 2 8 . Poste queste premesse si può tentare di esaminare l’effetto che il trasferimento del complesso aziendale può avere sulla vita dell’impresa, orientandosi però sull’esame del caso più problematico, ovvero quello dell’imprenditore che disponga di un’unica azienda. Accogliendo la prima tesi esposta della coessenzialità di impresa e azienda, cui può altresì ricollegarsi l’opinione che individua nella completa disgregazione aziendale il più sicuro indice di cessazione dell’impresa, le diverse ipotesi di cessione, affitto o usufrutto dovrebbero potersi ricondurre ad unità circa l’effetto estintivo dell’impresa con conseguente perdita della qualità di imprenditore in capo al soggetto cedente-locatore. I motivi di questa conclusione poggiano sulla considerazione che, laddove si considerino esistenza ed 228 Supra par. 1.3 – a, nella Sezione I di questo capitolo. 186 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale utilizzazione dell’azienda indispensabili per la sussistenza del fenomeno impresa, la perdita della disponibilità, pur se temporanea e senza mutamento di titolarità della stessa, finisce per costituire un inequivocabile indice di cessazione. Anche laddove l’azienda tornasse nella disponibilità del precedente titolare la ripresa dell’esercizio dovrebbe segnare l’inizio della nuova impresa e non la continuazione della precedente. Diverse sembrano invece le conclusioni raggiungibili qualora si sottolinei la valenza meramente strumentale dell’azienda, ritenendola di per sé non indispensabile all’esistenza dell’impresa, nel caso in cui il necessario requisito dell’organizzazione venga soddisfatto in altro modo. In questo caso è necessario distinguere le diverse ipotesi di cessione definitiva o semplice concessione in godimento cui possa fare seguito una ripresa dell’attività temporaneamente interrotta. Nel caso della cessione potrà dunque aversi cessazione dell’impresa nel caso in cui l’attività cui l’azienda era strumentale non venga in alcun modo proseguita e la cessione del complesso aziendale possa, dunque, qualificarsi come un atto di liquidazione volontario dell’imprenditore. Diverso il caso in cui, ceduta l’azienda, il cedente prosegua la propria attività economica, pur se diversamente organizzata. Come ricordano dottrina e giurisprudenza, qualora la persona che esercita l’attività economica resti la medesima, pur modificandosi alcuni elementi della stessa, non potrà aversi né cessazione né inizio di una nuova impresa, essendo questa ad ogni modo vincolata all’imprenditore 2 2 9 . Del resto, come sostenuto circa la concreta 229 Sull’ininfluenza della modifica dell’oggetto o di elemento quali la ditta, B U ON O C O R E , L’impresa cit., 69. In giurisprudenza le pronunce in tal senso sono risalenti, tuttavia non sembrano rinvenibili sentenze in senso contrario, se non quelle, di cui si discuterà in seguito, in materia tributaria. Si veda ad esempio, Cass., 22 gennaio 1983, n. 623 che si esprime in questi termini “ La cessione di azienda, così come l'affitto di essa, non comporta il passaggio al cessionario o all'affittuario, assieme all'azienda, della relativa impresa, ma determina normalmente una soluzione di continuità tra la precedente e la successiva 187 Capitolo II rilevanza della disgregazione aziendale come indice di cessazione, la cessione dell’azienda può non avere un significato univoco, né di per sé comportare automaticamente la perdita della qualifica di imprenditore, anche se unica 2 3 0 . Le stesse considerazioni potranno svolgersi con riguardo al caso dell’affitto. In questa ipotesi, anzi, sembra corretto poter parlare di interruzione, o meglio sospensione, dell’esercizio dell’attività da parte dell’imprenditore, ma non di cessazione. L’impresa interrotta potrà infatti essere ripresa al termine del contratto di affitto, senza che sia necessario, come suggerito da alcuno 2 3 1 , che essa venga cancellata dal Registro delle imprese all’inizio del contratto e nuovamente iscritta quando l’azienda torni nella disponibilità dell’imprenditore. Sembra, pertanto, di poter desumere che le vicende dell’azienda non debbano di per sé essere considerate quale caso di cessazione dell’impresa che dovrà essere verificato, anche in queste ipotesi, secondo i criteri ordinari, guardando, da un lato, agli elementi oggettivi legati all’esercizio dell’attività, alla sussistenza dei necessari requisiti ed al complesso degli altri fattori, non strettamente oggettivi, che compongono la fattispecie. Per quanto riguarda il profilo impositivo, accogliendo l’interpretazione che si è definita maggioritaria sulla centralità dell’aspetto strutturale e patrimoniale per l’esistenza dell’impresa, la giurisprudenza riconosce generalmente una valenza estintiva ai trasferimenti o alla concessione in affitto dell’azienda, tranne nei casi in cui l’impresa non disponga di più complessi organizzati o la parte trasferita non costituisca che un ramo di un’azienda più ampia 2 3 2 . gestione, che deve ritenersi del tutto distinta ed indipendente dalla prima, in quanto l'impresa, quale attività economica organizzata per la gestione di un'azienda (art. 2555 cod. civ.), è inseparabile dall'imprenditore” 230 In questo senso 231 In tal senso, 232 GA ZZ O N I , Manuale di diritto privato, Napoli 2004, 1323 LU B R AN O D I SC O R P AN IE LLO , Cessazione cit., 69 ss. In tal senso ad esempio più recenti CTC, 25 marzo 2003, n. 2489 che espressamente afferma che “salvo che l'affitto non avvenga in relazione ad attività imprenditoriale che continua ad essere esercitata, non può che intendersi come 188 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Visto il ruolo fondamentale che si attribuisce alla presenza di beni destinati all’esercizio dell’attività, si ritiene infatti che l’affitto o la cessione dell’unica azienda facciano perdere la qualità di imprenditore al soggetto, comportando automaticamente una diversa qualificazione dei redditi percepiti e la perdita della soggettività passiva Iva, a meno che la cessione o la locazione non rientrino nell’esercizio di un’attività più estesa che consentirebbe allora di mantenere lo status di imprenditore senza alterare il regime fiscale applicabile. Come già esposto precedentemente, non si ritiene che questa tesi debba essere accolta, sostanzialmente per le stesse ragioni che conducono a negare l’equivalenza tra cessazione dell’esercizio e chiusura effettiva della liquidazione. Se dunque è corretta l’impostazione che distingue, anche in ambito impositivo, i due piani costituiti da esercizio dell’attività e struttura ad esso eventualmente funzionale, dovrebbe derivarne la considerazione che anche le ipotesi che interessino l’intero complesso aziendale non implichino necessariamente la cessazione dell’impresa. Essa dovrà dunque valutarsi concretamente verificando se, di fatto, il soggetto continui l’esercizio dell’impresa diversamente organizzata mantenendo la soggettività passiva Iva, questo sia nel caso della cessione che nel caso dell’affitto. Si ritiene, infatti, non sia questione di valutare se oggetto del contratto di affitto o della cessione sia un ramo d’azienda –secondo il ragionamento della giurisprudenza- quanto piuttosto di verificare se il cedente/locatore continui ad ogni modo ad dismissione della medesima, che invece viene "trasferita", per così dire, in capo al cessionario” arrivando addirittura ad equiparare affitto dell’unica azienda e cessione della medesima. Sempre sulla perdita della qualità d’imprenditore con consequenziali effetti sul regime impositivo si vedano anche Cass., 29 marzo 2006, n. 7292 e Cass., 7 novembre 2005, n. 21583 in materia di imposte dirette. Il problema non dovrebbe in realtà porsi con riguardo alle società, la cui soggettività passiva, in forza della presunzione contenuta nell’art. 4, viene pacificamente riconosciuta anche in assenza di esercizio effettivo e per qualsiasi tipo di operazione, sino alla loro estinzione. Così I N T E R DO N AT O , Gli imprenditori cit., 157 ss 189 Capitolo II esercitare la propria impresa anche in assenza dell’azienda trasferita 2 3 3 . La sussistenza dell’impresa in queste ipotesi necessariamente dovrebbe influire anche sull’applicabilità dell’Iva a queste operazioni. Per quanto riguarda l’ipotesi della cessione, in realtà sono le stesse norme ad escluderne l’imponibilità, con la conseguenza che in questo caso può aversi un’incertezza circa la presenza del presupposto soggettivo, ma la certa mancanza di quello oggettivo 2 3 4 . Più controversa è l’esclusione dell’affitto che dovrebbe potersi qualificare come prestazione di servizi al pari delle altre locazioni, dovendo pertanto assoggettarsi ad Iva e non ad Imposta di Registro. Sussistendo pacificamente il presupposto oggettivo 235 , l’aspetto contestato in questa ipotesi è la presenza del requisito soggettivo, 233 Del resto, per potersi parlare di cessione d’azienda non è detto che l’imprenditore cedente debba spogliarsi di tutto, ma è sufficiente che il complesso trasferito sia in grado di proseguire lo svolgimento dell’attività in modo autosufficiente. Così, secondo opinione costante della stessa giurisprudenza, è possibile che oggetto del contratto sia un’azienda, pur se non comprende rapporti finanziari o commerciali. In questo senso Cass., 19 novembre 2007, n. 23857; Cass., 4 maggio 2007, n. 10273; Cass., 30 maggio 2005, n. 11457; Cass., 25 gennaio 2002, n. 897. Sulla base di questa interpretazione è ben possibile ipotizzare che pur avendosi trasferimento dell’azienda l’imprenditore prosegua nell’esercizio dell’attività. 234 È infatti lo stesso art. 2, c. 3, lett. b ad escludere dal novero delle cessioni imponibili cessioni o conferimenti in società che abbiano ad oggetto aziende o rami d’azienda. 235 Il problema circa la qualificazione dell’affitto concerne la possibilità di considerarlo operazione imponibile o, al contrario, mero godimento di un bene di proprietà. Sembra in realtà che, guardando alla disciplina comunitaria e al contenuto lì contemplato per l’attività economica, l’affitto dell’azienda dovrebbe potersi considerare quale forma di sfruttamento di un bene che assicuri la percezione di introiti potenzialmente stabili, perlomeno per tutta la durata del contratto. Per una ricostruzione delle diverse posizioni F IC AR I , Il profilo cit., 587 e ss.; L AN GE LLA , L’affitto dell’unica azienda dell’imprenditore individuale nell’imposizione indiretta., Il Fisco, 2003, 23, 3590 ss. In proposito anche MICCINESI M., Aspetti fiscali dell’affitto d’azienda in materia di imposte sui redditi, in Giur. Comm., 1984, I, 948 190 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale ritenuto mancante dalla giurisprudenza maggioritaria che sostiene la perdita della qualità di imprenditore da parte del soggetto che affitti l’unica azienda. Nel caso in cui l’esercizio non continui in altre forme, sembrerebbe al contrario più giusto sostenere che in questi casi si verifichi una semplice sospensione dell’esercizio, privo di effetti estintivi sull’impresa e sulla soggettività passiva 2 3 6 , quanto meno per tutta la durata del contratto, al cui termine dovrà valutarsi l’eventuale ripresa o la definitiva cessazione sulla base del comportamento concretamente tenuto dal soggetto 2 3 7 , qualificandosi in ogni caso l’esercizio successivo come continuazione dell’impresa precedente e non come nuova impresa. 236 Alla stessa conclusione giunge anche chi sostiene che la cessazione non avvenga sino alla destinazione estranea all’impresa di tutti i beni, pur se argomentando in modo differente. Nell’ambito di questa interpretazione viene infatti proposta un’idea di destinazione oggettiva all’impresa che rimarrebbe tale anche nel caso del trasferimento a titolo gratuito o dell’affitto, mutando di fatto solo il soggetto che dell’azienda si serve, non la sua strumentalità all’esercizio di un’attività d’impresa. In questo senso S T E V AN AT O , Inizio cit., 188 ss ; I D EM , La cessazione dell’impresa cit., 317 ss 237 In questo senso M IC C IN E S I , Le plusvalenze cit., 169 ss. che svolge le stesse considerazioni con riguardo al tema della possibilità di emersione delle plusvalenze relative all’azienda nel caso dell’affitto e della qualificazione dei redditi da esso derivanti. Egli nega infatti l’insorgere delle plusvalenze, che le stesse norme ricollegano alla successiva vendita dell’azienda, sostenendo che non vi sia cessazione dell’impresa, ma semplice sospensione sino al termine del contratto d’affitto. Egli sostiene, inoltre, contrariamente a quanto stabilito dal Tuir che li qualifica come redditi diversi, l’inclusione dei canoni fra i redditi d’impresa, proprio in virtù della sopravvivenza dell’impresa anche nel corso dell’affitto. In materia di Iva, anche l’amministrazione appare favorevole all’idea della semplice sospensione dell’esercizio, disponendo che in questi casi il contribuente mantenga comunque il proprio numero di partita Iva, pur non essendo soggetto, in caso di mancato esercizio dell’attività, al rispetto degli adempimenti formali ai fini dell’imposta, obblighi che dovranno ritenersi nuovamente attivi una volta cessato l’affitto e tornato nella disponibilità dell’azienda. Si vedano, ad esempio, CM. 29 settembre 2006, n. 30/E e CM. 30 maggio 1995, n. 154/E-III- 6-542. 191 Capitolo II La sospensione dell’esercizio dovrebbe pertanto rendere l’affitto dell’azienda non imponibile ai fini dell’imposta, perché di fatto non riconducibile all’attività economica; diverso invece sarebbe il caso in cui il locatore continuasse in qualche modo l’esercizio dell’attività pur senza l’ausilio dell’azienda: in queste ipotesi non si avrebbe alcuna sospensione e, quindi, sia l’affitto che le altre operazioni compiute dovrebbero ricondursi nell’ambito dell’imposta, sia sul lato attivo che su quello passivo. 2.1.5 I possibili effetti dell’incertezza riguardo al momento di cessazione sull’applicazione dell’imposta L’incertezza che investe l’individuazione del momento di cessazione, influendo sulla stessa sussistenza dei presupposti dell’Iva, interessa inevitabilmente anche il piano applicativo dell’imposta, laddove ritenendo ancora integrato il presupposto soggettivo si pretenda di applicare il regime Iva a situazioni quanto meno dubbie. Il primo profilo che viene ad essere interessato è il diritto al rimborso attribuito al contribuente una volta cessata l’attività. Come si è visto, l’art. 30 2 3 8 prevede il rimborso come unica modalità di soddisfazione del credito tributario spettante al contribuente in caso di cessazione, scelta obbligata dal fatto che, cessando l’impresa ed uscendo dal circuito applicativo dell’imposta, non sarebbe più possibile portarlo in detrazione nelle dichiarazioni successive. Diritto al rimborso e detrazione si pongono all’interno dell’imposta su due piani differenti, ma altrettanto importanti per il corretto funzionamento della struttura dell’Iva e del meccanismo su cui essa si 238 Il quale dispone che “Se dalla dichiarazione annuale risulta che l'ammontare detraibile di cui al n. 3) dell'articolo 28, aumentato delle somme versate mensilmente, è superiore a quello dell'imposta relativa alle operazioni imponibili di cui al n. 1) dello stesso articolo, il contribuente ha diritto di computare l'importo dell'eccedenza in detrazione nell'anno successivo, ovvero di chiedere il rimborso nelle ipotesi di cui ai commi successivi e comunque in caso di cessazione di attività”. 192 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale fonda. Questo perché, una volta determinato l’ammontare dovuto attraverso la detrazione dell’imposta versata a monte da quella a valle, il recupero dell’eventuale eccedenza risultante a favore del contribuente si pone come strumento ulteriore per garantire, attraverso la riscossione di un credito, la neutralità del sistema 2 3 9 . Dunque, posta l’intangibilità della detrazione come strumento per la determinazione dell’imposta, rimborso e riporto dell’eccedenza a credito per l’anno successivo si pongono come mezzi alternativi di soddisfazione di tale credito, la cui scelta è lasciata al contribuente, pur nei limiti stabiliti sanciti dal legislatore. Assegnata questa funzione al recupero dell’eccedenza versata, la sua importanza inevitabilmente si accresce in un caso come quello della cessazione per cui non è possibile tale scelta alternativa e la via del rimborso risulta dunque obbligata. Sulla base di questa constatazione sono numerose le pronunce giurisprudenziali che riconoscono valore fondamentale all’espressione “comunque in caso di cessazione” contenuta nell’art. 30, affermando che in questi casi il legislatore riconosce al contribuente un diritto incondizionato cui non sono applicabili né la condizione della presenza di somme detraibili nelle due dichiarazioni precedenti 240 né i termini 239 Sul rapporto tra detrazione e rimborso dell’eccedenza, B AS ILA VE C C H IA , situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, 2000; M IC E LI , Il recupero dell’Iva detraibile tra principi comunitari e norme interne, Rass. Trib., 2006, 1871 240 Cfr. art. 30, c. 4 secondo il quale “Il contribuente anche fuori dai casi previsti nel precedente terzo comma puo' chiedere il rimborso dell'eccedenza detraibile, risultante dalla dichiarazione annuale, se dalle dichiarazioni dei due anni precedenti risultano eccedenze detraibili; in tal caso il rimborso puo' essere richiesto per un ammontare comunque non superiore al minore degli importi delle predette eccedenze”. La giurisprudenza ritiene infatti che tale disposizione sia applicabile alle sole imprese in attività, non a quelle cessate o fallite, nei confronti delle quali la mancata erogazione del rimborso costituirebbe un arricchimento indebito. Così, Cass., 10 dicembre 1992, n. 13091. 193 Capitolo II biennali per l’esercizio dell’azione generale di rimborso ex art. 21 D.lgs. 546/92 2 4 1 . Si desume da queste affermazioni quanto diventi rilevante l’esatta individuazione del momento di cessazione al fine di attribuire il diritto al rimborso. Anche alla luce di questo sembrano dunque contestabili quelle tesi che prolungano sine die la vita dell’impresa in funzione della sola permanenza di beni potenzialmente produttivi nella disponibilità dell’imprenditore formalmente cessato. In base ad esse, infatti, l’Amministrazione dovrebbe disconoscere il diritto al rimborso per mancanza dei presupposti necessari sino alla completa alienazione di tutti i beni, con il rischio che il contribuente finisca per non percepire di fatto alcunché. Non sussistendo il requisito della cessazione tornerebbero infatti ad essere applicabili sia il termine biennale per ricorrere contro il diniego di rimborso sia la condizione della presenza di somme detraibili nelle due dichiarazioni precedenti. Ponendo il caso che il provvedimento dell’Amministrazione giunga dopo parecchio tempo, va da sé che quanto meno il rispetto della suddetta condizione in capo ad un’impresa del tutto inattiva potrebbe essere difficilmente integrata. A ciò si aggiunga il fatto che anche laddove il credito venisse comunque riconosciuto, ma trasformato in importo detraibile a causa della mancanza dei requisiti per il rimborso, secondo le disposizioni dell’art. 1 del D.lgs. 443/97 2 4 2 , si potrebbero porre problemi di tipo 241 Così Cass., 8 aprile 2003, n. 5486, nella quale si afferma che le disposizioni dell’art. 30 devono ritenersi specifiche al caso del rimborso da cessazione, escludendo, come lo stesso art. 21 D.lgs. 546/92 dispone, l’applicabilità del termine biennale. A fronte dell’inapplicabilità del termine il contribuente può dunque agire per il rimborso dell’eccedenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. 242 Il quale dispone che “L'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto, che a seguito dell'esame della richiesta di rimborso ne accerta la non spettanza per difetto dei presupposti stabiliti dall'articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, procede alla notifica del provvedimento di 194 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale formale discendenti dal fatto che ove vi sia stata la cessazione formale il contribuente, chiusa la partita Iva, non presenterà più dichiarazioni ai fini dell’imposta 2 4 3 . Non bisogna infine dimenticare che il mancato riconoscimento della cessazione formalmente avvenuta, qualora intervenisse a distanza di tempo dalla fine dell’attività, potrebbe esporre il contribuente anche al rischio dell’irrogazione di diverse sanzioni per violazione degli adempimenti formali connessi alla soggettività passiva Iva, dalla mancata registrazione di operazioni attive e passive, alla mancata fatturazione sino all’omessa dichiarazione 2 4 4 , in base a cui l’Amministrazione sarebbe legittimata a procedere ad accertamento induttivo ex art. 55 Dpr. 633/72. A fronte di tutte queste possibili conseguenze che, pur se concretamente superabili, finiscono per rendere assolutamente incerta la disciplina della fase post cessazione, quanto meno sino allo spirare dei termini per l’accertamento dell’ultimo periodo d’imposta diniego con contestuale indicazione del credito spettante. Il relativo credito è portato in detrazione, successivamente alla notificazione, in sede di liquidazione periodica, ovvero nella dichiarazione annuale.” Il credito riconosciuto potrà, dunque, essere portato in detrazione nella prima dichiarazione periodica o annuale successiva al provvedimento, anche nel caso in cui le somme riconosciute non fossero state indicate nelle dichiarazioni precedenti. Così C.M. 25 maggio 1998, n. 134/E. Sull’inapplicabilità della decadenza del diritto alla detrazione nel caso in cui l’importo sia stato indicato in dichiarazione nel momento in cui è sorto, ma omesso nelle successive si veda R.M. 19 aprile 2007, n. 74. 243 Restando a questo punto o la possibilità di effettuare la compensazione orizzontale con altre imposte dovute o l’impugnazione del provvedimento per ottenere l’erogazione del rimborso. Per un esame della disposizione esaminata, L A R O S A , Rettifica dell’opzione per il rimborso e neutralità dell’Iva, Riv. Dir. Trib., 2004, 6, 679. 244 Non si deve dimenticare, infatti, che l’obbligo di dichiarazione permane anche in assenza di operazioni imponibili, dovendo il contribuente ritenersi esonerato solo nel caso in cui compia esclusivamente operazioni esenti sulla base del disposto dell’art. 8 Dpr. 322/98. 195 Capitolo II dichiarato, sembrerebbe preferibile adottare una nozione di liquidazione più limitata, la cui rilevanza ai fini dell’imposta sia rilevata in funzione della reale assimilabilità all’esercizio dell’impresa e non esclusivamente in base alla natura dei beni che viene ad interessare, escludendo così ab origine la possibilità di teorizzare un’impresa quiescente in perenne attesa di alienare i beni residui o riprendere improvvisamente l’esercizio effettivo 2 4 5 . In questo senso, pertanto, nel valutare il legame fra le operazioni di liquidazione e l’esercizio dell’impresa sarebbe necessario attribuire una certa rilevanza anche alla dichiarazione formale, quale elemento che, con esclusione delle ipotesi fraudolente, sia in grado di manifestare l’interruzione del suddetto legame da parte dello stesso 245 La negazione dell’ipotesi dell’impresa quiescente sembra doversi sostenere anche alla luce dei recenti interventi del legislatore in tema di società non operative, disciplinate dall’art. 30 L. 23 dicembre 1994, n. 724 modificato ad opera del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248), dai commi 109 ss della Legge Finanziaria 2007 e in ultimo dal comma 128 della Legge Finanziaria 2008, che vanno nel senso di favorire lo scioglimento di tali società o la loro trasformazione in società semplici, attraverso un regime agevolato. Da tali previsioni è dato presumere che il legislatore voglia favorire l’uscita dal regime fiscale proprio dell’impresa dei soggetti inattivi, limitando quindi la fondatezza di un’interpretazione che al contrario favorisca la sopravvivenza dell’impresa sulla base della sola presenza di beni residui, anche nel caso dell’impresa individuale. Nei confronti delle società commerciali una tale interpretazione rischierebbe inoltre di rendere applicabile il regime antielusivo previsto per i soggetti non operativi, non essendo più lo stato di liquidazione fra le cause di esclusione previste. Con riferimento all’Iva, l’applicazione del regime comporterebbe l’impossibilità di ottenere il rimborso dell’eccedenza detraibile, l’impossibilità di utilizzarla per la compensazione orizzontale con le altre imposte e l’impossibilità di cedere il credito nei confronti dell’Erario; a ciò deve aggiungersi la definitiva perdita del credito nel caso in cui lo stato di società non operativa venisse riscontrato per un periodo di tre anni successivi. Ne deriva che in aggiunta alle difficoltà già evidenziate nel testo relativamente al concreto recupero dell’eccedenza, laddove si accogliesse l’interpretazione contestata il contribuente potrebbe definitivamente perdere il proprio credito, sia sotto forma di rimborso sia sotto forma di detrazione. 196 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale imprenditore, individuando il momento oltre il quale, in ogni caso, l’impresa non possa più ritenersi esistente. Tale interpretazione renderebbe il regime impositivo della fase terminale dell’impresa più semplice e meno esposto a successive modifiche o contestazioni. Data l’applicazione dell’ordinario regime alle operazioni sia attive che passive riconducibili all’impresa, anche per espressa previsione legislativa, per i beni che il contribuente intenda mantenere presso di sé, anche solo temporaneamente, diverrebbe applicabile l’imposta per autoconsumo che, come si è visto, l’art. 35 espressamente indica fra gli elementi da inserire nell’ultima dichiarazione annuale presentata. Da un lato, dunque, fatti salvi i termini per i successivi accertamenti, potrebbe ritenersi comunque cessata l’impresa e di conseguenza persa la soggettività passiva, in modo tale che le successive operazioni compiute dal contribuente, potenzialmente imponibili, dovrebbero ritenersi estranee all’ambito Iva per mancanza sia del presupposto soggettivo che di quello oggettivo, soggette se del caso all’imposta di registro. Dall’altro, il diritto al rimborso delle eventuali eccedenze emerse nell’ultima dichiarazione dovrebbe in ogni caso considerarsi acquisito e non più modificabile in credito detraibile, rimanendo soggetto esclusivamente ad una possibile rettifica del suo importo secondo la disciplina di cui all’art. 38 bis. 2.2-L E PROCEDURE CONCORSUALI : 2.2.1-L’esercizio dell’impresa e il fallimento Sotto profilo dell’individuazione del momento di cessazione dell’impresa il caso delle procedure concorsuali, ed in particolare del fallimento, pone degli ulteriori quesiti, distinti da quelli sinora affrontati. Generalmente, come si è visto, il tema viene affrontato in funzione dell’assoggettabilità dell’imprenditore al fallimento, trascurando il profilo del rapporto tra impresa e fallimento una volta che la procedura 197 Capitolo II sia già stata avviata. Dalla giurisprudenza e dalla dottrina giungono indicazioni abbastanza uniformi dalle quali è dato desumere che la dichiarazione di fallimento comporta l’interruzione dell’esercizio dell’impresa, non la sua cessazione definitiva. Si può dunque sostenere che l’inizio della procedura concorsuale dia inizio ad una fase di liquidazione che, seppur coatta e con le peculiarità che la caratterizzano, non appare diversa dall’ipotesi della liquidazione volontaria prima esaminata. In questo senso sembrano deporre le caratteristiche stesse della procedura fallimentare e gli effetti che la dichiarazione di fallimento comporta a carico del fallito, patrimoniali e non. Guardando al principale effetto del fallimento, ossia lo spossessamento, si può infatti notare che esso consiste nella separazione, apprensione e destinazione del patrimonio 246 ad uno scopo preciso, costituito dalla soddisfazione dei creditori dell’imprenditore in stato d’insolvenza dichiarata. La dichiarazione di fallimento non comporta, dunque, né la perdita della titolarità dei beni 2 4 7 né tanto meno la perdita della capacità d’agire, ma semplicemente l’impossibilità per il fallito di disporre ed amministrare il proprio patrimonio e l’inefficacia relativa delle obbligazioni da questo assunte, pienamente valide, ma inopponibili alla procedura. In questo quadro si inseriscono gli organi della procedura ed in 246 B O N FAT T I - C E NS O N I , Manuale di diritto fallimentare, II ed., Padova 2007, 103. Come noto, infatti, il fallimento investe il patrimonio del debitore nel suo complesso non solo i beni direttamente destinati all’impresa. Questo avviene sulla base della generale responsabilità patrimoniale del debitore definita dall’art. 2740 c.c., laddove il legislatore ha disposto che siano posti automaticamente a garanzia delle obbligazioni assunte tutti i beni presenti e futuri del debitore. 247 In passato, vi era chi al contrario sosteneva che con la dichiarazione di fallimento il fallito perdesse la titolarità dei beni e che questa si trasferisse direttamente in capo alla procedura stessa, considerata come una sorta di ente indipendente. 198 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale particolare il curatore, il cui ruolo ed i cui poteri vanno specificati proprio in relazione a questi effetti del fallimento. Non investendo lo spossessamento la titolarità dei beni coinvolti nel fallimento, il curatore, pur ottenendo i propri poteri a titolo originario, assume unicamente quel potere di amministrazione di cui il debitore viene privato, non altro. Ciò implica che, indipendentemente dalla natura giuridica che si voglia attribuire al curatore 2 4 8 , avendo questi solo un potere di amministrazione finalizzato alla liquidazione del patrimonio e non intervenendo modifiche nella titolarità dei beni, non si verifichi in realtà alcuna soluzione di continuità tra la situazione precedente alla dichiarazione di fallimento e quella successiva. O per meglio dire, si ha un mutamento nella finalità cui l’amministrazione è volta, non più produttiva ma liquidatoria 2 4 9 , si ha 248 Si è a lungo discusso in dottrina circa la qualificazione della figura del curatore fallimentare. Escluso che possa trattarsi di un rappresentante dell’imprenditore fallito, stante il carattere originario e non derivato delle sue attribuzioni e la sua posizione di terzo all’interno della procedura, indipendente tanto dal fallito quanto dai creditori, ci si poneva il dubbio se potesse essere qualificato come successore o sostituto del debitore. Chi nega la qualifica di successore lo fa sempre sulla scorta dell’attribuzione a titolo originario dei poteri di amministrazione, ritenendo che, diversamente, lo si possa ritenere un sostituto del fallito. La dottrina più recente nega entrambe le ipotesi, qualificando il curatore unicamente quale incaricato giudiziario che, investito di tale funzione, gestisce un patrimonio altrui. Nel primo senso si veda S AT T A , Diritto fallimentare cit., 126 ss. Per l’opposta posizione, B ON FAT T I - C E NS O N I , Manuale cit., 72 ss. 249 Indicazioni parzialmente differenti ci giungono dallo spirito della recente riforma del diritto fallimentare la quale appare ispirata, quanto meno nelle intenzioni, a finalità conservative e di risanamento, più che liquidatoriesanzionatorie. Si legge infatti nella Relazione Ministeriale di accompagnamento al D.lgs. 5/2006: “[..] considerare le procedure concorsuali non più in termini meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile, di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, ed in 199 Capitolo II un temporaneo mutamento soggettivo, ma non si hanno cambiamenti dal punto di vista oggettivo che riguardino l’esistenza dell’impresa. Ciò che il curatore amministra e liquida, ciò che in questo momento riacquista come funzione principale quella di garanzia delle obbligazioni assunte dal debitore è l’impresa già esistente, che sopravvive alla dichiarazione di fallimento, pur nelle particolarità dello stato d’insolvenza 2 5 0 . A sostegno di quanto sinora sostenuto si pone anche il dato letterale costituito dal testo dell’art. 104 L.Fall. laddove prevede la possibilità di autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa nei casi in cui l’interruzione possa provocare un danno grave. L’utilizzo del termine interruzione chiarisce abbastanza precisamente quali siano gli effetti del fallimento: esso provoca una sospensione dell’esercizio di un’impresa fino a quel momento attiva, ma non ne provoca la cessazione definitiva. La stessa norma prevede inoltre che la continuazione dell’esercizio possa essere disposta anche successivamente alla dichiarazione di fallimento, in un momento in cui l’interruzione si è già verificata 2 5 1 . Il primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali” 250 S AT T A , op. cit. passim si esprime chiaramente in questi termini, sostenendo che, da un lato, chi fallisce è l’imprenditore, non l’impresa in sé stessa; dall’altro, che lo stato d’insolvenza costituisce una fase della vita dell’impresa, non ad essa estranea. 251 Anteriormente alla riforma l’esercizio provvisorio era disciplinato dall’art. 90 L.Fall. che individuava due ipotesi distinte: una prima successiva alla dichiarazione di fallimento e la seconda successiva al decreto di approvazione dello stato passivo. Con particolare riguardo alla seconda ipotesi la stessa norma parlava di ripresa dell’esercizio nei casi in cui la continuazione non fosse stata disposta con la dichiarazione di fallimento. Così come ora, sotto la vigenza dell’art. 90 la dottrina poneva in luce alcuni punti: 1- doveva trattarsi di un’impresa attiva al momento del fallimento, non potendo la norma applicarsi al caso del fallimento dell’imprenditore cessato; 2- è fatto divieto al curatore di iniziare una nuova impresa, egli dunque potrà unicamente subentrare nella gestione dell’impresa del fallito; 3- il titolare 200 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale testo della legge sembra dunque deporre a favore della tesi che sostiene gli effetti meramente interruttivi della dichiarazione di fallimento, dovendosi considerare diverso il caso della cessazione definitiva dell’impresa. In realtà, questa conclusione sembra essere l’unica compatibile con gli stessi presupposti della procedura concorsuale laddove si dispone che essa sia applicabile agli imprenditori commerciali: va da sé che, come disposto dall’art. 2082 c.c., l’esistenza dell’impresa è indispensabile per l’attribuzione della qualifica d’imprenditore, né si può ragionevolmente pensare che l’inizio della procedura faccia venire meno il proprio presupposto soggettivo. Le stesse conclusioni sembrano, inoltre, potersi derivare dalla previsione delle due ipotesi eccezionali del fallimento dell’imprenditore cessato e quello dell’imprenditore defunto, speciali proprio perché si applicano pur in assenza, al momento dell’apertura della procedura, del presupposto soggettivo. Individuate in questi termini, pur se sommariamente, le conseguenze della dichiarazione di fallimento, sembra potersi ricondurre anche in questo caso la discussione nei termini generali precedentemente esposti. Si ripropone, dunque, anche nel caso del fallimento, inteso quale fase liquidatoria, il problema della qualificazione della liquidazione come fase dell’impresa o esterna ad essa, a nulla rilevando, si ritiene, l’attribuzione del potere di amministrazione al curatore o l’apprensione, da parte della procedura, dell’intero patrimonio del fallito e non solo dei beni e dei rapporti giuridici facenti capo dell’impresa resta ad ogni modo il fallito, configurando l’esercizio provvisorio un caso di gestione imprenditoriale sostitutiva di natura giudiziaria (C E N S ON I , op. cit., 95): non mutando la titolarità dei beni oggetto del fallimento sia l’impresa che le operazioni in essa svolte continuano ad essere imputabili al fallito che, una volta chiusa la procedura e cessato lo spossessamento potrà, ove sussistano ancora le condizioni, riprendere l’attività interrotta riassumendo i poteri di gestione e amministrazione di cui era stato privato. 201 Capitolo II direttamente all’impresa 2 5 2 . Analizzando, dunque, il tema negli stessi termini visti in precedenza si prospettano quattro differenti ipotesi: a) se si fa coincidere la cessazione dell’impresa con la fine dell’esercizio dell’attività tipica, allora la dichiarazione di fallimento produrrà anche la cessazione dell’impresa, salvi i casi in cui non si disponga subito l’esercizio provvisorio; b) se, invece, si ritiene che la liquidazione sia parte integrante dell’impresa, sino alla definizione di tutti i rapporti giuridici facenti capo all’impresa, di conseguenza, forse, nemmeno la chiusura della procedura potrà determinare la cessazione dell’impresa, qualora residuino ancora crediti insoddisfatti in sede concorsuale ed il fallito non possa usufruire dell’istituto dell’esdebitazione 2 5 3 ; 252 L’irrilevanza di questo profilo discende dalla considerazione delle finalità della procedura come manifestazione della generale garanzia patrimoniale dei beni del debitore. La commistione all’interno della procedura tra beni personali e beni dell’impresa non sembra poter influire sulla sopravvivenza o meno dell’impresa stessa. Del resto, la cosiddetta universalità oggettiva del fallimento altro non fa che rispecchiare le caratteristiche proprie dell’imprenditore soggetto alla procedura, né crea differenze rispetto alla situazione dell’imprenditore in bonis. Parlando di imprenditore individuale o di società con soci illimitatamente responsabili la funzione di garanzia dell’intero patrimonio esiste tanto in caso di fallimento quanto al di fuori di una procedura concorsuale, pur sussistendo nei casi previsti il beneficio di preventiva escussione. Allo stesso modo, nel caso di società i cui soci godano della responsabilità limitata nemmeno nel fallimento si verifica una confusione di patrimoni, restando i beni personali dei soci, così some i soci stessi, estranei al fallimento, salve le ipotesi di estensione espressamente previste. 253 Il nuovo art 142 L. Fall. disciplina, infatti, l’esdebitazione, istituto che, sostituendo la precedente “riabilitazione”, consente al fallito persona fisica di ottenere la completa liberazione dai debiti concorsuali non soddisfatti, esistenti anteriormente alla procedura, attraverso un decreto del Giudice Delegato che assume efficacia costitutiva quando concorrano le seguenti condizioni “1) abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all'accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni; 2) non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a 202 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale c) applicando la tesi che individua come termine la fine della liquidazione dell’attivo, intesa quale disgregazione della struttura aziendale, allora potrà verificarsi l’ipotesi che la cessazione dell’impresa intervenga nel corso della procedura, presumibilmente in un momento anteriore all’attuazione del piano di riparto, a nulla rilevando che conclusa la procedura permangano rapporti non definiti, a quel punto imputabili all’ex imprenditore personalmente; d) infine, nel caso in cui si faccia corrispondere la cessazione con l’esaurimento delle operazioni intrinsecamente identiche all’attività d’impresa si tratterà di verificare di volta in volta, anche in rapporto alla durata e al legame fra le operazioni, se le vendite fallimentari rivestano questo carattere e, di conseguenza, collocare il momento di cessazione dell’impresa all’interno o successivamente alla procedura. Ovviamente differente sarà l’ipotesi dell’autorizzazione all’esercizio provvisorio, caso in cui le valutazioni appena esposte dovrebbero posticiparsi al momento di cessazione di questo. Appare evidente come, in realtà nessuna di queste soluzioni appaia facilmente praticabile, né in realtà particolarmente utile. La prima ipotesi appare del tutto incompatibile con la possibilità di disporre la continuazione dell’esercizio anche in un secondo momento, fatto che, se si ritenesse cessata l’impresa al momento della dichiarazione di fallimento, determinerebbe l’inizio di una nuova impresa, che, come si è visto, non rientra nei poteri del curatore o di ritardare lo svolgimento della procedura; 3) non abbia violato le disposizioni di cui all'articolo 48; 4) non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta; 5) non abbia distratto l'attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito; 6) non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l'esercizio dell'attività d'impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. Se è in corso il procedimento penale per uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento fino all'esito di quello penale.” 203 Capitolo II altri organi della procedura 2 5 4 . La seconda porta sempre con sé il rischio di un’eccessiva dilatazione della durata dell’impresa, includendovi anche fatti ad essa non più riconducibili. Le altre due ipotesi si espongono anch’esse alle medesime critiche mosse in precedenza, costringendo ad una valutazione casistica spesso impraticabile. Si pone, pertanto, la necessità di valorizzare, da un lato, il dato letterale che emerge dalla disciplina del fallimento e dall’altro la concreta portata degli effetti della procedura e della sua successiva chiusura. Considerando che le norme stesse parlano semplicemente di interruzione dell’esercizio –lasciando presupporre che, anche in assenza di esercizio provvisorio, questo possa riprendere in un momento successivo- e che gli effetti del fallimento, primo fra tutti lo spossessamento, hanno una valenza temporanea limitata alla durata della procedura, alla cui chiusura il fallito tornato in bonis riacquista la piena disponibilità dei propri beni, oltre a vedersi imputati gli effetti degli atti compiuti nel corso del fallimento 2 5 5 , non sembra errato sostenere che la procedura concorsuale debba considerarsi quale fase temporanea priva, generalmente, di effetti estintivi dell’impresa coinvolta, effetti che si determineranno e andranno valutati successivamente alla sua chiusura. Nulla vieta, infatti, che, sussistendone le condizioni 2 5 6 , l’ex-fallito possa riavviare l’esercizio precedentemente interrotto, né sembrano esistere elementi che impongono di considerare l’attività eventualmente ripresa come una nuova impresa. Queste sicuramente saranno valutazioni di fatto desumibili in modo oggettivo dal 254 Anche considerando che si tratterebbe di un’ipotesi d’impresa avviata senza il concorso della volontà del fallito, pur se al lui imputabile. 255 Si deve infatti tenere presente che misure personali ultrattive quali l’inibizione dall’esercizio di un’impresa discendono dalla condanna per i reati di bancarotta, non dalla procedura concorsuale ordinaria priva di risvolti penalmente rilevanti. 256 Ipotesi a dir la verità rare in cui alla chiusura del fallimento residuino delle attività in grado di consentire la ripresa dell’esercizio. 204 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale comportamento assunto successivamente dal soggetto. A questo punto potranno assumere nuovamente rilevanza le risultanze delle iscrizioni nel Registro delle imprese, del tutto indipendenti dalla procedura fallimentare 2 5 7 , e che, anche in questo caso potrebbero fungere da indice di cessazione, quale manifestazione delle intenzioni dell’imprenditore tornato in bonis, fatta salva sempre la possibilità di dimostrare il momento di effettiva cessazione. 2.2.2- L’Iva nelle procedure concorsuali Per quanto riguarda il profilo impositivo del fallimento, sia nell’ambito delle imposte dirette sia nell’Iva ci sono disposizioni specifiche che disciplinano espressamente la fase concorsuale, dettando un regime in parte diverso da quello applicabile alla fase di esercizio ordinario. In termini generali, il legislatore distingue, anche attraverso la previsione di specifici obblighi formali, tra periodo prefallimentare e fase di svolgimento della procedura, cui si applica un regime fiscale 257 A questo proposito l’unico elemento che ci viene dal testo normativa è l’onere attribuito al curatore di effettuare la cancellazione della società fallita una volta chiusa la procedura in base al testo del riformato art. 118 L.fall. Nulla viene stabilito con riguardo all’impresa individuale, motivo per cui potrebbe, in teoria, aversi cancellazione tanto nel corso della procedura quanto successivamente ad opera dello stesso imprenditore in bonis. Con riguardo alle società di capitali, visti gli effetti costituitivi della cancellazione, la dottrina sembra essersi espressa nel senso di una applicazione in senso restrittivo della norma, limitandola ai casi in cui i soci non manifestino alcun interesse alla prosecuzione o, di fatto, al termine della procedura non residui nessun attivo. Nelle altre ipotesi, dunque, in caso di residuo attivo o di interesse dei soci a ricapitalizzare la società la cancellazione ad opera del curatore apparirebbe del tutto ingiustificata. In tal senso B ON FAT T I – C E N S ON I , Manuale cit., 354. Questa considerazione nasce anche dalla riforma societaria che ha escluso il fallimento dalle cause di scioglimento delle società di capitali e dal fatto che, anche qualora operasse come causa di scioglimento, gli organi della società, che restano in carica nel corso della procedura, potrebbero disporre la revoca dello stato di liquidazione una volta chiuso il fallimento. 205 Capitolo II particolare. Le differenze maggiori riguardano le imposte sui redditi, disciplinate dall’art. 183 TUIR, nell’ambito delle quali la procedura concorsuale viene fatta corrispondere ad un unico periodo d’imposta, il cosiddetto maxi periodo, al termine del quale il reddito imponibile sarà costituito dall’eventuale differenza tra il residuo attivo della procedura ed il patrimonio netto esistente all’inizio della stessa. In campo Iva, la disciplina del fallimento è contenuta nell’art. 74 bis che, oltre alla menzionata differenza tra periodo prefallimentare e procedura, disciplina un regime omogeneo a quello ordinario, caratterizzato solo da alcune differenze. In riferimento al periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento la norma dispone che gli obblighi di registrazione e fatturazione i cui termini non siano ancora spirati debbano essere assolti dal curatore, il quale, secondo quanto previsto dall’art. 8, c. 4 del DPR. 22 luglio 1998, n. 322, dovrà entro i termini ordinari o, al massimo, entro quattro mesi dalla nomina, presentare la dichiarazione per l’anno solare precedente all’inizio della procedura. Allo stesso modo, e sempre nei termini ordinari, egli dovrà presentare la dichiarazione dell’imposta relativa all’anno in cui il fallimento è stato dichiarato, nonché quella eventualmente relativa alle operazioni imponibili registrate nella frazione di anno solare antecedente all’avvio della procedura. La finalità di questi adempimenti è, secondo l’uniforme parere di dottrina e giurisprudenza, quella di fotografare lo status quo della posizione fiscale del fallito, in modo tale che vengano determinate le imposte dovute e l’Amministrazione possa procedere all’insinuazione al passivo per ottenere il pagamento in concorso con gli altri creditori 2 5 8 . 258 La normativa vigente non permette infatti di collocare il credito tributario su un piano diverso da quello degli altri crediti concorsuali. Il principio della par condicio creditorum che informa l’intero sistema delle procedure d’insolvenza porta a collocare le pretese impositive sullo stesso piano di quelle private, 206 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale La fase propriamente fallimentare è soggetta ad una disciplina in parte diversa da quella ordinaria, pur senza la previsione del cosiddetto maxi periodo individuato, invece, con riferimento alle imposte dirette. Ferma, dunque, la normale suddivisione in singoli periodi d’imposta per tutta la durata della procedura, si stabilisce l’applicabilità del regime ordinario alle operazioni imponibili compiute, sia in presenza di esercizio provvisorio, sia in caso di semplice attività liquidatoria, sostituendo al soggetto passivo il curatore, che è tenuto a tutti gli adempimenti previsti dalla disciplina ordinaria, e quindi alla fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione dell’imposta. Dalla norma, come si è detto, emergono differenze unicamente in rapporto ai termini assegnati al curatore per tali adempimenti: un termine unico per la fatturazione delle operazioni, indicato in 30 giorni dalla loro effettuazione, e soprattutto la possibilità che la liquidazione periodica dell’imposta venga effettuata solo nel caso di compimento di operazioni imponibili nel periodo relativo. mantenendo intatto, in entrambi i casi, il solo sistema dei privilegi disciplinato dal Codice Civile. Il libro VI del c.c. permette di delineare una graduazione dei diversi crediti esistenti in capo allo stesso debitore, la cui disciplina ed ordine sono espressamente disciplinati. Gli artt. 2752, 2759, 2771 e 2772 c.c. sanciscono i privilegi di cui godono lo Stato e gli altri Enti impositori per le diverse imposte loro dovute, creando un impianto normativo che trova piena applicazione anche nell’ambito delle procedure concorsuali. Ciò che accomuna e caratterizza i privilegi codicistici è la loro limitazione temporale, in forza della quale potranno considerarsi privilegiati solo i crediti relativi ai due anni precedenti (uno nel caso dell’art. 2771 c.c.), mentre gli altri dovranno necessariamente essere qualificati come chirografari. Il credito tributario non concorre, dunque, in ogni caso in via privilegiata: tutte le somme dovute che siano ascrivibili ad un periodo che superi i due anni antecedenti all’istanza di insinuazione al passivo concorreranno in via chirografaria, così come quanto dovuto a titolo di sanzione, tranne il caso delle sanzioni Iva, espressamente richiamate dalla normativa codicistica. In base al principio generale dettato dall’art. 54 L.Fall., infine, la parte di credito che non risulti soddisfatto con il bene oggetto del privilegio, concorrerà al riparto finale, anche in questo caso in via chirografaria. 207 Capitolo II Sia nell’ambito delle imposte dirette sia nell’Iva, il curatore presenterà una dichiarazione finale al termine della procedura 259 , attraverso cui potrà richiedersi il rimborso delle eventuali eccedenze d’imposta derivanti dalle ritenute subite per gli interessi sui conti correnti bancari o dall’Iva versata a monte per le spese della procedura 2 6 0 . Pur se apparentemente chiara, la disciplina fiscale del fallimento solleva numerosi dubbi ed interpretazioni controverse che si distinguono in base al significato, estintivo o meramente sospensivo sull’impresa, che ad esso si attribuisce con ovvi riflessi sul tema, soprattutto in riferimento all’Iva, della soggettività passiva e dell’applicabilità dell’imposta. a)- L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle vendite fallimentari Prima dell’introduzione nel Dpr. 633/72 dell’art. 74 bis, la questione più dibattuta era quella relativa all’applicabilità dell’Iva alle vendite fallimentari, fermamente negata dalla giurisprudenza, contrariamente alle posizioni della dottrina che apparivano in materia più orientate a considerare il fallimento una fase liquidatoria 259 In realtà, nell’Iva verranno presentate le dichiarazioni, annuali o periodiche, secondo i termini ordinari. 260 È questo uno degli aspetti più spinosi che interessano il regime fiscale del fallimento, a causa delle difficoltà che si incontrano per la riscossione del credito. Posto che esso emerga in sede di dichiarazione finale e che il curatore debba presentare questa alla conclusione della procedura, ne discende l’impossibilità per il curatore ad ottenere il pagamento delle somme una volta terminato il proprio incarico. Intitolato a ricevere il pagamento tornerà allora ad essere il fallito tornato in bonis, che per effetto della chiusura del fallimento riacquista la piena disponibilità del proprio patrimonio (residuo) e dei rapporti ad esso connessi. Questo comporta però l’impossibilità di utilizzare queste somme ai fini del riparto fra i creditori iscritti, cui in realtà esse spetterebbero, trattandosi di attività maturate durante il fallimento e quindi fallimentare. 208 destinate a confluire nell’attivo La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale dell’impresa, nonostante il suo carattere forzato 2 6 1 . I principali elementi portati a sostegno dell’esclusione delle vendite fallimentari dall’ambito di applicazione dell’Iva poggiavano sulla considerazione che la dichiarazione di fallimento creerebbe una frattura insanabile all’interno dell’impresa, causandone la cessazione con conseguente perdita della soggettività passiva del fallito e irrilevanza delle operazioni compiute ai fini dell’imposta. Tale opinione si fondava sulla considerazione che, in rispetto al principio di effettività, per aversi impresa debba aversi esercizio concreto di un’attività, da cui una fase di liquidazione volta al solo soddisfacimento dei creditori inevitabilmente esulerebbe. Si tratterebbe, inoltre, di rilevare la profonda differenza tra gli scopi tipici dell’impresa, consistente nella produzione o scambio di beni per un sostanziale scopo di lucro, e quelli di una fase liquidatoria cui unica finalità è quella di disgregare l’apparato aziendale, monetizzare il patrimonio dell’impresa e definire i rapporti ad essa facenti capo. In molte pronunce dei Tribunali fallimentari era inoltre possibile rinvenire la considerazione che l’applicazione dell’imposta sarebbe di fatto andata a solo svantaggio della procedura, aumentandone oneri e costi a discapito della naturale finalità volta alla realizzazione di un attivo sufficientemente ampio da soddisfare i creditori iscritti. In opposizione a queste tesi si portavano principalmente argomenti fondati sulla natura e sulla struttura dell’imposta, che sarebbero risultati inevitabilmente alterati dall’esclusione dal proprio ambito delle cessioni fallimentari, cui si univa la considerazione che il fallimento, pur nella sua particolarità, altro non è che una forma di 261 Per una ricostruzione delle diverse posizioni cfr. G AFFU R I , L’iva e le vendite fallimentari, cit, 115; L A R OS A , Iva e vendite fallimentari, Dir. Prat. Trib., 1974, I, 321; S AM M AR T IN O , Profilo cit., 130 ss. Sulla disciplina fiscale di fallimento e procedure concorsuali M IC C IN E S I , voce Fallimento nel diritto tributario, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., 1990, V, 453; I D EM , L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990; S T E VAN AT O , Inizio cit., 231 ss; T ON E T T I , Aspetti fiscali delle procedure concorsuali, Padova, 2006; T O S I (a cura di), Problematiche fiscali del fallimento e prospettive di riforma, Padova, 2005. 209 Capitolo II liquidazione dell’impresa al pari di quella volontaria. Si rilevava da parte di alcuni che la nozione di impresa valida in campo Iva prescinderebbe dall’esercizio attuale in favore di una qualificazione più ampia, incentrata sulla effettiva capacità di produrre valore aggiunto all’interno del ciclo produttivo. Si riteneva, dunque, che pur intervenuto il fallimento i beni appartenenti all’impresa, merce o strumentali che fossero, avessero già maturato un valore aggiunto che non poteva andare esente da imposizione 2 6 2 . In questo senso, dunque, l’esclusione dell’imponibilità delle vendite effettuate in seno alla procedura andrebbe contro la struttura dell’imposta e la sua ratio, non potendosi ritenere che la dichiarazione di fallimento, pur se comportasse la cessazione dell’impresa, agisca retroattivamente elidendo il valore aggiunto già prodottosi in capo ai beni dell’impresa. Alla stessa conclusione si arrivava anche per la via che valorizzava maggiormente il profilo oggettivo dell’imposta, in base al quale dovevano ritenersi imponibili tutte le operazioni che avessero ad oggetto i beni dell’impresa, in ragione soprattutto della struttura stessa dell’imposta e della finalità, ad essa connaturata, di neutralità nei confronti dell’imprenditore, irrimediabilmente lesa da una interruzione ingiustificata della sua applicazione 2 6 3 . In base a tale considerazione, si riteneva che due fossero le soluzioni possibili: o applicare automaticamente l’imposta al momento della dichiarazione di fallimento per autoconsumo dovuto alla cessazione dell’impresa o ammettere l’imponibilità delle vendite nel corso della procedura sulla base del collegamento oggettivo che esse manterrebbero con il precedente esercizio in ragione della natura dei beni alienati. L’introduzione di una norma specifica ha posto fine a tali contrasti sancendo espressamente la continuazione del regime ordinario anche all’interno della procedura, sia che vi sia esercizio provvisorio sia che l’attività degli organi fallimentari consista nella mera liquidazione del 262 In questo senso G AFFU R I , L’iva cit., 132 263 Così L A R O S A , Iva cit., 326 ss. 210 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale patrimonio aziendale e degli altri beni dell’impresa. Tuttavia, anche successivamente all’introduzione della norma la principale motivazione che veniva posta per la non imponibilità, ossia l’avvenuta cessazione dell’impresa ad opera della dichiarazione di fallimento, non è stata abbandonata. Si continua a sostenere, dunque, che la ragione dell’imponibilità delle operazioni fallimentari vada ricercata unicamente all’interno della stessa norma che la dispone, norma che sarebbe da considerarsi speciale e derogatoria rispetto alle altre disposizioni del decreto Iva istitutive del presupposto dell’imposta 2 6 4 . b)- La dichiarazione prefallimentare cessazione dell’attività. Critica come dichiarazione di Nonostante, dunque, le indicazioni del legislatore circa il mantenimento del regime Iva ordinario anche in sede di fallimento, orientamento pressoché costante della giurisprudenza tributaria è quello che afferma gli effetti estintivi della dichiarazione di fallimento sull’impresa, facendo coincidere pertanto cessazione dell’attività 264 Si veda S AM M AR T IN O , Profilo cit., 134, nt.8 secondo cui con la dichiarazione di fallimento verrebbe a mancare il presupposto soggettivo dell’imposta, perdendo il fallito la qualità di imprenditore, ponendo così irrimediabilmente fine all’impresa stessa. Sembra che l’Autore, non assimilando liquidazione volontaria fallimento quanto a funzione, giunga ad applicare in questo caso criteri diversi da quelli che fondano invece la sua ricostruzione circa la riconducibilità della liquidazione all’esercizio dell’impresa. In quel caso, infatti, l’appartenenza dei beni all’impresa viene ritenuto elemento sufficiente per configurarne la sopravvivenza anche in assenza di esercizio effettivo dell’attività tipica. Nel caso del fallimento, invece, ritiene che il soggetto perda la qualifica di imprenditore proprio in conseguenza dell’assenza di un effettivo esercizio dell’attività, attribuendo così rilievo ad un elemento soggettivo prima trascurato. A ciò, secondo l’Autore, si aggiunge la considerazione che la confusione tra patrimonio personale e beni dell’impresa all’interno della procedura comporterebbe l’interruzione del vincolo funzionale prima esistente tra i beni dell’impresa, causandone in conseguenza la cessazione. 211 Capitolo II economica ed apertura della procedura concorsuale. La Corte di Cassazione afferma in sostanza che “con la dichiarazione di fallimento - e salva l'ipotesi, non attuale, di autorizzazione all'esercizio provvisorio -, cessa l'attività dell'impresa, mentre la disponibilità e l'amministrazione dei beni passa dall'imprenditore alla curatela fallimentare. Nessuna continuità è dunque giuridicamente riscontrabile - anche ai fini dell'IVA, per quanto qui interessa - fra gestione dell'imprenditore (prima del fallimento) ed amministrazione fallimentare, essendo mutati, per effetto della dichiarazione di fallimento, il contribuente ed il soggetto responsabile della gestione.” 2 6 5 In questo contesto, dunque, la dichiarazione che il curatore è tenuto a presentare, in base al disposto dell’art. 74 bis, relativamente all’imposta relativa alle operazioni compiute dal fallito prima dell’apertura della procedura dovrebbe considerarsi prima di tutto al pari di una dichiarazione annuale –perché si prevede l’allegazione dei documenti giustificativi, diversamente da quanto accade per le liquidazioni periodiche- ed in particolare equivalente ad una dichiarazione di cessazione dell’attività ex art. 35 Dpr. 633/72. Tale affermazione muove dalla considerazione che, escluso il caso di esercizio provvisorio, l’attribuzione di tutta l’amministrazione e degli adempimenti formali al curatore siano segno di un’interruzione definitiva della precedente attività economica, cui neanche l’eventuale ritorno in bonis alla chiusura del fallimento potrebbe porre rimedio 2 6 6 . Conseguentemente a tale impostazione, la dichiarazione 265 Così Cass., 15 dicembre 2003, n. 19169. Nello stesso senso, fra le più recenti, si vedano anche Cass., 2 marzo 2004, n. 4225; Cass., 20 febbraio 2004, n. 3430; Cass., 15 gennaio 2004, n. 478; Cass., 12 dicembre 2003, n. 19072; Cass., 22 marzo 2002, n. 4104. In proposito si veda STESURI A., Dichiarazione Iva del curatore per il periodo prefallimentare e richiesta di rimborso, Fall., 2004, 12, 1353 266 Secondo questa impostazione si ritiene infatti che l’eventuale ripresa dell’attività successivamente alla chiusura della procedura configurerebbe l’inizio di una nuova impresa, non la ripresa di quella precedentemente sospesa. 212 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale prefallimentare darebbe diritto al curatore ad ottenere il rimborso dell’eventuale eccedenza emersa secondo il disposto dell’art. 30, essendo esclusa, in virtù dell’avvenuta cessazione, la possibilità del riporto del credito in detrazione nella successiva dichiarazione 2 6 7 . Questa conclusione viene motivata dalla giurisprudenza anche sulla base di un’ulteriore considerazione: da un punto di vista meramente fattuale, il curatore potrebbe nel corso della procedura non compiere alcuna operazione imponibile e di conseguenza non presentare alcuna dichiarazione in cui effettuare la detrazione, con il rischio di definitiva perdita del credito; in punto di diritto, la cessazione dell’attività importerebbe l’impossibilità di compensare il credito con l’eventuale debito d’imposta successivo perché si tratterebbe di somme imputabili a differenti contribuenti e, quindi, fra loro non compensabili. Di avviso totalmente opposto è, invece, l’Amministrazione Finanziaria che sembra negare la portata estintiva della dichiarazione del fallimento, spostando il momento di cessazione dell’attività alla chiusura della procedura 2 6 8 . La diversa posizione poggia sul differente valore attribuito alla 267 Tutte le pronunce richiamate in precedenza affermano la cessazione dell’impresa al fine di assicurare il diritto al rimborso dell’eccedenza al curatore. In questo senso il primo precedente richiamato è Cass., 10 dicembre 1992, n. 13091, nel quale si afferma il carattere incondizionato del diritto al rimborso nei casi in cui l’impresa sia cessata o fallita, non applicandosi a questi casi la condizione contenuta nello stesso art. 30 che prevede l’erogabilità del rimborso nel caso della presenza di eccedenze detraibili nelle due dichiarazioni precedenti. L’aspetto curioso di questo rinvio è costituito dalla diversità delle situazioni di fatto che hanno dato origine alle pronunce. La sentenza del 1992 si riferisce infatti ad una richiesta di rimborso avanzata dall’ex curatore di un fallimento già chiuso, momento in cui effettivamente l’attività era cessata, terminata la soggettività passiva e, quindi, del tutto impossibile compensare il credito con alcuna posizione debitoria. Le successive pronunce si riferiscono, al contrario, sempre ad ipotesi di dichiarazione Iva prefallimentare, cui inevitabilmente ne seguiranno altre. 268 Così, le deduzioni riportate in Cass. 19169/03 cit. Per ulteriori riferimenti sull’orientamento della prassi si veda altresì la Circolare n. 25/E del 22 marzo 2002. 213 Capitolo II dichiarazione Iva per il periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento che, secondo l’Amministrazione, non sarebbe equivalente ad una dichiarazione annuale, ma avrebbe la semplice funzione di fotografare la situazione e comunicarla agli organi competenti. Questo perché, in ogni caso, la dichiarazione di fallimento non avrebbe l’effetto di provocare, quanto meno ai fini dell’imposta, la cessazione dell’impresa, fatto dimostrato dalla considerazione che nel corso della procedura, indipendentemente dall’autorizzazione all’esercizio provvisorio, vengono svolte operazioni imponibili. Guardando alla disciplina fiscale del fallimento in termini generali, quindi anche con riferimento alle imposte dirette, l’Amministrazione ritiene che il legislatore abbia avuto intenzione di considerare la fase concorsuale come l’ultimo periodo d’imposta riferibile all’impresa e, di conseguenza, anche ai fini Iva sarà la chiusura della procedura ad integrare un’ipotesi di cessazione dell’attività. Per questo motivo, solo al termine della procedura il curatore sarà tenuto a presentare la dichiarazione di cessazione disciplinata dall’art. 35 e la successiva dichiarazione annuale nei termini ordinari, solo a questo punto diverrà applicabile il disposto dell’art. 30 laddove attribuisce al contribuente un diritto al rimborso incondizionato 2 6 9 . Si ritiene che le posizioni appena esposte, pur se fra loro antitetiche, si espongano a critiche sostanzialmente omogenee che in primo luogo interessano la natura e gli effetti del fallimento. 269 Come si legge nella Circolare n. 3 del 28 gennaio 1992 la presentazione della dichiarazione di cessazione non sarebbe comunque condizionata dall’emanazione del decreto di chiusura del fallimento, potendo il curatore adempiervi anche prima, purchè siano terminate tutte le operazioni imponibili. Si ritiene, tuttavia, che una simile interpretazione non sia in grado di risolvere i problemi di riscossione dell’eventuale credito che emerga alla chiusura della procedura. Anche anticipando la presentazione della dichiarazione di cessazione, non sarebbe comunque possibile provvedere al calcolo dell’imposta e alla presentazione della dichiarazione annuale successiva, in quanto solo al momento della chiusura della procedura verranno liquidate le ultime spese a questa imputabili, tra cui il compenso dello stesso curatore, soggetto all’imposta. 214 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale Esaminandone la disciplina sostanziale si è posta in evidenza la necessità di valorizzare da un lato il dato letterale delle norme che regolano il fallimento e dall’altro la concreta portata degli effetti della procedura e della sua successiva chiusura. Considerando che le norme si esprimono in termini di interruzione dell’esercizio –lasciando presupporre che, anche in assenza di esercizio provvisorio, questo possa riprendere in un momento successivo- e che gli effetti del fallimento, primo fra tutti lo spossessamento quale perdita del potere di amministrazione e disposizione, hanno una valenza temporanea limitata alla durata della procedura 2 7 0 , si è ritenuto corretto sostenere che la procedura concorsuale debba considerarsi quale fase temporanea priva di automatici effetti estintivi dell’impresa coinvolta, effetti che si determineranno e andranno valutati successivamente alla sua chiusura. Nulla vieta, infatti, che, in caso di fallimento chiuso per mancanza di insinuazioni al passivo o pagamento dei creditori prima della ripartizione finale dell’attivo, il fallito tornato in bonis possa riavviare l’esercizio precedentemente interrotto, né sembrano esistere elementi che impongano di considerare l’attività eventualmente ripresa come una nuova impresa. Non si ritiene ci siano motivi per discostarsi da tale impostazione con riferimento al profilo fiscale delle procedure concorsuali, dettato da norme che non ne modificano in nulla la disciplina sostanziale. Soprattutto guardando alla disciplina Iva, è dato rilevare una sostanziale omogeneità del regime applicabile, di fatto incompatibile con l’idea che la dichiarazione di fallimento comporti la cessazione dell’impresa, a meno che, anche in questo caso, non si voglia sostenere che l’imponibilità delle operazioni fallimentari poggia unicamente su necessità di chiusura del ciclo fiscale dell’impresa, dando vita ad una fattispecie eccezionale che, rispetto alla disciplina ordinaria, sarebbe 270 Alla cui chiusura il fallito tornato in bonis riacquista la piena disponibilità dei propri beni, oltre a vedersi imputati gli effetti degli atti compiuti nel corso del fallimento 215 Capitolo II carente sia del profilo soggettivo che di quello oggettivo del presupposto. Ma anche se si volesse ritenere questa l’unica ragione dell’imponibilità delle operazioni fallimentari, l’asserita discontinuità fra esercizio ordinario e fallimento, discontinuità che addirittura importerebbe un cambiamento di soggetto passivo non sembra in realtà trovare alcun fondamento normativo. In primo luogo, non sembra che l’equiparazione tra dichiarazione iniziale del curatore e dichiarazione di cessazione sia sostenibile. Si è detto che la ratio di questa interpretazione sta nell’intenzione di garantire al curatore la possibilità di ottenere il rimborso delle eccedenze eventualmente emerse, possibilità che in realtà può benissimo verificarsi anche sulla base dell’applicazione delle disposizioni ordinarie, senza che sussista una reale necessità di individuare un’ipotesi di cessazione, cui la stessa disciplina dell’imposta si oppone. Nulla vieta, infatti, che anche in questi casi si possa applicare il disposto dell’art. 30 in tema di rimborsi. Del resto è lo stesso art. 74 bis a richiamarne il disposto, riferendosi sia ai rimborsi eventualmente non liquidati all’apertura del fallimento così come ai successivi, senza creare fra essi distinzioni o senza fornire alcun elemento che limiti il rinvio al solo secondo comma dell’art. 30 e non a tutte le altre ipotesi previste nei commi successivi. Ugualmente discutibile è la considerazione che consentire il solo riporto a credito potrebbe comportare la perdita delle somme dovute nel caso in cui non si compissero operazioni imponibili e non si dovessero, quindi, presentare dichiarazioni. Posto che l’art. 74 bis sancisce l’applicazione dell’ordinario regime Iva, spostandone solo gli adempimenti in capo al curatore, una simile eventualità non sembra concretamente prospettabile. La norma infatti esenta il curatore dalla presentazione delle dichiarazioni periodiche laddove non ci siano state operazioni imponibili nel periodo considerato, ma nulla dice in merito all’esclusione dalla presentazione della dichiarazione annuale, che resta soggetta alle disposizioni ordinarie. Per questo motivo, sulla base dell’art. 8 del DPR 322/1998, il curatore sarà tenuto a presentare la 216 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale dichiarazione annuale anche in caso di assenza di operazioni imponibili, essendone esonerato esclusivamente, secondo la disciplina ordinaria, nel caso in cui compia solo operazioni esenti. Altro profilo controverso della tesi giurisprudenziale è la considerazione del tutto marginale che essa fa dell’esercizio provvisorio nel corso del fallimento. Tale ipotesi viene ritenuta solo meramente eventuale e, di conseguenza, una semplice eccezione alla norma generale che comporterebbe la cessazione dell’impresa. Sembra però che la giurisprudenza tenga conto unicamente dell’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio venga disposto immediatamente, fatto che impedirebbe la cessazione dell’impresa, consentendone la continuazione nel corso della procedura. Non sembra invece considerata l’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio sia disposto nel corso del fallimento successivamente ad un periodo di sospensione, ipotesi che, come si è visto, è del tutto incompatibile con l’idea che la dichiarazione di fallimento provochi la cessazione definitiva dell’impresa, a meno che non si voglia ipotizzare che nel corso della procedura possa iniziarsi una nuova impresa imputabile, comunque, al fallito. Già sulla base di questi pochi elementi è possibile contestare l’idea che la dichiarazione di fallimento comporti la cessazione dell’impresa anche a fini impositivi, dovendo piuttosto preferirsi un’interpretazione che, anche in base alla disciplina Iva, ne valorizzi la continuità. Un ultimo elemento non condivisibile della citata giurisprudenza è quello che nega la possibilità di compensare il credito d’imposta con il debito successivamente emerso nel corso della procedura sull’assunto che tra fase pre e post fallimentare muti il contribuente, rendendo quindi impossibile l’applicazione dell’istituto della compensazione. Contro questa affermazione si pongono diverse considerazioni, alcune provenienti dalla stessa giurisprudenza, altri relativi alla disciplina sostanziale del fallimento. In primo luogo, deve ricordarsi che lo spossessamento conseguente alla dichiarazione di fallimento priva il fallito del potere di amministrare e disporre del proprio patrimonio, lasciandone, però, 217 Capitolo II immutata la titolarità cui consegue l’imputabilità di tutti gli atti compiuti all’imprenditore, restando in capo lui la titolarità sia dei beni che dei rapporti giuridici ad essi relativi. Sul piano tributario questo comporta la naturale conseguenza che, una volta chiusa la procedura, anche i rapporti tributari i cui presupposti si siano verificati durante la procedura saranno comunque imputabili all’ex fallito tornato in bonis . Anche per quanto riguarda il rapporto impositivo, dunque, lo spossessamento non comporta un cambiamento di titolarità, o meglio di soggettività passiva, ma semplicemente un cambiamento nella gestione di tale rapporto, che nel corso della procedura viene affidata al curatore fallimentare. Del resto, per sostenere che vi sia un cambiamento sul piano sostanziale non sembra sia sufficiente la sola attribuzione al curatore degli adempimenti formali relativi all’imposta. Essi, pur essendo parte integrante e fondamentale della disciplina Iva, non ne costituiscono però il presupposto che, anche nel caso del fallimento, continua ad essere riferibile al fallito, titolare di un’impresa che il curatore solamente amministra, pur se con finalità liquidatorie. È del resto la stessa giurisprudenza, interrogata sulla legittimazione del fallito ad impugnare un atto di accertamento notificato nel corso della procedura, a fondare la propria risposta affermativa sulla considerazione che il fallito non perde la soggettività passiva del rapporto tributario 2 7 1 . Pur trattandosi, nei casi esaminati, di accertamenti riferibili ad 271 Così Cass., 19 gennaio 2006, n. 4235; Cass., 26 settembre 2003, n.14301; Cass., 19 dicembre 2002, n. 9951; Cass., 8 marzo 2002, n. 3427. Da questa giurisprudenza emerge il principio per cui, pur dovendosi notificare un eventuale atto di accertamento al curatore che è nella disponibilità del patrimonio del fallito, anche perché la pretesa fiscale influisce sullo stato passivo della procedura, il provvedimento dovrà essere comunicato anche al fallito stesso che resta titolare del rapporto tributario e, soprattutto, destinatario delle conseguenze dell’atto, sia patrimoniali che sanzionatorio. La notifica al fallito è indispensabile perché questi, in caso di inerzia del curatore, possa provvedere ad impugnare autonomamente l’accertamento che altrimenti diverrebbe definitivo. 218 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale imposte dovute per presupposti realizzatisi prima della dichiarazione di fallimento, sembra che il principio sia applicabile in termini generali all’intera procedura. Fatto questo testimoniato, ad esempio, dall’imputabilità dei redditi maturati nel corso del fallimento all’imprenditore e, dall’altro, dalla considerazione che il principale problema della disciplina fiscale del fallimento è costituito dal fatto che, chiusa la procedura, gli eventuali crediti d’imposta, emersi nelle dichiarazioni finali, vengono riscossi solitamente dall’ex fallito, invece che confluire nell’attivo fallimentare ed essere ripartiti fra i creditori iscritti. Più che modificare il profilo sostanziale della soggettività deve, dunque, ritenersi che il fallimento provochi una separazione tra il piano della soggettività passiva e il piano applicativo dell’imposta, così come dal punto di vista sostanziale avviene tra titolarità dei beni ed amministrazione. Ciò significa che non esiste un reale ostacolo alla compensazione tra i crediti emersi per la fase prefallimentare e il debito d’imposta relativo alle operazioni fallimentari 2 7 2 : il soggetto passivo del rapporto 272 Si ritiene invece che, posta la continuità dell’impresa anche in pendenza del fallimento e, quindi, l’ordinaria applicabilità della disciplina dei rimborsi ex art. 30, la scelta tra rimborso e riporto a credito dovrebbe essere lasciata, ove ne sussistano i presupposti, al curatore nell’ambito della sua attività di amministrazione. Del resto, non si ritiene che un’eventuale compensazione potrebbe concretamente provocare un depauperamento dell’attivo fallimentare in danno ai creditori concorsuali, proprio perché a fronte della non riscossione di un credito ci sarebbe una minore uscita a carico della procedura, mantenendo in sostanza il risultato invariato. Allo stesso modo, non si può sostenere un ingiustificato vantaggio per l’Amministrazione che vedrebbe soddisfatto il proprio credito al di fuori del concorso. Si tratta infatti di posizioni diverse: il credito tributario iscritto al passivo è sorto anteriormente all’apertura della procedura e concorre regolarmente con gli altri crediti iscritti; le imposte inerenti alle attività della procedura stessa non sono qualificabili come crediti concorrenti e, pur se imputabili al medesimo soggetto passivo, non sono soggette alla par condicio creditorum proprio perché, al pari del compenso del curatore, sono oneri gravanti sulla stessa procedura perché spese sostenute in favore della massa. 219 Capitolo II è lo stesso, pur se il presupposto è realizzato sotto la direzione altrui per la particolarità della fase in cui l’impresa si trova; il fatto che tali imposte rientrino tra le spese prededucibili del resto non indica una diversità di soggetti passivi, ma si giustifica sulla base delle stesse norme fallimentari, laddove separano crediti anteriori al fallimento, e dunque concorrenti, e spese o oneri sostenuti nel corso della procedura per la liquidazione dell’attivo. Così come non si ritiene debba accogliersi l’indirizzo giurisprudenziale che fa discendere dalla dichiarazione di fallimento un immediato effetto estintivo, ugualmente non sembra del tutto corretto l’orientamento amministrativo che posticipa tale effetto automaticamente alla chiusura della procedura. Si deve infatti ritenere che, sulla base della ricostruzione fatta del fallimento dal punto di vista sostanziale, la cessazione dell’impresa non sia necessariamente conseguente alla fine della procedura. Soprattutto nei casi in cui essa termini per assenza di passivo o soddisfazione dei crediti iscritti senza totale liquidazione dell’attivo, nulla vieta che l’attività riprenda in capo al fallito tornato in bonis. Posta la continuità che si è evidenziata nel rapporto tributario, che resta in ogni caso riferito all’imprenditore, non sembra allora giustificabile l’idea secondo la quale un’eventuale ripresa dell’esercizio costituisca l’inizio di una nuova impresa, cui dovrebbe necessariamente collegarsi una diversa posizione nei confronti del Fisco 2 7 3 , stante oltretutto l’assenza di indicazioni normative in tal senso. Non sembra, dunque, corretto ritenere che alla chiusura della procedura il curatore debba necessariamente presentare la dichiarazione di cessazione ex art. 35. Come si è visto, la norma prevede come criterio generale che essa sia redatta entro trenta giorni 273 Al contrario, come l’impresa mantiene la medesima partita Iva durante tutta la procedura, ugualmente la manterrà successivamente qualora prosegua l’attività. Se si ipotizzasse la nascita di una nuova necessariamente mutarne anche gli aspetti formali. 220 impresa allora dovrebbero La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale dal termine della liquidazione, senza introdurre criteri specifici per casi quali il fallimento. La chiusura del fallimento di per sé non può integrare i requisiti di applicazione della norma, sia perché la liquidazione potrebbe proseguire successivamente ad opera dello stesso imprenditore, sia perché l’attività potrebbe riprendere, come si è detto, con una diversa organizzazione. In questi casi sarebbe allora del tutto ingiustificato che il curatore fosse tenuto a decretare l’estinzione di un soggetto passivo che in realtà può ancora integrare i presupposti impositivi ai fini dell’Iva. Anche con riferimento al profilo fiscale, il fallimento dovrebbe allora essere considerato più come una fase circoscritta della vita dell’impresa che come una fase necessariamente terminale. La particolarità della fattispecie è in grado di determinare delle modifiche nel regime impositivo che evidenziano la separazione dall’esercizio ordinario, ma che di fatto non contengono indicazioni sulla sua portata estintiva nei confronti del soggetto coinvolto. Pertanto, nel determinare se in conseguenza del fallimento vi sia la cessazione dell’impresa, si dovrà compiere un’analisi più aderente alla concreta situazione di fatto, evitando qualsiasi meccanismo automatico, ma svolgendo un esame pari a quello che si è visto necessario nell’ipotesi di liquidazione volontaria, verificando se, anche in seguito alla procedura fallimentare, sia riscontrabile un’attività per le proprie caratteristiche riconducibile all’impresa, capace, quindi, di conservare la soggettività passiva in capo all’ex fallito ed integrare, conseguentemente, i presupposti per l’applicazione dell’imposta. 3- A LCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE : IMPRESA , ATTIVITÀ ECONOMICA E CESSAZIONE NELL ’ ORDINAMENTO INTERNO Dalla ricostruzione sin qui condotta emergono due problematiche principali relative alla cessazione dell’impresa: quali sono le ragioni per cui la fase liquidatoria viene ricondotta all’interno della stessa impresa e quando è possibile determinare il corretto momento di 221 Capitolo II cessazione. Questi temi si traducono, in ambito impositivo, in due fondamentali interrogativi, ovvero per quale motivo la fase liquidatoria è assoggettata al regime impositivo ordinario e quale evento comporta il venir meno del presupposto, ovvero la cessazione dell’attività rilevante. La risposta al primo quesito, esclusa l’ovvia considerazione che è il legislatore a disporre in questo senso, poggia sulla capacità della liquidazione ad integrare il presupposto impositivo attraverso il compimento di operazioni imponibili che consentono il mantenimento della soggettività passiva. Posta la struttura prettamente oggettiva della normativa nazionale, la ragione della sopravvivenza dell’impresa viene individuata nella natura dei beni che sono oggetto di tali operazioni. Trattandosi di beni prodotti dall’impresa o a questa strumentali la loro imponibilità viene data per scontata, ritenendosi sufficiente questo elemento a mantenere in vita l’impresa ed il legame tra le operazioni. Sulla base di questa interpretazione, la presenza dei beni sarebbe dunque in grado di sopperire alla mancanza di un effettivo esercizio dell’attività produttiva e delle altre caratteristiche richieste per l’attività. In questo, la dottrina tributaria accoglie quelle soluzioni emerse nel diritto commerciale per cui non si avrebbe estinzione dell’impresa sino alla completa ed irreversibile disgregazione della struttura aziendale, sicuro indice dell’impossibilità di riprendere l’attività. Se però in ambito commerciale una simile considerazione appare logica alla luce del ruolo che l’elemento organizzativo-strutturale ricopre all’interno dell’impresa, più difficilmente si adatta ad un’imposta che mostra, già nelle norme, una sostanziale indifferenza nei confronti dell’organizzazione. Questo allontanamento dalle caratteristiche proprie del presupposto viene allora giustificato con la necessità di chiudere il ciclo fiscale 222 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale dell’impresa, assoggettando a tassazione beni che, nel corso dell’esercizio, hanno dato diritto alla detrazione dell’imposta di cui erano gravati. Questa soluzione è criticabile nella prospettiva che qui si è deciso di assumere, ma di per sé perfettamente coerente alla struttura tipicamente oggettiva della normativa italiana, più attenta a ragionare in termini di operazioni imponibili e di inerenza che di attività e soggettività passiva. Pur se coerente, essa non appare tuttavia sufficiente nemmeno nella propria prospettiva, perché, limitandosi alla valutazione di un solo profilo del presupposto impositivo, sembra non avere, a volte, elementi sufficienti a fornire una visione unitaria e costante. Per questo motivo trovano spazio nell’interpretazione tributaria le stesse differenze che si possono riscontrare nel diritto commerciale, in funzione della natura del soggetto imprenditore, così come si presentano altre diversità, tipicamente tributarie, in ragione delle cause che portano alla cessazione dell’impresa. Ciò in conseguenza del fatto che il solo dato oggettivo costituito dalla destinazione dei beni e dalla presenza di una struttura potenzialmente produttiva non è in grado di individuare il momento in cui viene meno il presupposto impositivo e, dunque, si verifica la cessazione dell’impresa. Se l’assenza di attività tipica viene considerata irrilevante e la sola presenza di beni integra l’esistenza dell’impresa (quindi l’imponibilità della loro cessione e la soggettività passiva dell’agente) vengono a mancare elementi che permettano di determinare il momento di cessazione, sia nei casi in cui la liquidazione manca sia in quelli in cui essa si chiude prima dell’integrale cessione di tutti i beni. Di fatto, non si riesce ad individuare un elemento che sia in grado di interrompere il collegamento tra i beni e la precedente attività, perché negando rilevanza al soggetto, alla sua volontà e alle formalità espressione di questa non resta che attendere la cessione integrale di tutto il patrimonio aziendale. 223 Capitolo II La presunta oggettività dell’Iva e dell’ordinamento tributario inteso in senso generale conduce, inoltre, ad alterare la prospettiva con cui questo collegamento viene considerato: infatti, pur riconoscendone la forte ed innegabile componente volontaristica –per cui non si può avere destinazione ad alcuna finalità in assenza di un soggetto che volontariamente la imprima- essa viene completamente disconosciuta nel momento in cui si tratti di valutarne la cessazione. Sembra, dunque, che si voglia affermare una sorta di oggettivazione e perpetuazione del vincolo impresso fintanto che esso non venga esplicitamente modificato, pur se, cessata l’attività in modo definitivo, è innegabile che l’elemento volontaristico necessario sia venuto meno o, in ogni caso, abbia radicalmente mutato la propria direzione. Così facendo, di fatto, si finisce per alterare, anche solo a livello potenziale, il sistema dell’imposta, incidendo sull’applicabilità delle disposizioni che prevedono l’imponibilità per autoconsumo nei casi di cessazione dell’impresa, senza raggiungere in nessun caso conclusioni né certe, in merito all’individuazione di questo momento, né unitarie, per le differenti ipotesi di conclusione dell’esperienza imprenditoriale. Ciò che appare più chiaramente, però, è che nel tentativo di individuare una ragione per l’imponibilità dell’attività liquidatoria, venga modificato e ricostruito in modo non corretto lo stesso presupposto impositivo. Già solo con riferimento all’ordinamento italiano nel suo complesso risulta, infatti, evidente come l’impresa richiamata dalle norme tributarie non possa ricondursi a semplice insieme di beni vincolati all’esercizio di un’attività. In essa sono ugualmente presenti l’elemento oggettivo, costituito dall’attività e dal suo esercizio, quanto un elemento soggettivo, costituito dall’agente, dalla sua volontà e dall’indirizzo che questi imprime all’attività stessa. La scelta di un approccio maggiormente oggettivo, che porta ad escludere effetti automatici sulla sola base della qualificazione soggettiva, non implica tuttavia la necessità di privare di ogni rilevanza il ruolo che l’agente/soggetto passivo ricopre all’interno della struttura dell’imposta. Ciò a maggior ragione laddove la sola 224 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale ragione oggettiva non consenta di individuare soluzioni soddisfacenti ed uniformi. Questa considerazione nasce dalle evidenti oscillazioni che, soprattutto la giurisprudenza, mostra nei diversi casi esaminati. Se infatti si confrontano le diverse ipotesi cui viene solitamente ricondotta la cessazione dell’impresa, è possibile notare come, nonostante l’applicazione tendenzialmente uniforme di un approccio oggettivo, non mancano ipotesi che se ne discostano, minando ancor più la certezza delle situazioni giuridiche o, quanto meno, la possibilità di fornire un’interpretazione non contraddittoria del fenomeno cessazione. Tutto ciò è assolutamente evidente se si osserva che: - nel caso di una liquidazione volontaria di un’impresa individuale viene ritenuto prevalente il criterio della destinazione dei beni dell’impresa, capace di giustificare la sopravvivenza anche dell’impresa non più in esercizio e formalmente cessata; - nel caso della liquidazione delle società, è diventata ora una scelta obbligata quella di considerare l’impresa cessata al più tardi al momento della cancellazione della società dal Registro delle imprese, viste le modifiche subite dalla disciplina civilistica che dispone l’estinzione del soggetto. Diverso continua, tuttavia, ad essere il caso delle società di persone per cui il Codice Civile nulla prevede esplicitamente, consentendo per tanto di continuare ad applicare in criterio affine a quello visto per le imprese individuali che fa coincidere cessazione e totale estinzione dei rapporti giuridici ad essa imputabili; - la prospettiva sembra mutare radicalmente quando si abbia a che fare con un’ipotesi di trasferimento dell’intera azienda, soprattutto quando questa sia l’unica posseduta dall’imprenditore individuale. In un caso simile, la giurisprudenza collega la cessazione dell’impresa alla perdita in capo al soggetto della qualifica di imprenditore causata dal trasferimento, anche solo temporaneo, dell’unica azienda, finendo per ignorare la possibilità che l’attività sia solo sospesa e 225 Capitolo II possa riprendere al termine del contratto o che venga continuata in altre forme. Qui, dunque, fondamentale diviene l’elemento soggettivo costituito dalla qualificazione o meno del soggetto come imprenditore. - ancora diversa appare invece la soluzione adottata in caso di fallimento, ipotesi in cui la giurisprudenza individua la cessazione dell’impresa in coincidenza della dichiarazione di fallimento, nonostante la stessa legge fallimentare parli di sospensione e preveda la possibilità di esercizio provvisorio deliberato in un momento successivo, nel corso della procedura. Indipendentemente dalle motivazioni che vengono portate a sostegno di questa tesi, appare evidente che in questo caso non viene prestata particolare attenzione né al profilo oggettivo (e quindi all’esercizio) né a quello oggettivo (qualificazione del soggetto) in favore del riferimento ad un elemento classificabile come formale, quale è la sentenza dichiarativa di fallimento. Tali oscillazioni sono diretta conseguenza dell’incertezza sulla qualificazione della fase liquidatoria e della sua imponibilità, che finisce per essere giustificata o sulla sola base dei beni che ne sono oggetto o sulla semplice constatazione che è il legislatore ad avere così disposto. Manca infatti un elemento che accomuni le attività liquidatorie, volontarie o concorsuali, indipendentemente dalle modalità con cui vengono condotte o dai soggetti interessati e consenta, dunque, di fornirne una visione unitaria, soprattutto nell’ottica di un collegamento con il presupposto dell’imposta. Si crede che questo elemento di sintesi debba essere riconosciuto nel ruolo stesso dell’attività economica, considerata in tutti i suoi elementi costitutivi, così come accade all’interno dell’ordinamento comunitario, in cui la nozione di attività economica, generale ed estesa in funzione della neutralità dell’imposta, ricopre il ruolo fondamentale di elemento attorno al quale tutta la disciplina viene costruita. Infatti, le due prospettive oggettiva e soggettiva, come si è affermato, vengono a coincidere quando venga valorizzato il profilo 226 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale costituito proprio dall’attività economica e dal suo esercizio, all’interno del quale è possibile conciliare la visione oggettivata dell’ordinamento tributario con la funzione della disciplina civilistica che è, tra le altre, quella di individuare il soggetto cui attribuire gli effetti legati all’attività d’impresa. In una prospettiva dinamica dell’impresa, vista come fattispecie appartenente alla categoria giuridica dell’attività, qualificata dall’economicità, dalla professionalità e dall’essere in qualche modo organizzata, appare più evidente la complessità del fenomeno –che non può ridursi né a solo soggetto né a soli atti, materiali o giuridici- e, soprattutto, lo stretto legame che vincola fra loro gli elementi che la costituiscono, rendendone necessaria una valutazione complessiva, che unisca esercizio e soggetto agente, volontà ed effettività, formalità e riscontri oggettivi, probabilmente bilanciandone la rilevanza a seconda della fase esaminata. Così, nella fase di pieno esercizio dell’impresa, sarà inevitabile attribuire una maggiore rilevanza alla componente oggettiva, concentrandosi sulla sua corrispondenza al principio di effettività e alle altre caratteristiche richieste dalla norme. Diversamente si dovrà, invece, ragionare quando sia evidente l’avvenuta cessazione dell’esercizio di fatto dell’attività tipica, ma sia tuttavia riconoscibile la permanenza di un’attività, pur se in parte diversa, ed il suo collegamento con l’impresa. In queste fasi, si ritiene diventi fondamentale la valutazione dell’elemento soggettivo, diventando lo stesso soggetto il più importante fattore in grado di causare l’interruzione del legame tra le operazioni della fase finale ed il precedente esercizio e determinare la cessazione definitiva dell’attività ai fini dell’imposta. La ricerca di un equilibrio fra queste componenti, insito nella stessa figura dell’attività intesa quale categoria giuridica, consente di raggiungere soluzioni più certe sotto il profilo dell’applicazione dell’imposta, ma che al contempo hanno il grande vantaggio di essere universalmente applicabili ad ogni ipotesi di cessazione, interessando gli stessi elementi costitutivi dell’attività economica la cui struttura, 227 Capitolo II indipendente dalle modalità con cui si estingue, resta sempre uguale a se stessa e, quindi, più facilmente qualificabile. Valorizzare il ruolo dell’attività significa pertanto porre nella giusta luce anche il profilo soggettivo di questa e con esso anche il valore degli adempimenti formali che le norme prevedono. Un simile percorso sembra già avviato nell’ambito del diritto commerciale dove il legislatore, seguendo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale, ha assegnato un ruolo di maggiore rilevanza a formalità quali la cancellazione dal Registro delle imprese, sancendo di fatto che esse assumano un valore probatorio presuntivo circa l’avvenuta cessazione dell’impresa, pur facendo al contempo salva la possibilità di dimostrare il contrario. Completamente opposto, si è visto, continua ad essere l’approccio del legislatore tributario che, pur sanzionando l’inadempimento degli obblighi formali imposti al soggetto passivo, quali la presentazione della dichiarazione di cessazione ai fini Iva, non riconosce ad essa alcun valore in modo esplicito, dando adito all’affermazione di quelle linee interpretative che, a fronte della presenza di elementi oggettivi, anche se solo costituiti dalla presenza di beni residui, la considerano di fatto come inesistente e in alcun modo significativa, escludendo quindi la possibilità di avere punti di riferimento certi nell’individuazione del momento di cessazione. Anche in questa prospettiva, nulla osta a che anche in ambito impositivo si proceda ad una valorizzazione in tal senso e del ruolo del soggetto passivo e del valore delle manifestazioni delle intenzioni di questo, ben rappresentate dagli adempimenti formali prescritti, elementi in grado di fornire indicazioni univoche e certe sulle vicende dell’impresa. Sulla base di queste osservazioni, si ritiene che, nonostante la costruzione letterale del DPR. 633/72, il quale apparentemente collega in via diretta solo attività ed operazioni, trascurando il legame con il soggetto passivo, dovrebbe trovare accoglimento un’interpretazione che muova verso una valutazione complessiva degli elementi che compongono il presupposto impositivo, da riconoscersi nell’esercizio 228 La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale dell’impresa quale forma di attività. Ciò significa, dunque, conciliare una prospettiva oggettiva e casistica con una soggettiva più attenta all’influenza della volontà del soggetto agente sull’esistenza dell’attività. In tal modo sarebbe pertanto possibile fornire una lettura della cessazione dell’impresa più coerente con il complesso della disciplina impositiva, attribuendo maggiore rilevanza anche all’ipotesi di imposizione per autoconsumo dovuto a cessazione dell’attività, espressamente disciplinato dal legislatore. Così, valutato il presupposto nel suo complesso e valorizzate le disposizioni della stessa disciplina impositiva, potrebbe costruirsi una visione unitaria della cessazione, come unitaria è nella prospettiva dell’imposta l’attività economica rilevante, capace di garantire una maggiore certezza dal punto di vista applicativo ed una maggiore aderenza alle indicazioni che, come si è visto, vengono dalla giurisprudenza comunitaria. 229 Capitolo III S ISTEMA COMUNITARIO DELL ’ IMPOSTA E REGIME NAZIONALE A CONFRONTO S OM M A RI O : 1-La compatibilità tra la disciplina comunitaria ed il regime nazionale 1.1-La centralità del vincolo di destinazione dei beni nell’individuazione del momento di cessazione dell’impresa in contrasto con l’irrilevanza dell’organizzazione. 1.2-La frammentazione della disciplina nazionale in contrasto con l’approccio unitario che emerge dalla giurisprudenza comunitaria: l’indifferenza della forma di cessazione.. 1.3- ..e della natura giuridica del soggetto passivo 1.4- La compatibilità delle interpretazioni nazionali nella prospettiva applicativa dell’imposta 2-I L R U O LO D E LL ’ AT T IV IT À E C ON O M IC A E D E LLA S U A C E SS A ZIO N E A CO N FR O N T O 1- L A COMPATIBILITÀ TRA LA DISCIPLINA COMUNITARIA ED IL REGIME NAZIONALE L’esame sinora condotto ha cercato di evidenziare i punti salienti emersi in dottrina e giurisprudenza, sia a livello nazionale che comunitario, circa la nozione di attività economica e, soprattutto, circa le caratteristiche ed il regime impositivo applicabile alla fase conclusiva di questa, nel tentativo di individuare criteri utili all’identificazione del momento di cessazione dell’esperienza imprenditoriale. Si rende ora necessario confrontare i risultati emersi al fine di verificare se vi sia una reale corrispondenza tra l’orientamento nazionale e quello desumibile dalle pronunce della Corte di Giustizia. In tal senso, due sono i profili che assumono una rilevanza centrale in questo confronto: da un lato, il rilievo che l’interpretazione nazionale, ispirata a criteri forse eccessivamente oggettivi, attribuisce al vincolo di destinazione dei beni all’impresa; dall’altro, la frammentarietà che si è visto caratterizzare la disciplina nazionale in relazione alle diverse forme di cessazione dell’impresa, con inevitabili conseguenze anche sul piano impositivo. Sulla base delle considerazioni che precedono e confrontando le Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto ragioni che nei due ordinamenti vengono individuate per giustificare l’imponibilità della fase liquidatoria dell’attività, sarà possibile valutare il diverso ruolo che sembra riconosciuto nei due ordinamenti alla stessa nozione di attività economica e alla sua cessazione. 1.1- La centralità del vincolo di destinazione dei beni nell’individuazione del momento di cessazione dell’impresa in contrasto con l’irrilevanza dell’organizzazione. Con riguardo al primo profilo sembrano emergere dal confronto tra le dottrine emerse a livello nazionale e l’elaborazione comunitaria alcune differenze che investono sia le caratteristiche del presupposto che, di conseguenza, l’individuazione del momento di cessazione. Da un lato, infatti, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, assumendo quale principio cardine l’oggettività che sarebbe insita nell’ordinamento tributario ed in particolare nell’individuazione del presupposto dell’Iva, delineano una nozione di impresa che finisce per coincidere sostanzialmente con l’insieme dei beni ad essa destinati. Si mette in risalto, quindi, il vincolo di destinazione dei beni all’impresa che diventerebbe elemento da solo in grado di integrare il presupposto impositivo e di mantenerlo in vita anche laddove gli ulteriori elementi che dovrebbero costituirlo vengano meno. Si finisce in questo modo per assegnare una rilevanza centrale all’elemento costituito dall’azienda, intesa quale struttura attraverso cui l’attività viene svolta e, in forza dell’autonomia e della pretesa autosufficienza che tale complesso di beni è in grado di assumere una volta organizzato, vengono svalutati altri profili che caratterizzano l’impresa quale esercizio di un’attività economica, primo fra tutti quello soggettivo. Una simile ricostruzione non sembra trovare piena corrispondenza a livello comunitario. Nonostante la dimensione prettamente oggettiva che il legislatore europeo accoglie nel delineare la disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, in virtù dell’utilizzazione di nozioni più vicine al mondo 231 Capitolo III economico che alla dimensione strettamente giuridica del fenomeno imprenditoriale e professionale, la giurisprudenza della Corte ha dimostrato di accogliere una nozione più complessa di attività rilevante sottolineando come, in realtà nessuno degli elementi che compongono la fattispecie possa essere sottovalutato nell’applicazione dell’imposta. Una prima considerazione coinvolge le stesse indicazioni normative ed il ruolo che esse assegnano ai beni dell’impresa confluiti nell’azienda. Come risulta anche dalle norme italiane che hanno dato attuazione alle direttive in materia di Iva, ciò che rileva per l’integrazione dei presupposti oggettivo e soggettivo non è la possibilità di individuare una struttura dedicata all’esercizio dell’impresa, ma il fatto che tale esercizio sia concretamente esistente e si manifesti nel compimento di operazioni imponibili ai fini dell’imposta. In questo senso, la diversa prospettiva con cui si valuta la destinazione dei beni all’esercizio dell’attività economica si riflette anche sulla differente considerazione del rapporto di inerenza, che assume un diverso rilievo in ambito comunitario e nazionale 274 . Sembra, infatti, che, mentre l’elaborazione comunitaria ricerca ed attribuisce valore al nesso esistente tra le operazioni che costituiscono l’attività –nesso in base al quale si garantisce la possibilità di effettuare la detrazione dell’imposta versata nelle operazioni a monteattribuendo funzione meramente indicativa al rapporto di inerenza che riguarda più limitatamente i beni oggetto di tali operazioni, l’orientamento emerso a livello nazionale si fermi alla valutazione di questo secondo profilo, assegnandogli un ruolo preminente rispetto ad una prospettiva più ampia che guardi alle operazioni in quanto tali, con inevitabili riflessi non tanto sull’individuazione dell’attività rilevante sotto il suo profilo statico, quanto in relazione al suo profilo dinamico. Questo non significa che in ambito comunitario si sottovaluti il 274 Per un ampia analisi che pone in evidenza la diversità delle prospettive adottate in relazione all’esercizio della detrazione si veda G IO R G I , Detrazione e soggettività passiva cit., 269 ss. 232 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto profilo del collegamento fra i beni e l’attività economica, sembra però diverso il contesto in cui ad esso si attribuisce rilevanza. Il rapporto e l’utilizzazione del bene nell’esercizio dell’attività economica e, quindi, il collegamento con le operazioni imponibili trova la sua principale funzione nell’attribuzione del diritto alla detrazione, o meglio nel determinarne le modalità, non nell’individuazione dell’attività nel suo complesso e, di conseguenza, della soggettività passiva che, nella struttura europea dell’imposta, si pongono come premessa rispetto alla valutazione di operazioni e beni 2 7 5 . Questa differenza di prospettiva ha inevitabilmente influssi anche sulla determinazione del momento conclusivo della vita dell’impresa e sulla disciplina ad esso applicabile. Essa si manifesta già dall’approccio con cui viene affrontato il tema della riconducibilità della liquidazione nell’alveo dell’attività economica rilevante. Se nella prospettiva comunitaria la principale preoccupazione è quella di garantire al soggetto passivo il diritto alla detrazione, anche in assenza di un esercizio effettivo, ricorrendo dunque alla verifica del nesso con la precedente attività, nell’ambito della dottrina nazionale la prospettiva si sposta sulla ricerca del motivo che giustifichi l’imponibilità delle operazioni di liquidazione una volta che l’esercizio dell’attività propriamente intesa sia cessato. Nel primo caso, è la necessità di rispettare il principio di neutralità che giustifica il parziale allontanamento dalle caratteristiche proprie dell’attività, prima fra tutti l’effettività del suo esercizio, in favore di un diverso bilanciamento fra le differenti componenti del presupposto; a livello nazionale questa attenuazione viene motivata, invece, sulla sola considerazione che l’esistenza dell’attività deve ritenersi comunque garantita dalla presenza di beni ad essa destinati, al fine di 275 Inoltre, che si tratti di valutare la natura dell’attività o la spettanza della detrazione, non si deve dimenticare come la stessa giurisprudenza comunitaria ritenga la natura dei beni solo uno dei possibili criteri utilizzabili e non sempre decisivo. 233 Capitolo III assicurare la corretta chiusura del ciclo fiscale dei beni dell’impresa. Tuttavia, anche prendendo in considerazione lo stesso profilo, ossia quello dell’imponibilità delle operazioni attive svolte in fase di liquidazione, sembra potersi sostenere che le ragioni individuabili a livello comunitario siano comunque differenti. Secondo i principi che sono emersi nell’ambito della giurisprudenza sugli atti preparatori, le norme europee non distinguono, infatti, tra operazioni tipiche dell’attività ed operazioni estranee, in favore di un’interpretazione letterale del dettato normativo che attribuisce rilevanza a quelle compiute dal soggetto passivo in quanto tale, assegnando un ruolo residuale alla natura e alla funzione di beni che possono esserne oggetto, considerato semplicemente come uno dei possibili criteri utilizzabili. Trattandosi, nel caso della liquidazione, di operazioni che per le proprie caratteristiche non differiscono da quelle espressione dell’esercizio dell’attività vera e propria, secondo l’impostazione comunitaria non è necessario ricercare un ulteriore collegamento che non sia quello rappresentato, di fatto, dalla considerazione che esse sono imputabili al soggetto passivo riconosciuto come tale, elemento che evidentemente viene ritenuto di per sé sufficiente a mantenere in essere il legame con l’attività economica produttiva ormai abbandonata. Sono evidenti, dunque, la diversità di prospettive e la diversità delle conclusioni cui esse conducono, ragionandosi in un ordinamento in termini di operazioni imponibili e nell’altro in relazione alla natura dei beni. I riflessi della differente impostazione sono particolarmente evidenti nell’applicazione dell’imposta per autoconsumo. Il legislatore italiano, come si è visto, ha esercitato la facoltà concessa dalla Direttiva, assimilando alle cessioni imponibili anche i casi di autoconsumo dovuti a cessazione dell’attività economica. Il testo delle norme è, però, apparentemente diverso e dà adito ad interpretazioni in parte discordanti. Infatti, laddove la norma comunitaria parla di assimilazione del semplice possesso di beni dell’impresa, la norma italiana mantiene la 234 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto formula della destinazione ad uso personale, senza far riferimento al caso della semplice disponibilità dei beni in capo all’imprenditore cessato. La sostanza delle norme non è differente, potendo condurre sul piano interpretativo ai medesimi risultati. Tuttavia, nell’ambito dell’orientamento che si è ricordato, che attribuisce un ruolo essenziale al vincolo di destinazione di beni, la diversa formulazione della norma conduce ad una notevole riduzione del suo ambito di applicazione. Il parlare di destinazione ad uso personale, come si è già ricordato, porta infatti a ritenere che il passaggio in autoconsumo si verifichi solo nei casi di destinazione espressa e non nelle ipotesi di mera inutilizzazione, con la conseguenza che la vita dell’impresa viene prolungata sino alla completa estromissione di questi beni. Se confrontato con il dettato della norma comunitaria questa interpretazione sembra del tutto infondata e con essa incompatibile. Il legislatore comunitario parla di destinazione ad uso privato solo nel caso di autoconsumo che si verifichi nel corso dell’esercizio, mentre sembra prevedere un meccanismo automatico in tutte le ipotesi in cui, a seguito della cessazione dell’attività, rimangano nella disponibilità dell’imprenditore beni non liquidati. Da ciò appare ancora più evidente come il legislatore comunitario distingua nettamente cessazione dell’attività e liquidazione della stessa, non ritenendo evidentemente necessario che ai fini dell’imposta per verificarsi la prima debba esaurirsi la seconda. Posta l’imponibilità della fase liquidatoria cui, sia sotto il profilo attivo che sotto quello passivo, resta applicabile integralmente il regime impositivo ordinario per le ragioni prima esposte, le disposizioni comunitarie, distinguendo le due ipotesi, sembrano pacificamente ammettere che la cessazione si verifichi in qualsiasi momento, indipendentemente dalla fine o, addirittura dalla presenza, di una fase liquidatoria. Del resto, a fronte della previsione di un’applicazione automatica dell’imposta sulla base del semplice possesso dei beni residui, nell’ottica comunitaria non esiste alcuna esigenza di prolungare 235 Capitolo III l’esistenza dell’attività economica ed è per questo possibile valorizzare maggiormente il ruolo del soggetto passivo. Pertanto, se è il soggetto passivo che agisce in quanto tale a garantire la possibilità di applicare l’imposta anche in assenza di un esercizio effettivo -creando un vincolo in prospettiva se si tratta di atti preparatori o retrospettivo in fase di liquidazione- inevitabilmente un suo comportamento in senso opposto, ossia il cessare di agire come tale, avrà la capacità di interrompere quel legame, provocando contemporaneamente l’applicazione dell’imposta in autoconsumo, la cessazione dell’attività e, conseguentemente, l’estinzione stessa del soggetto passivo ai fini dell’imposta. Se questo ragionamento è corretto, emerge con ancora più evidenza la differenza tra l’impostazione della disciplina europea e l’interpretazione che ha preso piede a livello nazionale. Tale differenza si accresce ulteriormente se, come si è suggerito, si estende alla cessazione l’interpretazione che la Corte di Giustizia ha applicato al caso degli atti preparatori, unendo l’oggettività del principio di inerenza al profilo soggettivo costituito dalle intenzioni del soggetto passivo. In questa prospettiva, dovendo individuare il momento di cessazione, cui si collega l’interruzione del nesso dei beni all’attività, sembra più utile accogliere la valutazione dell’elemento soggettivo che viene fatta in sede di determinazione dell’inizio dell’attività rilevante, recependo anche le valutazioni relative al valore degli adempimenti formali. Anche in questo caso, dunque, escluso qualsiasi valore costitutivo della dichiarazione di cessazione presentata dal contribuente, dovrebbe comunque ritenersi valido il principio per cui essa, in quanto espressione delle intenzioni del soggetto, dovrebbe mantenere la propria validità fintanto che non si dimostri priva di elementi concreti a proprio sostegno o contrarie alle reali intenzioni del soggetto che si manifestano in comportamenti abusivi. Se queste sono le considerazioni che possono desumersi dalla giurisprudenza comunitaria, appare evidente la distanza con le 236 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto posizioni che, a livello nazionale, giungono a riconoscere la permanenza dell’impresa anche successivamente alla sua cessazione formale, ritenendo che essa non sia di per sé in grado di interrompere il legame tra beni e attività e fra questa e le operazioni successivamente svolte. Secondo questa interpretazione, pertanto, la dichiarazione di cessazione avrebbe di fatto la mera funzione di una comunicazione priva di effetti non solo, come giusto, quando sia contraddetta da una continuazione dell’attività, ma anche dalla permanenza di beni non ceduti e non espressamente destinati all’uso personale, con la conseguenza di richiedere al soggetto che abbia cessato l’attività un comportamento attivo (la destinazione all’uso personale) assente dalla disciplina comunitaria e non particolarmente utile nemmeno nella prospettiva nazionale. In conclusione, quindi, si ritiene corretto sostenere che la linea di oggettività estrema assunta da una certa dottrina nazionale nell’interpretazione del presupposto Iva e, soprattutto, nella individuazione del momento di cessazione dell’attività economica, attribuendo un ruolo decisivo al vincolo di destinazione dei beni e alla sua permanenza, oltre ad esporsi alle critiche già avanzate sotto il profilo dell’ordinamento nazionale, si manifesti eccessivamente distante anche rispetto alle indicazioni ricavabili dall’ordinamento comunitario, giungendo a conclusioni da esse difformi, soprattutto in tema di autoconsumo, che ne impongono il rigetto in favore di un’interpretazione maggiormente aderente all’orientamento europeo. 1.2- La frammentazione della disciplina nazionale in contrasto con l’approccio unitario che emerge dalla giurisprudenza comunitaria: l’irrilevanza della forma di cessazione.. Un ulteriore elemento di differenziazione che emerge dal confronto tra la normativa e la giurisprudenza comunitaria e l’orientamento nazionale può essere ravvisabile nella frammentarietà che questo dimostra a fronte di una sostanziale uniformità dell’approccio 237 Capitolo III comunitario. Delineando il contenuto della nozione di attività economica definita a livello europeo, accanto al suo carattere più marcatamente oggettivo rispetto a quello rinvenibile a prima vista nel diritto commerciale nazionale, se ne sono sottolineate l’ampiezza e l’uniformità. Come posto in evidenza dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia la nozione di attività economica, quale presupposto per la soggettività passiva all’imposta, deve essere interpretata nel modo più esteso possibile, così da comprendere tutte le possibili forme di attività economiche che siano potenzialmente in grado di influire sul mercato. Tale impostazione è diretta conseguenza della ratio dell’imposta che mira a garantire la neutralità fiscale per i soggetti coinvolti nei processi produttivi e la parità di trattamento fra gli stessi; in questa prospettiva, pertanto, quanto più varia è la tipologia dei soggetti passivi e quante più sono le attività economiche soggette al regime uniforme, tanto più si potranno favorire la neutralità fiscale e l’equo funzionamento del mercato, coinvolgendo tutti gli operatori e tutte le fasi della produzione antecedenti all’immissione al consumo dei beni e dei servizi. Come si è visto, tale impostazione comporta l’assoluta irrilevanza ai fini dell’imposta delle forme giuridiche con cui queste attività si manifestano, indifferenza che interessa tanto il piano dei soggetti quanto quello delle operazioni imponibili, sia attive che passive, che in linea generale la stessa Direttiva individua sotto il profilo degli effetti sostanziali, più che della forma negoziale. Queste considerazioni investono il sistema dell’imposta in ogni suo aspetto ed interessano tanto il processo di determinazione delle attività rilevanti, quanto quello della fase dinamica dell’impresa, come chiarito dalla giurisprudenza in tema di atti preparatori che ha dichiarato la sostanziale irrilevanza della forma giuridica che essi assumono rispetto al profilo sostanziale, consistente nel fatto di rappresentare un costo dalla cui incidenza il soggetto passivo deve essere liberato, perché sia rispettato il principio di neutralità. 238 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto Affermata l’omogeneità delle pronunce rese dalla Corte con riguardo alle diverse fasi dell’attività economica rilevante, ritenute nella sostanza tutte espressioni del principio di neutralità, si è conseguentemente sostenuta la possibilità, o meglio l’opportunità, di applicare le considerazioni emerse con riguardo ad un particolare momento anche alle altre fasi dell’attività. Pertanto, se questa è l’impostazione che la Corte assume nei confronti della fase iniziale dell’attività economica, ne discende che il medesimo ragionamento debba essere applicato anche alla sua fase conclusiva, adottando un’interpretazione che, indipendentemente dalle forme giuridiche con cui essa viene raggiunta, consideri in maniera uniforme il suo profilo sostanziale che, di fatto, consiste nella perdita della soggettività passiva e nel contestuale verificarsi dell’ultima ipotesi di imponibilità, costituita dalla tassazione in autoconsumo dei beni eventualmente residui. A confronto con tale orientamento, dunque, la frammentarietà che caratterizza l’ordinamento nazionale appare ingiustificata e comporta la necessità che, anche in via interpretativa, si ricerchi una maggiore uniformità. Come emerge dall’analisi condotta, le considerazioni che a livello nazionale vengono svolte sul tema della cessazione dell’impresa giungono a conclusioni differenti, soprattutto sotto il profilo applicativo, in considerazione principalmente di due fattori: la forma con cui la cessazione si manifesta e la tipologia del soggetto che esercita l’attività economica. Un primo tipo di suddivisioni sulla base di elementi giuridici che non trova riscontro sul piano comunitario è, infatti, quello che si fonda sui diversi processi che conducono alla cessazione dell’attività. Come si è illustrato, infatti, se nel caso della liquidazione o della cessazione volontaria si attribuisce rilievo alla permanenza di beni dell’impresa, ritenendo necessario che per aversi cessazione dell’attività debba essere esaurita la dismissione di questi, completamente diverse sono le conclusioni raggiunte soprattutto dalla giurisprudenza nel caso in cui l’impresa vada soggetta a fallimento. 239 Capitolo III In questo caso, indipendentemente dal fatto che le operazioni della procedura siano espressamente dichiarate imponibili e che, anche nella sostanza, esse coincidano con le attività liquidatorie generalmente intese, si ritiene che la cessazione dell’attività intervenga automaticamente al momento della dichiarazione di fallimento, rendendo di fatto ingiustificabile sotto un profilo sistematico l’applicabilità del regime impositivo ordinario nel corso della procedura ed il mantenimento della soggettività passiva in capo al fallito, che dovrebbe decadere al momento della cessazione. Già solo sulla base di questi esempi appare evidente la scarsa coerenza insita nelle diverse interpretazioni; l’una oggettiva sino all’eccesso, rende ininfluente l’elemento soggettivo, ritenendo la dichiarata intenzione di cessare l’attività priva di conseguenze sul piano impositivo, perché incapace di alterare il vincolo di destinazione dei beni che costituirebbe la sostanza stessa dell’impresa; l’altra, invece, diametralmente opposta, rende ininfluente quel vincolo dal momento in cui interviene un dichiarazione di fallimento, che, in realtà, interessa la sfera giuridica del soggetto più che la funzione dei beni in esso coinvolti. A ciò si aggiunga l’ulteriore variazione che si avverte quando si affrontino le cosiddette forme di cessazione senza liquidazione, a seguito di un trasferimento, anche solo temporaneo, dell’azienda. In questi casi, sia che si tratti di cessione sia che si verifichi un semplice affitto dell’azienda, si è visto che la giurisprudenza sancisce la cessazione dell’impresa individuale esercitata attraverso quell’unica azienda, a causa della perdita della qualifica di imprenditore in capo al soggetto passivo. Oltre alle critiche nel merito che già si sono esposte a proposito di questa interpretazione, si aggiunge la considerazione circa la diversità del criterio qui utilizzato per determinare la cessazione dell’impresa, non più rigidamente oggettivo, né legato ad elementi formali, ma, al contrario unicamente legato alla figura del soggetto e alle sue possibili qualificazioni. Nulla di tutto ciò è rinvenibile nel contesto europeo. 240 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto Sia che si tratti di liquidazione dei singoli beni, sia che si abbia a che fare con il trasferimento dell’intero complesso aziendale, sia che si parli di esercizio dell’attività o di atti preparatori, la prospettiva della giurisprudenza comunitaria non cambia, ma, come si è visto, al massimo modula gli elementi cui fare riferimento per la tutela del principio di neutralità. La caratteristica dell’Iva è quella di essere un’imposta sostanzialmente oggettiva che si applica ad un determinato tipo di operazioni espressamente individuato. Di conseguenza, una volta stabilita l’imponibilità di queste, o la rilevanza delle corrispondenti operazioni passive nell’attribuzione del diritto alla detrazione, a nulla rileva come o perché esse vengano svolte, purchè esse manifestino un nesso fra di loro e con l’attività nel senso individuato dalle norme. Posta quindi l’applicabilità del regime ordinario alla liquidazione volontaria -considerata parte dell’attività rilevante in virtù di un collegamento di natura sia oggettiva che soggettiva, a fronte dell’indifferenza nei confronti della cessazione dell’attività tipica precedentemente svolta- non avrebbe senso applicare una diversa interpretazione ad operazioni nella sostanza identiche, ma forse differenti solo nello scopo o nella forma giuridica. Questo perché, se l’estensione della nozione di attività economica si giustifica con la necessità di garantire la neutralità del sistema dell’imposta, situazioni nella sostanza omogenee richiedono in quella prospettiva la medesima soluzione, una soluzione che in primo luogo si mostri coerente con i principi che caratterizzano il sistema dell’imposta e non crei difformità laddove non è lo stesso legislatore ad individuarle. L’insegnamento che ci viene dalla giurisprudenza comunitaria è appunto questo, la necessità di fornire un’interpretazione omogenea ed oggettivamente unitaria, perché laddove le forme giuridiche non influiscono sulla nascita o sull’esistenza dell’attività economica, non appare giustificato che esse possano incidere sulla determinazione della sua estinzione, anticipandola o posticipandola a seconda del criterio utilizzato per la sua individuazione. 241 Capitolo III 1.3 ..e della natura giuridica del soggetto passivo Accanto alle differenze che sul piano nazionale si riscontrano in funzione del processo che conduce alla cessazione dell’attività economica si collocano le differenze generate dal fatto che l’impresa sia imputabile ad un imprenditore individuale o collettivo. Sulla scorta delle differenze che fra le due ipotesi vengono individuate già a livello di disciplina sostanziale dell’impresa, l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza nazionali si è concentrata in particolar modo sulla disciplina della cessazione dell’impresa individuale, finendo per applicare la tesi già contestata circa la centralità del vincolo di destinazione dei beni che, ipotizzando la sopravvivenza dell’impresa anche alla sua cessazione formale, soprattutto nei casi in cui non si proceda alla liquidazione, prolunga la soggettività passiva all’unico scopo di applicare l’imposta ai beni residui solo nel momento di effettiva cessione, escludendo l’ipotesi del passaggio in autoconsumo. Oltre ai motivi già esposti, questa tesi appare criticabile anche per il fatto che essa risulta applicabile solo al caso dell’imprenditore individuale, non prendendo sostanzialmente in considerazione quello collettivo che, in quanto destinatario di norme che ne disciplinano espressamente il procedimento di liquidazione, verrà considerato cessato, salvi i casi manifestamente fraudolenti, nel momento in cui la fase liquidatoria concluda il proprio iter determinato. Le diversità circa la considerazione della natura del soggetto passivo emerge, sul piano nazionale, anche per motivi legati alla stessa formulazione del Dpr. 633/72 che, come visto, prevede all’interno dell’art. 4 una presunzione di commercialità delle attività svolte da società ed enti commerciali, presunzione che di conseguenza investe la stessa soggettività passiva. Di conseguenza, mentre nel caso dell’imprenditore individuale la norma nazionale prevede un meccanismo di attribuzione della soggettività passiva omogeneo a quello comunitario, per cui si pone la 242 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto necessità della verifica dello svolgimento di un’attività economica, nel caso degli enti collettivi la soggettività all’imposta appare strettamente vincolata all’esistenza del soggetto giuridico, indipendentemente dall’esercizio di un’attività economica. Inevitabilmente, questo meccanismo automatico di attribuzione della soggettività influisce anche nella prospettiva della cessazione dell’attività e della conseguente perdita della soggettività stessa, che sarà in queste ipotesi legata all’estinzione dell’ente collettivo, trascurando anche in questo caso la permanenza di un’attività economica o di un collegamento tra operazioni attive e passive compiute pur in assenza di esercizio tipico. Come si è visto, questa differenza in ambito impositivo in funzione della natura giuridica del soggetto discende dall’accoglimento tacito nell’ambito dell’imposta dell’equivalenza sancita, a livello interpretativo, nel diritto sostanziale tra impresa e società, per cui le sorti dell’una sono inscindibili dalle vicende dell’altra. Esaminando l’ordinamento comunitario nella medesima prospettiva si è, al contrario sottolineato, come nulla di simile sia lì rinvenibile, dovendosi affermare la sostanziale irrilevanza delle diverse forme giuridiche ai fini dell’imposta. Differenze che potranno interessare al massimo il profilo materiale, nell’individuazione concreta degli atti che, distinti a seconda del soggetto, siano in grado di integrare il presupposto. Ciò che caratterizza l’ordinamento comunitario, come si è detto, è l’assenza di qualsiasi automatismo nell’attribuzione della soggettività passiva, riconoscimento che passa sempre e comunque attraverso il vaglio dell’esistenza di un’attività, anche in forma potenziale, e della sua qualificabilità come economica ai fini dell’imposta. Questo implica che, a livello europeo, vengano individuate categorie generali e generiche sia per quanto riguarda l’attività che per quanto riguarda il soggetto, inteso non quale persona fisica o ente, ma semplicemente come centro di imputazione dell’attività e quindi dell’imposta, indipendentemente dalle proprie caratteristiche. Tali considerazioni sono emerse in particolare dalla constatazione 243 Capitolo III che la giurisprudenza sostiene i medesimi principi in relazione ad ogni tipologia di soggetto. A ciò si aggiunge l’espressa negazione di qualunque meccanismo presuntivo nel caso delle società pur in mancanza di un’attività economica, chiaramente dimostrato dalla negazione della soggettività alle holding che non esercitino alcuna influenza sull’attività delle società partecipate. La constatazione di queste differenze ha già portato ad una modifica della normativa italiana che, come si è visto, ha limitato l’applicabilità della presunzione escludendola nei casi di attività di mero godimento da parte delle stesse società 2 7 6 . Tuttavia il differente approccio è ben visibile a livello interpretativo anche nella fase conclusiva dell’attività, laddove in ambito nazionale risulta evidente la difficoltà a ragionare in base a categorie omogenee che prescindano da considerazioni di natura strettamente giuridica che coinvolgono il soggetto e, anche laddove si assiste al tentativo di dare una visione unitaria, si finisce con l’attribuire valore ad elementi quali la destinazione dei beni all’impresa che, come si è sostenuto, appaiono altrettanto distanti dall’impostazione europea. La difficoltà ad intendere il soggetto genericamente ed in quanto tale porta inoltre a svalutarne l’influenza nell’ambito della realizzazione del presupposto, attribuendo uno scarsissimo rilievo alla sua volontà e alle manifestazioni formali di questa, pur se imposte dalle stesse norme. Questi fattori comportano, dunque, sul piano interpretativo nazionale una distanza non giustificabile dalle indicazioni provenienti dall’ordinamento comunitario, influendo sulla stessa ricostruzione del presupposto attività che, da un lato, viene collocato su un piano di 276 Pur se a livello interpretativo si sostiene che tali disposizioni costituiscano una limitazione al diritto alla detrazione e non un’esclusione della soggettività passiva. Per una ricostruzione della disciplina nazionale a confronto con la giurisprudenza comunitaria si veda ad esempio, G IO R G I , L’effettuazione di operazioni nel campo di applicazione dell’IVA nell’attribuzione della soggettività passiva e del diritto alla detrazione d’imposta: profili comunitari e interni, in Rass. Trib., 1999, 1 244 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto secondaria importanza a fronte della struttura giuridica del soggetto e, dall’altro, muta le proprie caratteristiche, allontanandosi da quel modello unitario ed omogeneo che le norme e la giurisprudenza comunitarie costruiscono. 1.4- La compatibilità delle interpretazioni prospettiva applicativa dell’imposta nazionali nella Un ulteriore profilo che merita di essere verificato sotto il profilo dell’aderenza all’ordinamento comunitario è quello degli effetti che l’interpretazione accolta sul piano nazionale ha a livello di applicazione dell’imposta. In proposito si sono già sottolineate perplessità circa i rischi che un prolungamento forzato della vita dell’attività economica potrebbe avere in particolare sull’esercizio del diritto al rimborso dell’eccedenza versata. Come si è evidenziato, diritto al rimborso e detrazione, pur ponendosi all’interno dell’imposta su due piani differenti, sono ugualmente importanti per il corretto funzionamento della struttura dell’Iva e del meccanismo su cui essa si fonda. Questo perché, una volta determinato l’ammontare dovuto attraverso la detrazione dell’imposta versata a monte da quella a valle, il recupero dell’eventuale eccedenza risultante a favore del contribuente si pone come strumento ulteriore per garantire, attraverso la riscossione di un credito, la neutralità del sistema. Da questa considerazione discende che anche sul piano interpretativo, dovrebbero evitarsi quelle posizioni che rischiano di alterare il meccanismo di detrazioni e rimborsi, anche solo rendendone più gravoso l’esercizio. Questo è quello che si verifica con l’accoglimento di quelle tesi che prolungano sine die la vita dell’impresa in funzione della sola permanenza di beni potenzialmente produttivi nella disponibilità dell’imprenditore formalmente cessato. In base ad esse, infatti, non riconoscendosi la cessazione dell’impresa, dovrebbe disconoscersi il 245 Capitolo III diritto al rimborso da questa generato, i cui presupposti non potrebbero verificarsi sino alla completa alienazione di tutti i beni, con il rischio che il credito non riesca ad essere recuperato. Una simile eventualità è sicuramente censurabile in un’ottica comunitaria. Tale constatazione appare ancora più evidente nel momento in cui si è identificato nel principio di neutralità l’elemento cardine della giurisprudenza comunitaria e nella detrazione lo strumento con cui esso viene attuato. In tale prospettiva si colloca il rapporto tra detrazione e rimborso dell’eccedenza, che figura come strumento alternativo alla realizzazione del medesimo principio. Questo collegamento appare chiaramente delineato nelle conclusioni dell’avvocato generale Jacobs, presentate nel caso Fini H, laddove egli afferma che l’IVA è definita come un’imposta generale sul consumo (finale, privato) e non come un carico gravante su imprese che operano nelle fasi che portano a tali consumi. La Corte ha costantemente evidenziato che il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Le situazioni in cui un soggetto passivo può recuperare l’IVA pagata a monte senza effettuare operazioni tassabili a valle comportano semplicemente la restituzione di somme precedentemente anticipate alle autorità fiscali sul presupposto che le operazioni che le avevano giustificate portassero ad un’ultima operazione tassabile per il consumo finale. Se tale presupposto non è soddisfatto e tale consumo finale non si verifica, manca il fondamento per la riscossione dell’imposta in stadi precedenti. Di conseguenza, gli importi anticipati devono essere restituiti al soggetto passivo su cui grava attualmente il carico fiscale. 2 7 7 Essendo questa la funzione del rimborso dell’eccedenza versata, soprattutto quando questo sorga in seguito alla cessazione dell’attività e sia, di conseguenza, una scelta obbligata, si può ritenere che 277 Cfr. Conclusioni presentate il 28 ottobre 2004, causa C-32/03, Fini H 246 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto qualsiasi limitazione all’esercizio di questo diritto sia da considerarsi illegittima al pari delle limitazioni all’esercizio della detrazione che, per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, possono essere ammesse solo laddove previste dal legislatore comunitario o nei casi in cui sia necessario contrastare comportamenti abusivi tenuti dal soggetto passivo. In sintesi, se tali limitazioni sono censurabili quando provengano direttamente dal legislatore, esse a maggior ragione lo saranno quando sia l’interpretazione delle norme, di per sé assolutamente in linea con il dettato comunitario, a creare delle difficoltà nell’esercizio di diritti che, come si è visto, costituiscono la struttura fondante il sistema dell’imposta, garantendone completezza, coerenza e ratio. 2- I L RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA E DELLA SUA CESSAZIONE Unendo le osservazioni sin qui svolte diviene forse possibile confrontare quale sia concretamente il ruolo che i due ordinamenti, comunitario e nazionale, assegnano all’interno dell’imposta all’attività economica e, conseguentemente, alla sua cessazione. Punto di partenza di questo confronto è la differenza, sul piano formale e di formulazione letterale delle norme, che si avverte osservando la Direttiva Iva e il DPR. 633/72. Come si è detto, la prima, nonostante la riconosciuta ed intrinseca oggettività dell’imposta, assegna all’attività economica la principale funzione di individuare il soggetto passivo, identificato con colui al quale l’attività sia imputabile. Definito in tal modo il presupposto soggettivo dell’imposta, esso diventa l’elemento fondamentale per la qualificazione delle operazioni imponibili, definite come tali quando siano riconducibili al soggetto passivo. Unendo i due presupposti si giunge poi alla determinazione della disciplina applicabile alla detrazione, meccanismo cardine dell’imposta. Il diritto alla detrazione viene dunque riconosciuto nel 247 Capitolo III momento in cui questi elementi coincidano, ossia si sia in presenza di un soggetto passivo che agisca in quanto tale e le spese sostenute siano ricollegabili alle operazioni imponibili nell’ambito dell’attività economica rilevante. La normativa nazionale sembra invece adottare una prospettiva differente. Principale funzione dell’attività economica rilevante è quella di determinare l’imponibilità delle operazioni, distinguendo dunque fra quelle potenzialmente tali, perché rientranti nella categoria delle cessioni o delle prestazioni di servizio, e quelle realmente tali perché riconducibili all’attività. Identificato il presupposto oggettivo è questo che consente l’individuazione del soggetto passivo, definito come colui che compie operazioni imponibili. Ne deriva che il rapporto tra attività e soggetto passivo è mediato dalla preventiva qualificazione delle operazioni, a differenza di quanto avviene nell’ordinamento comunitario in cui il procedimento è l’opposto. Sotto il profilo sostanziale, queste differenza non hanno alcun effetto, come appare ben dimostrato dalla disciplina nazionale della detrazione che, al pari di quella europea, discende dalla contemporanea presenza di entrambi i presupposti. Nella sostanza della disciplina, dunque, tanto nell’ordinamento comunitario quanto in quello nazionale, l’attività economica riveste il ruolo centrale nell’identificazione del presupposto impositivo, sia oggettivo sia soggettivo, ed è altresì determinante nella prospettiva applicativa dell’imposta, essendo indispensabile per la corretta attribuzione e determinazione del diritto alla detrazione e, di conseguenza, per la piena realizzazione della neutralità cui l’imposta è votata. Sotto il profilo sostanziale nemmeno il contenuto e le caratteristiche della nozione attività economica appaiono differenti, ad esclusione degli elementi che già si sono rilevati, fra cui la bipartizione in impresa e professione caratteristica dell’ordinamento nazionale. 248 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto Da quanto emerso nelle pagine precedenti, sembra tuttavia che questo diverso approccio abbia effetti sul piano interpretativo, sia con riguardo all’individuazione degli elementi necessari perché vi sia un’attività economica rilevante sia relativamente alla disciplina della sua fase conclusiva. Si è detto che dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, oltre ad emergere una nozione ampia di attività economica svincolata dalle forme giuridiche e dagli scopi che si prefigge, ne sorge anche una visione attenta a tutti i suoi elementi costitutivi, esercizio, soggetto, beni interessati e collegamento tra gli atti che la compongono, diversamente modulati a seconda della fase esaminata e delle esigenza di neutralità dell’imposta. L’ordinamento italiano, al contrario, pur rispettandone le caratteristiche fondamentali, come si è visto, attribuisce a volte valore ad elementi dalla prima trascurati quale la forma giuridica e, come orientamento generale, predilige un approccio maggiormente, o meglio quasi esclusivamente, oggettivo che inevitabilmente porta a ridurre il numero dei fattori considerati realmente rilevanti. Così, giurisprudenza e dottrina nazionali sono portate a trascurare il profilo soggettivo dell’attività, limitando la propria indagine ad elementi quali l’esercizio, i beni e la struttura. Questo diverso atteggiamento sembra essere al contempo causa ed effetto della differente impostazione normativa, l’una che pone al centro il soggetto passivo e l’altra che, all’opposto, concentra la propria attenzione sulle operazioni imponibili. Il condurre l’esame della fattispecie in una prospettiva esclusivamente oggettiva, indifferente il più delle volte alla vicende soggettive in qualsiasi forma esse si manifestino, impedisce che a livello nazionale si verifichi quel medesimo bilanciamento cui si assiste a livello comunitario e, soprattutto, favorisce la frammentazione di disciplina ed interpretazione, rendendo molto più difficile la giustificazione dell’applicazione dell’imposta a fasi quali l’avvio e la cessazione dell’attività. Per questo motivo, dottrina maggioritaria e giurisprudenza hanno 249 Capitolo III cercato di individuare il minimo comune denominatore applicabile ad ogni fase e ad ogni tipo di attività nella destinazione dei beni all’impresa, quale elemento in grado di identificare e regolare la vita dell’attività economica ai fini dell’imposta, senza tuttavia riuscire a superare l’ostacolo costituito, nell’impostazione tradizionale, dalla differenza tra soggetto individuale o collettivo. Come si è visto, ciò accade soprattutto con riferimento all’esame delle fasi particolari dell’attività economica, quali il suo avvio e la sua cessazione. Se, dunque, per l’ordinamento comunitario, accanto al dato oggettivo costituito dall’idoneità degli atti ad integrare un’attività o dal legame tra questa ed i costi sostenuti, uno dei principali elementi di collegamento, sia prospettico che retrospettivo, è costituito dalla presenza di un soggetto passivo che agisca volontariamente in quanto tale, capace di costituire o mantenere viva un attività rilevante ai fini dell’imposta laddove non vi sia il concreto esercizio dell’attività produttiva tipica, l’interpretazione nazionale delle medesime situazioni pone al centro del dibattito la presenza o la permanenza di un vincolo di destinazione dei beni, prescindendo a volte non solo dalla presenza dell’esercizio, ma altresì dal soggetto, dalla sua volontà manifesta e dalle sue decisioni. È evidente che determinare il soggetto passivo non in base all’attività rilevante, ma in funzione delle operazioni rende più difficile individuare la ragione dell’applicazione del sistema Iva laddove tali operazioni non ci siano, come accade a livello comunitario dove, come si è visto, si ammette la permanenza dell’attività anche in totale assenza di operazioni attive. A ben vedere, dunque, in questa prospettiva i due ordinamenti sembrano collocarsi agli antipodi e quindi difficilmente convergenti, se non laddove si valorizzi una nozione di attività economica più uniforme anche negli elementi costitutivi e più attenta alla possibile influenza di tutti questi. Sforzo questo reso ancor di più necessario dalla verifica che la 250 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto scelta dell’oggettività assoluta non è comunque in grado di fornire una chiave di lettura unitaria dell’attività economica e, soprattutto, della sua cessazione, uniformità che è la stessa struttura delle norme comunitarie a richiedere in virtù della più volte ribadita irrilevanza di forme giuridiche e scopi. In base ad essa, proprio per coerenza con l’impianto comunitario dell’imposta, pur utilizzando le proprie categorie giuridiche tradizionali si dovrebbe evitare che queste influiscano sul piano sostanziale dell’imposta. Per questo motivo, pur accogliendo il legislatore nazionale le nozioni di impresa, arti e professioni, quanto meno a livello interpretativo si dovrebbe cercare di darne una lettura unitaria, conforme all’omogeneità della nozione di attività economica di cui sono espressione, non rilevando nell’ambito dell’imposta le differenze legate al dato giuridico che esse mostrano nell’ordinamento nazionale. Ciò significa che anche con riguardo alla cessazione non dovrebbero trovare spazio, nella prospettiva dell’imposta, le differenze legate alla natura giuridica del soggetto passivo, come si è visto, irrilevante nella prospettiva comunitaria. È questa la principale ragione per cui anche con riguardo alla cessazione è importante individuare criteri uniformi che ne consentano una lettura unitaria. Allo stesso modo, l’insufficienza dell’approccio obiettivo emerge dagli effetti che questo ha sull’interpretazione della norma che dispone l’autoconsumo in caso si cessazione dell’attività, come si è visto, completamente differente dall’impostazione comunitaria. Anche questa ulteriore diversità è giustificabile sulla base delle differenti prospettive adottate. In ambito comunitario è ovvio che, quando alla mancanza di esercizio e di operazioni imponibili si aggiunga anche la mancanza di un soggetto passivo che agisca in quanto tale, l’attività debba considerarsi automaticamente cessata e trovi applicazione la norma che dispone l’imponibilità del possesso di beni residui che abbiano dato diritto alla detrazione. 251 Capitolo III Nell’ottica nazionale questo automatismo non è altrettanto facile. In un’impostazione che trascura sia il profilo soggettivo sia quello dell’esercizio ed individua il nucleo centrale dell’attività rilevante nella presenza di beni ad essa destinati, è naturale che la semplice decisione di cessare l’attività mantenendo al contempo il possesso di quei beni impedisca di individuare l’estinzione dell’attività prima della completa dismissione o differente destinazione degli stessi beni. L’alterazione che questo approccio è in grado di produrre nel sistema applicativo dell’imposta già di per sé dovrebbe essere sufficiente a contestarne la fondatezza. A questo deve, tuttavia, unirsi un’ultima considerazione che, fondandosi sulla ricostruzione della nozione di attività economica e sull’interpretazione delle norme che dispongono l’imposizione sull’autoconsumo appena richiamate, interessa l’influenza che tali opposte prospettive hanno sullo stesso ruolo della cessazione dell’attività economica all’interno dell’imposta sul valore aggiunto. Si è affermato che, nella prospettiva comunitaria, vista l’automaticità dell’applicazione dell’autoconsumo, il momento di cessazione dell’attività ai fini dell’imposta non rappresenta solo la manifestazione esterna e definitiva di un processo già precedentemente concluso, ma costituisce altresì manifestazione propria dell’esperienza economica di cui segna la fine, dando vita all’ultima operazione imponibile prevista dal sistema. Diverse sono, invece, le conclusioni cui è possibile giungere in ambito nazionale, laddove di fatto non si riconosce alcuna valenza autonoma alla cessazione sotto il profilo impositivo. Nella prospettiva che solo una destinazione esplicita all’uso privato costituisca autoconsumo, la cessazione dell’attività finisce per essere esclusivamente una possibile circostanza in cui questo si verifica. La cessazione non appare, dunque, come un’espressione stessa dell’attività, ma si limita ad esserne il momento conclusivo, rilevante non ai fini dell’applicazione dell’imposta, ma in negativo, ai fini della sua definitiva disapplicazione. Queste ulteriori differenze influiscono profondamente 252 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto sull’individuazione del fatto cessazione e dei criteri a tal fine utilizzabili. Se la cessazione è diretta manifestazione dell’attività, si è detto, essa dovrà avere le stesse caratteristiche e per la sua determinazione sarà necessario fare riferimento agli stessi elementi. Nella prospettiva dell’ordinamento comunitario dovrà dunque aversi riguardo alla presenza contestuale sia dell’elemento oggettivo sia di quello soggettivo: non saranno sufficienti nè la sola cessazione di fatto dell’attività produttiva né la sola volontà in tal senso, ma l’una dovrà unirsi all’altra, individuando solo nel momento di tale coincidenza la definitiva cessazione dell’attività ai fini dell’imposta. L’interpretazione affermatasi a livello nazionale sembra invece indifferente a questi fattori, non ritenendo sufficienti né l’assenza dell’esercizio né la manifestata intenzione di cessare l’attività né il concorso di questi fattori, neutralizzati dall’eventuale presenza di beni residui. La determinazione della cessazione dell’attività viene quindi a dipendere dal verificarsi di un fatto che interrompa definitivamente il collegamento tra attività e beni, inevitabilmente differente a seconda delle modalità seguite per porre fine all’esperienza imprenditoriale e, dunque, necessariamente legato ad un’indagine di tipo casistico. Sulla base di queste riflessioni si comprende, pertanto, la difficoltà riscontrata in ambito nazionale nel tentativo di individuare criteri omogenei per la disciplina della cessazione dell’attività economica, difficoltà che si riflette di fatto su tutta la disciplina dell’imposta e sulla sua applicazione alle fasi controverse dell’attività. Se ne coglie altresì la distanza dai principi emersi al livello comunitario, principi che, come si è visto, interessano il piano interpretativo ed applicativo dell’imposta, non quello della sua disciplina normativa, nella sostanza, e necessariamente, omogenea tra i due ordinamenti. Le diversità rilevate tra l'impostazione dei due ordinamenti discende senza dubbio dalla difficoltà, sottolineata nel corso della trattazione, a conciliare la costruzione prettamente economica propria della 253 Capitolo III disciplina comunitaria con l'impostazione giuridica dell'ordinamento nazionale. Nonostante nella trasposizione della Direttiva Iva il legislatore nazionale abbia tentato di allontanarsi dalle categorie tipiche del proprio ordinamento per accogliere, attraverso l'utilizzazione di una costruzione spiccatamente oggettiva, nozioni più ampie ed elastiche, come richiesto dalla normativa europea, sono evidenti ed inevitabili i legami che ancora si colgono nell'impostazione della normativa nazionale con la disciplina sostanziale dell'impresa. Si giustificano così previsioni quali la presunzione di soggettività delle società e degli enti commerciali, così come la previsione espressa dell'estensione del regime impositivo ordinario anche a fasi quali la liquidazione ed il fallimento. Tali scelte si mostrano, in un'ottica nazionale, del tutto coerenti con l'impostazione generale dell'ordinamento che, da un lato, riconosce l'equazione società-impresa e, dall'altro, vincolata al principio di effettività ed attenta allo scopo cui sono volte le attività imprenditoriali -non necessariamente di lucro, ma sicuramente produttivo- fatica a ricondurre nell'alveo dell'impresa quelle fasi, come la liquidazione o la stessa fase preparatoria, che non rispettano pienamente queste caratteristiche, imponendo pertanto la necessità che l'estensione dell'attività rilevante ai fini dell'imposta venga espressamente statuita. Tali esigenze, come si è tentato di dimostrare, non emergono invece a livello di disciplina comunitaria che, fondata sulla sostanza economica dell'attività e poco attenta al dato strettamente giuridico, è di per sé capace di estendere, attraverso l'opera interpretativa della Corte di Giustizia, il proprio ambito di applicazione anche oltre i confini tradizionalmente riconosciuti all'attività economica. Tuttavia, ciò che sembra emergere dall'esame sin qui condotto è la possibilità anche a livello nazionale di giungere ad un'interpretazione più vicina a quella comunitaria, valorizzando, sia nell'ambito della disciplina sostanziale dell'impresa sia in ambito Iva, il ruolo dell'attività economica in quanto tale, distintamente dalle 254 Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto caratteristiche proprie delle diverse tipologie di soggetto interessate. Come si è illustrato, indicazioni in tal senso emergono già in ambito nazionale con la valorizzazione della categoria giuridica dell'attività e degli elementi costitutivi di questa, primo fra tutti il collegamento, anche soggettivo, esistente tra gli atti che la compongono. Accogliendo tali indicazioni sarebbe dunque possibile, mantenendo sempre la coerenza interna dell'ordinamento ed il necessario collegamento tra le differenti discipline che lo compongono, adottare una linea interpretativa in linea con le indicazioni europee, senza concentrarsi unicamente, come ora accade, sul profilo oggettivo della fattispecie, che si è dimostrato tanto insufficiente nella determinazione precisa della cessazione dell’impresa, quanto distante dall'interpretazione comunitaria. Un’interpretazione che voglia raggiungere anche sul piano interpretativo risultati più armonici con le indicazioni che provengono dall’ordinamento comunitario, non può, dunque, prescindere dall’esame di tutti gli elementi costitutivi della nozione di attività economica, elementi che interessano sia le operazioni imponibili sia il soggetto passivo, i quali, se correttamente bilanciati, consentono la piena realizzazione della neutralità dell’imposta e delle certezza del diritto cui sempre la giurisprudenza comunitaria si richiama. 255 C ONCLUSIONI L’esame sin qui condotto ha seguito principalmente due direttrici, da un lato, l’individuazione delle ragioni per cui la fase liquidatoria, pur non integrando appieno le caratteristiche dell’attività economica rilevante, sia considerata parte di questa e quindi soggetta al regime impositivo ordinario; dall’altro, il tentativo di determinare criteri uniformi per la determinazione dell’esatto momento di cessazione dell’attività, fondamentale per stabilire quando il presupposto impositivo venga meno e, dunque, cessi di essere applicabile l’imposta. Strettamente vincolato a questi profili risulta essere la determinazione dell’esatto ruolo dell’attività economica nel contesto dell’imposta e, conseguentemente, la valenza che deve attribuirsi alla sua cessazione, considerandola semplice fattore temporale o, al contrario, manifestazione dello stesso presupposto, pur se in senso contrario. Nel corso di questa ricostruzione sono emerse numerose differenze tra quello che si ritiene essere l’approccio comunitario e l’interpretazione sviluppatasi a livello nazionale, riassumibili in un apparente contrasto tra l’adozione di una prospettiva attenta ad ogni profilo del presupposto, incluso dunque quello soggettivo, ed una che, al contrario, appare orientata unicamente alla valutazione del dato oggettivo, salvo poi mostrare sul piano applicativo una notevole oscillazione tra l’applicazione di un criterio e l’altro. L’origine di tali diversità è stato individuato già nella differente struttura normativa che, pur conducendo da un punto di vista sostanziale alla medesima disciplina, mostra sin dall’inizio un opposto atteggiamento nei confronti dell’elemento soggettivo. L’art. 2 della Dir. 2006/112/CE definisce imponibili le operazioni compiute dal soggetto passivo che agisca in quanto tale, ricollegandosi logicamente al successivo art. 9 che definisce soggetto passivo chiunque eserciti un’attività economica. Al contrario, la normativa italiana definisce come imponibili le operazioni effettuate Conclusioni nell’esercizio dell’attività, specifica quali attività siano da ritenere rilevanti e, infine, stabilisce che sia soggetto passivo chi compie tali operazioni. A ben vedere, gli elementi che compongono il ragionamento sono i medesimi, così come il risultato che da un punto di vista sostanziale essi raggiungono. In entrambe le discipline l’attività economica rilevante risulta fondamentale per l’individuazione tanto del soggetto passivo quanto delle operazioni imponibili, ma la diversità del percorso seguito si riflette nella rilevanza attribuita ai diversi profili nell’ambito dell’imposta e dell’interpretazione della sua disciplina. La struttura della normativa nazionale porta forse a sopravvalutare il lato oggettivo dell’imposta, a discapito della rilevanza che invece dovrebbe attribuirsi anche all’aspetto soggettivo, allontanandosi di conseguenza da quell’equilibrio che sembra caratterizzare la disciplina comunitaria. Essa, infatti, pur dimostrando la propria oggettività attraverso la centralità di una nozione di attività economica lontana dai tradizionali schemi giuridici e costruendo su di essa anche la soggettività passiva, non sminuisce affatto il ruolo del soggetto, ma anzi da esso muove per individuare gli altri elementi fondamentali per il sistema dell’imposta. Inoltre, come chiarito dalla giurisprudenza, l’esercizio di un’attività economica è sicuramente indispensabile per l’attribuzione della soggettività passiva, ma le esigenze di neutralità e di coerenza del sistema impositivo consentono in casi particolari, come ad esempio l’avvio dell’attività, di assegnare un ruolo preminente al soggetto e alle sue intenzioni manifeste ed obiettivamente dimostrabili, pur in assenza di un concreto esercizio, permettendo, dunque, che la soggettività passiva venga attribuita in funzione di una qualificazione volontaria dell’attività e non solo successivamente ad una verifica oggettiva della sua esistenza. Nelle pagine che precedono si è prospettata la possibilità di applicare la medesima interpretazione anche alla fase conclusiva dell’attività economica rilevante ai fini Iva. 257 Conclusioni Lo stesso ragionamento non pare ricavabile dalle indicazioni che emergono dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionali. Nella prospettiva oggettiva che caratterizza l’interpretazione italiana ciò che giustifica l’applicazione del regime ordinario sia agli atti preparatori che alla fase liquidatoria è la presenza di beni destinati all’impresa, in base a cui dottrina e giurisprudenza identificano il collegamento con l’attività e ne estendono l’ampiezza. Di fatto, anche in ambito nazionale ai fini dell’applicazione dell’imposta alla fase liquidatoria poco rileva la cessazione dell’attività tipica: la nozione di impresa viene dilatata ed in parte modificata e conseguentemente si assiste ad una riduzione del rilievo del principio di effettività, come del resto lo stesso legislatore prescrive. Al pari di quanto avviene nell’ordinamento comunitario, lo scopo è quello di tutelare il sistema impositivo, la sua neutralità e la sua coerenza, da cui nasce la necessità che beni che hanno dato diritto alla detrazione nel corso dell’esercizio vengano nuovamente assoggettati all’imposta nel momento in cui escono dal circuito economico. Nella sostanza, dunque, anche in ambito nazionale si adotta un criterio affine a quello visto in ambito europeo, ossia una forma di collegamento con il precedente esercizio che giustifichi la permanenza dell’attività, cui, però, viene a mancare l’ulteriore elemento necessario per individuarne la cessazione, costituito come si è visto dal profilo soggettivo. La dottrina italiana sostiene che: - la fase liquidatoria è imponibile perché i beni oggetto delle operazioni sono ben destinati all’impresa; - di più, secondo parte della dottrina commercialistica, la liquidazione non termina e l’impresa sopravvive finchè non c’è stata disgregazione integrale dell’apparato strutturale funzionale all’esercizio dell’attività; - a ciò si aggiunge l’idea che l’interruzione del vincolo tra i beni e l’impresa possa avvenire solo a seguito di una diversa destinazione impressa espressamente e non semplicemente in conseguenza alla 258 Conclusioni cessazione dell’attività. Le conseguenze di tale impostazione sono principalmente due: si trova una giustificazione per l’applicazione dell’imposta pur in assenza di esercizio, ma concretamente si individua un criterio che non è pienamente in grado di individuare un termine per l’attività liquidatoria e, di conseguenza, per l’attività rilevante ai fini dell’imposta. Questo rappresenta l’aspetto più controverso dell’elaborazione nazionale in tema di attività e cessazione. Si è discussa l’opportunità dell’adozione di un criterio quale la destinazione dei beni, che porta a fare dell’impresa un’azienda e crea una nozione fiscale d’impresa, distante sia da quella nazionale che da quella europea. Tuttavia, nello schema dell’imposta disciplinata dal Dpr. 633/72 la scelta d questo criterio appare coerente: la normativa nazionale si concentra sul profilo oggettivo del presupposto impositivo, sulle operazioni imponibili e sulla natura dei beni 2 7 8 , tralasciando l’elemento soggettivo che diviene semplicemente il centro d’imputazione passivo dell’attività, delle operazioni e dei beni. In questa prospettiva appare naturale che sia l’inerenza, qui intesa in senso lato come destinazione all’impresa, a giustificare la sopravvivenza del presupposto laddove non ne ricorra più l’elemento fondamentale, ossia l’esercizio effettivo ed abituale. In questo, la dottrina tributaria, nonostante la dichiarata volontà di discostarsi dalla struttura giuridica dell’impresa commerciale, appare ad essa molto più vicina di quanto non si affermi. Si vuol dire, ricostruendo le posizioni della dottrina commerciale relativa alla qualificazione della fase liquidatoria, si sono individuate quattro posizioni principali: - è esclusa per mancanza di esercizio effettivo; - è pienamente integrata nell’impresa, che si estingue solo alla 278 Non si deve dimenticare che la prima formulazione della norma prevedeva l’imponibilità di tutte le operazioni aventi ad oggetto qualsiasi bene relativo all’impresa. 259 Conclusioni definizione di tutti i rapporti ad essa imputabili; - rientra nell’impresa sino a che non si abbia disgregazione dell’attivo aziendale; - costituisce impresa fino a che siano identificabili atti obiettivi d’impresa e persista una sorta di collegamento con il precedente esercizio. Tra queste, due sembrano generalmente accolte, la seconda con riguardo all’imprenditore collettivo, legata strettamente all’esistenza della società o dell’ente che la esercita, e la terza invece in relazione all’imprenditore individuale. La dottrina tributaria non si allontana da queste posizioni, piuttosto le accoglie adattandole a quella che ritiene essere la prospettiva fondamentale delle norme impositive: la circolazione dei beni e la loro destinazione. Tuttavia, se con le recenti modifiche legislative la disciplina commerciale sembra fare un passo in avanti, superando una visione meramente obiettiva, rivalutando gli effetti ed il valore delle forme pubblicitarie e, con esse, il ruolo del soggetto e delle sue decisioni, in ambito tributario si è rimasti ancorati alla visione oggettiva che priva tali elementi di qualsiasi rilievo. In questo l’interpretazione nazionale è lontana dalla prospettiva europea. Come si è ricordato, l’attività economica nell’Iva ha un ruolo fondamentale e duplice; è tanto oggetto quanto soggetto della disciplina; essa è fatta di esercizio, operazioni, beni, ma altresì di intenzioni e di soggetti che volontariamente agiscono quali esercenti un’attività. È una nozione ampia che non corrisponde all’impresa nel senso nazionale e che soprattutto mai prescinde dal soggetto passivo che la esercita. L’attività economica nel senso comunitario non può ridursi nè a semplice effettività né a soli beni destinati. A questa considerazione deve aggiungersi l’indifferenza dello scopo e dei risultati, così come l’irrilevanza delle forme giuridiche tanto degli atti che la compongono quanto dei soggetti che la esercitano. Di conseguenza, il problema tutto nazionale del mutamento dallo scopo commerciale a quello liquidatorio non trova spazio in ambito 260 Conclusioni comunitario, così come ne restano estranee le differenze legate alla natura individuale o collettiva del soggetto passivo e quelle relative al procedimento con cui si giunge alla definitiva cessazione dell’attività. Si è detto che il fine commerciale che va riconosciuto all’attività perché la si possa qualificare come economica ai fini dell’imposta consiste nella destinazione al mercato dei beni e dei servizi. Per questo a nulla rileva che le cessioni siano motivate dall’attività tipica o dalla necessità di monetizzare il patrimonio relativo all’attività: in un caso e nell’altro i beni sono destinati al mercato ed al consumo, la loro cessione è in grado di influire sugli equilibri del mercato e per questo motivo si tratterà di operazioni imponibili, per questo motivo la fase liquidatoria deve considerarsi comunque riconducibile all’attività economica rilevante. Un solo limite sembra potersi desumere dalla giurisprudenza comunitaria: una fase liquidatoria pur in assenza di operazioni attive dovrà considerarsi attività economica fintantoché non rappresenti un evidente abuso della disciplina comunitaria (o nazionale). Immediatamente il pensiero va al caso delle società non operative e a tutte quelle ipotesi di liquidazioni prolungate fittiziamente per continuare a fruire del diritto alla detrazione. In questi casi, il ragionamento seguito dalla Corte è del tutto assimilabile a quello applicabile alla fase attiva dell’esercizio: la detrazione dell’imposta versata a monte spetta solo se collegata all’attività imponibile. Potrà certamente trattarsi di costi generali e non unicamente di spese specificamente collegate ad un’operazione attiva, ma è difficile che dopo anni di inattività possa ancora riconoscersi un legame tra i costi e la precedente attività, se non, forse, nel caso dei compensi degli stessi liquidatori. Da qui una considerazione che stride con certe opinioni emerse a livello nazionale: il collegamento tra i beni e l’attività non può ritenersi inscindibile, trascorso un certo lasso di tempo esso si interrompe perché, in assenza di esercizio, in mancanza di un motivo che giustifichi l’inattività o di un’intenzione oggettivamente dimostrabile rivolta all’esercizio di un’attività economica, il 261 Conclusioni collegamento tra beni ed operazioni viene necessariamente meno, rendendo illegittima qualsiasi richiesta di detrazione. Questa ricostruzione è valida per i casi di abuso; altre sono le considerazioni che si possono ricavare in relazione alle situazioni legittime: - la fase liquidatoria è speculare a quella preparatoria, pertanto si pongono le stesse esigenze di neutralità che portano ad ampliare la nozione di impresa, sacrificandone il profilo dell’effettività; - è impensabile, come sostiene l’Avvocato Generale Jacobs nel caso Fini H, che l’attività rilevante cessi nel momento dell’abbandono dell’attività tipica. L’ammontare dell’imposta dovuta dal soggetto passivo deve infatti necessariamente includere l’imposta dovuta per le cessioni liquidatorie e quella versata inerente ai costi necessari alla liquidazione stessa. Da questa ricostruzione emergono dunque due principi fondamentali, ovvero che le operazioni di liquidazione sono pienamente riconducibili all’attività economica nel senso indicato dalla direttiva e che, pur in assenza di queste, i costi sostenuti devono comunque ritenersi imputabili alla precedente attività fino a che dimostrino un legame ancora esistente con essa. Diventa a questo punto fondamentale un secondo interrogativo: quando questo legame viene meno e si verifica pertanto la cessazione dell’attività rilevante? Un prima risposta nasce dalla visione della liquidazione come uguale e contraria alla fase organizzativa: se in quel caso è la sola volontà del soggetto ad integrare il presupposto, in corrispondenza della cessazione sarà necessariamente una volontà in tal senso a porvi fine. In questo, pertanto, l’evento cessazione presenta le stesse funzioni e la stessa complessità che si sono attribuite all’attività economica, naturalmente in senso opposto. Esso è infatti al contempo necessario alla determinazione del termine della soggettività passiva, influendo quindi sul piano soggettivo, e all’individuazione dell’ultima operazione imponibile (in base alla disposizione che prevede 262 Conclusioni l’autoconsumo per il possesso dei beni residui), in rapporto al profilo oggettivo dell’imposta. Per la cessazione, questa duplicità di funzioni implica il crearsi di uno stretto legame tra i due piani anche nell’individuazione stessa del momento conclusivo dell’attività, rendendoli necessariamente complementari. Questo rapporto è chiaramente dimostrato dall’incapacità della cessazione di fatto dell’esercizio a determinare la cessazione dell’attività ai fini dell’imposta che, in assenza di un comportamento nella stessa direzione tenuto dal soggetto passivo, non comporta altro che un mutamento nell’attività, passata dalla fase produttiva a quella liquidatoria, entrambe ugualmente imponibili. Allo stesso modo, nemmeno il dato soggettivo può da solo ritenersi sufficiente a determinare la cessazione dell’attività quando non corrisponda, sul piano oggettivo, ad un’interruzione definitiva dell’attività, stante l’assenza di un qualsiasi effetto costitutivo in capo alle dichiarazioni formali imposte al contribuente. Secondo questa impostazione diviene allora fondamentale per individuare il momento di cessazione dell’attività non tanto compiere una verifica della realizzazione dell’uno o dell’altro elemento, oggettivo e soggettivo, quando piuttosto individuare il momento in cui essi si manifestano congiuntamente. L’unione di questi fattori, di segno opposto a quelli che determinano la nascita dell’attività, ma ad essi omogenei quanto alla propria natura, sarà quindi in grado di segnare la fine dell’attività rilevante ai fini dell’imposta, elidendone al contempo sia la componente soggettiva che quella oggettiva, permettendo di definire con certezza il regime impositivo applicabile al soggetto, rispettando la coerenza e la struttura del sistema dell’imposta, primo fra tutti il principio di neutralità. Nella prospettiva adottata a livello nazionale è questo il profilo che viene meno. Come già sostenuto, non si può affermare che l’adozione di un criterio unicamente oggettivo sia scorretta, tuttavia questa scelta 263 Conclusioni appare insufficiente, non tanto nella prospettiva di individuare una ragione per l’imponibilità della fase liquidatoria, quanto nel tentativo di verificarne il momento di cessazione. Se l’impresa rilevante ai fini dell’imposta corrisponde ad un insieme di beni destinati all’esercizio dell’attività economica, viene a mancare un elemento cui sia riconosciuta la capacità di interrompere o mutare tale destinazione, soprattutto laddove si neghi valore tanto all’intervento del soggetto, che di quel vincolo è l’artefice, quanto agli adempimenti formali richiesti dalle norme. Influenzata inevitabilmente dal proprio patrimonio giuridico, l’opinione nazionale sembra non cogliere appieno la natura ed il contenuto del presupposto impositivo e per questa ragione è costretta a trovare altrove le ragioni di certe scelte legislative. In tal modo viene dato spazio al problema della cessazione dell’attività tipica, che si manifesta nelle difficoltà relative all’individuazione di una ragione per l’imponibilità. Allo stesso modo, si crea il problema della natura giuridica del soggetto passivo, persona fisica o ente, che influisce inevitabilmente sulle forme e sulla rilevanza della cessazione. In questo la disciplina fiscale non si allontana in nulla dalle problematiche che emergono in ambito commerciale. Lasciando incompiuta l’asserita creazione di un modello d’impresa fiscale diversa ed autonoma da quella civilistica. Di fatto, però, l’opinione maggioritaria si è fermata alle posizioni tradizionali della dottrina commercialistica, senza peraltro seguirne le più recenti evoluzioni. Si è visto, infatti, come anche in quel campo sia possibile ricondurre ad unità l’analisi e le diverse valutazioni solo valorizzando, all’interno dell’impresa, l’elemento costituito dall’attività, quale categoria riconosciuta dall’ordinamento. In tale prospettiva, pur restando il problema della cessazione dell’attività tipica, legato al principio di effettività, è possibile superare le differenza soggettive, che non riguardano direttamente l’esistenza dell’attività, quanto piuttosto lo statuto giuridico legato 264 Conclusioni alla tipologia del soggetto. Queste istanze emerse nell’ambito del diritto commerciale e risolte dal legislatore con la rivalutazione dell’elemento formale, dovrebbero essere ancor più facilmente accolte in seno alla disciplina Iva che dalla propria matrice comunitaria dovrebbe derivare un atteggiamento di assoluta indifferenza nei confronti delle forme giuridiche, tanto del soggetto quanto delle operazioni. È invece curioso che una disciplina, che generalmente trascura il profilo soggettivo e l’integrazione di modelli giuridici predefiniti, appaia da questi fortemente condizionata, a livello interpretativo ed applicativo, nel caso della cessazione. Del resto, è lo stesso criterio utilizzato per stabilire l’imponibilità della fase liquidatoria a creare questo condizionamento. È naturale, infatti che laddove si ragioni in termini di beni e di loro destinazione emergano delle differenze legate all’esistenza o meno di un patrimonio separato ed autonomo. Per questo motivo diviene difficile individuare un momento di cessazione con riguardo all’imprenditore individuale, in ogni caso titolare di quei beni senza apparenti differenze, se non volontarie, tra quelli personali e quelli destinati all’attività. Al contrario, è molto più semplice individuare il momento interruttivo con riguardo ad enti che, indipendentemente dalla presenza della personalità giuridica, sono titolari di un patrimonio distinto da quello personale dei soggetti coinvolti e vincolato all’esercizio dell’attività economica, patrimonio che necessariamente subisce un processo di liquidazione o destinazione esterna e che perde la propria integrità, in ogni caso, in corrispondenza all’estinzione dell’ente stesso. Diverso sarebbe, invece, se si concentrasse l’attenzione sulla riconducibilità di quanto compiuto nella fase liquidatoria alla nozione di attività, quale insieme di atti fra loro vincolati ad uno scopo impresso dal soggetto agente. In questo modo, come accade in ambito comunitario, la natura dei beni diverrebbe uno dei possibili criteri utilizzabili per la 265 Conclusioni determinazione di tale vincolo, senza però escluderne altri. Ugualmente, si aprirebbe la strada ad una seria rivalutazione dell’elemento soggettivo, indebitamente trascurato. Nel ricostruire l’impresa come attività, infatti, si è detto che essa è un fenomeno volontario, non negli effetti ma nei comportamenti, e che lo stesso vincolo tra le operazioni e tra i beni è necessariamente imposto ed indirizzato dalla volontà del soggetto. Tali elementi trovano dunque spazio nel momento iniziale dell’attività, non v’è motivo perché ne vengano esclusi nella fase conclusiva. Oltre agli indubbi vantaggi, in una prospettiva di certezza delle situazioni giuridiche, legati alla possibilità di utilizzare molteplici criteri per la valutazione del momento di cessazione, questa scelta sembra obbligata laddove si voglia realmente rispettare la natura dell’attività ed attribuire ad essa il giusto ruolo nel sistema dell’imposta. Inoltre, questa prospettiva permetterebbe di superare le differenze riscontrate tra una modalità di cessazione e l’altra, immotivate tanto in relazione al diritto commerciale quanto a quello comunitario e del tutto infondate in una prospettiva che guardi all’attività economica e alla sua cessazione come fenomeni unitari, indifferenti alla forma giuridica con cui si manifestano. Si tratterebbe, in sostanza, di riproporre anche nell’ordinamento nazionale quel particolare legame che nella disciplina comunitaria esiste tra profilo oggettivo e soggettivo del presupposto, legame che li rende interdipendenti, entrambi indispensabili, ma singolarmente insufficienti per l’applicazione dell’imposta. In virtù di questo legame, che vede l’attività economica necessaria per l’individuazione del soggetto di riferimento, ma al contempo soggetta all’influenza da questi esercitata, si assiste nella giurisprudenza comunitaria ad un costante bilanciamento dei due elementi, l’uno in grado di sopperire alla mancanza o alla riduzione del rilievo dell’altro, quando questo sia necessario per garantire la ratio dell’imposta e, quindi, la sua neutralità. 266 Conclusioni Nulla si oppone a che un tale rapporto venga valorizzato a livello nazionale, né la struttura o il contenuto delle norme, né particolari necessità di coordinamento con le altre branche dell’ordinamento. Gli elementi necessari per una siffatta interpretazione sono già presenti nella normativa nazionale, tanto tributaria quanto commerciale e non ci sono ragioni per cui, nel tentativo di marcare le differenze tra impresa fiscale ed impresa commerciale, si rinunci ad una corretta considerazione di tutti gli elementi che la compongono, soprattutto in una prospettiva di maggiore aderenza con il dato comunitario che, in ambito Iva, costituisce irrinunciabile punto di riferimento. 267 B IBLIOGRAFIA AFFERNI V., Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973, 154, ALCARO F., L’attività- profili ricostruttivi e prospettive applicative, Napoli, 1999 ALCARO F., L’attività: profili applicativi e normativa comunitaria in L’attività profili ricostruttivi e prospettive applicative, Napoli, 1999 ANTONUCCI A., La nozione d’impresa nella comunitaria ed italiana, Cons. Stato, 2003, II, 569 ss; giurisprudenza ARMELLA S., La nozione di attività economica ai fini Iva, Dir. 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