- AMS Tesi di Dottorato

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A LMA M ATER S TUDIORUM – U NIVERSITÀ
DI
B OLOGNA
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO TRIBUTARIO EUROPEO
C ICLO XX
Settore scientifico disciplinare di afferenza: IUS/12
LA CESSAZIONE DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA NELL’IVA:
PROFILI NAZIONALI E COMUNITARI
Presentata da: dott.ssa E LEONORA A DDARII
Coordinatore Dottorato
Relatore
Chiar.mo Prof.
Adriano Di Pietro
Chiar.mo Prof.
Adriano Di Pietro
Esame finale anno 2008
LA CESSAZIONE DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ' IVA :
PROFILI NAZIONALI E COMUNITARI
Capitolo I
IL
RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA
NELL ’ IMPOSTA SUL V ALORE AGGIUNTO
1
Il concetto di attività economica nelle norme e nella
giurisprudenza comunitaria
1
1.1
La nozione economica nelle Direttive Iva
1
1.2
Le caratteristiche dell’attività secondo la Corte di
Giustizia
9
1.3
Attività economica ed impresa nel diritto antitrust:
una nozione generalmente valida per l’ordinamento
comunitario?
23
2
I limiti temporali dell’attività economica
38
2.1
La giurisprudenza sugli atti preparatori
40
2.2
L’applicazione della medesima interpretazione alla
fase conclusiva dell’attività
52
2.3
L’autoconsumo e la destinazione a finalità estranee
all’impresa in relazione alla cessazione dell’attività
62
2.4
Il principio di neutralità quale ratio della nozione
unitaria di attività economica
69
2.5
Attività economica, cessazione e rilevanza delle
forme giuridiche
75
3
Prime conclusioni: il ruolo dell’attività economica e
della sua cessazione
84
Capitolo II
ATTIVITÀ ECONOMICA E CESSAZIONE NELL’ORDINAMENTO NAZIONALE
Sezione I
1
L’ attività economica nell’ordinamento nazionale
95
1.1
La bipartizione tra impresa e professioni
97
1.2
L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972
104
1.3
Il rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario
110
a)
Imprenditore e impresa nel diritto civile
110
b)
Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel
diritto civile e il diritto tributario
113
2
Alcune considerazioni su impresa, attività e il
significato del termine “esercizio”
117
1
La cessazione dell’attività economica
nell’ordinamento nazionale
127
1.1
La cessazione dell’attività economica
nell’ordinamento tributario: aspetti controversi..
129
1.2
..la disciplina
132
a)
La cessazione nel sistema delle imposte dirette:
cenni
132
b)
La cessazione dell'attività economica nell'Iva
137
1.3
La prospettiva del diritto commerciale
139
2
Le forme di cessazione dell’impresa
143
2.1
La liquidazione volontaria
144
2.1.1
La liquidazione dell’impresa nel diritto
commerciale
144
2.1.2
Il valore degli adempimenti formali: la
cancellazione dal registro delle imprese
151
2.1.3
Iva e liquidazione ordinaria dell’impresa
159
a)
L’approccio oggettivo di dottrina e giurisprudenza:
la sopravvivenza dell’impresa sino alla completa
dismissione dei beni. Critica
159
Il profilo formale della cessazione: la
dichiarazione di cessazione ed il suo valore.
170
Sezione II
b)
II
L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni:
autoconsumo generalizzato o necessità di
destinazione estranea esplicita?
178
2.1.4
Cessione e affitto d’azienda: si verifica la
cessazione dell’impresa?
185
2.1.5
I possibili effetti dell’incertezza riguardo al
momento di cessazione sull’applicazione
dell’imposta
192
2.2
Le procedure concorsuali:
197
2.2.1
L’esercizio dell’impresa e il fallimento
197
2.2.2
L’Iva nelle procedure concorsuali
205
a)
L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle
vendite fallimentari
208
b)
La dichiarazione prefallimentare come
dichiarazione di cessazione dell’attività. Critica
211
3
Alcune considerazioni conclusive: la cessazione
dell’impresa ed il suo ruolo nell’ordinamento
interno
221
c)
Capitolo III
S ISTEMA
COMUNITARIO DELL ’ IMPOSTA E
REGIME NAZIONALE A CONFRONTO
1
La compatibilità tra la disciplina comunitaria ed il
regime nazionale
230
1.1
La centralità del vincolo di destinazione dei beni
nell’individuazione del momento di cessazione
dell’impresa in contrasto con l’irrilevanza
dell’organizzazione.
231
La frammentazione della disciplina nazionale in
contrasto con l’approccio unitario che emerge dalla
giurisprudenza comunitaria: l’indifferenza della
forma di cessazione..
237
..e della natura giuridica del soggetto passivo
242
1.2
1.3
III
1.4
La compatibilità delle interpretazioni nazionali
nella prospettiva applicativa dell’imposta
245
2
Il ruolo dell’attività economica e della sua
cessazione a confronto
247
CONCLUSIONI
256
BIBLIOGRAFIA
268
IV
Capitolo I
IL RUOLO DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA
NELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO
S OM M A RI O 1- Il concetto di attività economica nelle norme e nella
giurisprudenza comunitaria 1.1- La nozione economica nelle Direttive Iva 1.2- Le
caratteristiche dell’attività secondo la Corte di Giustizia 1.3- Attività economica
ed impresa nel diritto antitrust: esiste una nozione generalmente valida per
l’ordinamento comunitario? 2- I limiti temporali dell’attività economica 2.1-La
giurisprudenza sugli atti preparatori 2.2- L’applicazione della medesima
interpretazione alla fase conclusiva dell’attività 2.3- L’autoconsumo e la
destinazione a finalità estranee in relazione alla cessazione dell’attività 2.4- Il
principio di neutralità quale ratio di una nozione unitaria di attività economica
2.5- Attività economica, cessazione e rilevanza delle forme giuridiche 3- Prime
conclusioni: il ruolo dell’attività economica e della sua cessazione
1- I L
CONCETTO
DI
ATTIVITÀ
ECONOMICA
NELLE
NORME
E
NELLA
GIURISPRUDENZA COMUNITARIA
1.1 La nozione economica nelle Direttive Iva
Nata allo scopo di favorire e promuovere la creazione del mercato
unico europeo e consentire l’affermazione concreta dei principi di
libertà sanciti dai trattati istitutivi, anche attraverso l’armonizzazione
dell’imposizione indiretta, ovvero promuovendone la neutralità, l’Iva
si caratterizza per la sua natura di imposta comunitaria, per questa
ragione differente dalle altre che compongono gli ordinamenti tributari
nazionali.
La necessità di costruire un sistema uniforme a livello europeo ha
fatto sì che la normativa comunitaria prevedesse un sistema d’imposta
proprio, il più possibile indipendente da quelli nazionali, che ha
introdotto nozioni tipiche, spesso lontane dalla tradizionale
costruzione degli istituti giuridici degli ordinamenti interni degli Stati
membri, nozioni ampie e generiche che individuano i limiti all’interno
dei quali i legislatori nazionali possono muoversi nel recepimento
delle Direttive, ma che non possono essere legittimante superati, o
Capitolo I
disattesi, per ampliarne o limitarne la portata 1 .
L’introduzione di un sistema comune, armonizzato, di imposizione
indiretta necessariamente richiedeva questa scelta. Troppo diverse le
legislazioni continentali rispetto a quelle di stampo anglosassone;
troppo distinti fra loro gli stessi ordinamenti di “civil law”, la cui
matrice comune non consente, tuttavia, la creazione di un sistema
tributario uniforme senza l’insorgere di grandi difficoltà di
adattamento e coordinamento dell’intero ordinamento.
L’allontanamento dalle nozioni tradizionali dei singoli ordinamenti
interni si caratterizza parimenti per un’altra peculiarità: molte delle
categorie individuate dal legislatore comunitario si discostano altresì
da un sostrato strettamente giuridico, per abbracciare l’oggettività
propria del mondo economico, delineando categorie universalmente
applicabili, ma giuridicamente piuttosto generiche.
Nella forma delle caratteristiche disposizioni di largo respiro
proprie dello strumento legislativo adottato, la direttiva 2 , il legislatore
comunitario ha codificato, dunque, nell’ordinamento europeo nozioni
1
In questo senso C O M E LLI , La natura dell’imposta, in L’imposta sul valore
aggiunto – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario a cura di F. T E S AU R O ,
Utet, 2001, p. 4 ss., il quale afferma che “ [..] la Sesta Direttiva del Consiglio n.
77/388/CEE (e più in generale il sistema dell’Iva) prevede alcune definizioni
aventi portata comunitaria, come risulta dall’esperienza della Corte di Giustizia,
nel senso che alcuni concetti fondamentali sono definiti in modo unitario, e sono
svincolati, pertanto, dalle nozioni contemplate dai singoli ordinamenti nazionali,
posto che il legislatore interno non può interferire su di essi nella fase della
trasposizione [..] ”.
2
La Direttiva, diversamente dal regolamento, funge generalmente da modello,
da guida per la legislazione nazionale di recepimento, dettando i principi e gli
elementi fondamentali cui le norme nazionali dovranno attenersi. E’ però frequente
anche l’emanazione di norme dettagliate che, dettando una disciplina di per sé già
esaustiva, devono ritenersi di diretta applicazione all’interno dell’ordinamento
degli Stati membri, anche senza la mediazione del legislatore nazionale. Per una
ricostruzione
in
termini
istituzionali
degli
strumenti
legislativi
tipici
dell’ordinamento comunitario si veda, G.T E S AU R O , Diritto Comunitario, III ed.,
Padova 2003, p. 135 ss.
2
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
capaci di comprendere il contenuto dei vari istituti tipici degli
ordinamenti nazionali, nonché sufficientemente elastiche da
abbracciare quelle novità che si presentino nella realtà, cui una
legislazione rigida difficilmente sarebbe in grado di adattarsi. Tale
tecnica legislativa, forse lungimirante, non è però priva di
conseguenze negative se la si osserva da un punto di vista strettamente
nazionale e si valutano le difficoltà di inserimento di queste nozioni in
ordinamenti più rigidi, perché necessariamente – si conceda
l’espressione- più giuridici.
Difficoltà che si manifestano già ad un livello generale e
superficiale, ma che ancor più si rendono evidenti quando
l’allontanamento dalle categorie tipiche riguarda elementi fondanti lo
stesso sistema dell’imposta. L’impostazione di stampo economico si
rileva, infatti, con maggiore forza nella definizione del presupposto
impositivo, sia sotto il profilo oggettivo, nell’individuazione delle
operazioni imponibili 3 , sia nei riguardi dell’elemento soggettivo,
indicando quali siano i soggetti passivi dell’imposta.
Concentrando in particolare l’attenzione su quest’ultimo elemento,
sono innegabili l’ampiezza delle disposizioni che determinano l’ambito
soggettivo di applicazione dell’imposta e la genericità, quanto meno
iniziale, che le caratterizza.
Stabilisce, infatti, l’art. 9, c.1 della Direttiva IVA 4 che sia
considerato soggetto passivo “chiunque esercita, in modo
indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica,
indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”,
3
Con riguardo, ad esempio, all’ordinamento italiano, è possibile notare come il
contenuto delle due principali categorie di operazioni imponibili – cessione di beni
e prestazione di servizi- determinato ai fini dell’imposta non coincida pienamente
con la classificazione delle medesime operazioni in altri ambiti dell’ordinamento.
4
Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema
comune d'imposta sul valore aggiunto, pubblicata su GU L 347 del 11-12-2006 ed
entrata in vigore in data 1-1-2007. Essa è il risultato della rifusione della Sesta
Direttiva e delle successive modifiche, cui si aggiungono anche le norme tuttora in
vigore della Dir. 67/227/CEE (cd. Prima Direttiva).
3
Capitolo I
specificando che per attività economica deve intendersi qualsiasi
attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi,
cui si unisce ogni forma di sfruttamento di un bene materiale o
immateriale cui consegua un guadagno stabile 5
Come si può notare, l’estensione della nozione delineata –chiunque
eserciti un’attività, indipendentemente dallo scopo o dai risultativiene delimitata espressamente da due sole caratteristiche:
l’indipendenza e la stabilità, i cui elementi vengono all’interno della
5
Disponeva l’ art. 4 della Dir. 77/388/CEE (Sesta Direttiva)
1. Si considera soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente e
in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2,
indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività .
2. Le attività economiche di cui al paragrafo 1 sono tutte le attività di
produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese le attività
estrattive, agricole, nonchè quelle delle professioni liberali o assimilate. Si
considera in particolare attività economica un’operazione che comporti lo
sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un
certo carattere di stabilità .
3. Gli Stati membri possono considerare soggetti passivi anche chiunque
effettui a titolo occasionale un'operazione relativa alle attività di cui al paragrafo
2 e in particolare una delle operazioni seguenti:
a) la cessione, effettuata anteriormente alla prima occupazione, di un
fabbricato o di una frazione di fabbricato e del suolo attiguo; gli Stati membri
possono
determinare
le
modalità
di
applicazione
di
questo
criterio
alla
trasformazione di edifici nonchè il concetto di suolo attiguo. Gli Stati membri
possono applicare criteri diversi dalla prima occupazione, quali ad esempio il
criterio del periodo che intercorre tra la data di completamento dell' edificio e la
data di prima consegna, oppure del periodo che intercorre tra la data di prima
occupazione e la data della successiva consegna, purchè tali periodi non superino
cinque e due anni rispettivamente. Si considera fabbricato qualsiasi costruzione
incorporata al suolo;
b) la cessione di un terreno edificabile. Si considerano terreni edificabili i
terreni, attrezzati o no , definiti tali dagli Stati membri. 4. L'espressione « in modo
indipendente », di cui al paragrafo 1, esclude dall'imposizione i lavoratori
dipendenti ed altre persone se essi sono vincolati al rispettivo datore di lavoro da
un contratto di lavoro subordinato o da qualsiasi altro rapporto giuridico che
4
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
stessa Direttiva ripetuti e precisati.
Nel successivo art. 10 si specifica, infatti, cosa debba intendersi per
attività indipendente, escludendo tutti i soggetti vincolati da un
rapporto di subordinazione, avendo riguardo alle condizioni di lavoro,
alla retribuzione e al regime di responsabilità connesso al lavoro
svolto.
Diverso è, invece, il modo in cui il legislatore comunitario ha
precisato l’elemento della stabilità, il cui rilievo viene ribadito, a
contrario, prevedendo nell’art. 12 l’opzionalità dell’imposizione sulle
operazioni occasionali.
Da questa seconda caratteristica vengono fatti discendere due
introduca vincoli di subordinazione in relazione alle condizioni di lavoro e di
retribuzione ed alla responsabilità del datore di lavoro. Con riserva della
consultazione di cui all' articolo 29, ogni Stato membro ha la facoltà di
considerare come unico soggetto passivo le persone residenti all' interno del
paese che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da
rapporti finanziari, economici ed organizzativi.
5. Gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gli altri organismi di diritto
pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che
esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività
od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni. Se però tali
enti esercitano attività od operazioni di questo genere , essi devono essere
considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non
assoggettamento
provocherebbe
distorsioni
di
concorrenza
di
una
certa
importanza. In ogni caso, gli enti succitati sono sempre considerati come soggetti
passivi per quanto riguarda le attività elencate nell' allegato D quando esse non
sono trascurabili. Gli Stati membri possono considerate come attività della
pubblica amministrazione le attività dei suddetti enti le quali siano esenti a norma
degli articoli 13 o 28”
Non sono molte le differenze rispetto al testo della Direttiva attualmente
vigente. La rifusione operata ha avuto principalmente lo scopo di riordinare le
norme Iva suddivise nei diversi testi via via emanati. L’effetto più evidente è stato
dunque quello della rinumerazione degli articoli. Per quanto qui ci interessa, si
nota come dal lunghissimo articolo appena ricordato siano derivate cinque diverse
norme (artt. dal n. 9 al n. 13) di contenuto sostanzialmente identico alla disciplina
precedente.
5
Capitolo I
corollari considerati essenziali perché l’attività economica sia tale da
attribuire la soggettività passiva:
- l’abitualità, cui si faceva espresso riferimento solo nella Seconda
Direttiva 6 , ma che sembra essere sottintesa allo stesso carattere di
stabilità;
- la professionalità dell’attività svolta, quale elemento che, in
aggiunta ai precedenti, marchi ancor più le differenze dall’attività
occasionale 7 , o giustifichi l’assoggettamento all’imposta di colui che,
6
Dir. del Consiglio 67/228/CEE, che conteneva l’iniziale disciplina di
armonizzazione, poi sostituita ed abrogata dalla Sesta Direttiva.
7
Il requisito della professionalità ha sempre presentato delle peculiarità.
Come sottolineato, la normativa comunitaria non vi fa alcun riferimento.
Esso è stato dedotto quale corollario dell’abitualità in sede interpretativa,
probabilmente sotto l’influenza delle categorie nazionali, che vedono tale requisito
fra quelli indispensabili per l’esistenza dell’imprenditore. Anche a livello
nazionale, si tratta comunque di un elemento controverso, le cui caratteristiche
sono difficilmente distinguibili dall’abitualità. Con riferimento alla normativa
comunitaria si veda B OU R GE O IS , I soggetti passivi dell’imposta in Lo Stato della
Fiscalità nell’Unione europea, a cura di Di Pietro, 2003, 30, il quale sottolinea
come la necessità del carattere professionale possa desumersi dall’analisi testuale
dell’art.4 della Sesta Direttiva, nel quale il legislatore riferendosi ai soggetti
(produttore, commerciante, prestatore di servizi) e non alle attività, rinvierebbe
implicitamente alla professionalità tipica delle categorie richiamate. Una curiosità
in proposito può emergere dal confronto delle versioni della Direttiva nelle diverse
lingue ufficiali. Il testo dell’art. 4 della Sesta Direttiva si riferiva, in tutte le
lingue esaminate, alla qualifica del soggetto. Nel testo attualmente vigente si
incontrano invece delle differenze tra la versione inglese e francese, che ancora
parlano di producers e producteur, e le versioni italiana e spagnola che sembrano
invece aver abbandonato il riferimento alla “qualifica” del soggetto a favore di
un’indicazione ancor più oggettiva della semplice tipologia dell’attività. Come nel
testo italiano si parla infatti di “attività di produzione, commercializzazione, etc”
così anche nel testo spagnolo si parla di “todas las actividades de fabricación,
comercio o prestación de servicios [..] ”. Una simile variazione non sembra ad ogni
modo possa influire sulla determinazione del carattere professionale dell’attività
svolta, caratteristica che, come già ricordato, può ricollegarsi ad altri elementi
della normativa stessa.
6
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
pur dando vita ad un’unica operazione isolata, rispetti determinati
standard di professionalità tali da distinguerlo da un soggetto privato e
da giustificare l’applicazione dell’imposta, in deroga alla norma
generale.
Fatti salvi questi pochi elementi, il testo della Direttiva conserva un
linguaggio quanto mai generico, carattere sottolineato ancor più dalla
dichiarata indifferenza dello scopo e del risultato dell’attività -cui non
viene richiesto il fine lucrativo, ma il semplice rispetto del criterio di
economicità nonché dal mancato riferimento ad elementi quali la
natura e la forma giuridica o l’organizzazione dell’attività.
Esaminando il contesto in cui queste norme sono state elaborate ed
emanate è possibile individuare due ragioni principali per le scelte del
legislatore comunitario.
Come già si è ricordato, il sistema comune d’imposta sul valore
aggiunto nasce quale ulteriore passo per la creazione del mercato
comune, allo scopo di eliminare quanto più possibile le distorsioni
create dai diversi regimi impositivi degli Stati membri. La creazione di
un sistema neutrale è dunque funzionale alla realizzazione di un
mercato pienamente concorrenziale che veda, da un lato, un pari
trattamento dei soggetti economici indipendentemente dalla nazionalità
e, dall’altro, consenta di ridurre al minimo l’influenza del fattore
fiscale sull’esercizio delle attività economiche, consentendo agli
operatori economici di non restare incisi dall’imposta grazie al
meccanismo della detrazione. 8
Di conseguenza, una volta individuati in questi due aspetti del
principio di neutralità i criteri che ispirano tutto il sistema Iva, è facile
comprendere il perché di un ambito di applicazione soggettiva così
esteso: quanto più varia è la tipologia dei soggetti passivi e quante più
sono le attività economiche soggette al regime uniforme, tanto più si
8
Non si deve dimenticare che, diversamente dal ruolo centrale che viene
attribuito al sistema impositivo negli ordinamenti nazionali, in ambito europeo le
imposte vengono valutate più come elemento potenzialmente distorsivo della
concorrenza e del mercato, la cui influenza deve pertanto essere il più possibile
limitata, che come meccanismo essenziale al finanziamento e alla vita dello Stato.
7
Capitolo I
potranno favorire la neutralità fiscale e l’equo funzionamento del
mercato, coinvolgendo tutti gli operatori e tutte le fasi della
produzione antecedenti all’immissione al consumo dei beni e dei
servizi.
Sulla base di queste considerazioni, si giustifica, allora, la scelta di
adottare nozioni che sono state definite pregiuridiche 9 , più legate alla
realtà del mercato e ai criteri oggettivi del mondo economico che ai
rigidi criteri giuridici propri degli ordinamenti nazionali 1 0 .
L’approccio tipico del legislatore europeo si sostanzia, allora, nella
definizione secondo parametri oggettivi dello stesso profilo soggettivo,
non concentrandosi sugli elementi che caratterizzano il soggetto, quali
lo scopo perseguito o la struttura organizzativa e giuridica, quanto
piuttosto sulle peculiarità che l’attività svolta deve presentare perché il
presupposto impositivo possa dirsi integrato 1 1 , evidenziandosi in tal
modo ancor di più la distanza rispetto ai modelli giuridici degli
ordinamenti nazionali, il cui richiamo avrebbe necessariamente
comportato riferimenti soggettivi, stante la diversità della struttura
stessa di legislazione nazionale e comunitaria.
Ad esso si aggiunga che, come emerge anche dall’esperienza in altri
settori del diritto comunitario, la scelta adottata a livello europeo
risulta essere in qualche modo obbligata, in considerazione del fatto
che non solo è quasi impossibile rinvenire, negli ordinamenti dei
diversi Stati membri, nozioni giuridiche uniformi relative all’impresa
o ad altre forme di esercizio dell’attività economica, ma risulta a dir
9
10
Cfr. C O M E LLI , Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000, 469.
La necessità che l’applicazione dell’imposta sia quanto più vasta ed uniforme
possibile spiega così anche l’atteggiamento di maggiore rigidità e precisione sia
del testo della Direttiva che della giurisprudenza nei confronti delle norme
derogatorie che prevedono, ad esempio, l’esenzione dall’imposta in ragione di
criteri soggettivi, come nel caso dei soggetti pubblici che agiscano nell’ambito
delle proprie funzioni.
11
In questo senso C E N T O R E , Iva europea- aspetti interpretativi ed applicativi
dell’Iva nazionale e comunitaria, Milano, 2006, 152 e C O M E LLI , Iva comunitaria
cit., 469.
8
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
poco complesso anche solo individuarne elementi comuni, che non
siano quelli propri della realtà economica 1 2 .
1.2 Le caratteristiche dell’attività secondo la Corte di Giustizia
Essendo questo il fondamento normativo della disciplina Iva, è stato
inevitabile che l’opera della Corte di Giustizia assumesse un ruolo
fondamentale nella precisazione del contenuto e del significato delle
norme. È amplissima la casistica relativa al profilo soggettivo
dell’imposta sul valore aggiunto, con sentenze che, da un lato,
distinguono quali tipi di attività siano qualificabili come economiche
ai fini dell’imposta e, dall’altro, ne individuano le caratteristiche
principali.
Principio costantemente affermato dalla Corte di Giustizia è quello
dell’ampiezza della nozione di soggetto passivo dell’imposta e di
attività economica, nonché del suo carattere oggettivo in ossequio al
principio di neutralità 1 3 che caratterizza tutto il sistema.
Quanto sancito nella sentenza Commissione/Paesi Bassi 1 4 nel 1987,
12
Si veda in seguito l’esame dell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza
nell’ambito del diritto anti trust, con riguardo alla nozione di impresa comunitaria.
Per un esame comparato della nozione e del regime fiscale applicato all’impresa
nei paesi europei si veda O FFE R M AN N S R., The entrepreneurship concept in a
European comparative tax law perspective, The Hague [etc.], Kluwer law
international, 2002.Per una ricostruzione della disciplina Iva in base alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia si veda TERRA B.- KAJUS J., Vat- an
introduction to europea Vat and other indirect taxes, IBFD, 2006
13
Chiarissime in proposito le parole dell’Avvocato generale Van Gerven nelle
conclusioni del 25 settembre 1990, Causa C- 186/89, Van Tiem, p. 7 “In primo
luogo la Corte ha sottolineato ripetutamente che l'art. 4 della Sesta Direttiva
mirava a determinare una sfera d' applicazione molto ampia per l’IVA. Infatti, il
sistema dell'IVA mira a garantire una neutralità assoluta mediante l’imposizione
quanto più generale possibile di tutte le fasi della produzione, della distribuzione
e della prestazione di servizi; la nozione di "attività economica" deve quindi
venire interpretata in senso ampio, tenuto conto di detto principio di neutralità”
14
CGCE, sentenza 26 marzo 1987, causa C-235/85, Commissione- Paesi Bassi,
9
Capitolo I
uno dei primi precedenti in materia, ovvero che “la nozione di attività
economica è definita all'art. 4, n.2 nel senso che vi sono incluse tutte
le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi,
comprese in particolare quelle inerenti alle professioni liberali o
assimilate. L'analisi di queste definizioni mette in rilievo la vastità
della sfera d'applicazione determinata dalla nozione di attività
economiche, [..], nonché il suo carattere obiettivo, nel senso che
l'attività viene considerata di per sè, indipendentemente dalle sue
finalità o dai suoi risultati”, viene ripetuto costantemente ed arricchito
nel suo significato ogni qual volta la Corte si trovi ad affrontare il
tema della soggettività passiva Iva e, dunque, il contenuto della
nozione di attività economica 1 5 .
Posti in evidenza i caratteri fondamentali di generalità e obiettività 16
p.7-8
15
In questo senso, ex pluribus, CGCE sentenza 14 febbraio 1985, causa 268/83,
Rompelman, punto 19; sent. 15 giugno 1989, causa C- 348/87, SUFA, p. 10; sent. 4
dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem, punto 17; sentenza 12 settembre 2000,
causa C-260/98, Commissione/Grecia, p. 26; sentenza 26 giugno 2003, causa
C-305/01, MGK- Kraftfahrzeuge-Factoring, punto 42; sentenza, 27 novembre 2003,
causa C-497/01, Zita Modes , punto 38; sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite
C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., punto 44; CGCE, 21 febbraio 2006,
causa C-223/03, University of Huddersfield p. 45 ss; CGCE, sent. 26 giugno 2007,
Causa 284/04, T-mobile Austria, p. 33 ss
16
In proposito si vedano, ad esempio, CGCE, sent. 6 aprile 1995, causa C-4/94,
BLP Group, p. 24; sentenza 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of
Huddersfield cit. p. 48 e 49; sentenza 26 giugno 2007, causa C-284/04, T-mobile
Austria cit., p. 35 nonché le conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 7
settembre 2006, causa C- 284/04, cit. il quale precisa che “non rilevano pertanto le
finalità soggettive che il soggetto interessato persegue tramite l’attività; in caso
contrario l’amministrazione tributaria dovrebbe effettuare indagini volte ad
accertare tali finalità, cosa che sarebbe incompatibile con gli obiettivi del sistema
comune dell’IVA. Tale sistema, infatti, mira a garantire la certezza del diritto e ad
agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’IVA dando rilevanza alla
natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi, salvo in casi eccezionali (p. 45)” .
Sulla
necessità
della
certezza
del
diritto
e,
dunque,
dell’obiettività
dell’interpretazione delle nozioni su cui l’imposta si fonda, si sono espresse anche
10
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
della nozione europea, nonché la sua ratio, la Corte si è concentrata
altresì nella precisazione del significato letterale della norma in
conformità a tali caratteristiche.
In primo luogo, la Corte ha inteso chiarire che l’elencazione
contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 4 Sesta Direttiva (ora art. 9) è da
ritenersi meramente esemplificativa delle tipologie di attività che
possono considerarsi implicitamente economiche ai fini dell’imposta
senza che sia necessaria alcuna altra indagine, se non quella relativa
all’abitualità e professionalità del suo esercizio.
Precisato questo elemento della norma, molte sono le pronunce che
si concentrano, invece, sul significato del secondo paragrafo dello
stesso articolo, ovvero sull’esatto senso del termine sfruttamento.
Anch’esso viene posto in relazione con la nozione generale in qualità
di ulteriore specificazione, non di diversa fattispecie 1 7 .
La necessità di un’interpretazione ampia ha, inoltre, portato spesso
la Corte ad utilizzare questo secondo elemento, chiarendo quali attività
specifiche, non qualificabili ai sensi del primo comma della norma,
costituiscano sfruttamento di un bene al fine di trarne introiti
potenzialmente stabili 1 8 .
In particolare, la delimitazione di questo elemento è stato utile al
giudice comunitario per evidenziare la differenza tra utilizzo a fini
economici di un bene e semplice godimento della proprietà dello
le sentenze 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group, punto 24 e 21 febbraio 2006,
causa C-223/03, University of Huddersfield, punto 49.
17
Cfr. sul tema S. C ON FA LO N IE R I , Iva- cessione di partecipazioni, locazione di
beni e nozione di attività economica nella VI Direttiva 77/388/Cee, in Riv. Dir.
Trib., 1997, II, 13
18
Come anche recentemente è stato sostenuto nella sentenza 21 ottobre 2004,
causa C-8/03, BBL, punto 36: “Tale nozione di «sfruttamento» si riferisce,
conformemente ai presupposti che implica il principio della neutralità del sistema
comune dell’IVA, a qualsiasi operazione, indipendentemente dalla sua forma
giuridica”. Fra le altre pronunce si vedano anche le sentenze 4 dicembre 1990,
causa C-186/89, Van Tiem, punto 18; 11 luglio 1996, causa C -306/94, Régie
dauphinoise, punto 15; 29 aprile 2004, causa C-77/01, EDM, punto 48; .
11
Capitolo I
stesso 1 9 . Sono due, infatti, gli elementi fondamentali che vengono posti
in rilievo con la definizione del significato di sfruttamento:
l’indifferenza della forma giuridica e degli scopi dell’attività 2 0 e la
necessità del suo carattere economico 2 1 , perché rilevi nell’ambito
dell’imposta.
Con riferimento a quest’ultima caratteristica, i giudici europei
hanno dichiarato che, ferma restando l’indifferenza della finalità
ultima cui l’attività è diretta, indifferenza che porta ad escludere la
necessità che il fine dell’attività sia principalmente il lucro da essa
ritraibile, in essa deve essere comunque rinvenibile un obiettivo
imprenditoriale o un fine commerciale 2 2 .
Anche in questo caso, secondo il proprio indirizzo tradizionale, la
Corte non ha provveduto a chiarire l’esatto significato di tali
19
L’argomento della differenza tra esercizio del diritto di proprietà e
svolgimento di un’attività economica è stato rilevato in particolare nelle pronunce
relative all’acquisto e alla detenzione di quote societarie –nelle quali è emerso il
principio per cui si considera che l’attività economica rilevante ai fini Iva
sussisterebbe solo laddove vi sia un’interferenza diretta o indiretta sulla gestione
della società partecipata- nonché alla locazione di beni mobili e immobili. In
proposito, si vedano, ad esempio, le sentenze 20 giugno 1991, causa C-60/90,
Polysar Investments Netherlands, punto 13 ss.; 22 giugno 1993, causa C- 333/91,
Sofitam, punto 12; 20 giugno 1996, causa C- 155/94, Wellcome Trust, punto 35; 11
luglio 1996, causa C- 306/94, Régie Dauphinoise, punto 18; 26 settembre 1996,
causa C- 230/94, Enkler, punto 22; 6 febbraio 1997, causa C-80/95, Harnas &
Helm, punto 15; 26 giugno 2003, causa C- 442/01, KapHag, punto 37. In merito si
veda anche A RM E LLA S., La nozione di attività economica ai fini Iva, Dir. Prat.
Trib., 1998, III, 573
20
Come precisato da giurisprudenza e dottrina l’espressione “per ricavarne
introiti” non si riferirebbe infatti allo scopo dell’attività, quanto alla natura delle
operazioni svolte, che devono di per sé essere potenzialmente idonee a produrre
ricavi in modo non occasionale, senza che conti la loro effettiva realizzazione. In
merito si veda S. C ON FA LO N IE R I , op. loc. cit.
21
CGCE, sentenza T-mobile Austria cit., p. 34; 26 maggio 2005, causa
C-465/03, Kretztechnik, punto 18
22
In proposito cfr. sentenze 14 novembre 2000, causa C-142/99, Floridienne e
Berginvest, punti 27 ss; sentenza Régie Dauphinoise cit.
12
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
affermazioni, limitandosi ad enunciarne il principio.
Secondo quanto sottolineato dall’avvocato generale Legèr che, nella
causa EDM 2 3 , ha tentato di definirne il contenuto, l’obiettivo
imprenditoriale implicherebbe “la predisposizione [..] di risorse
umane e logistiche stabili e organizzate, che superino in entità le
risorse proprie di un investitore privato utilizzate per la sola
soddisfazione delle sue esigenze personali”. La seconda nozione,
relativa al fine commerciale, postulerebbe, invece, “la volontà di
garantire la redditività dei suoi capitali, sicché i prestiti devono
essere stipulati a condizioni paragonabili a quelle di mercato, come se
lo fossero stati da parte di un istituto finanziario con i suoi clienti” 2 4 .
Pur se riferite al caso specifico delle attività finanziarie e volte ad
individuarne le ipotesi di imponibilità, queste pronunce evidenziano
caratteristiche importanti della categoria attività economica delineata
dalle norme europee.
L’obiettivo imprenditoriale, collegato alla presenza di una struttura
organizzativa stabile di mezzi e persone, da un lato, potrebbe ad un
primo sguardo apparire come un avvicinamento dell’elaborazione
comunitaria a quelle nazionali in tema di impresa, ponendo l’accento
sull’elemento organizzativo.
Tuttavia, la rilevanza attribuita alla necessità che l'attività poggi su
di una struttura, sia logistica che personale, stabile non sembra far
assumere all’organizzazione, intesa come azienda, un ruolo centrale.
Al contrario, esso appare come un elemento a conferma di una delle
caratteristiche già poste in luce dalla dottrina, ovvero la necessità di
stabilità e di quel tanto di strutture organizzative che caratterizzano le
23
CGCE, causa C-77/01, EDM, nella quale venne chiesto alla Corte di
pronunciarsi sulla sussistenza di soggettività passiva ai fini dell’imposta di una
holding che erogava finanziamenti alle proprie partecipate.
24
Conclusioni del 12 settembre 2002, paragrafi 44 ss. In esse l’Avvocato
Generale coglie l’occasione per ricostruire in termini più o meno generali la
nozione di attività economica ai fini Iva, in particolare attraverso la giurisprudenza
della Corte in tema di soggettività passiva delle holding e di imponibilità delle
attività finanziarie.
13
Capitolo I
attività svolte professionalmente, distinguendole perciò dalle
operazioni meramente occasionali 2 5 .
Sembra corretto ritenere, dunque, che l’obiettivo imprenditoriale,
così come emerge dalla giurisprudenza comunitaria, si riferisca ad un
requisito strutturale minimo, tale da distinguere l’attività rivolta al
mercato da quella di mero godimento o, in ogni caso, finalizzata alla
semplice realizzazione di un'utilità per lo stesso operatore economico.
In questo senso, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia e dalla sua propensione ad estendere la nozione di attività
25
Nello stesso senso si veda anche Causa C-8/03, conclusioni dell’Avvocato
Generale Poiares Maduro del 18 maggio 2004, punti 9 ss: “ Secondo la Corte, in
effetti, l’assoggettamento all’IVA presuppone un’attività svolta nell’ambito di un
obiettivo imprenditoriale o ad un fine commerciale, contraddistinto in particolare
dall’intento di garantire la redditività dei capitali investiti. In base alla
giurisprudenza indicata, per attività economica deve dunque intendersi un’attività
che può essere esercitata da un’impresa privata in un mercato, organizzata in
modo professionale e generalmente caratterizzata dall’intento di generare profitti.
Va evidenziato come tale nozione presenti una particolarità, se la si confronta con
la definizione che ne è stata data in altri settori, come quello del diritto della
concorrenza, in cui essa ha anche la funzione di definire il campo di applicazione
del diritto comunitario. In ambito fiscale, la nozione è individuata attraverso un
doppio criterio: non solo un criterio funzionale relativo all’attività, ma anche e
soprattutto
un
criterio
strutturale,
relativo
all’organizzazione.
Una
tale
definizione è conforme all’obiettivo perseguito da parte del sistema comune
dell’IVA, che è quello di trattare in maniera uguale, ai fini dell’imposta, l’insieme
dei soggetti attivi stabiliti nel territorio della Comunità”. In questo caso
l’Avvocato Generale sembra forse sottolineare troppo il requisito organizzativo,
che presenta come tipico della nozione tributaria se posto a confronto con la
nozione di attività economica che emerge in seno al diritto della concorrenza. Tale
affermazione non sembra potersi condividere. Come si vedrà in seguito, la
presenza di una struttura organizzata viene considerato nell’ambito di quella
disciplina elemento necessario per l’esistenza dell’impresa, soggetto destinatario
delle norme sulla concorrenza. Tuttavia, l’interpretazione estensiva della nozione
di impresa, sino a coinvolgere anche le persone fisiche, porta ad escludere una
rilevanza
determinante
del
requisito
organizzativo
dell’ordinamento.
14
anche
in
quel
settore
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
economica in via interpretativa, sia svalutando il profilo strettamente
giuridico sia valorizzando il concetto di sfruttamento contenuto nelle
norme della Direttiva, si deve ricordare che la nozione di attività
economica valida ai fini dell’imposta sul valore aggiunto si riferisce
alle iniziative economiche in senso generale senza che vengano
definite distinzioni in ragione della tipologia o della natura giuridica
delle attività e degli operatori coinvolti, proprio perché la nozione di
attività accolta e, quindi, l'imposta stessa, si pongono come funzionali
agli obiettivi economici che il legislatore comunitario si prefigge
attraverso l'affermazione della neutralità del sistema.
Per questo motivo, non sembrerebbe corretto sostenere che il
requisito organizzativo, inteso quale creazione di una struttura
organizzata di fattori produttivi strumentale all’esercizio dell’attività e
prevalente rispetto all’apporto del soggetto, assuma una rilevanza
determinante, poiché questo implicherebbe l’esclusione di attività
caratterizzate dall’apporto del lavoro personale del soggetto più che
dalla creazione e dall’utilizzazione di una organizzazione che ecceda il
minimo necessario a supportare l’opera personale.
Data l’ampiezza dell’accezione di attività accolta nell'ambito
dell'imposta -vincolata al collegamento con il mercato ed estesa, per
questo motivo, anche oltre i propri limiti tradizionalmente dettati dal
principio di effettività e dall'esercizio 2 6 - e la sua sostanziale
omogeneità a fronte delle molteplici esperienze concrete che essa può
racchiudere, è infatti evidente come non sia possibile negare la
rilevanza ai fini dell’imposta, di quelle attività che, svolte in modo
abituale, professionale e rivolte al mercato, siano tuttavia prive di quel
requisito organizzativo che nel contesto nazionale distingue l’impresa
dalle altre forme di iniziativa economica ad essa non riconducibili.
Il secondo requisito posto in luce dalla Corte, il fine commerciale,
26
Motivo per cui, come si vedrà in seguito, i confini temporali dell'attività ai
fini Iva appaiono dilatati rispetto alle nozioni tradizionali ed includono, sia
all'avvio che nella fase terminale, fasi prive di esercizio tipico, ma tuttavia ancora
collegate con l'attività e capaci di influire sull'equilibrio e la neutralità del
sistema.
15
Capitolo I
esprime, forse con maggiore forza, il principio in base al quale
possono considerarsi attività imponibili quelle che siano dirette al
mercato, ne rispettino le regole di funzionamento e abbiano ad oggetto,
dunque, beni o servizi che siano rivolti a terzi e siano oggetto di
rapporti giuridici tra l’operatore economico-soggetto passivo e
soggetti terzi 2 7 .
Dalle osservazioni svolte appare chiaro come tali caratteristiche
vadano interpretate in senso lato, proprio in virtù dell’ampiezza della
nozione di attività economica, che non include solo attività
tipicamente d’impresa.
Anche il fine commerciale deve quindi rappresentare, in termini
generali, l’economicità e la direzione al mercato dell’attività, ossia la
necessità che beni e servizi non siano prodotti solo per se stessi, senza
che di tale requisito sia data un’interpretazione limitata a ciò che
generalmente si intende per fine commerciale e, quindi, propriamente
imprenditoriale, ma ricomprendendo all’interno della nozione
comunitaria tutte le attività che pur non essendo classificabili come
impresa secondo le diverse discipline nazionali mostrino un carattere
economico.
Precisate le caratteristiche che rendono rilevante in ambito Iva
27
Questo principio è stato costantemente affermato dalla Corte in particolar
modo nei casi in cui si è discusso della natura dell’Iva quale imposta sul consumo
e della necessaria onerosità delle operazioni imponibili. Il giudice comunitario ha
infatti affermato la necessità che esista un rapporto con un terzo, consumatore, che
possa trarre una qualche utilità dall’operazione imponibile. È la stessa struttura
dell’imposta a richiedere un simile requisito, in quanto prevede che sia solo il
consumatore finale a restare inciso dall’imposta, mentre prevede la pressoché
completa neutralità nei confronti dei soggetti passivi, quanto meno quando
agiscano in quanto tali. In proposito, cfr. CGCE, sent. 29 febbraio 1996, causa
C-215/94, Mohr, commentata da A. C OM E LLI , L’Iva quale imposta sul consumo, in
Riv. Dir. Trib., 1996, II, p. 1136 ss., il quale sottolinea che “è necessario che un
operatore economico fornisca beni e servizi per il consumo da parte di clienti
identificabili in cambio di un prezzo corrisposto da questi o da terzi” (p. 1143) . In
merito si veda anche C O R D E IR O G U E R R A R., L’Iva quale imposta sui consumi: riflessi
applicativi secondo la Corte di Giustizia, Rass. Trib., 2000, 322
16
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
un’attività di sfruttamento, la giurisprudenza ha posto l’accento sugli
effetti della natura del bene che ne è oggetto.
Nel cercare di chiarire quale attività possa considerarsi economica
nel senso richiesto dal sistema dell’imposta, i giudici europei hanno,
infatti, specificato che un’analisi più specifica dovrà essere condotta
solo nei casi in cui il bene oggetto dell’attività si presti ad un utilizzo
promiscuo o sia ad esso stato destinato. Nel caso in cui, al contrario, si
tratti di un bene che, per sua stessa natura, possa essere utilizzato solo
a scopi economici, la sussistenza dell’attività economica e, dunque, del
soggetto passivo dovrebbe considerarsi implicita, senza la necessità di
ulteriori accertamenti 2 8 .
Si tratta, ad ogni modo, di accertamenti di fatto che la Corte
demanda di volta in volta al giudice nazionale, anche in questo caso,
senza riferirsi a categorie astrattamente identificate, quale potrebbe
essere quella dei c.d. beni strumentali per natura comune agli
28
Molto chiari in proposito i principi affermati dalla Corte con la sentenza
Enkler cit. dove si legge (p. 26 ss.) “ [..] la Corte ha dichiarato che fra i dati in
base ai quali le autorità tributarie devono stabilire se un soggetto passivo abbia
acquistato beni per le esigenze delle sue attività economiche figura la natura dei
beni considerati. Tale criterio deve anche consentire di accertare se un privato
abbia utilizzato un bene in modo tale da far qualificare "attività economica" ai
sensi della Sesta Direttiva la sua attività. Il fatto che un bene si presti ad uno
sfruttamento esclusivamente economico basta, di regola, per far ammettere che il
proprietario lo utilizza per esercitare attività economiche e, quindi, per realizzare
introiti aventi un certo carattere di stabilità. Per contro, se, per sua natura, un
bene può essere usato sia per scopi economici sia a fini privati, occorre esaminare
l' insieme delle circostanze del suo sfruttamento per stabilire se esso sia utilizzato
per ricavarne introiti aventi effettivamente un certo carattere di stabilità. In
quest’ultimo caso il raffronto fra le circostanze nelle quali l'interessato sfrutta
effettivamente il bene e quelle in cui viene di solito esercitata l'attività economica
corrispondente può costituire uno dei metodi che consentono di verificare se
l'attività considerata sia svolta al fine di realizzare introiti aventi un certo
carattere di stabilità.” Nello stesso senso si vedano anche sentenza 11 luglio 1991,
causa C-97/90, Lennartz e le conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa
T-mobile Austria cit., punto 68.
17
Capitolo I
ordinamenti nazionali, ma individuando e qualificando i beni secondo
l'interpretazione funzionale propria della giurisprudenza comunitaria. 2 9
La Corte anche in questo si dimostra coerente con la propria
impostazione tradizionale, restia ad accogliere categorie giuridiche
predefinite; certo è che, trattandosi di verifiche affidate al giudice
nazionale queste stesse categorie troveranno giustamente diretta
interpretazione per opera di questo, non sussistendo elementi che
impongano di giudicare in modo differente, se non nei casi di palese
incompatibilità con le indicazioni provenienti dalla norme europee.
A ben vedere, comunque, la natura dei beni e la loro destinazione
allo sfruttamento economico è solo uno dei criteri, unitamente al
vaglio delle modalità di esercizio e delle caratteristiche stesse
dell’attività come descritte dalla Corte, utilizzabili per la
qualificazione dell’attività. Criterio che la giurisprudenza giudica
risolutivo nel caso di beni passibili unicamente di sfruttamento
economico, ma che, al contrario, risulta non determinante in tutti gli
altri casi, in cui prevarranno altri aspetti, prime fra tutti le modalità di
svolgimento dell’attività.
Infine, come ulteriore importante rilievo fatto dalla giurisprudenza,
deve segnalarsi l’interpretazione del requisito dell’indipendenza,
sancito dall’art. 4, pp. 1 e 4 della Sesta Direttiva 3 0 .
Tre sono gli elementi fondamentali che la Corte indica per la
qualificazione di un’attività come autonoma: l’organizzazione, le
modalità di retribuzione e la presenza di rischio economico e, infine,
29
Anche questo rilievo appare importante, perché si pone coerentemente in
linea con l’indirizzo oggettivo e casistico che contraddistingue la giurisprudenza
comunitaria e sottolinea, anche in questo caso, la distanza del giudice europeo
dalle categorie giuridiche elaborate a livello nazionale. Si deve però chiarire che si
tratta di una distanza concettuale, di un principio affermato dalla giurisprudenza a
garanzia di una propria libertà di giudizio che possa garantire l’adattamento delle
norme
al
caso
concreto,
nella
sostanza,
però,
molti
dei
rilievi
e
delle
considerazioni della Corte coincidono con il contenuto delle suddette categorie.
30
Ora art. 9, 10 e 11 della Dir. 2006/112/CE
18
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
la responsabilità connessa all’esercizio dell’attività 3 1 .
Si è dunque precisato che, prevedendo le norme l’assenza di un
qualsiasi vincolo di subordinazione, dovrà in primo luogo valutarsi se
l’attività sia autonomamente organizzata o se, al contrario, il soggetto
sia inserito nella struttura da altri predisposta. Come sottolineato
dall’Avvocato Generale Tesauro 3 2 è evidente infatti che “la possibilità
di autorganizzarsi (scelta dei propri collaboratori, delle strutture
necessarie per l'espletamento dei propri compiti e degli orari di
lavoro), unitamente all'assenza di un inserimento organico in
un'impresa o amministrazione, sono elementi tipici di un'attività
svolta in regime di autonomia”.
A tal fine dovrà verificarsi anche il profilo di eventuali poteri di
controllo e direzione, a nulla rilevando, però, l’esistenza di specifiche
norme o previsioni legislative che regolino le modalità di svolgimento
di un’attività, né una dipendenza funzionale da un altro soggetto 3 3 che
abbia il potere di impartire direttive o svolgere una qualche funzione
disciplinare.
Oltre a chiarire uno degli elementi costitutivi della nozione di
indipendenza, tali affermazioni sembrano fornire la chiave di
interpretazione dell’obiettivo imprenditoriale di cui prima si è
discusso, enunciando un criterio di organizzazione autonoma (riferita
ad orari e luogo di lavoro, potere direttivo, più che ad elementi
31
Cfr. CGCE, sentenza Commissione/Paesi Bassi cit.,p. 14
32
Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla, conclusioni dell’Avvocato Generale
Tesauro del 4 giugno 1991, par. 5 e 6
33
CGCE, sentenza 25 luglio 1991, Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla, punti
9 ss. In questo caso la Corte venne chiamata a stabilire se l’attività svolta dagli
esattori delle imposte per conto del comune di Siviglia potesse considerarsi svolta
in modo indipendente. I giudici comunitari, richiamandosi alla giurisprudenza
precedente, ed in particolare a quanto stabilito nella più volte citata sentenza
Commissione/Paesi Bassi, hanno ribadito che in presenza di un’autonoma
organizzazione, non tanto strutturale, quanto dei tempi e dei modi di svolgimento
dell’attività, il fatto che esistano specifici regolamenti o una dipendenza
funzionale da un altro ente non è sufficiente ad escludere il carattere autonomo
dell’attività e, di conseguenza, la soggettività passiva Iva di chi la svolge.
19
Capitolo I
materiali) sufficientemente ampio da includere anche le attività
professionali o, comunque, non organizzate ad impresa. Tale criterio
potrebbe forse indicare una nozione generale di organizzazione ai fini
Iva valida nell’ordinamento comunitario, come si vedrà, ben distinta
dalle nozioni rinvenibili a livello nazionale, soprattutto in seno alla
dottrina.
Quanto al secondo criterio di valutazione, la commisurazione dei
compensi alle singole prestazioni svolte e, quindi, il carattere aleatorio
degli stessi vengono considerati indiscutibili indizi della natura
autonoma del rapporto di lavoro. Ad esso deve aggiungersi che, a
differenza delle ipotesi di lavoro subordinato, l’incertezza circa la
retribuzione delle prestazioni fornite fa sì che il rischio economico
connesso all’attività gravi direttamente sull’operatore considerato 3 4 ,
elemento questo che depone senza dubbio a favore di una
qualificazione in termini di autonomia.
Ciò che da ultimo la Corte pone in evidenza è la necessità che, così
come il rischio economico, anche la responsabilità connessa allo
svolgimento dell’attività ricada direttamente sull’operatore e non su
altri soggetti. Ciò significa che ogni qual volta il soggetto considerato
possa essere chiamato a rispondere del proprio operato, sia nei
confronti del cliente sia nei confronti di un altro soggetto cui sia
legato da un rapporto contrattuale e per conto del quale fornisce
determinati servizi o svolge determinate operazioni 3 5 , l’attività dovrà
considerarsi indipendente, stante il fatto che, in caso di lavoro
subordinato, tutta la responsabilità ricade sul datore di lavoro e non sul
dipendente.
Il criterio dell’indipendenza merita un’ulteriore precisazione: come
posto in evidenza nelle conclusioni presentate nel caso Heerma 3 6 , la
normativa comunitaria porta alla luce due diversi tipi di indipendenza,
una giuridica ed una economica.
La prima, definita a contrario dall’attuale art. 10, è quella che
34
Cfr. conclusioni del avvocato generale Tesauro cit.
35
Causa 202/90, Ayuntamiento de Sevilla cit. p. 14-15
36
Causa C-23/98, Heerma, conclusioni dell’A.G. Cosmas del 20 Maggio 1999
20
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
sinora abbiamo descritto relativa alla sussistenza o meno di un vincolo
di subordinazione in funzione di un rapporto giuridico fra due soggetti.
La seconda, invece, viene fatta discendere dalle disposizioni dell’art.
11 (ex art. 4, 4 c. 2) nel quale si prevede che, previa autorizzazione da
parte del Comitato Iva, gli Stati membri possano considerare come un
unico soggetto passivo le persone stabilite nel territorio dello stesso
Stato membro che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente
vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi.
Unitamente, dunque, alla valutazione del rischio economico e del
regime di attribuzione della responsabilità, nella valutazione
dell’indipendenza dell’agente si dovrà tenere conto anche della sua
autonomia economica, ossia dell’eventuale presenza di legami
finanziari o strategici con altri soggetti.
Come accade nel campo del diritto della concorrenza 3 7 , si stabilisce
dunque che, qualora due soggetti giuridicamente indipendenti
presentino legami tali da apparire nella sostanza come un soggetto
unico e, soprattutto, così operino sul mercato, vada negato il requisito
dell’indipendenza e, superato l’argomento formale della diversa
soggettività giuridica, li si consideri quale unico soggetto passivo,
attribuendo dunque anche una diversa valutazione alle operazioni che
essi possano porre in essere fra loro. Ovviamente, tale criterio dovrà
operare anche in senso contrario, riconoscendo l’autonomia e, se del
caso, la soggettività passiva a quei soggetti che giuridicamente
indipendenti, risultino anche economicamente tali, pur se in qualche
modo vincolati l’uno all’altro.
La centralità del mercato e dei riflessi dell’attività economica su
questo fanno sì, dunque, che le norme comunitarie guardino con
particolare attenzione non tanto alla struttura materiale del soggetto
passivo, quanto, come in questo caso, alla sua organizzazione
37
Ci si riferisce al principio dell’unità economica. In questo caso è la stessa
Direttiva che sancisce il riferimento alla situazione di fatto, pur se in contrasto con
il dato giuridico dell’indipendenza formale dei soggetti; nel campo della
concorrenza
si
applica
lo
stesso
criterio,
giurisprudenziale.
21
definito
però
dall’elaborazione
Capitolo I
giuridico-finanziaria che, manifestandosi attraverso forme di
collegamento e controllo fra soggetti apparentemente autonomi, è in
grado di influire sull’andamento del mercato alterandone le condizioni
di funzionamento.
Come risulta, infatti, dalla ricostruzione sin qui condotta,
fondamentale nell'individuazione e, di conseguenza, per l'esistenza di
un'attività rilevante ai fini dell'imposta risulta essere il suo
collegamento e, in generale, la sua proiezione verso il mercato,
caratteristica che rende necessaria l'applicazione del sistema
impositivo armonizzato e la tutela della sua neutralità, al fine di
garantire una più ampia tutela del mercato stesso.
Come si è visto, questo giustifica l'ampiezza della ricostruzione
giurisprudenziale e la creazione di un modello in parte distante da
quelli tradizionali.
Posta, dunque, la rilevanza fondamentale dell'economicità intesa sia
quale metodo di esercizio dell'attività che, e soprattutto, quale
direzione al mercato dell'attività, la creazione di un modello ad esso
funzionale comporta modifiche, apprezzabili dal confronto con le
nozioni nazionali, anche nella ricostruzione degli altri requisiti
dell'attività, come accade, ad esempio, con l'organizzazione.
Lontana dal ruolo spesso determinante attribuitole con riferimento
alla nozione nazionale di impresa ed intesa in termini piuttosto
generici, aperti ad un'interpretazione senza dubbio ampia, essa, come
si è visto, viene richiamata nella giurisprudenza non tanto in termini
materiali, quanto piuttosto in termini funzionali al mercato, inclusa
nella nozione di obiettivo imprenditoriale, che non richiede la
predisposizione di una struttura prevalente rispetto al lavoro diretto
dell'operatore economico, ma la semplice presenza di una struttura
anche minima che dimostri la stabilità dell'attività, più che le sue
dimensioni e potenzialità produttive.
Come si vedrà successivamente nella ricostruzione della nozione di
attività in una prospettiva dinamica, è attraverso il collegamento con il
mercato e gli elementi che con esso si pongono maggiormente in
relazione, funzionali alla realizzazione al principio di neutralità
22
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
dell'imposta, che la stessa giurisprudenza finisce per estendere la
durata dell'attività, anticipandone l'inizio e posticipandone la
conclusione, anche in assenza di un esercizio effettivo che sia in grado
di integrare pienamente le caratteristiche sin qui individuate.
1.3 Attività economica ed impresa nel diritto antitrust: una
nozione generalmente valida per l’ordinamento comunitario?
Ad ulteriore dimostrazione delle caratteristiche della nozione di
attività economica sinora delineate ed allo scopo di ricercare elementi
utili a rendere tale quadro più completo, giova senza dubbio esaminare
come l’ordinamento comunitario si riferisca ad essa anche nell’ambito
di altri settori.
A tal fine, esperienza di grande valore è quella maturata in seno alla
disciplina della concorrenza, settore primario dell’ordinamento
comunitario direttamente rivolto alla regolamentazione degli operatori
economici e del mercato.
Nonostante, infatti, le norme dettate dal diritto comunitario siano
tipicamente settoriali e, di conseguenza, poco inclini ad essere
ricondotte a categorie generali valide per l’intero ordinamento, tra il
settore della concorrenza e quello impositivo è possibile riscontrare
notevoli somiglianze, dovute principalmente all’affinità fra gli scopi
che le norme dettate nei due ambiti si propongono.
Si è ricordato analizzando il presupposto Iva come la disciplina
dell’imposta sia volta a favorire la creazione del mercato unico
europeo, garantendo l’uniformità nel trattamento fiscale degli
operatori, proprio al fine di garantire il corretto funzionamento del
mercato che, nell’impostazione comunitaria, mira ad essere pienamente
concorrenziale.
Ciò implica che, pur nella particolarità delle due discipline e nelle
differenze che essa porta con sè, legate principalmente alla
considerazione che le norme sul regime di concorrenza, a differenza
della Direttiva Iva, dettano una disciplina sostanziale di controllo degli
operatori e di tutela del corretto funzionamento del mercato che ha su
23
Capitolo I
questo un effetto diretto, è possibile individuare elementi comuni che
interessano sia la nozione di attività economica e le sue caratteristiche
sia l’estensione dell’ambito di applicazione delle norme considerate,
proprio perché, ognuna nell’ambito che le è proprio, ciascuna delle
discipline considerate è funzionale alla realizzazione di uno scopo
comune.
L’analisi della disciplina della concorrenza è utile anche sotto un
diverso profilo. Essa infatti rappresenta un’ulteriore conferma della
tecnica normativa utilizzata dal legislatore comunitario, costituita da
una scarsa attenzione al dato strettamente giuridico -collocato su un
piano differente dalla sostanza economica e spesso considerato come
un ostacolo da superare e sacrificato alle ragioni del mercato- una
quasi
esclusiva
rilevanza
del
fenomeno
economico
e,
conseguentemente, da un utilizzo dei termini con significati a volte
molto diversi da quelli cui corrispondono sul piano nazionale,
alimentando le difficoltà di trasposizione e coordinamento cui già si è
fatto riferimento.
Nella legislazione in materia di concorrenza non è possibile rilevare
un riferimento all’attività economica genericamente intesa, ma al
contrario è posta in evidenza una nozione di impresa, la cui
formulazione presenta indubitabili analogie con il tema sinora
esaminato.
Anche l’individuazione di una categoria di impresa “comunitaria”
appare compito arduo: come avviene per l’attività economica in ambito
Iva, anche in materia di concorrenza il legislatore fa espresso
riferimento all’impresa 3 8 quale soggetto destinatario della disciplina,
senza però fornire una definizione che ne delinei i tratti salienti.
L’assenza dell’esatto contenuto del concetto “impresa” dipende, da
un lato, dall’eterogeneità che i diversi ordinamenti europei presentano,
ragione per cui individuare una nozione unitaria non sarebbe stato
38
Cfr. artt. da 81 a 86 TCE e Regolamento n. 139/2004 sul sistema di controllo
delle concentrazioni tra imprese.
24
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
assolutamente agevole e, dall’altro, dal diverso ruolo che tale istituto
svolge a livello nazionale e a livello comunitario. Ciò perchè, mentre
la definizione nazionale è funzionale all’individuazione e alla
qualificazione del soggetto imprenditore cui si rendono in tal modo
applicabili particolari norme in ogni settore dell’ordinamento – in
Italia, il c.d. statuto dell’imprenditore- a livello comunitario il
concetto di impresa rileva principalmente nella prospettiva funzionale
della disciplina degli effetti che il suo esercizio produce all’interno del
mercato comune 3 9 , costituendo essa stessa il soggetto cui le norme si
riferiscono.
La difficoltà ad individuare una nozione unitaria è stata giustificata
anche dalla frammentarietà della disciplina rivolta all’impresa –
differente a seconda del Trattato o della fonte secondaria cui si fa
riferimento- e dal conseguente affermarsi dell’interpretazione c.d.
funzionale volta all’estensione dell’ambito di applicazione della
disciplina e diversa, quindi, a seconda del settore interessato e degli
obiettivi che la singola disciplina si prefigge all’interno
dell’ordinamento 4 0 .
39
In questo senso M. V E N E ZIA , La nozione comunitaria di impresa, in Lezioni di
diritto commerciale comunitario a cura di M. Cassottana- A. Nuzzo, Torino, 2006,
269. Per un esame della nozione d’impresa nel diritto comunitario si vedano anche
A N TO N U C C I , La nozione d’impresa nella giurisprudenza comunitaria ed italiana,
Cons. Stato, 2003, II, 569 ss; B AE L - B E LLIS , Competition law of the European
Community, The Hague, 2004, 29 ss; C OR AP I - D E D O NN O , L’impresa in Il diritto
privato dell’Unione Europea a cura di
B E SS O N E ,
T IZ ZA N O ,
Trattato di diritto privato a cura di
vol. XXVI, t. II, Torino, 2006, 1202 ss; D I V IA , L’impresa, Trattato di
diritto privato europeo a cura di Lipari, Padova, 2003, 54 ss.; F R IGN AN I - P AR D O LE S I ,
Le fonti del diritto della concorrenza nella CE, in La Concorrenza, Trattato di
diritto privato dell’Unione Europea a cura di Ajani - Benacchio, VII, Torino, 2006,
7 ss.; A. S P AD AFO R A , La nozione di impresa nel diritto comunitario, in Giust. civ.,
1990, II, 283
40
Opinione questa largamente condivisa dalla dottrina. Si vedano, ad esempio,
D I V IA , L’impresa cit., 56; C O R AP I - D E D ON NO , L’impresa cit., 1209. Quanto
affermato in tal senso non si ritiene però del tutto condivisibile. Come si vedrà
successivamente, grazie anche all’opera interpretativa della giustizia comunitaria,
25
Capitolo I
La mancanza di un’espressa definizione è stata colmata dall’opera
interpretativa di Commissione, Tribunale di Primo Grado e Corte di
Giustizia, che hanno nel tempo elaborato la nozione comunitaria di
impresa allo scopo garantire il raggiungimento degli obiettivi
europei 4 1 .
La definizione fornita dalla Corte individua l’impresa nella “attività
di natura economica, produttiva di beni o di servizi (che non abbia
carattere esclusivamente sociale) tale da poter ridurre, anche solo
è possibile individuare una nozione di attività economica e di impresa comunitaria
che presenta caratteri comuni, indipendentemente dal settore cui le norme
appartengono. Tale considerazione sembra inoltre emergere dal fatto che, come
viene riconosciuto dalla stessa dottrina, la disciplina dell’impresa viene costruita
sul dato economico costituito dalla presenza di un’attività che possa incidere sugli
equilibri del mercato. Dato questo elemento indispensabile attorno a cui ruota tutta
la disciplina comunitaria e che, inevitabilmente, fornisce un modello tipico, ciò
che muta in dipendenza del settore di volta in volta considerato è il dato concreto,
il soggetto di riferimento individuato in sede di interpretazione ed applicazione
delle norme, non la nozione stessa, intesa quale categoria generale. Si intende dire
che la diversità del soggetto interessato in sede di applicazione non è in grado di
influire sulla definizione generale, proprio perché questa è volutamente poco
precisa per consentirne l’applicazione più ampia possibile e, di conseguenza, il
coinvolgimento di fenomeni tra loro anche molto differenti.
41
Nel vigilare l'applicazione delle regole di concorrenza in materia di accordi,
di associazioni di imprese e pratiche concordate (articolo 81) e di abusi di
posizione
dominante
(articolo
82)
che
possano
imporre
restrizioni
alla
concorrenza, la Commissione è dotata di diversi poteri, tra cui fondamentale è
quello
di
adottare
decisioni,
svolgere
indagini
ed
irrogare
sanzioni.
La
Commissione esercita tali poteri quando, agendo d'ufficio o in seguito a denuncia,
accerta caso per caso la violazione degli articoli 81 e 82 del Trattato. Attualmente,
l’applicazione delle regole di concorrenza stabilite dal Trattato è disciplinata dal
Reg. 1/2003, adottato dal Consiglio il 16 dicembre 2002, che ha sostituito il
Regolamento CEE n. 17/62, con decorrenza dal 1° maggio 2004, istituendo un
sistema decentrato di controllo sulla concorrenza che coinvolge anche le autorità
nazionali, evitando così di sovraccaricare e, di fatto, bloccare l’attività della
Commissione, cui non è più obbligatorio notificare preventivamente accordi e
intese fra imprese. In ultima istanza, i provvedimenti adottati dalla Commissione
26
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
potenzialmente, la concorrenza sul mercato ed il cui esercizio è
rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario della
concorrenza, indipendentemente dalla natura pubblica, privata,
individuale o collettiva del soggetto che vi è preposto”. 4 2
Il raggiungimento di questa definizione è passato attraverso una
prima interpretazione, più ampia, che riteneva impresa soggetta alla
disciplina sulla concorrenza ogni entità che esercitasse un’attività
economica a prescindere dallo status giuridico, dalle modalità di
finanziamento e dal fine lucrativo perseguito 4 3 .
Questa nozione è stata con il tempo delimitata escludendo tutti quei
soggetti nei quali prevalga la finalità di pubblico interesse e del
perseguimento di una funzione esclusivamente sociale. 4 4
Due gli elementi costitutivi dell’impresa: l’entità che la esercita e
l’attività economica da esso svolta.
Anche in questo caso, l’approccio funzionale alla disciplina del
sono impugnabili di fronte alla Corte di Giustizia.
42
M. V E N E Z IA , op. loc. cit..
43
Cfr. CGCE sent. 23 aprile 1991, causa C- 41/90, Hoefner- Elser/ Macroton p.
21; sent. 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany, p. 77 ss.
44
In particolare, a partire dagli anni ’60 i giudici comunitari hanno posto in
evidenza quale dato fondamentale dell’impresa l’accertamento dell’effettivo
svolgimento di un’attività economica tale da poter influire sul mercato, a
prescindere dal tipo di soggetto cui essa possa essere ricondotta. Fra le pronunce
più rilevanti in materia cfr. CGCE, sentenza 17 febbraio 1993, cause riunite C-159
e 160/91, Poucet e Pistre, p. 17 ss, nella quale la Corte pone in evidenza come il
carattere strettamente solidaristico e sociale dell’attività svolta da un fondo
pensionistico obbligatorio, in cui, soprattutto, l’ammontare delle prestazioni
erogate era indipendente dalle somme versate a titolo di contributo, porta ad
escluderlo dall’ambito di applicazione delle norme sulla concorrenza, in quanto
non configura un’impresa ai sensi del diritto comunitario. Il tema dei fondi
previdenziali è spesso affrontato dalla Corte in materia di concorrenza, soprattutto
sotto il profilo della qualificabilità come impresa di tali attività. Altro precedente
di grande rilevanza che definisce le caratteristiche necessarie a tal fine è CGCE,
sent. 16 novembre 1995, causa C- 244/94, Federation francaise des societes
d'assurance . Per la ricostruzione dell’evoluzione di questa giurisprudenza cfr. M.
V E N E Z IA , op. loc. cit..
27
Capitolo I
mercato porta a sottovalutare il profilo soggettivo in favore
dell’elemento oggettivo costituito dal tipo di attività svolta 4 5 . La
nozione di entità viene quindi delineata in modo molto ampio, quale
“organizzazione di elementi personali, materiali e immateriali” 4 6 , a
prescindere dalla forma giuridica che essa assuma, fino a
ricomprendere, dunque, anche le persone fisiche 4 7 . Requisito
indispensabile è che tale soggetto agisca sul mercato rilevante in modo
autonomo, senza vincoli di subordinazione 4 8 o equivalenti.
45
Cfr. A. P AP P ALAR D O , Il diritto comunitario della concorrenza, Torino, 2007,
54 ss.
46
Cfr. Decisione della Commissione, 18 giugno 1969, 69/195/CEE, Christiani
& Nielsen
47
Chiarissime in proposito le parole dell’Avvocato Generale Jacobs nelle
conclusioni delle cause riunite da C-180/98 a 184/98, Pavlov, p. 107: “la nozione
di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un'attività economica, a
prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di
finanziamento. Dal momento che secondo tale approccio funzionalistico lo status
giuridico è irrilevante, anche le persone fisiche possono essere qualificate come
imprese. L'idea alla base è che non si deve trarre nessun vantaggio dalla forma
giuridica
con
la quale viene esercitata
un'attività economica.
Un'attività
economica consiste nell'offrire beni e servizi in un dato mercato.” Per un esame
della giurisprudenza circa l’applicabilità della disciplina della concorrenza si veda
B AS T IA N O N ,D U e pronunce, tanti problemi, nessuna soluzione: ovvero, gli avvocati e
l’antitrust secondo la Corte di giustizia, Foro it., IV, 1, 188.
48
L’importanza del requisito è sottolineato anche da quella giurisprudenza che
ha elaborato la nozione di unità economica, sulla base della quale non è applicabile
la disciplina sulla concorrenza ai rapporti tra società madre e figlia, in quanto si
tratta di soggetti che non agiscono indipendentemente, ma si pongono sul mercato
come un unico soggetto, pur avendo identità giuridicamente distinte. In proposito
fra le prime affermazioni in tal senso, si legge nella dec. Christiani e Nielsen cit.:
“[..] considerando, peraltro, che l'applicabilità dell'articolo 85, paragrafo 1, del
trattato presuppone che fra le imprese in causa sussista una concorrenza che può
venire ristretta; che questa condizione non è necessariamente soddisfatta, nei
rapporti fra due imprese che svolgono la loro attività nel medesimo settore, dalla
semplice constatazione della personalità giuridica di ciascuna di dette imprese;
che al riguardo è determinante sapere, in base agli elementi di fatto, se sia
28
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Per lo stesso motivo è stata elaborata una nozione di attività
economica che comprende “qualsiasi attività che consista nell’offrire
beni o servizi su un determinato mercato” 4 9 , purchè sia esercitata a
titolo oneroso e con assunzione del rischio d’impresa da parte del
soggetto che la svolge, pur se in assenza di uno scopo di lucro. 5 0
Uniche eccezioni a tale ampia nozione sono costituite dalle attività
svolte a fini sociali o da soggetti che esercitano prerogative statali, in
ragione del fatto che tali soggetti non operano sul mercato in posizione
di parità rispetto agli altri soggetti, chi per le caratteristiche
dell’attività, chi per la fonte da cui tale attività deriva, e dunque non
sono considerati sottoposti alle ordinarie regole della concorrenza 5 1 .
Confrontando i dati emersi, da un lato, nel sistema Iva e, dall’altro,
in materia di concorrenza, è possibile notare come lo svolgimento
possibile sul piano economico un'azione autonoma dell'affiliata rispetto alla
società madre [..] ”.
49
Si tratta di un orientamento costante della giurisprudenza comunitaria. Fra le
sentenze più recenti si veda sent. 12 settembre 2000,
Pavlov cit. e la
giurisprudenza in essa citata. Un’ulteriore specificazione della nozione di attività
economica
viene
fornita
dall’Avvocato
Generale
Jacobs
nelle
conclusioni
presentate il 27 ottobre 2005 nella causa C-222/04, Ministero Economia e Finanze/
Cassa di Risparmio di Firenze, p. 78 e ss. Egli ha infatti sostenuto che “un ente
deve essere qualificato come impresa ai fini del diritto comunitario non solo
quando offre beni e servizi sul mercato, ma anche quando esercita altre attività
che
hanno
natura
economica
e
che
potrebbero
distorcere
un
mercato
concorrenziale. [..] nel valutare se un’attività abbia natura economica il criterio
fondamentale deve consistere nello stabilire se essa almeno in principio possa
essere svolta da un’impresa privata a scopo di lucro”
50
In giurisprudenza si vedano sent. Albany cit.; sent. 19 febbraio 2002, causa
C-309/99 Wouters, p. 48 e 49; sent. 18 giugno 1998, causa C- 35/96, CNSD, p. 36
e37; sent. 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre. Per quanto riguarda la
prassi della Commissione, fra le pronunce più significative si vedano: decisione
della Commissione 27 ottobre 1992, 92/521/CEE, Pacchetti turistici, punto 43;
decisione della Commissione 30 gennaio 1995, 95/188/CE, COAPI, decisione della
Commissione 26 maggio 1978, 78/516/CEE, Rai/Unitel.
51
A. P AP P A LA R D O , cit., 59.
29
Capitolo I
dell’attività economica si trasformi da elemento autonomamente
rilevante a presupposto caratteristico della fattispecie impresa,
necessario affinché un’entità organizzata possa classificarsi come tale
nell’accezione comunitaria del termine.
Emerge, invece, all’interno della disciplina della concorrenza un
elemento che, come si è visto, ricopre un ruolo marginale nel settore
impositivo, ovvero la struttura organizzativa su cui l’attività si fonda 5 2 .
Anche in questo caso il legislatore e la stessa giurisprudenza non si
addentrano in definizioni dal contenuto preciso, accogliendo un
concetto di organizzazione elastico al pari dell’altro presupposto e
sicuramente non limitato all’accezione, spesso considerata in ambito
nazionale come preminente, di organizzazione come sinonimo di
azienda 5 3 .
Ad una prima osservazione, definendo il soggetto di riferimento per
l’esercizio dell’attività economica come organizzazione di elementi
personali, materiali e immateriali, la giurisprudenza in materia di
52
Il requisito dell’organizzazione era posto in particolare rilievo da larga parte
della dottrina degli anni passati, la quale riteneva altresì che si trattasse di
requisito implicito ai fini della individuazione dell’impresa comunitaria, in quanto
per sua natura la disciplina della concorrenza si sarebbe rivolta ad operatori
economici di dimensioni tali da permettere di svolgere l’attività a livello
transnazionale. In tal senso si veda P. V E R R U C C O LI , La nozione d’impresa
nell’ordinamento comunitario e nel diritto italiano: evoluzione e prospettive,
in
La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, a cura di P. V E R R U C C O LI ,
Milano, 1977, 396 ss, il quale confronta le nozioni d’impresa nel diritto nazionale
e nel diritto comunitario e ne pone in evidenza le differenze, legate alle diverse
prospettive adottate dai due ordinamenti, sostenendo che “ciò che interessa alla
normativa comunitaria è l’organizzazione d’impresa la cui esistenza, rectius, la
cui attività si riflette nell’area comunitaria, mentre ciò che ha interessato il
legislatore italiano è, fondamentalmente, la percezione o individuazione del fatto
imprenditoriale nel quadro della disciplina che lo crea e lo svolge”.
53
Come sostiene A. G R IS O LI , voce Impresa comunitaria in Enciclopedia
Giuridica, 1989, vol XVI, “il concetto di organizzazione acquista rilievi diversi da
settore a settore con un’elasticità e una varietà di contenuti direttamente
proporzionali alle concrete esigenza della realtà da disciplinare”.
30
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
concorrenza sembra utilizzare l’organizzazione come elemento di
identificazione soggettiva, per individuare l’entità che, in quanto
svolge l’attività sul mercato, sarà soggetta alle norme sulla
concorrenza. Tuttavia, a ben vedere, la stessa estensione della nozione
di organizzazione ad ogni insieme di elementi materiali e immateriali,
sino a ricomprendere le persone fisiche ed i professionisti, fa sì che
anche nel settore della concorrenza sia difficile attribuire un ruolo
determinante al requisito organizzativo.
Sembrerebbe più giusto allora ritenere che il riferimento all’entità
organizzata indichi, in senso generalizzato, il soggetto cui è imputata
l’attività economica svolta, che deve presentare quei requisiti
genericamente strutturali precedentemente delineati, necessari per
individuare un’attività svolta in modo professionale, rivolta al mercato
ed in grado di poter influire in qualche modo su questo, non
finalizzata, quindi, alla mera soddisfazione delle necessità del soggetto
agente 5 4 .
La ricostruzione in questi termini del profilo soggettivo
dell'impresa, individuato come si è visto semplicemente in funzione
dell'attività svolta e non di modelli giuridici predeterminati, conduce a
rilevare che, anche nel settore del diritto della concorrenza, il profilo
giuridico inerente al soggetto assuma un ruolo del tutto marginale,
soprattutto se esaminato nell'ottica dell'integrazione automatica della
fattispecie prevista dalle norme.
Come si vedrà più ampiamente con riguardo al sistema dell'Iva e al
rapporto tra forma giuridica e soggettività in una prospettiva dinamica
dell'attività, nemmeno nell'ambito della concorrenza sembra sussistere
un criterio di attribuzione automatica della qualifica di impresa nel
senso europeo sulla base della natura giuridica dell'operatore
economico, come ad esempio accade a livello nazionale nel caso delle
società commerciali.
Questa irrilevanza delle caratteristiche del soggetto ai fini
dell'applicazione delle norme implica altresì che la nozione d'impresa
54
In questo senso, D I V IA , L’impresa cit., 68 ss.
31
Capitolo I
e, di conseguenza, la soggezione alla regole concorrenziali del mercato
europeo non dipenda dalle vicende del soggetto giuridico in quanto
tale, quanto piuttosto dalla possibilità di integrare il modello d'impresa
chiarito dalla giurisprudenza attraverso il requisito fondamentale
costituito dall’esercizio concreto di un’attività economica.
Nonostante le differenze nella costruzione del presupposto
applicativo delle due discipline, dal confronto fra le due nozioni
emerge una sostanziale identità, tanto che non appare errato sostenere
che il legislatore comunitario utilizzi spesso i due termini, in senso
atecnico, come sinonimi, entrambi riferibili al medesimo fenomeno
economico 5 5 .
A prima vista potrebbe sembrare che l’attività economica rilevante a
fini impositivi sia un concetto più ampio, proprio perché non vincolata
dall’esistenza di una qualsiasi struttura organizzativa, ma al contrario
espressamente estesa anche alle attività autonome diverse dall'impresa,
la cui struttura solitamente non integra il modello di organizzazione
tipico dell’attività imprenditoriale. Tale valutazione risulta, però,
contraddetta dall’interpretazione fornita dal giudice comunitario, il
quale ha, al contrario, affermato la soggezione dei liberi professionisti
e degli artisti alla disciplina sulla concorrenza, fin tanto che svolgano
un’attività rivolta al mercato. 5 6
55
Indicazioni in tal senso, desumibili principalmente in via interpretativa,
sembrano potersi individuare nella stessa giurisprudenza comunitaria. Si vedano ad
esempio
le parole
usate
dall’Avvocato
Generale
Kokott
nelle
conclusioni
presentate il 6 marzo 2008 nella causa C- 49/07, Motosykletistiki Omospondia Ellados
NPID (MOTOE) che, nel delineare la nozione di impresa ai fini del diritto alla
concorrenza, parla, al punto 32, espressamente di attività economica come impresa,
sottolineando, implicitamente, la sostanziale identità delle due nozioni. Tale
considerazione viene fondata, come appare dai precedenti richiamati dallo stesso
Avvocato Generale, sul fatto che l’impresa, nell’accezione comunitaria, è integrata
dall’esistenza di un qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che svolga
un’attività di produzione o scambio di beni e servizi rivolta al mercato, per questo
motivo,
quindi,
in
grado
di
alterarne
l’equilibrio
attraverso
pratiche
anticoncorrenziali.
56
Cfr. sent. CNSD, Macroton, Albany e Pavlov cit., nelle quali la Corte si è
32
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Se si accoglie dunque l’interpretazione prima esposta sul requisito
organizzativo, quanto meno ad un livello teorico le due categorie
verrebbero a coincidere 5 7 .
Pur nella diversità della ratio propria delle due discipline di cui una,
quella concorrenziale, disciplinando direttamente il comportamento
degli operatori economici che agiscono sul mercato, è volta a creare e
tutelare il corretto funzionamento di un mercato che mira ad essere
pienamente concorrenziale, attraverso il controllo della posizione degli
operatori e sanzionando le pratiche anticoncorrenziali, e l’altra, quella
impositiva, che agendo, sul fattore fiscale con l'obiettivo di eliminare
le distorsioni alla concorrenza attraverso l'affermazione di neutralità
dell'imposizione e parità di trattamento degli operatori economici,
istituisce non un sistema di controllo, ma un sistema direttamente
funzionale agli scopi del mercato europeo, esse sembrano infatti
rivolgersi alla stessa tipologia di soggetti –gli operatori economici che
agiscono sul mercato- individuati sulla base di una nozione unitaria
dell’attività economica che essi svolgono.
Ad ogni modo, ciò che anche l’esperienza in materia di concorrenza
pone in luce è la scelta del legislatore di discostarsi quanto più
possibile dalle strutture giuridiche degli Stati membri, preferendo
porre in rilievo elementi concreti provenienti dal mondo economico, su
cui costruire nozioni giuridiche proprie ed indipendenti.
Ecco dunque che, anche in questo caso, assistiamo all’utilizzo di un
linguaggio atecnico e non giuridico, volutamente molto ampio e
generico e che rifugge dalla creazione di un qualsiasi modello rigido,
prima fra tutti la suddivisione in categorie distinte degli operatori
economici sulla base della propria forma giuridica, al fine di
pronunciata a favore dell’estensione della qualifica di impresa anche alle attività
professionali, pur se regolamentate da norme nazionali e soggette a precise
autorizzazioni. In tal senso anche la dec. COAPI cit., punto 85; tra le pronunce più
recenti si veda anche CGCE, sentenza 13 marzo 2008, C- 446/05, Doulamis.
57
Anche se, a livello applicativo, è possibile riscontrare alcune differenze come
nel caso delle attività agricole, soggette all’imposta sul valore aggiunto, ma
escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sulla concorrenza.
33
Capitolo I
permetterne l’adattamento alle differenti situazioni esaminate. Come
rilevato da dottrina e giurisprudenza comunitaria 5 8 si assiste
all’elaborazione di un concetto che si può definire relativo, variabile a
seconda dell’attività concretamente esaminata e del mercato
interessato, funzionale essenzialmente a due scopi: l’individuazione
delle categorie di soggetti agenti destinatari delle norme e
l’individuazione, in concreto, del soggetto cui il comportamento è
imputabile.
58
Si veda
A.
G R IS O LI , voce Impresa comunitaria cit. il quale pone in evidenza
come “per l’uso disinvolto con che la Corte mostra di fare di concetti e categorie
giuridiche
provvisti
nel
diritto
degli
Stati
membri
di
proprie
e
precise
connotazioni, risulta in modo inequivocabile come al diritto comunitario faccia
difetto una nozione unitaria di impresa e che la Corte non abbia mai fatto alcuno
sforzo per determinarlo. Infatti, mentre non risulta siasi mai manifestata, a livello
ufficiale, l’esigenza di determinare a priori un concetto immutabile di impresa, la
Corte ha chiaramente mostrato in più occasioni di non sentirne il bisogno, se
l’aderire ad un siffatto paradigma fosse andato a scapito di esigenza di giustizia
emergenti dal caso concreto”. Negli stessi termini si veda anche la dottrina
richiamata
dallo
stesso
Autore,
R.
F R AN C E S C H E LLI ,
L’impresa
comunitaria,
appendice a Imprese e imprenditori, Milano 1972, 355 ss. e V. A FFE R N I , Gli atti di
organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973, 154, nonché
B ON E LLI , La nozione d’impresa nelle regole di concorrenza del Trattato CEE, in La
nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, cit., p. 38 ss.
Per una riflessione più recente si veda altresì P AP P A LA R D O , cit. Una
conferma in tal senso si può trovare ad esempio nelle stesse conclusioni
dell’Avvocato Generale Jacobs presentate il 28 gennaio 1999 nella causa C-67/97,
nelle quali sostiene che “D'une part, nous estimons que, dans l'économie de
l'article 85, la notion d'«entreprise» répond à un double but. En premier lieu, et
cette fonction est la plus évidente, elle permet de déterminer les catégories
d'acteurs auxquels les règles de concurrence s'appliquent [..] D'autre part, cette
notion sert à identifier l'entité à laquelle un comportement déterminé peut être
imputé. Ce deuxième but apparaît, par exemple, dans les affaires dans lesquelles
les rapports entre filiales et sociétés mères sont impliqués. Ces affaires soulèvent
le point de savoir s'il s'agit d'une unité économique indépendante agissant pour
son propre compte ou simplement d'un «agent» ne jouissant pas d'une autonomie
réelle dans la détermination de sa ligne d'action. D'autre part, la Cour a affirmé
34
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Sembra, dunque, corretto ritenere che anche nell’ambito del diritto
anti-trust comunitario la nozione di impresa, pur se costruita in termini
spiccatamente economici e, quindi, oggettivi, recuperi in parte la
funzione che la stessa svolge a livello nazionale. Essa infatti identifica
il centro di imputazione degli effetti giuridici legati allo svolgimento
dell’attività economica ed il soggetto destinatario della disciplina
dettata dalle norme 5 9 .
Sotto questo profilo, essa non è costruita diversamente dal
presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto. Se soggetto
passivo dell’imposta è “chiunque esercita un’attività economica” ed
impresa nel diritto antitrust è “ogni entità che eserciti un’attività
economica” appare evidente come il termine impresa, nel senso
comunitario, altro non sia che l’espressione della medesima nozione,
costruita, come si è detto, sul concetto di attività economica
nell’accezione individuata dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia.
Essendo chiara l'intenzione del legislatore comunitario, ossia la
costruzione di un soggetto di riferimento delle norme giuridiche in
funzione della presenza di un’attività qualificata come economica nel
senso comunitario, evitando di adottare modelli giuridici preesistenti e
non ricavati dal dato economico concreto, sembra possibile, unendo le
considerazioni appena svolte e chiarite per quanto è possibile le
nozioni di attività economica ed organizzazione ricavabili dalla
giurisprudenza esaminata, delineare una sorta di paradigma della
nozione rilevante a livello europeo che presenta caratteristiche
generalmente valide, indipendentemente dalla materia considerata e
dai termini di volta in volta utilizzati nel testo delle norme.
Ne emerge così un modello differente da quello degli ordinamenti
que «la notion d'`entreprise', placée dans un contexte de droit de la concurrence,
doit être comprise comme désignant une unité économique du point de vue de
l'objet de l'accord en cause». La notion d'«entreprise» revêt donc un caractère
relatif et est à apprécier concrètement, en fonction de l'activité spécifique
examinée”
59
In tal senso si veda, A N TO N U C C I , La nozione di impresa cit, 569 ss.
35
Capitolo I
nazionali, perché costruito più su statuizioni negative, che su elementi
definitori di carattere positivo.
Poste l’indifferenza della forma giuridica dell’agente -considerata
più come uno schermo da superare che come criterio di individuazione
del soggetto destinatario delle norme- l’irrilevanza dello scopo di
lucro -sicché è sufficiente lo svolgimento dell’attività secondo
l’ordinario criterio di economicità 6 0 - ed infine la relativa rilevanza
dell’elemento organizzativo -cui si assegnano significati così ampi da
renderlo un elemento difficilmente distintivo e decisivo- otteniamo una
nozione che, a volte sotto il nome di impresa, a volte sotto quello di
semplice attività economica, comprende qualsiasi fenomeno economico
-e di conseguenza abbraccia ogni tipo di soggetto che lo ponga in
essere- che si rivolga al mercato e sia, pertanto, in grado di
influenzarlo ed alterarne gli equilibri 6 1 .
Deve ritenersi, dunque, questo il fulcro del tipo comunitario, questo
l’elemento da cui desumere le caratteristiche positive del modello,
quali l’abitualità, o professionalità, e l’effettività, intesa quale
concreto esercizio dell’attività e quindi reale collegamento con il
mercato.
Sembra allora confermato anche dall’esperienza in materia di diritto
della concorrenza che, nel tentativo di allontanarsi dalle strutture
giuridiche proprie degli ordinamenti nazionali, il legislatore
comunitario abbia compiuto un processo normativo inverso e speculare
a quello degli Stati membri: invece di creare un modello giuridico in
base al quale classificare le diverse situazioni di fatto ed identificare
un soggetto giuridico indipendente ed autonomo cui attribuirne gli
effetti, ha dettato una disciplina che, al contrario, individuati gli
elementi caratterizzanti del fenomeno concreto, qualifica esso stesso
60
Ovvero, l’esercizio a titolo oneroso, che quanto meno consenta l’equilibrio
tra costi e ricavi, pur in assenza di utili.
61
Alle stesse conclusioni sembra giungere L AR O M A J E ZZ I , Gli aiuti fiscali: i
poteri del giudice nazionale e la nozione d’impresa tra diritto tributario e diritto
comunitario della concorrenza (commento a Cass., ord. N. 8319/2004), Rass.
Trib., 2004, III, 1073
36
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
come soggetto giuridico, indipendentemente dalle profonde differenze
che possono sussistere tra soggetto e soggetto nell’ambito di una
categoria così ampia 6 2 .
Da questa costruzione discendono le maggiori difficoltà di
applicazione nazionale del diritto comunitario e di coordinamento tra i
due ordinamenti, perché anche laddove esiste una disciplina
largamente armonizzata, come in materia di Iva o di concorrenza,
inevitabilmente si scontrano l’esigenza di dare attuazione alle norme
europee, unendo in categorie onnicomprensive realtà diverse per il
diritto nazionale, e l’impossibilità di abbandonare questi modelli
giuridici sicuramente più rigidi, a tutela della uniformità e della
completezza dell’ordinamento interno, che le norme comunitarie,
ancora tipicamente settoriali, non possono sostituire.
La scelta compiuta dal legislatore comunitario, qui dimostrata
dall’esame e dal confronto tra le due discipline, non si limita però ad
essere espressione di una diversa tecnica legislativa, preferibile a
causa della necessità di creare disposizioni uniformi a più ordinamenti
diversi. Essa produce infatti notevoli conseguenze anche sul piano
della disciplina sostanziale, creando un particolare collegamento tra
gli elementi che la caratterizzano.
Si vuol dire, la costruzione del presupposto soggettivo di
applicazione delle norme non su un modello di soggettività giuridica
indipendente dotato di proprie caratteristiche specifiche, ma in
funzione di un dato concreto, che allo stesso tempo costituisce il
presupposto oggettivo delle medesime norme, crea fra questi due
elementi un collegamento ed un’interdipendenza del tutto particolare,
tipica delle due discipline esaminate, legame che impedisce di
condurne un esame disgiunto 6 3 .
Ciò significa, in concreto, che se da un lato l’elemento materiale
62
Il medesimo approccio, nel senso di partire dal fatto piuttosto che dalla
costruzione giuridica della fattispecie, viene riconosciuto al legislatore nazionale
in materia di Iva da S AM M AR T IN O , Profilo soggettivo del presupposto dell’Iva,
Milano, 1975, p. 49
63
Così D I V IA , L’impresa cit., 62.
37
Capitolo I
costituito dall’esercizio di un’attività economica è indispensabile per
l’identificazione e la qualificazione del soggetto agente quale
destinatario delle norme, dall’altro l’apporto e l’influenza di tale
soggetto sull’attività stessa non possono essere ignorati.
Questo tipo di approccio, se appare di secondaria importanza nella fase
centrale dell’esercizio dell’attività economica, in cui acquistano una
rilevanza del tutto preponderante gli elementi oggettivi e materiali
propri dell’esercizio stesso, recupera la propria centralità, come si
cercherà di dimostrare in seguito con riguardo all’Imposta sul valore
aggiunto, in momenti particolari della vita dell’attività, come la fase
preparatoria e quella finale, in cui, in assenza dell’esercizio e di
manifestazioni tipiche dell’attività rilevante, il profilo soggettivo può
fornire elementi di indubbia rilevanza proprio nella determinazione
dell’esistenza della stessa attività.
2-I
LIMITI TEMPORALI DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA
Esaminato il tema dell’attività economica rilevante ai fini
dell’imposta nel suo aspetto statico, ossia sotto il profilo delle
caratteristiche proprie dell’attività considerata imponibile, è ora
necessario esaminare tale nozione nel suo aspetto dinamico, prestando
cioè attenzione alle sue fasi iniziale e conclusiva, per valutare quali
siano gli elementi che in tale prospettiva vengono in risalto.
Vista l’assenza di norme che disciplinino specificamente tali
ipotesi, anche in questo caso il principale contributo va attribuito alla
Corte di Giustizia e all’opera interpretativa da essa svolta.
Nell’ambito delle pronunce interpretative dell’art. 4 della Sesta
Direttiva, i giudici comunitari hanno infatti dovuto precisare quali
elementi possano costituire un’attività rilevante ai fini dell’imposta
anche in una prospettiva dinamica, individuando pertanto il momento
di avvio e quello di cessazione dell’attività, giudicando
sull’imponibilità, ma soprattutto sulla spettanza del diritto alla
detrazione con riguardo agli atti preparatori, precedenti quindi
all’avvio effettivo dell’attività, e agli atti liquidatori antecedenti alla
38
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
definitiva cessazione.
La chiave interpretativa adottata in questi casi è stata
principalmente quella di tutela del diritto alla detrazione riconosciuto
al contribuente a fronte di normative nazionali che, spesso sulla scorta
del proprio ordinamento civilistico, rischiavano di restringerne la
portata o porlo addirittura in discussione con effetto retroattivo.
Nonostante siano numericamente superiori la sentenze in tema di
atti preparatori, avendo la Corte raramente affrontato il problema della
cessazione dell’attività, è possibile individuare il principio che le
accomuna, pur se forse in una diversa prospettiva.
L’interpretazione della Corte volge infatti sempre alla tutela e al
rispetto concreto del principio di neutralità che informa tutto il sistema
dell’imposta. In questa prospettiva, dunque, l’estensione dell’attività
economica dalla fase preparatoria alla liquidazione permette di dare
piena attuazione al principio, garantendo in concreto che l’imposta non
incida sull’operatore economico in assenza di un’ipotesi di consumo in
capo allo stesso.
Ciò che caratterizza l’interpretazione della norma comunitaria è un
approccio di tipo sostanziale, che rifugge, come si vedrà, da criteri
automatici nell’individuazione dei momenti di inizio e cessazione
dell’attività rilevante. A questo approccio sembra, tuttavia,
accompagnarsi una certa attenzione sia al profilo soggettivo, costituito
dalla reale intenzione del soggetto passivo, sia ai profili formali che le
stesse norme prevedono cui, pur se viene negato un effetto costitutivo,
sembra doversi riconoscere valore quanto meno di manifestazione
certa delle intenzioni del soggetto, valore destinato a venire meno solo
nei casi che risultino oggettivamente fraudolenti.
All’esame della giurisprudenza in tema di inizio e cessazione
dell’attività, deve unirsi infine lo studio della disciplina in tema di
autoconsumo, estremamente rilevante nella fase terminale dell’attività.
Come si vedrà, in questo senso il tenore della norma comunitaria
appare molto chiaro nell’individuare le ipotesi di applicazione
dell’imposta per autoconsumo, riconducendo ad esse il semplice
possesso di beni in seguito alla cessazione dell’attività. Questo
39
Capitolo I
elemento appare importante soprattutto per due profili: da un lato, esso
integra una norma di chiusura che si colloca nel solco della tutela del
principio di neutralità ed equo trattamento tra operatori economici e
consumatore finale che versino nella stessa condizione; dall’altro,
individua l’ipotesi estrema di applicabilità dell’imposta, permettendo
forse di identificare con maggiore sicurezza il momento di cessazione
dell’attività, quanto meno ai fini dell’imposta.
2.1 La giurisprudenza sugli atti preparatori
Come si è detto, l’importanza della definizione degli esatti limiti
temporali dell’attività rilevante ai fini Iva è inizialmente emersa in
ambito comunitario con riguardo alla fase iniziale dell’attività, in
riferimento a cui la Corte è stata chiamata a stabilire se gli atti
preparatori debbano ritenersi già parte dell’attività e siano, dunque, in
grado di attribuire la soggettività passiva e, conseguentemente, il
diritto alla detrazione dell’imposta versata a monte nel compimento di
tutte
quelle
operazioni
organizzative
precedenti
all’avvio
dell’esercizio.
Già nel primo caso esaminato 6 4 la Corte ha fondato la propria
interpretazione sulle caratteristiche del sistema IVA, in particolare sul
principio di neutralità, così come sulle norme che disciplinano la
detrazione ed il concetto di soggetto passivo, precisandone
ulteriormente il contenuto.
In primo luogo, la Corte ha dichiarato che il sistema delle detrazioni
è inteso a sollevare interamente l’imprenditore dall'onere dell’Iva
dovuta o pagata nell'ambito di tutte le sue attività economiche,
dovendo garantire che, indipendentemente dallo scopo, l’imposizione
sia per questi soggetti assolutamente neutrale.
Inoltre, essa ha precisato che, come risulta dal disposto dell’art. 4
(ora art. 9), l’attività economica può consistere in più operazioni
consecutive e gli atti preparatori, come ad esempio l'acquisizione di
64
CGCE, sent. 14 febbraio 1985, C-268/83, Rompelman
40
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
beni d’investimento, fanno parte di tali operazioni e devono essere
trattate come diretta manifestazione dell’attività economica.
La Corte, dunque, accoglie un'interpretazione estensiva del concetto
di attività economica che comprende gli atti accessori allo svolgimento
delle attività commerciali o professionali che attribuiscono la
soggettività passiva.
In questo senso, i giudici comunitari hanno precisato che non
assume alcun rilievo la forma giuridica con cui tali atti vengono
compiuti, dovendosi unicamente attribuire valore al loro legame con la
successiva attività, senza che sia necessario attendere che i beni o i
servizi acquistati confluiscano in un esercizio produttivo di reddito
imponibile. Escluderne la rilevanza, negando la possibilità di detrarre
l’Iva pagata nella fase di allestimento dell’attività economica,
significherebbe per la Corte creare un’ingiustificata differenziazione
tra le spese d’investimento affrontate inizialmente e quelle invece
sostenute durante l’effettivo esercizio, violando il principio di
neutralità che informa l’intero sistema dell’imposta 6 5 .
65
Si legge infatti nella sentenza Rompelman cit. ai punti 22 ss. “ [..] per
quanto riguarda la questione del momento in cui ha inizio lo sfruttamento di un
bene immobile, si deve sottolineare anzitutto che le attività economiche di cui
all’art. 4, n. 1, possono consistere in vari atti consecutivi, come si desume dal
testo stesso del n. 2 di detto articolo, che si riferisce a tutte le attività di
produttore, di commerciante o di prestatore di servizi. Gli atti preparatori, come
il procurarsi i mezzi per esercitare siffatte attività e, pertanto, anche l’acquisto di
un bene immobile, devono già ritenersi parte integrante delle attività economiche.
In proposito è irrilevante la distinzione tra le varie forme giuridiche che possono
assumere tali atti preparatori[..] . Inoltre, il principio della neutralità dell'Iva per
quanto riguarda l'imposizione fiscale dell'operatore economico esige che le prime
spese d'investimento effettuate ai fini di una data operazione siano considerate
come attività economiche. Sarebbe in contrasto con tale principio il fatto che
queste attività abbiano inizio soltanto nel momento in cui un bene immobile viene
effettivamente sfruttato, cioè quando comincia a produrre un reddito imponibile.
Qualsiasi altra interpretazione dell'art. 4 della Sesta Direttiva porrebbe a carico
dell'operatore, nell'esercizio della sua attività economica, l'onere dell'Iva, senza
dargli la possibilità di effettuarne la detrazione in conformità all'art. 17 e si
41
Capitolo I
Puntualizzati così i principi generali che secondo la Corte
impongono di considerare iniziata l’attività economica già dal
compimento dei primi atti preparatori, essa ha avuto successivamente
modo di precisare ulteriormente la propria interpretazione,
specificando di volta in volta elementi differenti.
Così, in un caso successivo 6 6 si è chiarito che è l'acquisto da parte di
un soggetto passivo che agisca in quanto tale, a comportare
l’applicazione del sistema dell’imposta e, quindi, a garantire il diritto
alla detrazione. Da ciò deriva che a nulla rilevi l’effettiva utilizzazione
del bene o il tempo che intercorra tra l’acquisto e l’impiego all’interno
di operazioni imponibili, riguardando questo aspetto solo la misura
della detrazione iniziale o la necessità di una sua successiva rettifica,
ma non la stessa sussistenza del diritto.
Questa affermazione è stata il punto di partenza per un’ulteriore
estensione della nozione di attività economica sotto il profilo degli atti
preparatori rilevanti. Dovendosi ritenere applicabile l’imposta sin dal
primo investimento effettuato dall’operatore economico funzionale al
futuro svolgimento dell’attività economica, indipendentemente
dall’immediata e concreta utilità della spesa sostenuta, la Corte ha
finito per attribuire rilevanza anche a semplici studi sulla possibilità di
avviare l’attività in futuro, senza che a ciò rilevi se tale attività sia poi
stata realmente intrapresa 6 7 .
risolverebbe in una arbitraria distinzione tra le spese d' investimento effettuate
prima e durante l'effettivo sfruttamento di un bene immobile. Anche nei casi in cui,
dopo l'inizio dell'effettivo sfruttamento di un bene immobile, avesse luogo un
rimborso dell'imposta pagata a monte per gli atti preparatori, il bene sarebbe
gravato da un onere finanziario durante il periodo, talvolta abbastanza lungo,
intercorrente fra le prime spese d’investimento e lo sfruttamento effettivo.
Chiunque compia siffatti atti d'investimento strettamente legati e necessari allo
sfruttamento futuro di un bene immobile deve, di conseguenza, essere considerato
come soggetto passivo ai sensi dell'art. 4.”
66
CGCE, sent. 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz
67
Così in CGCE, sent. 29 febbraio 1996, causa C-110/94, Inzo in cui la Corte
ha riconosciuto la detraibilità dell’imposta relativa ad uno studio di redditività che
era stato commissionato proprio per valutare la fattibilità e la convenienza di un
42
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
In tal modo, la Corte ha precisato altri due principi di grande
rilevanza, tra loro strettamente collegati.
In primo luogo essa ha sostenuto che una volta che
l’Amministrazione Finanziaria abbia riconosciuto la qualità di
soggetto passivo in capo ad un operatore economico, questa non possa
essere contestata con effetto retroattivo, a meno che non sia evidente
un intento fraudolento. Di conseguenza, il diritto alla detrazione che il
soggetto abbia maturato diviene acquisito e non potrà più essere
contestato nella sua legittimità una volta che i presupposti necessari
siano venuti meno 6 8 .
Unendo, dunque, il profilo dell’attività economica con le norme che
disciplinano il diritto alla detrazione, esaminati sempre sotto la lente
del principio di neutralità, la Corte estende l’ambito della soggettività
passiva all’imposta, facendovi confluire anche i soggetti che compiano
solo atti strumentali ed accessori ad una futura attività economica. Tali
operazioni dovranno pertanto ricevere il medesimo trattamento fiscale
di quelle che sono diretta espressione dell’attività commerciale o
progetto, al cui termine, dati gli esiti negativi, non si era intrapresa l’attività, ma si
era al contrario liquidata la società appositamente creata.
68
Si legge infatti nella sentenza Inzo cit. ai punti 19 ss. Che “ [..]Ne deriva che,
a queste stesse condizioni, l'IVA versata per un tale studio sulla redditività può in
via di principio essere detratta in conformità all'art. 17 della direttiva.
Contrariamente a quanto sostengono il governo belga ed il governo tedesco,
questa detrazione rimane acquisita anche se, successivamente, si è deciso, in
considerazione dei risultati di questo studio, di non passare alla fase operativa e
di mettere la società in liquidazione, di modo che l' attività economica prevista
non ha dato luogo ad operazioni soggette ad imposta. Infatti, come fa rilevare la
Commissione, il principio della certezza del diritto si oppone a che i diritti ed gli
obblighi dei soggetti passivi dipendano da fatti, circostanze o eventi che si sono
verificati successivamente al loro accertamento da parte dell'amministrazione
tributaria. Ne deriva che, a decorrere dal momento in cui quest' ultima ha
accettato, sulla base dei dati trasmessi da un'impresa, che sia ad essa concessa la
qualità di soggetto passivo, questo status non può più, in via di principio, esserle
revocato successivamente con effetto retroattivo a causa del verificarsi o meno di
taluni eventi.”
43
Capitolo I
professionale.
Come confermato anche nella giurisprudenza successiva, elemento
centrale e distintivo diviene, allora, nella prospettiva della
giurisprudenza comunitaria, l’intenzione manifestata dal soggetto che
assume, in questo contesto, un ruolo di maggior rilevanza rispetto
all’oggettività che solitamente caratterizza il presupposto dell’Iva.
La dichiarata intenzione di intraprendere un’attività economica è
quindi un elemento sufficiente per l’applicazione dell’imposta e
l’attribuzione della soggettività passiva che, una volta riconosciuta,
consente di maturare i diritti ad essa connessi pur se successivamente
ne vengano meno i presupposti 6 9 .
La Corte si è però premurata di specificare quali sono i limiti della
rilevanza della volontà del soggetto.
Da un lato, il suo riconoscimento non esclude, infatti, che le
amministrazioni fiscali possano richiedere che l’intenzione di avviare
l’attività economica sia comprovata da elementi oggettivi.
Dall’altro, nei casi in cui l’intenzione del soggetto si riveli in realtà
fraudolenta, l’amministrazione potrà disconoscere la soggettività
passiva e richiedere la restituzione delle somme portate
illegittimamente in detrazione 7 0 .
69
Così anche CGCE, sent. 21 marzo 2000, C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa p.
47 dove si legge “Di conseguenza, chi ha l'intenzione, confermata da elementi
obiettivi, di iniziare in modo autonomo un'attività economica ai sensi dell'art. 4
della Sesta Direttiva ed effettua a tal fine le prime spese di investimento deve
essere considerato come soggetto passivo. In quanto agisca come tale, egli ha
quindi, conformemente agli artt. 17 e seguenti della Sesta Direttiva, il diritto di
detrarre immediatamente l'IVA dovuta o pagata sulle spese di investimento
sostenute in vista delle operazioni che intende effettuare e che danno diritto alla
detrazione, senza dovere aspettare l'inizio dell'esercizio effettivo della sua
impresa.”
70
Si legge, infatti, nella sentenza Inzo cit., punti 23 e 24 “come la Corte ha
constatato nella sentenza Rompelman, soprammenzionata, punto 24, che incombe a
colui che chiede la detrazione dell' IVA l'onere di provare che sono soddisfatte le
condizioni per tale detrazione e che l' art. 4 non osta a che l'amministrazione
tributaria esiga che l'intenzione dichiarata di avviare un'attività economica che dà
44
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Complessivamente, quindi, dall’interpretazione della Corte risulta
che qualora vi sia un’intenzione oggettivamente dimostrabile ad
intraprendere un’attività economica e non ci siano elementi che
pongano in dubbio la buona fede del soggetto, dimostrandone gli
intenti fraudolenti, dovrà riconoscersi la soggettività passiva,
applicando l’imposta alle operazioni attive, ma soprattutto
riconoscendo il diritto alla detrazione dell’imposta versata a monte,
anche nel caso in cui in un momento successivo l’attività non venga
concretamente avviata o per scelta del soggetto stesso o per fatti a lui
non imputabili 7 1 .
luogo ad operazioni imponibili venga confermata da elementi oggettivi. In tale
contesto occorre sottolineare, come ha fatto la Commissione, che la qualità di
soggetto
passivo
è
definitivamente
acquisita
solo
se
la
dichiarazione
dell'intenzione di avviare l' attività economica programmata sia stata effettuata in
buona fede dall'interessato. Nelle situazioni fraudolente o abusive in cui ad
esempio quest'ultimo ha finto di voler avviare un'attività economica specifica, ma
ha cercato in realtà di far entrare nel suo patrimonio privato beni che potevano
costituire oggetto di una detrazione, l'amministrazione tributaria può chiedere,
con effetto retroattivo, il rimborso delle somme detratte poiché queste detrazioni
sono state concesse sulla base di false dichiarazioni”
71
In proposito CGCE, sent. 15 gennaio 1998, C-37/95, Ghent Coal Terminal.
Nelle conclusioni presentate dall’Avvocato Generale Colomer in questo caso si
legge: “In conformità dell'insegnamento contenuto nelle sentenze citate, la Ghent
Coal poteva detrarre l'IVA da essa versata acquistando i beni o pagando i servizi
legati alla costruzione del terminale carboniero poiché:
a) non è necessario che i beni e i servizi acquistati nel corso delle
operazioni preparatorie all'esercizio di un'attività siano immediatamente utilizzati
per operazioni soggette all'IVA (sentenza Rompelman), senza che si abbia alcun
dubbio quanto allo scopo perseguito dalla Ghent Coal mediante tali acquisti, che
si ricollegano direttamente all'esercizio della sua attività imprenditoriale;
b) a rigore, non è nemmeno necessario che tali beni e servizi siano
utilizzati per realizzare operazioni successive, soggette all'IVA, quando sono stati
acquistati nel corso di fasi preliminari all'esercizio di un'attività prevista che, per
motivi legittimi, non ha raggiunto in seguito la fase operativa (sentenza Inzo);
c) qualsiasi sospetto di frode o d'abuso è in tal caso escluso, giacché la
Ghent Coal è stata in realtà costretta a rinunciare al suo progetto di costruzione,
45
Capitolo I
La Corte prescrive, dunque, il compimento di un esame prospettico
degli atti preparatori volto a dimostrarne l’oggettiva idoneità all’avvio
dell’attività. Questo giudizio costituisce il risvolto oggettivo
necessario per la valutazione delle intenzioni manifestate dal soggetto
agente, che non possono valere sul piano della sola volontà, ma devono
consentire riscontri concreti.
In questo senso, in rapporto alla rilevanza degli atti preparatori e al
momento in cui sorge il diritto alla detrazione, la Corte ha infine
affrontato il tema degli adempimenti formali che le norme nazionali
impongono ai soggetti passivi e che le stesse norme comunitarie
prevedono. I giudici comunitari hanno infatti sostenuto che, se da un
lato gli Stati sono autorizzati ad introdurre norme e adempimenti
formali volti a tutelare i propri interessi erariali e a contrastare i
comportamenti fraudolenti, dall’altro queste norme non possono
limitare in modo automatico l’esercizio dei diritti garantiti
dall’ordinamento comunitario.
In particolare, dunque, nonostante siano le stesse norme europee a
sancire l’obbligo per il soggetto passivo di dichiarare l’inizio, la
variazione e la cessazione dell’attività economica 7 2 , il diritto alla
detrazione non può ad ogni modo essere condizionato da tali
adempimenti o da altri che siano previsti dalle norme nazionali 7 3 . La
già avviato, a causa delle esigenze di una pubblica amministrazione che agiva
nell'esercizio delle sue funzioni.
La conclusione che si ricava da quanto precede è che, in forza dell'art. 17,
n. 2, della sesta direttiva, un'impresa come la Ghent Coal ha il diritto di detrarre
l'IVA da essa versata a causa dell'acquisto di beni e della fruizione di servizi per
opere di investimento destinate, in linea di principio, ad essere utilizzate per la
sua attività imprenditoriale, ma che, per successive circostanze, estranee alla sua
volontà, non sono mai state effettivamente utilizzate.”
72
Disposizione prima contenuta nell’art. 22 della Sesta Direttiva ed ora prevista
nell’art. 213 della Direttiva 2006/112.
73
Principio espresso in CGCE, sent. 21 marzo 2000, C-110/98 a C-147/98,
Gabalfrisa dove si legge “ A tal riguardo è importante sottolineare che, come ha
giustamente rilevato la Commissione, l'art. 22, n. 1, della Sesta Direttiva prevede
soltanto l'obbligo per i soggetti passivi di dichiarare l'inizio, il cambiamento e la
46
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
necessità che l’ordinamento comunitario trovi piena attuazione ed il
principio di proporzionalità da sempre affermato dalla Corte
impongono, dunque, che le norme nazionali si limitino a prevedere
quanto strettamente necessario a prevenire comportamenti illegittimi
per la tutela dell’integrità del proprio ordinamento, ma non possono in
alcun modo restringere i diritti riconosciuti dal diritto comunitario, se
non laddove sia esso stesso a prevederne delle limitazioni
espressamente 7 4 .
cessazione delle loro attività, ma non autorizza affatto gli Stati membri, in
mancanza di tale dichiarazione, a posticipare l'esercizio del diritto alla detrazione
sino all'inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili
oppure a precludere al soggetto passivo l'esercizio di tale diritto.
Nell’affermare
questo
principio
la
Corte
si
richiama
alla
propria
giurisprudenza costante ed in particolare al principio di proporzionalità, in base al
quale le misure adottate dagli Stati membri non devono andare oltre quanto è
necessario lo scopo che si prefiggono, cosa che accadrebbe se le misure nazionali
riducessero o rendessero eccessivamente difficile l’esercizio di un diritto quale
quello alla detrazione che regge tutto il sistema dell’imposta.
74
Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p.52 ss. “Inoltre, si deve ricordare che i
provvedimenti che gli Stati membri possono adottare ai sensi dell'art. 22, n. 8,
della sesta direttiva per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le
frodi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine. Essi non possono quindi
essere utilizzati in modo tale da rimettere sistematicamente in questione il diritto
alla detrazione dell'IVA, il quale è un principio fondamentale del sistema comune
dell'IVA istituito dalla normativa comunitaria in materia (v., in tal senso, sentenza
18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96,
Molenheide e a., Racc. pag. I-7281, punto 47). [..] non solo subordina l'esercizio
del diritto a detrarre l'IVA pagata da un soggetto passivo prima dell'inizio dello
svolgimento abituale delle operazioni imponibili alla presentazione di una
domanda espressa e all'osservanza di un termine di un anno tra tale domanda e
l'inizio effettivo delle operazioni imponibili, ma per di più sanziona il mancato
rispetto di tali condizioni con il differimento sistematico dell'esercizio di tale
diritto fino all'inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni
imponibili. Una siffatta normativa può anche comportare la perdita del diritto alla
detrazione se le dette operazioni non cominciano o se tale diritto non viene
esercitato in un termine di cinque anni dal momento in cui è sorto. Pertanto, una
47
Capitolo I
Secondo la giurisprudenza comunitaria, di conseguenza, tali
disposizioni devono in ogni caso essere interpretate in modo
restrittivo, così come accade per le altre disposizioni che comportano
delle diversità dalla struttura fondamentale dell’imposta, quali quelle
che disciplinano i casi di esenzione. In questo modo, inoltre, la Corte
distingue nettamente tra quelle che sono norme sostanziali del tributo e
quelle che ne delineano unicamente l’aspetto formale, imponendo gli
adempimenti cui è tenuto il soggetto passivo. Da questa distinzione
discende l’ulteriore conseguenza che, laddove non sia la stessa
Direttiva ad imporlo, le seconde non possono avere effetti sul
contenuto o l’applicazione delle prime.
All’interno di questa giurisprudenza, tuttavia, gli adempimenti
formali prescritti sia dalla Direttiva che dalle norme nazionali
finiscono per assumere un ulteriore rilievo anche nella prospettiva
opposta.
Se infatti si riconosce la soggettività passiva anche in assenza di
operazioni attive imponibili, sulla sola base della manifestata
intenzione di avviare un’attività, e si sancisce l’impossibilità di
disconoscere la soggettività così riconosciuta al di fuori dei casi
manifestamente fraudolenti, la dichiarazione di inizio dell’attività
presentata in buona fede dal contribuente diviene punto di riferimento
principale per l’attribuzione della soggettività, quale manifestazione
dell’intenzione rilevante 7 5 .
siffatta normativa eccede quanto è necessario per conseguire gli obiettivi di
assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le frodi.
75
Tale considerazione può ben ricavarsi dalla già citata sent. Inzo, laddove la
Corte (p.21) sostiene che “il principio della certezza del diritto si oppone a che i
diritti ed obblighi dei soggetti passivi dipendano da fatti, circostanze o eventi che
si
sono
verificati
successivamente
al
loro
accertamento
da
parte
dell'
amministrazione tributaria. Ne deriva che, a decorrere dal momento in cui quest'
ultima ha accettato, sulla base dei dati trasmessi da un' impresa, che sia ad essa
concessa la qualità di soggetto passivo, questo status non può più, in via di
principio, esserle revocato successivamente con effetto retroattivo a causa del
verificarsi o meno di taluni eventi.”
Favorevoli a questa interpretazione F AZ Z IN I , Il diritto alla detrazione nel
48
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Le due diverse prospettive appaiono chiaramente nella pronuncia
Gabalfrisa, in cui dapprima, richiamando la propria giurisprudenza
precedente, la Corte riafferma che la dichiarazione in buona fede
dell'intenzione di avviare un'attività economica è già di per sé
sufficiente al riconoscimento della soggettività passiva all'imposta 7 6 ,
riferendosi evidentemente alla presentazione da parte del soggetto
delle prescritte dichiarazioni formali di inizio attività.
Successivamente nella stessa pronuncia la Corte puntualizza,
tuttavia,
anche l'altro profilo delle dichiarazioni formali,
nell'intenzione di limitare le possibili restrizioni al riconoscimento del
diritto alla detrazione causata dall'imposizione di formalità
burocratiche ad effetto costitutivo da parte degli Stati membri. In
questo senso, dunque, i giudici comunitari precisano altresì che
l'attribuzione della soggettività passiva e, quindi, il riconoscimento
della detrazione non possono essere subordinate alla presentazione di
dichiarazioni formali quando, pur in assenza di questa, sussistano tutti
requisiti richiesti dalle norme e sia in concreto riconoscibile
un’attività economica 7 7 .
Da quanto affermato dalla Corte emerge con ancor maggiore
rilevanza il ruolo attribuito nella prospettiva dell'attribuzione della
soggettività passiva al profilo soggettivo costituito dalle intenzioni del
soggetto. Ritenutele sufficienti al riconoscimento della soggettività e
del diritto alla detrazione, la Corte ammette che esse vengano
manifestate in ogni modo, escludendo valore di per sé costitutivo a
particolari forme o formalità. Ciò significa che avranno ugualmente
valore tanto le dichiarazioni formali rese in buona fede e non
contraddette da comportamenti fraudolenti, quanto semplici
tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, 29; G IO R G I , Detrazione e soggettività
passiva nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, 165 ss.
76
Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p. 46 “In tale contesto occorre sottolineare che la
qualità di soggetto passivo è definitivamente acquisita solo se la dichiarazione
dell'intenzione di avviare l'attività economica programmata sia stata effettuata in
buona fede dall'interessato”
77
Cfr. sent. Gabalfrisa cit., p.51 ss., supra nt.73
49
Capitolo I
comportamenti materiali, pur se irregolari dal punto di vista formale.
Anche in questa prospettiva, nell'ottica della tutela della neutralità e
della certezza del diritto, pare che la Corte non imponga meccanismi
rigidi, neppure nell'attuazione delle norme a contenuto formale della
stessa Direttiva, ma sia piuttosto attenta a limitare gli spazi in cui le
autorità nazionali potrebbero agire restringendo o condizionando
l'applicabilità dell'imposta, e garantisce, di fatto, la legittimità della
sola richiesta di riscontri oggettivi a conferma della buona fede del
soggetto, condizionando, invece, gli altri strumenti utilizzabili alla
verifica della propria proporzionalità.
Da quanto finora esaminato risaltano elementi molto importanti per
un esame che guardi al profilo temporale dell’esistenza dell’attività
economica e, dunque, del soggetto passivo.
Elemento chiave dell’interpretazione comunitaria è la tutela della
neutralità dell’imposta, in ragione della quale viene ampliato o
ristretto il contenuto degli elementi fondamentali dell’attività
economica.
In questa prospettiva, quindi, con riguardo alla sua fase iniziale, si
limita la rilevanza dell’effettivo esercizio di un’attività rivolta al
mercato, restringendo conseguentemente anche il rilievo delle altre
caratteristiche proprie dell’attività, nel tentativo di scongiurare gli
effetti negativi che un ritardo nel riconoscimento della soggettività
passiva potrebbe avere, addossando all’operatore economico il costo
fiscale della fase di avvio dell’attività, come se questi fosse un
consumatore finale.
Per questo motivo, si attribuisce valore ad elementi maggiormente
soggettivi, rappresentati dall’intenzione del soggetto ad intraprendere
concretamente un’attività economica.
La necessità, però, che vi sia un riscontro oggettivo di questa
volontà imprenditoriale porta ad affiancare ad essa un esame di fatto
sulla situazione, alla ricerca di elementi che confermino la veridicità
dell’intenzione dichiarata. Il giudizio prospettico sull’effettiva
idoneità degli atti preparatori all’avvio della successiva attività
diviene, così, fondamentale per la loro rilevanza al fine della
50
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
concessione del diritto alla detrazione, senza che però a nulla rilevi la
concreta utilizzazione dei beni o dei servizi nella futura attività.
A questo profilo si collega inevitabilmente l’affermazione del
rilievo esclusivamente formale delle dichiarazioni richieste dagli Stati
membri per l’inizio dell’attività ed il riconoscimento del diritto alla
detrazione, cui si contrappone la considerazione che emerge dalla
giurisprudenza per cui la soggettività passiva si acquista già nel
momento in cui sia oggettivamente dimostrabile l’intenzione di avviare
un’attività economica imponibile.
Nonostante la condivisibile negazione della portata costitutiva delle
dichiarazioni formali, è molto importante altresì sottolineare l’altro
profilo che posto in luce dalla giurisprudenza e che affida alle
dichiarazioni un ruolo positivo nell’identificazione dell’attività e
nell’attribuzione della soggettività passiva.
Se infatti gli unici limiti alla validità delle intenzioni del soggetto
sono costituiti dall’assenza di riscontri oggettivi o dalla presenza di
elementi che testimonino un comportamento fraudolento, il medesimo
ragionamento dovrebbe potersi fare con riguardo alle dichiarazioni
formali. Esse, in quanto diretta manifestazione delle intenzioni del
soggetto, dovrebbero mantenere la propria validità fintanto che non si
dimostrino prive di elementi concreti a proprio sostegno o contrarie
alle reali intenzioni del soggetto, provate da comportamenti abusivi.
Nel momento in cui si attribuisce rilievo alla sfera soggettiva
attraverso la valutazione della volontà, facendo dipendere l’acquisto
della soggettività passiva dalla concreta manifestazione delle
intenzioni, sulla base di un giudizio prospettico che valuta le
potenzialità economiche degli atti già compiuti, diviene inevitabile
attribuire valore anche a quelle dichiarazioni formali che il sistema
impone e che ben possono rappresentare l’intenzione rilevante.
La mancanza di un effetto costitutivo richiede, infatti, che ad esse
non sia riconosciuto un effetto automatico, favorevole o sfavorevole al
contribuente, ma non implica in alcun modo che ne venga escluso
qualsiasi tipo di valore, soprattutto quale manifestazione diretta e
temporalmente certa dell’intenzione del soggetto ad intraprendere
51
Capitolo I
un’attività economica. Anche riconoscendo tal valore alle
dichiarazioni formali, la dimostrazione delle concrete potenzialità
economiche degli atti preparatori va collegata ai tradizionali
meccanismi che regolano l’onere della prova, suddividendolo tra
soggetto che richiede la detrazione, a dimostrazione del proprio diritto,
ed amministrazione che lamenta un comportamento abusivo, a sostegno
dei propri rilievi.
L’insieme di queste considerazioni emergenti dall’interpretazione
della Corte di Giustizia, risulta di grande importanza con riferimento
alla necessità, prima ricordata, di tenere sempre presente lo stretto
legame esistente tra profilo soggettivo ed oggettivo nel sistema
dell’imposta e di compiere, per questo motivo, un esame congiunto dei
due elementi.
La giurisprudenza richiamata sugli atti preparatori, nell’attribuire
rilevanza alle intenzioni del soggetto passivo, mostra, infatti, come la
stessa Corte senta la necessità di condurre un esame ampio, che,
nonostante l’oggettività dell’imposta costantemente affermata, prenda
in considerazione elementi diversi, tra cui quello del soggetto e delle
sue intenzioni, e che, attraverso una valutazione complessiva della
fattispecie e della situazione concreta, garantisca la corretta
applicazione dell’imposta e la tutela dei suoi principi informatori.
2.2 L’applicazione della medesima interpretazione alla fase
conclusiva dell’attività
La giurisprudenza comunitaria ha affrontato raramente il caso della
cessazione dell’attività economica. Sono infatti poche le pronunce in
merito, alcune in tema di cessazione per trasferimento dell’azienda ed
una sola in tema di diritto alla detrazione durante il periodo di
liquidazione 7 8 .
78
Sul diritto alla detrazione dell’Iva relativa alle spese sostenute per il
trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, si vedano in particolare CGCE, sent.
22 febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National;CGCE, sent. 27 novembre 2003,
causa C- 497/01, Zita Modes; CGCE, sent. 29 aprile 2004, causa C-137/02,
52
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Anche in questo caso i principi che guidano l’interpretazione della
Corte vanno individuati nella neutralità del sistema e nella
conseguente necessità di garantire all’operatore economico la
detrazione di tutta l’imposta versata a monte per beni o servizi che
siano confluiti in sue operazioni imponibili, pur se l'esame della fase
terminale dell'attività deve altresì coinvolgere l'ulteriore profilo
dell'imponibilità delle operazioni compiute, profilo che non sembra
emergere con riguardo alla fase preparatoria.
Nell’ambito di queste pronunce, la Corte estende ulteriormente la
nozione di attività economica rilevante, riducendo la portata del
principio di effettività dell’esercizio in favore, in questo caso,
soprattutto del nesso individuabile tra le operazioni a monte e quelle a
valle, pur se cessate. Riprendendo le fila del ragionamento svolto in
tema di atti preparatori, la Corte sviluppa infatti il ruolo del diritto alla
detrazione, specificandone le caratteristiche ed i presupposti,
particolari in una fase come quella conclusiva dell’attività.
Appare in questo senso molto interessante ricostruire le motivazioni
che hanno portato all’affermazione della sussistenza del diritto alla
detrazione nella fase di liquidazione nella sentenza Fini H 7 9 .
In essa, in primo luogo la Corte richiama la propria giurisprudenza
in tema di attività economica ed atti preparatori, confermando che,
essendo l’attività costituita da una pluralità di atti consecutivi, tra
Faxworld. Sul diritto alla detrazione nella fase di liquidazione dell’impresa CGCE,
sent. 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini H con nota di DEL VAGLIO M.,
Cessazione dell’attività d’impresa e detrazione Iva, Riv. Dir. Trib., 2005, III, 90.
79
Il caso verteva sulla sussistenza del diritto alla detrazione dell’imposta
relativa al canone d’affitto e ai costi delle utenze telefoniche ed elettriche
sostenute da una società di ristorazione che aveva cessato la propria attività, ma
essendo ancora vincolata dal contratto di locazione da cui non poteva recedere
anticipatamente aveva, per tutta la residua durata della locazione, mantenuto aperta
la partita Iva e continuato a presentare dichiarazioni ai fini dell’imposta in cui
emergeva costantemente un credito, non essendo più compiuta alcuna operazione
imponibile a valle. L’amministrazione finanziaria danese aveva contestato la
legittimità del comportamento tenuto, ritenendo che l’attività dovesse considerarsi
cessata, chiedendo pertanto la restituzione delle somme già rimborsate.
53
Capitolo I
questi
debbano
essere
inclusi
anche
quelli
preliminari,
indipendentemente dal fatto che essi conducano poi realmente allo
svolgimento di un’attività imponibile 8 0 .
In questo contesto si inserisce il diritto alla detrazione che, volto ad
esonerare il soggetto passivo dal peso dell’imposta, deve essere
garantito sia nel caso in cui l’attività non inizi sia nel caso in cui il
soggetto non compia più operazioni imponibili.
Assumono quindi rilevanza le caratteristiche tipiche della detrazione
come specificate nel tempo dalla giurisprudenza della Corte.
Perché l’imposta a monte sia detraibile è necessario che esista un
nesso immediato e diretto con le operazioni a valle, in assenza del
quale, in linea di principio, la detrazione dell’imposta dovrebbe essere
negata 8 1 . La giurisprudenza ha però posto in luce come questo nesso
non debba essere necessariamente attuale o specifico tra un’operazione
a monte ed una a valle, dovendo considerarsi valide per l’attribuzione
del diritto alla detrazione anche quelli che vengono considerati costi
generali della produzione, così come è necessario garantire la
detraibilità anche dell’imposta relativa a quelle spese che il soggetto
effettua per il trasferimento della propria attività, in seguito al quale
non compirà più operazioni imponibili 8 2 .
80
Sentenza Fini H cit. punti 22 ss.
81
Così CGCE, sent. 8 giugno 2000, causa C-98/98, Midland Bank nella quale la
Corte ha precisato (richiamando la sentenza 6 aprile 1995, C-4/94, BLP Group)
che il diritto alla detrazione spetta in linea di principio ove sussista un nesso
diretto tra le operazioni, pur restando acquisito in alcuni casi in cui l’operazione a
valle non venga posta in essere. Ciò che rileva è che l’imposta versata sia relativa
a beni o servizi il cui costo confluisce nella determinazione del costo del prodotto
dell’attività.
82
Così nella sentenza Abbey National cit., p. 38 ss in cui la Corte afferma
“Tuttavia, i costi di tali servizi fanno parte delle spese generali del soggetto
passivo e sono, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei prodotti di
un'impresa. Infatti, anche nel caso di trasferimento di una universalità totale di
beni, qualora il soggetto passivo non effettui più operazioni dopo l'utilizzazione
dei detti servizi, i costi di questi ultimi devono essere considerati inerenti al
complesso dell'attività economica dell'impresa prima del trasferimento. Ogni altra
54
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Queste precisazioni si rendono necessarie perché sia rispettata la
ratio della detrazione e per salvaguardare il sistema dell’imposta nel
suo complesso 8 3 , motivo per cui è necessario che il diritto sia garantito
immediatamente, nel momento in cui l’imposta diviene esigibile, tanto
in assenza di operazioni imponibili, quanto in fasi peculiari
dell’attività in cui il volume delle operazioni compiute può essere
notevolmente ridotto 8 4 .
Stabilito, quindi, che anche le spese sostenute per il trasferimento
interpretazione dell'art. 17 della sesta direttiva sarebbe contraria al principio che
impone che il sistema dell'IVA comporti una perfetta neutralità dell'imposizione
fiscale per tutte le attività economiche dell'impresa, purché queste siano di per sé
soggette all'IVA, e porrebbe a carico dell'operatore, nell'esercizio della sua
attività economica, l'onere dell'IVA senza dargli la possibilità di effettuarne la
detrazione. Così, si procederebbe ad un'arbitraria distinzione tra, da una parte, le
spese effettuate per le esigenze di un'impresa prima dell'esercizio effettivo di
quest'ultima e quelle effettuate durante il detto esercizio e, dall'altra, le spese
effettuate per porre fine a tale esercizio. I vari servizi utilizzati dal cedente per le
esigenze del trasferimento di una universalità totale o parziale di beni comportano
quindi in linea di massima un nesso immediato e diretto con il complesso
dell'attività economica di tale soggetto passivo”. Nello stesso senso anche la
sentenza Faxworld cit.
83
Come ricordato dall’Avvocato Generale Jacobs nelle conclusioni del 28
ottobre 2004, presentate nella causa Fini H, p. 32, “L’IVA è definita come
un’imposta generale sul consumo (finale, privato) e non come un carico gravante
su imprese che operano nelle fasi che portano a tali consumi. La Corte ha
costantemente evidenziato che il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare
interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue
attività economiche. Le situazioni in cui un soggetto passivo può recuperare l’IVA
pagata a monte senza effettuare operazioni tassabili a valle comportano
semplicemente la restituzione di somme precedentemente anticipate alle autorità
fiscali sul presupposto che le operazioni che le avevano giustificate portassero ad
un’ultima operazione tassabile per il consumo finale. Se tale presupposto non è
soddisfatto e tale consumo finale non si verifica, manca il fondamento per la
riscossione dell’imposta in stadi precedenti. Di conseguenza, gli importi anticipati
devono essere restituiti al soggetto passivo su cui grava attualmente il carico
fiscale”.
55
Capitolo I
dell’azienda danno il diritto alla detrazione e che esso resta acquisito
anche in assenza di operazioni imponibili, purchè sussista un nesso
con la precedente attività, la Corte ha necessariamente esteso lo stesso
principio alla generalità delle fasi liquidatorie, accogliendo le
osservazioni dell’Avvocato Generale secondo cui, inevitabilmente, la
perdita della soggettività passiva non può essere immediata e
coincidente con la cessazione dell’esercizio dell’attività tipica, ossia al
compimento dell’ultima operazione a valle, dovendosi imputare al
84
In questo senso appaiono chiarissime le considerazioni svolte dall’Avvocato
Jacobs, il quale richiama così i profili principali del diritto alla detrazione (p.
24-28): In primo luogo, benché l’imposta a monte possa essere detratta solo se i
beni e servizi a cui si riferisce sono impiegati per operazioni tassabili a valle, e
benché in tale contesto sia spesso usata la metafora di una catena di transazioni,
la detrazione non dipende dal completamento di una sequenza cronologia di
operazioni a monte e a valle specificamente in rapporto tra loro. Pertanto
l’imposta pagata a monte è deducibile non appena è esigibile e non è necessario
attendere che sia effettuata un’operazione a valle che utilizzi l’acquisizione a
monte. Ciò che rileva è stabilire se quell’operazione a monte costituisce una
componente del costo di un’operazione tassabile a valle e presenta quindi un
nesso immediato e diretto con tale transazione. In secondo luogo, sebbene i costi
generali di un’impresa che effettua operazioni tassabili a monte non possano
essere attribuiti a operazioni a valle specifiche, essi sono in linea di principio da
considerarsi di per sé come componenti del costo laddove presentino un nesso
immediato e diretto con il complesso della sua attività economica. In terzo luogo,
non solo l’IVA pagata a monte è detraibile, sia su servizi specifici che sui costi
generali di gestione, prima ancora che sia effettuata qualsiasi operazione
tassabile a valle – per esempio quando viene avviata un’impresa –, ma il diritto di
effettuare la detrazione rimane acquisito anche quando l’attività economica
prevista non ha dato luogo ad operazioni tassate o il soggetto passivo non ha
potuto utilizzare i beni o i servizi acquisiti per circostanze estranee alla sua
volontà. Tuttavia in tali casi si presuppone la condizione che vi sia una reale
intenzione – dimostrata da prove obiettive che le autorità fiscali hanno pieno
diritto di pretendere – di effettuare tali transazioni e che i costi siano stati
sostenuti a tale scopo. In quarto luogo, il diritto alla deduzione può continuare ad
esistere persino quando il soggetto passivo non realizzi più operazioni a valle
dopo aver acquisito le forniture a monte, come ad esempio nel caso di spese
56
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
risultato finale dell’attività anche le spese successivamente sostenute,
la cui imposta dovrà essere considerata per determinare il totale
dell’Iva imputabile all’attività.
Anche in questo caso l’unico limite posto dalla Corte è costituito
dalla verifica di un comportamento fraudolento da parte del soggetto
passivo, a fronte del quale l’amministrazione sarebbe autorizzata a
disconoscere la soggettività e la detrazione con effetto retroattivo.
La Corte accenna, però, ad un altro elemento che in questo contesto
può assumere grande importanza ai fini della verifica della permanenza
del nesso tra le operazioni compiute o le spese sostenute e la
precedente attività economica.
Ci si riferisce al criterio temporale che emerge dalla considerazione
per cui la durata del periodo in cui vengono sostenute spese in assenza
di operazioni imponibili è priva d’incidenza sull’esistenza di
un’attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 1, della Sesta Direttiva
sempreché tale lasso di tempo sia strettamente necessario alla
conclusione delle operazioni di liquidazione 8 5 .
L’affermazione della Corte si riallaccia in questo modo
all’interpretazione adottata in materia di atti preparatori, laddove si
sostiene che la detrazione dell’imposta spetta indipendentemente dal se
e dal quando i beni verranno utilizzati ai fini dell’attività economica.
Non sindacando il comportamento del soggetto in quell’ambito ne
consegue che, specularmente, anche la lunghezza del periodo privo di
operazioni imponibili nella fase terminale non sia in grado di influire
sul diritto alla detrazione, sempre che l’eccessiva durata della
liquidazione non sfoci in realtà in comportamenti abusivi.
Ciò sembra significare che, se da un lato non si può pensare che da
un giorno all’altro un’attività cessi e concluda la propria liquidazione,
dall’altro non si possa nemmeno ipotizzare un eterno collegamento tra
i beni e l’attività ormai cessata, prolungandone in modo fittizio
l’esistenza. Tale considerazione può valere, dunque, sia per evitare
sostenute per concludere lo svolgimento dell’attività economica.”
85
Cfr. sentenza Fini H cit., punto 29.
57
Capitolo I
abusi da parte del soggetto passivo, sia per limitare, sul fronte
opposto, quelle interpretazioni che ravvisano la sopravvivenza
dell’impresa nella permanenza, anche dopo molto tempo, di beni ad
essa teoricamente riconducibili.
Pur nella particolarità del caso esaminato, nell’intento di garantire il
rispetto della neutralità del sistema impositivo, il giudice comunitario
adotta sicuramente un’interpretazione che riconosce con maggior
favore le ragioni del soggetto passivo, limitando il potere del giudice
nazionale e dell’amministrazione di disconoscere detrazioni (o negare
rimborsi) al solo caso di evidente abuso della norma comunitaria e
nazionale, pur attribuendo loro la facoltà di richiedere riscontri
oggettivi circa le intenzioni e la buona fede del soggetto passivo.
Si assiste perciò ad un ulteriore allargamento delle maglie
interpretative della Corte, la quale sembra prescindere, anche nel caso
della cessazione, da quelle caratteristiche di effettività che dovrebbero
contraddistinguere la nozione di attività economica. Approccio
assolutamente comprensibile se si considera che l’attività liquidatoria
difficilmente potrebbe essere in grado di presentare quel grado di
effettività che si richiede ad una attività economica nel pieno del suo
esercizio.
Nel fare questo, come nel caso degli atti preparatori aveva
teorizzato un giudizio prognostico, la Corte adotta una prospettiva che
non guarda al presente, ossia all’effettività dell’esercizio, quanto
piuttosto al passato, alla ricerca della permanenza del vincolo tra spese
sostenute in fase liquidatoria e precedente attività, qualora non siano
più compiute operazioni imponibili.
In realtà, la Corte non chiarisce bene quale debba essere tale nesso,
quale sia la sua origine, lasciando piuttosto pensare che sia necessario
valutare i costi sostenuti nella stessa prospettiva adottata nel corso
dell’esercizio.
Ciò significa che il collegamento non dovrà necessariamente essere
diretto o specifico tra operazioni identificate. Allo stesso modo non
sarà garantito dalla natura o dalla destinazione di beni e servizi
acquistati, trattandosi, come si è visto, di un criterio non
58
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
necessariamente risolutivo.
Osservando questa interpretazione sembrano potersi desumere
alcune considerazioni anche sulla fase attiva della liquidazione,
cercando di valutare se, nella prospettiva comunitaria, le operazioni di
liquidazione antecedenti alla definitiva cessazione dell’attività siano
da considerarsi ordinariamente imponibili o estranee all’ambito di
applicazione dell’imposta.
Se infatti si ammette che l’esistenza dell’attività rilevante venga
riconosciuta per la sola presenza di spese collegate al precedente
esercizio e con essa si consente di mantenere soggettività passiva e
diritto alla detrazione, diviene difficile negare la riconducibilità alla
sfera di esistenza dell’attività di una fase di liquidazione attiva, volta a
monetizzare il patrimonio dell’attività e ad esaurirne le pendenze
giuridiche. In questo senso, non sussistono nella disciplina comunitaria
elementi che evidenzino una differenza tra la fase di esercizio e la
distinta fase liquidatoria.
In realtà, è la stessa natura dell’attività economica rilevante ai fini
dell’imposta ad implicare una certa uniformità: se si ritiene che
l’attività si manifesti in una serie di atti consecutivi, rilevanti
indipendentemente dallo scopo o dalla forma giuridica con cui sono
compiuti, che presentino fra loro un certo collegamento, diviene
difficile ipotizzare una distinzione tra le operazioni compiute nel corso
dell’esercizio e quelle successive, soprattutto quando si tratti di
operazioni comunque riconducibili alla categoria di quelle
potenzialmente imponibili.
Ciò a maggior ragione se si considera che la giurisprudenza della
Corte di Giustizia deroga ad un’applicazione rigida del principio di
effettività, prolungando l'esistenza dell'attività rilevante ai fini
dell'imposta anche a fronte di sole operazioni passive.
Necessaria ad individuare alcuni elementi utili può essere anche una
considerazione circa la portata degli adempimenti formali.
La Corte non affronta in questo caso il tema degli effetti degli
adempimenti formali, essendosi trovata a decidere di un caso in cui
l’operatore economico aveva mantenuto aperta la propria posizione di
59
Capitolo I
soggetto passivo dell’imposta giusto al fine di continuare ad esercitare
il diritto alla detrazione da questa derivante. Se dunque
l’interpretazione dei giudici comunitari va nel senso di garantire la
legittimità di un tale comportamento quando non sussista un
comportamento fraudolento e la durata della liquidazione sia, di fatto,
giustificata da cause indipendenti dal soggetto, nulla dice sulle ipotesi
in cui invece l’attività sia formalmente cessata, ma permangano ancora
beni ad essa riconducibili.
Unendo le considerazioni circa gli effetti non costitutivi degli
adempimenti formali ed il ruolo che in questa giurisprudenza viene
attribuito al legame tra beni ed attività, sotto forma di rapporto di
inerenza, potrebbe sostenersi che, indipendentemente dalla cessazione
formale, le operazioni relative a questi beni dovrebbero continuare a
considerarsi imponibili stante la permanenza di questo collegamento.
Si ritiene, però, che sia più corretto accogliere qui
un’interpretazione che, come accade nel caso degli atti preparatori,
unisca l’oggettività del principio di inerenza al profilo soggettivo
costituito dalle intenzioni del soggetto passivo e al valore riconosciuto
agli adempimenti formali quale dimostrazione di queste.
In questa prospettiva la rilevanza centrale del principio di inerenza
affermata dalla sentenza esaminata si giustifica con la considerazione
che con essa si voleva stabilire la riconducibilità alla sfera
dell’imposta della fase liquidatoria garantendo l'applicabilità del
diritto alla detrazione e non individuarne un limite temporale, come
accade invece nel caso degli atti preparatori.
Dovendo individuare tale limite, cui si collega anche la necessità di
identificare una causa di interruzione del nesso prima evidenziato,
sembra più utile accogliere la valutazione dell’elemento soggettivo che
viene fatta in sede di determinazione dell’inizio dell’attività rilevante,
non potendosi dimenticare che, in ogni caso, il nesso richiesto è
fortemente caratterizzato sotto il profilo soggettivo, derivando la sua
esistenza dalla volontà stessa del soggetto e dall’indirizzo da essa
impresso.
Ciò significa che, se nell’ambito dell’esercizio la valutazione può
60
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
essere condotta su un piano più oggettivo, guardando al vincolo di
destinazione dei beni all’esercizio dell’attività, inevitabilmente nello
studio delle fasi iniziale e finale assume rilevanza anche quello
soggettivo, dovendosi considerare altresì il dato costituito dalla
volontà dell’agente, sia che essa sia diretta al raggiungimento di un
risultato economico sia che essa sia rivolta alla semplice soddisfazione
di soci e creditori attraverso la monetizzazione del patrimonio dedicato
all’attività.
Anche in questo caso, dunque, escluso qualsiasi valore costitutivo
alla dichiarazione di cessazione presentata dal contribuente e data la
necessità che ad essa corrispondano elementi di fatto a conferma della
buona fede del soggetto passivo, dovrebbe comunque ritenersi valido il
principio per cui esse, in quanto espressione delle intenzioni del
soggetto, dovrebbero mantenere la propria validità fintanto che non si
dimostrino prive di elementi concreti a proprio sostegno o contrarie
alle reali intenzioni del soggetto che si sostanziano in comportamenti
abusivi.
Se quindi la dichiarata intenzione di intraprendere un’attività
economica è per la Corte elemento sufficiente a riconoscere la
soggettività passiva all’operatore economico, allo stesso modo la
dichiarata intenzione di cessarla dovrebbe ritenersi elemento
sufficiente a far perdere la soggettività passiva e, soprattutto, ad
interrompere il collegamento tra i beni eventualmente residui e la
precedente attività, dando vita alle ultime ipotesi di imponibilità o di
esercizio della detrazione.
In conclusione, dunque, la riconducibilità nell'ambito dell'attività
rilevante della fase liquidatoria può sintetizzarsi in due diverse
considerazioni: da un lato, in presenza di operazioni attive l'attività
dovrà considerarsi ancore in essere grazie al compimento da parte del
soggetto passivo di operazioni imponibili, indipendentemente dalla
presenza di uno scopo differente da quello dell'esercizio tipico;
dall'altro, in presenza di sole operazioni passive, e quindi
semplicemente di costi finalizzati alla chiusura dell'attività, essa dovrà
considerarsi ancora esistente fintantoché permanga un collegamento tra
61
Capitolo I
questi ed il precedente esercizio.
Anche questa ricostruzione poggia sulla necessità di garantire la
coerenza del sistema e la sua neutralità, da un lato, consentendo
comunque di esercitare la detrazione a chi ancora agisca in veste di
soggetto passivo e, dall'altro tutelando il trattamento omogeneo delle
operazioni rilevanti ai fini dell'imposta, mantenendone l'imponibilità
anche al di fuori dell'esercizio tipico quando rappresentino comunque
una forma di immissione al consumo, costituita dal distacco dal
circuito economico di beni e servizi effettuata da un soggetto passivo.
In questo senso, l'imponibilità delle cessioni a titolo oneroso a
scopo liquidatorio può collocarsi nella struttura ordinaria dell'imposta,
fondandosi sul medesimo presupposto rappresentato da operazioni fra
loro omogenee. Ad essa si affiancano, come si vedrà in seguito, le
ipotesi di applicazione dell'imposta per autoconsumo a seguito di
cessazione dell'attività, assimilate alle ordinarie operazioni imponibili
pur in assenza di una cessione effettiva, proprio allo scopo di garantire
la coerenza del sistema impositivo, attraverso l'imposizione di ogni
forma di immissione al consumo di beni e servizi, e quindi anche
attraverso il semplice possesso di beni aldilà della vita economica
degli stessi, quando il loro acquisto abbia dato diritto alla detrazione
dell'imposta applicata a monte.
2.3- L’autoconsumo e la destinazione a finalità
all’impresa in relazione alla cessazione dell’attività
estranee
Per completare l’analisi sin qui condotta, è necessario, dunque,
valutare quali siano, nell’ordinamento e nella giurisprudenza
comunitaria, la portata e l’effettiva applicabilità dell’imposta per
autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, assumendo
tale ipotesi di imponibilità una notevole importanza sia nell’esame del
rapporto con l’esercizio dell’attività sia, e soprattutto, nel rapporto con
la sua cessazione.
Sono diverse le norme che all’interno delle direttive Iva affrontano
il caso della destinazione dei beni o dell’utilizzo dei servizi
62
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
dell’impresa a fini ad essa estranei, tra cui figurano anche l’utilizzo
per il proprio personale e l’utilizzo privato da parte del soggetto
passivo, cui viene equiparato anche il trasferimento a titolo gratuito.
Dispone infatti l’art. 16 della Dir. 2006/112/CE 8 6 che è assimilato a
una cessione di beni a titolo oneroso il prelievo di un bene dalla
propria impresa da parte di un soggetto passivo il quale lo destina al
proprio uso privato o all'uso del suo personale, lo trasferisce a titolo
gratuito o, più generalmente, lo destina a fini estranei alla sua impresa,
quando detto bene o gli elementi che lo compongono hanno dato diritto
ad una detrazione totale o parziale dell'Iva.
La stessa assimilazione avviene in seno all’art. 26 8 7 per quanto
riguarda le prestazioni di servizi.
Come chiarito ripetutamente dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia, la ratio di tali norme è quella di garantire la parità di
trattamento tra il soggetto passivo che preleva un bene o usufruisce di
un servizio che gli ha dato diritto alla detrazione dell’imposta versata
a monte ed il consumatore finale che, invece, acquisti tali beni sul
mercato 8 8 . La condizione di applicabilità dell’imposta in questi casi è
il fatto che la detrazione sia stata effettuata e la misura in cui questo è
avvenuto.
Larga parte della giurisprudenza in materia si è infatti concentrata su
questo profilo della norma, ossia sull’effettiva appartenenza dei beni
all’impresa e la detrazione effettuata al momento dell’acquisto,
stabilendo che il soggetto passivo è libero di scegliere se destinare un
bene acquistato interamente all’uso privato, interamente all’impresa o
in parte all’uno e in parte all’altra, restando escluso il diritto alla
detrazione solo nel primo caso 8 9 .
86
Corrispondente all’art. 5, par. 6 della Sesta Direttiva
87
Corrispondente all’art. 6, par. 2, lett. a e b della Sesta Direttiva
88
In proposito si vedano CGCE, sent. 6 maggio 1992, C- 20/91, de Jong;
CGCE, sent. 26 settembre 1996, C- 230/94, Enkler ; CGCE, sent. 27 aprile 1997,
C- 48/97, Q8 Petroleum; CGCE, sent. 14 settembre 2006, C-72/05, Woolny.
89
Così in CGCE, sent. 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz; CGCE, sent. 4
ottobre 1995, C-291/92, Armbrecht; CGCE, sent. 8 marzo 2001, C- 415/98, Bakcsi;
63
Capitolo I
Accanto a questa fattispecie, che la dottrina definisce come
autoconsumo esterno, la disciplina comunitaria prevede anche la
possibilità che l’imposta venga applicata nelle ipotesi di autoconsumo
cosiddetto interno, che consiste nella destinazione da parte di un
soggetto passivo alle esigenze della propria impresa, di un bene
prodotto, costruito, estratto, lavorato, acquistato o importato
nell'ambito di detta impresa, qualora l'acquisto del bene in questione
presso un altro soggetto passivo non gli dia diritto alla detrazione
totale dell'Iva 9 0 .
La differenza tra le due ipotesi di autoconsumo consiste
sostanzialmente nella fuoriuscita o meno del bene dall’attività
economica, nonostante vi sia in entrambi i casi un mutamento della sua
destinazione specifica 9 1 .
In relazione alle due ipotesi sono però le stesse norme ad assumere un
atteggiamento diverso: se l’autoconsumo esterno è in ogni caso
assimilato alle operazioni imponibili, per quello interno il legislatore
ha lasciato agli Stati membri la facoltà di scegliere se considerarlo
come operazione imponibile o, al contrario, del tutto irrilevante ai fini
dell’imposta.
In proposito, un’altra norma assume rilevanza centrale soprattutto ai
fini dell’indagine qui svolta. Alle disposizioni su autoconsumo e
destinazione a finalità estranee che interessano, nell’ambito della
Direttiva, la fase attiva dell’impresa o della professione, deve essere
affiancata la norma contenuta nella lett. c dell’art. 18 la quale dispone
CGCE, 14 luglio 2005, C-434/03, Charles- Charles- Tijmens
90
Art. 18, par. 1, lett. a Dir. 2006/112/CE. La disposizione era precedentemente
contenuta nell’art. 5, par. 7 lett. a della Sesta Direttiva.
91
Sottolinea C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo cit.,1 ss. che l’assimilazione alle
cessioni a titolo oneroso del c.d. autoconsumo interno trova la sua ragion d’essere
nell’esigenza di scoraggiare le integrazioni verticali nell’ambito delle imprese e
di garantire parità di trattamento, sotto il profilo impositivo, tra beni acquistati e
successivamente destinati ai bisogni dell’impresa e che non abbiano consentito la
deduzione immediata o completa e beni prodotti dal soggetto passivo (o da un
terzo per suo conto) utilizzati per le stesse finalità
64
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
che il possesso di beni da parte di un soggetto passivo o dei suoi aventi
causa in caso di cessazione dell’attività economica imponibile, quando
detti beni hanno dato diritto ad una detrazione totale o parziale
dell'IVA al momento dell'acquisto o della loro destinazione
conformemente alla lettera a), può essere dal legislatore nazionale
assimilato ad una cessione imponibile.
La chiarezza della lettera di questa disposizione è in grado di
fornire alcuni elementi di grande importanza, in particolare nella
risoluzione del quesito circa la capacità della cessazione dell’attività
ad interrompere il legame tra beni ed impresa, dando vita all’ultima
operazione imponibile imputabile all’attività cessata.
Il legislatore comunitario ipotizza infatti un’ulteriore ipotesi di
autoconsumo che si verifica allorquando in seguito alla cessazione
dell’attività economica i beni ad essa pertinenti rimangano
semplicemente nella disponibilità del soggetto passivo o dei suoi
aventi causa, riferendosi presumibilmente in questi casi ai
trasferimenti che avvengano mortis causa.
Se ne desume pertanto che, al di fuori delle ipotesi che si verificano
nel corso dell’esercizio dell’impresa, la presenza di una effettiva
utilizzazione a fini privati dei beni non assume rilevanza, potendo
l’imposizione conseguire anche alla mera inutilizzazione che, stante la
cessazione dell’attività imponibile, ben può configurare un’ipotesi di
immissione al consumo. Il legislatore comunitario riconosce, quindi,
alla cessazione la capacità di interrompere il vincolo di inerenza tra
beni ed attività, proprio perché venendo meno la stessa attività la
permanenza del collegamento sarebbe infondata.
A ben vedere questa norma si ispira alla stessa ratio delle
precedenti, mirando a non creare una disparità di trattamento tra il
soggetto che acquisti la disponibilità di un bene che gli ha dato diritto
alla detrazione ed il consumatore finale. In tale prospettiva, a poco
rileva che il soggetto passivo cessato ritragga un’effettiva utilità dal
bene attraverso un utilizzo concreto, potendo tale utilità rimanere ad
un livello meramente potenziale, insita nel semplice possesso. Essa
rientra dunque fra le norme di chiusura che il legislatore comunitario
65
Capitolo I
ha previsto per scongiurare il rischio che alcuni beni escano dal ciclo
economico produttivo detassati, in attesa di un’utilizzazione che
potrebbe di fatto mai verificarsi.
Anche questa ipotesi di autoconsumo rientra tra le opzioni che la
disciplina comunitaria lascia al legislatore nazionale, che resta libero
di non attribuire rilevanza a tali ipotesi. Laddove però la norma venga
adottata all’interno dello Stato membro, si ritiene che la sua
applicazione non possa discostarsi da quanto qui evidenziato, anche in
considerazione del fatto che la norma comunitaria, pur non essendo
stata oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia,
fornisce elementi sufficientemente chiari da non porne in dubbio la
reale portata.
In conclusione, dunque, sembra emergere dalla disciplina
comunitaria l’intenzione di sottoporre a tassazione tutte le ipotesi 9 2 ,
diverse da trasferimento o prestazione al consumatore finale, in cui il
bene o il servizio fuoriesca dall’orbita dell’attività economica e del
circuito economico in generale, facendo venire meno la necessità di
esentare il soggetto passivo dal peso dell’imposta sopportata per le
spese sostenute a monte.
In questi casi, contrariamente a quanto accade nel corso
dell’esercizio, per garantire la coerenza del sistema e soprattutto per il
rispetto del principio di neutralità, intesa qui come parità di
trattamento, non è più necessario tutelare il diritto alla detrazione, ma
al contrario si deve garantire l’applicazione dell’imposta nel modo più
generale ed esteso, evitando di trascurare ipotesi che, forse, nel regime
ordinario non sarebbero rilevanti.
Il legislatore comunitario prevede, dunque, operazioni imponibili
per assimilazione che non si ricollegano, se non sotto il profilo della
92
L’unico caso che può escludersi, sempre a discrezione del legislatore
nazionale, è quello della cessione onerosa o gratuita dell’azienda o del suo
conferimento in società, ipotesi in cui l’art. 19 consente la possibilità di
considerare
il
trasferimento
come
non
avvenuto
ed
il
cessionario
come
continuazione della persona del cedente, venendo dunque meno la necessità di
applicare l’imposta all’operazione.
66
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
detrazione effettuata, con l’attività economica. Non c’è la necessità
che si rispettino caratteristiche specifiche, né che si svolgano giudizi
sul rapporto con l’attività. Considerando in particolare l’ultima ipotesi
prevista, l’autoconsumo per possesso dei beni, si possono però trarre
importanti indicazioni sul tema che ci interessa.
Una prima osservazione è necessaria: se si guarda al contesto fino
ad ora esaminato appare evidente che l’autoconsumo in oggetto troverà
applicazione solo contestualmente alla cessazione formale, data
l’ordinaria imponibilità della fase liquidatoria pur in assenza di
esercizio tipico. Una sua applicazione in un momento diverso non
avrebbe senso, perché si sovrapporrebbe ad altre ipotesi imponibilità.
Da questa considerazione si può trarre un’importante conclusione
circa il ruolo e gli effetti della cessazione dell’attività nel sistema
dell’imposta. Essa rappresenta l’ultima fattispecie imponibile
ipotizzata dalle norme cui consegue la definitiva fuoriuscita del
soggetto e dei beni dal sistema Iva.
Si deve però chiarire a quale cessazione si fa riferimento; il regime
di imponibilità e detrazione ordinaria della fase liquidatoria impone,
come si è sostenuto in precedenza, di escludere la rilevanza della
cessazione di fatto dell’attività tipica: fintanto che il soggetto passivo
si comporti in quanto tale compiendo operazioni attive di liquidazione,
collocabili tra quelle imponibili, o sostenendo costi all’attività
collegati e sia quindi ancora individuabile un collegamento, sia
oggettivo che soggettivo, tra il precedente esercizio e la fase
conclusiva della via dell'attività, a poco rileverà il mutamento dello
scopo da commerciale a liquidatorio.
Come sottolineato dalla Corte nella sentenza Fini H, deve infatti
considerarsi sufficiente a garantire la sopravvivenza di un'attività
rilevante ai fini dell'imposta e, di conseguenza, il mantenimento della
soggettività passiva e della titolarità del diritto alla detrazione, la
presenza di un collegamento tra la precedente attività ed i costi
sostenuti per la sua chiusura, o comunque in assenza di esercizio. In
questi casi, dunque, non potrebbe ancora trovare applicazione la norma
in esame che dispone l'autoconsumo alla cessazione dell'attività,
67
Capitolo I
perchè secondo l'interpretazione resa dai giudici europei, la cessazione
dell'attività imponibile non si è ancora verificata.
D’altro canto, la previsione di una norma di chiusura come
l’autoconsumo per possesso dei beni residui porta ad escludere la
possibilità che il nesso su cui si fonda la detrazione possa mantenersi
all’infinito, garantendo la sopravvivenza di attività imponibile e
soggetto passivo sino ad una cessione effettiva, salvo rendere del tutto
priva di contenuto ed efficacia la norma.
Unendo a tali considerazioni a quelle svolte in precedenza circa la
rilevanza, dalla stessa Corte dimostrata, del profilo soggettivo nella
prospettiva dinamica dell’attività economica, diviene inevitabile
attribuire la qualifica di ultima fattispecie imponibile alla cessazione
formale dell’attività economica.
Essa, diretta conseguenza dell’intenzione di interrompere l’attività
manifestata dal soggetto attraverso la dichiarazione di cessazione, e
già dimostrata dal compimento della fase liquidatoria e dalla
cessazione dell’attività tipica, è in grado di segnare il momento di
effettiva fuoriuscita di soggetto e beni dal circuito economico,
permettendo di tutelare, da un lato, l’integrità del sistema e, dall’altro,
la certezza del diritto per il soggetto passivo, che da quel momento
non potrà più considerarsi tale, fatta salva la dimostrazione del suo
comportamento fraudolento sancito dalla continuazione, non
dichiarata, dell’attività imponibile.
2.4- Il principio di neutralità quale ratio della nozione unitaria di
attività economica
Dall’esame sin qui condotto emergono profili diversi che
caratterizzano l’interpretazione della Corte di Giustizia nelle diverse
ipotesi in cui è stata chiamata a pronunciarsi circa l’esistenza
dell’attività, o meglio circa la riconducibilità delle operazioni
compiute all’attività rilevante ai fini della soggettività passiva
all’imposta, dell’imponibilità delle operazioni stesse e del
riconoscimento del diritto alla detrazione.
68
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
L’apparente diversità nella prospettiva adottata dalla Corte
attraverso l’individuazione di criteri non uniformi non deve però
essere considerata come un ostacolo all’individuazione di un filo
conduttore che conduca ad unità tali pronunce, quali espressione del
principio di neutralità che, inevitabilmente, assume connotati in parte
differenti a seconda del contesto in cui viene inserito.
Riassumendo brevemente ciò che risulta dall’interpretazione,
soprattutto dell’art. 4 della Sesta Direttiva, si può sostenere che:
-) quando si tratta di riconoscere la rilevanza di una attività
economica concretamente esercitata, la Corte ne esamina la
corrispondenza alle caratteristiche indicate dalla norma quali
l’economicità, l’obiettivo commerciale, il collegamento con il mercato,
l’abitualità e l’indipendenza. Quando sia dunque certo l’esercizio,
sotto il profilo del principio di effettività, e non possa porsi in dubbio
l’esistenza di un’attività, la Corte si concentra sulla sua rispondenza ai
presupposti delineati, sulla base dei quali è possibile riconoscere
soggettività passiva, imponibilità delle operazioni e diritto alla
detrazione. In questi casi, la Corte procede ad un esame di stampo
sostanzialmente oggettivo, in cui assumono rilevanza i dati
concretamente riscontrabili, tra cui vengono indicati come possibili
indici le modalità di svolgimento dell’attività, la tipologia dei beni
utilizzati ed il collegamento tra questi e l’attività svolta.
-) la prospettiva della Corte muta quando si tratta, invece, di
definire non se un’attività sia economica ai sensi della Direttiva, ma se
essa sia già iniziata. In questi casi la giurisprudenza comunitaria
abbandona un approccio rigidamente oggettivo, allargando le maglie
della propria interpretazione sino ad attribuire rilevanza al profilo
soggettivo della fattispecie, rappresentato dall’intenzione manifestata
dal soggetto agente. La nozione già ampia di attività economica
contenuta nelle Direttive e specificata dalla Corte subisce un’ulteriore
estensione, in virtù della quale viene mitigato il carattere stringente
69
Capitolo I
delle caratteristiche prima evidenziate, divenendo sufficiente la
semplice possibilità che tali caratteristiche si manifestino
compiutamente in un momento successivo.
Nell’interpretazione resa in tema di atti preparatori, la Corte concilia
quindi il proprio approccio generalmente oggettivo e sostanziale, pur
presente nella necessità di riscontri obiettivi che, anche in questo caso,
possono ricondursi ad una verifica dell’inerenza, con un giudizio
prospettico che, inevitabilmente, porta a coinvolgere la volontà del
soggetto passivo, rendendo necessaria la valutazione dell’idoneità e
della potenzialità economica delle operazioni effettuate, presunta in
tutti quei casi in cui la buona fede del soggetto agente non sia
contraddetta dalla verifica della presenza di intenti abusivi.
-) la prospettiva della giurisprudenza sembra mutare nuovamente
quando la Corte deve stabilire la rilevanza delle operazioni, attive o
passive, imputabili alla fase di liquidazione dell’attività economica.
Anche in questo caso, la valutazione delle sole caratteristiche
dell’attività non appare sufficiente, in considerazione del fatto che la
vera e propria attività, guidata dal principio di effettività, potrebbe
essere non più ravvisabile. Se, dunque, con riguardo agli atti
preparatori si rende necessario un esame prospettico della loro idoneità
a dare vita ad un’attività che sia economica nell’accezione accolta dal
diritto comunitario, in questi casi la Corte introduce un esame rivolto
al passato, recuperando un approccio maggiormente oggettivo, al fine
di identificare la permanenza di un collegamento tra questa fase e la
precedente attività, nesso che da solo è considerato sufficiente al
mantenimento della soggettività passiva all’imposta.
Nei tre casi esaminati, il ragionamento svolto dalla Corte sembra
andare i direzioni differenti, attribuendo importanza centrale di volta
in volta ad elementi diversi.
A ben vedere, però, esiste un preciso filo conduttore che permette di
ricondurre ad unità i giudizi della Corte. Tale legame è costituito dal
principio di neutralità caratteristico dell’imposta, la cui applicazione
70
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
porta, a seconda dei casi, ad affermare la prevalenza di alcuni elementi
sugli altri.
Se nel definire le caratteristiche dell’attività economica esso porta
ad estenderne la portata per coinvolgere tutti gli stadi del processo
produttivo sino al mercato, escludendo solo quelle tipologie di attività
che sono del tutto ininfluenti sul ciclo economico produttivo e sugli
equilibri del mercato, nello stabilire quando l’attività rilevante inizi o
finisca sono altri gli elementi che l’esigenza di neutralità pone in luce.
In questa prospettiva, dunque, con riguardo alla fase iniziale
dell’attività economica viene limitata la rilevanza dell’effettivo
esercizio di un’attività rivolta al mercato, nel tentativo di prevenire gli
effetti negativi che un ritardo nel riconoscimento della soggettività
passiva potrebbe avere, addossando all’operatore economico il costo
fiscale della fase di avvio dell’attività, come se questi fosse un
consumatore finale. In tale contesto, non avendosi un esercizio in base
al quale valutare il nesso tra le operazioni, è inevitabile che assuma
rilevanza l’elemento soggettivo, pur se mitigato dalla necessità che
risulti oggettivamente dimostrabile.
Le medesime esigenze di garantire la neutralità dell’imposta per
l’operatore
economico
portano
all’ulteriore
estensione
dell’applicabilità dell’imposta ai casi di liquidazione. In questi casi,
esistendo già un’attività che funga da elemento di confronto, recupera
centralità il profilo dell’oggettivo collegamento tra le operazioni,
senza che sembri necessario valutare l’elemento intenzionale.
Dalla centralità della tutela della neutralità del sistema dell’imposta
deriva il ruolo fondamentale attribuito al corretto esercizio del diritto
alla detrazione, che del principio di neutralità è prima e diretta
applicazione.
I giudizi della Corte appaiono, dunque, costantemente volti a
garantire l’esercizio della detrazione, anche sotto forma di rimborso
dell’eccedenza versata, in tutti quei casi in cui non sia dimostrabile un
intento fraudolento del soggetto passivo. In questa prospettiva, anche
il richiamo alla necessità di un nesso tra le operazioni a monte e quelle
a valle assume connotati più sfumati, fino a confluire in un generale
71
Capitolo I
collegamento tra le spese sostenute e l’attività economica nel suo
complesso, pur in assenza di operazioni imponibili compiute dal
soggetto passivo.
In questo senso, diventa allora fondamentale il richiamo fatto dalla
Corte alla necessità di certezza del diritto, principio che
implicherebbe, in assenza di elementi che testimonino un abuso,
l’impossibilità per gli organi amministrativi di disconoscere
soggettività passiva e detrazione qualora i necessari presupposti
vengano meno in un momento successivo al loro iniziale
riconoscimento e indipendentemente dal comportamento del
contribuente.
Da questa linea interpretativa discende, infine, quanto sancito dalla
Corte in tema di adempimenti formali, laddove ha affermato che essi
non hanno rilevanza costitutiva, nel senso che la loro mancanza non è
in grado di influire sul piano sostanziale per quanto attiene ad
attribuzione della soggettività passiva e riconoscimento del diritto alla
detrazione, dichiarandone tuttavia la capacità a raggiungere tale scopo
quando costituiscano manifestazione in buona fede delle reali
intenzioni del soggetto interessato.
A ben vedere, pertanto, le pronunce della Corte relative alle diverse
fasi dell’attività economica possono considerarsi manifestazione dello
stesso principio, alla cui affermazione tutta l’opera dalla
giurisprudenza comunitaria è volta. Ne consegue che nel sistema
dell’imposta il ruolo dell’attività economica deve considerarsi
unitario, indipendentemente dalla fase in cui essa si trovi, fulcro della
struttura impositiva e, in virtù di questa funzione, necessario perché la
sua neutralità, in quanto principio fondamentale, e l’esercizio della
detrazione, quale strumento primario per l’attuazione di tale principio,
trovino compiuta realizzazione.
Ciò significa anche che, laddove non sia sancito il contrario e ne
sussistano concrete possibilità, le indicazioni ricavabili in relazione ad
un particolare momento della vita dell’attività dovrebbero trovare
applicazione anche nelle altre, attribuendo una maggiore omogeneità
all’approccio frammentario e casistico che solitamente caratterizza
72
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
l’opera della Corte di Giustizia e l’ordinamento comunitario nel suo
complesso.
Sulla base di questa considerazione si ritiene che il ragionamento
applicato alla fase degli atti preparatori, nel senso del ruolo
dell’intenzione del soggetto e degli adempimenti formali, debba
guidare altresì l’interpretazione che tenti di individuare il momento di
cessazione dell’attività rilevante, valutando anche in quel contesto il
ruolo del soggetto e della sua volontà di porre fine all’attività
economica, rappresentata in questo caso dalla dichiarazione di
cessazione che, come si è visto, le stesse norme comunitarie
impongono.
In particolare, inoltre, l’idea che la manifestazione dell’intenzione
della volontà di cessare possa assumere un qualche rilievo, sia nella
determinazione del momento di reale cessazione sia dal punto di vista
dell’applicazione dell’imposta, appare del tutto coerente con le
disposizioni in materia di autoconsumo che si sono illustrate ed in
particolare con il disposto dell’art. 18, par. 1 lett. c), da cui si ricava
che il legislatore comunitario ha voluto riconoscere alla cessazione
dell’attività un’efficacia estintiva sul nesso che lega tra loro le
operazioni compiute ed i beni con l’attività.
In questo senso, date l’inclusione della liquidazione nell’attività
economica rilevante e l’applicabilità dell’imposta per autoconsumo
alle ipotesi di beni che residuino nella disponibilità del soggetto
passivo, deve ritenersi che, esaurita o meno la fase liquidatoria,
l’esistenza dell’attività rilevante ai fini dell’imposta cesserà nel
momento in cui avvenga la sua formale chiusura, ovvero quando il
contribuente concretizzerà la propria intenzione di cessare l’esercizio
anche attraverso le necessarie formalità, momento in cui, per il rispetto
della neutralità e della coerenza dell’Iva, essa verrà applicata sul
valore di tutti quei beni che abbiano in passato garantito il diritto alla
detrazione.
In questo momento dovrebbe potersi ritenere definitivamente
conclusa l'attività rilevante ai fini dell'imposta e conseguentemente
persa la soggettività passiva ad essa collegata. Coerentemente con la
73
Capitolo I
struttura dell'Iva e con il meccanismo di attribuzione della soggettività
passiva in funzione del riconoscimento dell'esistenza dell'attività
economica, nella prospettiva dell'imposta il soggetto dovrebbe
terminare la propria esistenza contemporaneamente alla cessazione
definitiva dell'attività, a nulla rilevando profili legati alla struttura e
alle differenti vicende giuridiche del soggetto stesso.
Come si illustrerà brevemente in seguito, non sembrano infatti
potersi rilevare a livello comunitario differenze nella disciplina o negli
orientamenti interpretativi che dipendano dalla natura giuridica del
soggetto e, di conseguenza, dalla disciplina sostanziale ad esso
applicabile. Essendo l'attività l'elemento centrale della costruzione del
modello di soggettività passiva, ne discende che siano le vicende di
questa ad avere la capacità di influire sull'esistenza o la sopravvivenza
del soggetto e non, nella prospettiva dell'imposta, il contrario.
A sostegno della ricostruzione qui proposta dovrebbe potersi
portare, infine, anche il suggerimento proveniente dalla Corte di
Giustizia sul profilo temporale della fase liquidatoria.
Come si è detto, essa, indipendentemente dall’esercizio effettivo
dell’attività tipica o dal compimento di operazioni attive, viene
ricondotta nel solco dell’attività rilevante ai fini dell’imposta fintanto
che la sua durata non manifesti intenti fraudolenti del soggetto
passivo. L’ordinamento comunitario non entra nel merito sotto un
profilo sostanziale, non fornendo alcun elemento, diverso dal nesso
con la precedente attività, che permetta di distinguere tra fase
liquidatoria rilevante o non rilevante, né sotto il profilo della tipologia
delle operazioni compiute né sotto quello, si è detto, della durata.
Ciò significa che, argomentando a contrario, è possibile sostenere che,
quanto meno ai fini dell’imposta, il contribuente sia libero di
determinare la cessazione dell’attività economica nel momento che
ritenga più opportuno, a nulla rilevando il completamento della
liquidazione dell’attività o, addirittura il suo svolgimento.
Ciò significa che difficilmente potranno individuarsi indici di
cessazione dell’attività ai fini dell’imposta unicamente sul piano
oggettivo, fondandosi sul rapporto di inerenza o sulla tipologia delle
74
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
operazioni, ignorando le indicazioni che emergono invece da un analisi
condotta anche sul piano soggettivo, proprio perché, come si è visto,
da un lato, la fase liquidatoria, ordinariamente inserita nel sistema
impositivo, è vincolata alla volontà del soggetto passivo, sia sotto il
profilo sostanziale, quanto al suo svolgimento e alle modalità, che
sotto quello temporale, quanto alla durata, e, dall’altro, a nulla sembra
rilevare la cessazione di fatto dell’attività tipica ed il conseguente
mancato rispetto dell’effettività propria dell’esercizio.
In conclusione, pertanto, sembra potersi ritenere che la natura
complessa riconosciuta al presupposto costituito dall’attività
economica, l’irrilevanza dell’esercizio effettivo nella fase terminale e
la presenza di una norma all’interno della stessa Direttiva che prevede
comunque l’applicazione dell’imposta al momento della cessazione
rendano necessaria, nella ricerca di criteri per determinare la
cessazione dell’attività, un’analisi più ampia di quella esclusivamente
oggettiva e fondata sul rapporto di inerenza, imponendo di valorizzare
e valutare accanto ad esso anche l’elemento soggettivo, rappresentato
dal soggetto passivo e dalle sue intenzioni, manifestate anche
attraverso gli adempimenti formali prescritti dall’ordinamento.
2.5 Attività
giuridiche
economica, cessazione e rilevanza delle forme
Ricostruita in questi termini la nozione di attività economica
rilevante ai fini dell’imposta, sia sotto il profilo statico sia nelle sue
diverse fasi, occorre svolgere alcune brevi considerazioni circa il ruolo
che in questo contesto possono avere le forme giuridiche con cui
l’attività viene svolta, al fine di determinare se, all’interno
dell’ordinamento comunitario, sia possibile individuare differenze
simili a quelle che, come si esporrà in seguito, sono ben evidenti nel
contesto nazionale.
All’inizio dell’esposizione si è sottolineata come principale
peculiarità del sistema d’imposta creato dalle norme comunitarie il
loro fondarsi su nozioni proprie, costruite su concetti principalmente
75
Capitolo I
economici, in termini generali ben distinti dagli istituti giuridici tipici
degli ordinamenti nazionali.
In particolare, con riguardo all’attività economica ed al suo ruolo di
elemento qualificante per l’attribuzione della soggettività passiva, si è
sottolineata la particolare tecnica giuridica che, individuato un
fenomeno economico concreto, fa di esso stesso oggetto e soggetto
della disciplina, attraverso una costruzione caratterizzata da statuizioni
negative più che dalla costruzione di un modello positivo. Manca
dunque nelle norme comunitarie la costruzione di una specifica
fattispecie giuridica in base a cui qualificare i fatti esaminati, come
invece accade negli ordinamenti degli Stati membri.
Questa particolarità della legislazione europea unita alla ratio
dell’imposta, che impone la ricerca del più vasto ambito di
applicazione, ha fatto sì che più volte la stessa giurisprudenza della
Corte di Giustizia si sia pronunciata circa la sostanziale irrilevanza, ai
fini dell’integrazione del presupposto, delle forme giuridiche assunte
da operazioni che nella sostanza corrispondono all’esercizio di
un’attività economica rilevante ed appaiono con essa collegati.
Ma cosa significa questo allontanamento da una costruzione
strettamente giuridica? Si ritiene che la risposta a questo interrogativo
vada riassunta nell’assenza all’interno della disciplina comunitaria
dell’imposta di qualsiasi automatismo nella qualificazione dei fatti
esaminati, automatismo che sarebbe logica e naturale conseguenza
della previsione di fattispecie giuridicamente ben definite.
L’assenza di questo rapporto diretto tra previsione normativa e
qualificazione del dato fattuale appare ben evidente in relazione a
diversi elementi dell’imposta.
In primo luogo, deve guardarsi alla stessa definizione delle
operazioni imponibili. Le norme comunitarie, per ovvie ragioni
connesse alla natura di norme di armonizzazione, non potevano
assumere modelli negoziali tipici, a meno che non si volesse procedere
ad una precisa elencazione di tutte le forme che all’interno dei paesi
membri possono assumere cessioni di beni e prestazioni di servizi.
Le operazioni imponibili non vengono dunque distinte e classificate
76
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
in base a modelli contrattuali tipici né, di fatto, in base ai propri
possibili effetti giuridici, ma al contrario vengono individuate sulla
base del proprio contenuto economico e, dove questo non è apparso
sufficiente, in base alla natura del loro oggetto 9 3 .
L’indifferenza dell’ordinamento comunitario di fronte alla forma
giuridica delle operazioni imponibili è del resto confermata
dall’interpretazione della Corte di Giustizia che ha ribadito un
approccio sostanziale e non formale nei confronti delle operazioni che
costituiscono l’attività rilevante 9 4 .
Lo stesso atteggiamento di sostanziale indifferenza sembra doversi
riconoscere anche per quanto riguarda la prospettiva soggettiva
dell’imposta, ovvero nell’identificazione del soggetto passivo.
Anche in questo caso, non essendo previsto un particolare modello
giuridico di per sé rilevante, il soggetto passivo viene identificato con
il soggetto agente cui è imputabile l’attività economica rilevante ai fini
dell’imposta, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche del
singolo soggetto.
Sembra, dunque, che il legislatore comunitario, spinto dalla
necessità di estendere quanto più possibile l’ambito di applicazione
dell’imposta, collochi tutti i soggetti sullo stesso piano, non
attribuendo rilevanza alle loro caratteristiche intrinseche quanto
piuttosto al loro ruolo di esercenti un’attività economica. Del resto, nel
sistema dell’imposta un soggetto esiste esclusivamente in due forme
ben definite: soggetto passivo o consumatore finale, senza che sia
possibile identificare altre posizioni rilevanti.
93
Diversamente da quanto accade, ad esempio, nell’ordinamento italiano che
individua le operazioni in base a modelli contrattuali tipici o, comunque, in
funzione degli effetti giuridici, creando, tra le altre cose, ipotesi di non
corrispondenza e, quindi, di difficile coordinamento con le classificazioni proprie
di altri settori dello stesso ordinamento
94
Si vedano ad esempio CGCE, sent. 14 febbraio 1985, C-268/83, Rompelman
cit., p. 22 ss; sent. 21 ottobre 2004, causa C-8/03, BBL, punto 36; sent. 4 dicembre
1990, causa C-186/89, Van Tiem, punto 18; 11 luglio 1996, causa C-306/94, Régie
dauphinoise, punto 15; 29 aprile 2004, causa C-77/01, EDM, punto 48.
77
Capitolo I
L’irrilevanza della forma giuridica, anche in questo caso, è ben
dimostrata sia dalla lettera della Direttiva sia dalle pronunce
interpretative della Corte di Giustizia.
Primo elemento è infatti costituito dal chiunque che apre l’art. 9
della Direttiva Iva, prescindendo da qualsiasi distinzione sia sotto il
profilo della qualifica dell’attività (impresa o professione) sia sotto il
profilo della struttura propria del soggetto (persona fisica o ente
collettivo; soggetto di diritto privato o di diritto pubblico). Come
appena detto, il soggetto passivo è identificato in funzione dell’attività
economica e quindi del suo ruolo di agente, tanto basta perché il
presupposto sia integrato.
L’attribuzione della soggettività passiva passa sempre attraverso il
vaglio della rilevanza dell’attività svolta o che si è intenzionati a
svolgere, non sussistendo elementi che ne consentano un
riconoscimento automatico sulla base della sola struttura giuridica del
soggetto 9 5 .
Questa considerazione appare ben evidente anche nella
giurisprudenza, laddove si osservi che i giudici europei si pronunciano
in modo uniforme indipendentemente dalla natura giuridica del
soggetto 9 6 . Allo stesso modo, l’assenza di un qualsiasi meccanismo di
attribuzione automatica indipendente dalla verifica dell’attività è
chiaro se si osserva quel filone giurisprudenziale che nega la
soggettività passiva, ad esempio, delle holding pure, società che
esercitando un’attività ritenuta non economica ai fini dell’imposta
sono considerate esterne al suo ambito di applicazione, sia sul lato
passivo –in relazione al diritto alla detrazione- che su quello attivo –
circa l’imponibilità delle operazioni compiute- 9 7 .
95
Come accade ad esempio nell'ambito dell'ordinamento italiano, laddove si
prevede una presunzione di soggettività per le società commerciali.
96
Si pensi, ad esempio, alle sentenze in tema di atti preparatori che esprimono
principi uniformi riferibili sia alle persone fisiche (Rompelman, Lennartz) sia alle
società (Inzo, Gabalfrisa).
97
Si veda in particolare CGCE, sent. 20 giugno 1991, causa C-60/90, Polysar
Investments Netherlands.
78
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Sulla base di queste osservazioni appare chiaro come l’attività
economica sia considerata un concetto unitario e a sé stante,
indipendente sia dalla specifica forma giuridica che assumono le
operazioni di cui si compone sia da quella che caratterizza il soggetto
cui l’attività si a riferibile.
Individuata questa nozione unitaria, le differenti forme giuridiche
potranno eventualmente assumere una qualche rilevanza, soprattutto
sul piano nazionale, al fine di individuare la tipologia degli atti che
possono assumere rilevanza ai fini dell’esercizio dell’impresa. O
meglio, posta la categoria attività economica, dotata di proprie
caratteristiche ben individuate sia dal legislatore che dalla
giurisprudenza, ciò che muta in funzione soprattutto della natura del
soggetto passivo è l’oggetto materiale, il tipo di atti che possono
essere ricondotti all’attività, non le caratteristiche dell’attività stessa.
Ciò implica, si crede, che nell’esaminare gli aspetti problematici e
controversi relativi all’attività si debba tentare di individuare una
soluzione unitaria e generale che guardi all’attività in quanto tale,
sfuggendo ad un approccio casistico che dovrebbe, necessariamente,
tenere conto anche delle differenze generate dalle diverse forme
giuridiche disciplinate a livello nazionale.
Poste queste premesse, il medesimo ragionamento dovrebbe risultare
applicabile a tutte le fasi dell’attività, quindi anche alla sua
cessazione. Dovrebbe, dunque, potersi affermare che, a livello
comunitario, è possibile individuare una soluzione unitaria circa la
riconducibilità
della
liquidazione
all’attività
stessa
e
all’individuazione del momento di cessazione, prescindendo da quegli
Nello stesso senso, in dottrina, C OM E LLI , Iva comunitaria cit., 353 ss.;
F IC AR I , Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e
l’impresa dell’ente commerciale, Riv. Dir. Trib., 1999, I, 562 ss.; G IO R G I , La
detrazione cit., p.123 ss.; I D E M , L'effettuazione di operazioni nel campo di
applicazione dell'Iva nell'attribuzione della soggettività passiva e del diritto alla
detrazione d'imposta: profili comunitari ed interni, in Rassegna Tributaria, 1999, n. 1;
T ERRA - W ATTEL, European Tax Law, Kluwer Law International, 2006, 331 ss.
79
Capitolo I
elementi che, invece, a livello nazionale creano le maggiori difficoltà,
ossia la natura individuale o collettiva del soggetto passivo.
Sulla base della giurisprudenza richiamata, principio fondamentale
individuato dalla Corte di Giustizia per garantire il diritto alla
detrazione anche nella fase conclusiva dell’attività è la sussistenza di
un collegamento tra le spese sostenute e la precedente attività, legame
in grado di sopperire, in funzione del principio di neutralità, alla
mancanza di un esercizio effettivo e, quindi, di operazioni imponibili.
Nella prospettiva opposta, ovvero con riguardo alle operazioni
attive di liquidazione, si è ritenuto che non sia individuabile né nelle
norme né nella giurisprudenza un elemento che individui una cesura
tra fase produttiva e fase meramente liquidatoria, da considerarsi
dunque, nella prospettiva comunitaria, parte integrante dell’attività
stessa senza che la differenza di scopo, mutato da produttivo a
liquidatorio, possa di fatto influire sulla riconoscibilità dell’esercizio
in corso.
Pertanto, integrando una possibile fase liquidatoria all’interno
dell’attività stessa ed accogliendo il principio espresso dalla
giurisprudenza per cui anche solo in presenza di costi collegati
all’attività precedente e necessari per la sua chiusura, sembra potersi
sostenere che vengono individuati due principi che, riguardando
l’attività economica rilevante in quanto tale non dovrebbero essere
influenzati dalle diverse tipologie di soggetto passivo, sia esso persona
fisica o società o ente commerciale.
Del resto, la pronuncia Fini H richiamata parla di soggetto in
termini generici e, pur riguardando nel caso concreto una società di
persone, non sembra contenere elementi che ne rendano i principi non
applicabili, ad esempio, anche alle persone fisiche.
Non dovrebbero quindi trovare spazio, nel contesto comunitario, le
differenze che, nella disciplina sostanziale a livello nazionale,
vengono ricondotte alla distinzione tra persona fisica, la cui attività
cesserebbe immediatamente in coincidenza con la cessazione
dell’esercizio dell’attività tipica, e la società che, obbligata ad un
procedimento di liquidazione, vedrebbe la cessazione della propria
80
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
attività solo al compimento della liquidazione, che coincide
solitamente con l’estinzione dello stesso soggetto giuridico.
In primo luogo, come si è visto, la necessità di garantire la
neutralità dell’imposizione conduce la giurisprudenza della Corte di
Giustizia ad attenuare la portata del principio di effettività, motivo per
il quale l’attività economica nell’accezione comunitaria continua ad
esistere anche in assenza di esercizio. A fronte di un collegamento tra i
costi per la cessazione e l’attività che in precedenza ha consentito
l’attribuzione della soggettività passiva sembra divenire irrilevante la
diversa natura giuridica del soggetto agente che da sola non è in grado
di incidere sull’esistenza di tale legame. Infatti, pur in assenza di un
patrimonio separato, come nel caso della persona fisica, è ben
possibile che il collegamento precedentemente impresso possa
permanere anche sul piano oggettivo, soprattutto nel caso in cui i costi
sostenuti trovino la propria ragione direttamente nell’esercizio passato.
Da questo punto di vista, non dovrebbe influire nemmeno lo
svolgimento o meno di una fase liquidatoria, il cui compimento ha la
capacità unicamente di incidere sotto un profilo temporale anticipando
o posticipando l’interruzione delle operazioni attive e del legame tra
costi e attività.
Ciò significa che, anche nel caso della persona fisica, l’abbandono
dell’attività tipica potrà avere la valenza di una cessazione definitiva
ai fini dell’imposta, generando eventualmente un’imposizione in
autoconsumo, quando non siano identificabili né una fase liquidatoria
attiva né costi ad essa collegati in grado di garantire il mantenimento
della soggettività. Se invece anche l’imprenditore individuale darà
luogo ad una fase liquidatoria, come accade per gli enti collettivi, la
cessazione dell’attività ai fini dell’imposta dovrà necessariamente
collocarsi in un momento successivo.
Per quanto riguarda più strettamente gli enti collettivi, mancando
una previsione che vincoli sul piano comunitario soggettività passiva
ed esistenza stessa del soggetto, l’inserimento all’interno del sistema
dell’imposta della fase liquidatoria o, comunque, di una fase priva di
esercizio antecedente all’estinzione del soggetto giuridico dovrebbe
81
Capitolo I
valutarsi secondo gli stessi principi, verificando se le operazioni
compiute o i costi sostenuti manifestino ancora un legame con
l’attività garantendone la sopravvivenza.
Del resto, anche a livello nazionale dove esiste una presunzione di
soggettività legata alla forma giuridica, è ben possibile che l’attività
rilevante ai fini dell’imposta venga meno, ma il soggetto giuridico
sopravviva, come può accadere nel caso in cui a seguito di un
cambiamento dell’oggetto sociale l’attività svolta non sia più
qualificabile come economica ai fini dell’imposta. In questi casi, in
una prospettiva aderente all’ordinamento comunitario, dovrebbe
esserci una perdita della soggettività passiva ai fini dell’imposta, pur
restando in vita il soggetto giuridico in quanto tale.
Secondo questa ricostruzione, dunque, come accade in rapporto
all’avvio e all’esercizio dell’attività, le differenze tra una tipologia di
soggetto giuridico e l’altro dovrebbero ritenersi in grado di incidere
unicamente sul piano materiale, ovvero sulla tipologia degli atti in
grado di integrare il presupposto, ma non sul piano dei principi
generalmente applicabili.
Come più volte evidenziato dalla stessa giurisprudenza comunitaria,
il collegamento richiesto agisce su un piano oggettivo che si ricollega
all’attività in quanto tale, non essendo vincolato alla natura del
soggetto che da sola non può garantire la presenza della soggettività
passiva, nemmeno nel caso degli enti tipicamente commerciali.
Su questo punto è però necessaria un’ulteriore precisazione.
Nelle pagine precedenti, si è infatti sostenuta la necessità, sulla
scorta anche delle pronunce in materia di atti preparatori, che venga
attribuita una maggiore rilevanza al profilo soggettivo del presupposto.
L’elemento soggettivo cui ci si riferisce non è però legato alla
natura del soggetto, quanto piuttosto al ruolo che la volontà del
soggetto può avere sull’esistenza e sul mantenimento di quel legame
che si è visto necessario e che si manifesta in termini oggettivi.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza in tema di diritto alla
detrazione e legame tra operazioni passive ed attività, la destinazione
di un bene o di un servizio all’esercizio dell’attività è un fatto
82
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
tipicamente volontario, tant’è vero che la possibilità di detrarre
integralmente o parzialmente l’imposta corrisposta dipende da una
scelta del soggetto passivo.
Allo stesso modo, l’elemento soggettivo assume un’importanza
centrale nella determinazione dell’avvio dell’attività, laddove pur in
assenza di operazioni imponibili che integrino esercizio è riconosciuta
la possibilità di attribuire la soggettività passiva sulla base
dell’intenzione manifestata in buona fede di intraprendere un’attività
economica.
Sullo stesso piano, il medesimo ruolo dovrebbe riconoscersi anche
nel caso della cessazione, attribuendo alle intenzioni del soggetto la
possibilità di interrompere il collegamento precedentemente impresso,
con conseguente perdita della soggettività passiva.
Anche in questo caso, dunque, lungi dal prevedere meccanismi
automatici incompatibili con la struttura dell’imposta comunitaria,
dovrebbe riconoscersi alla volontà del soggetto, individuato in
funzione dell’attività economica, la possibilità di definire un limite
dell’attività rilevante, pur senza influire su quella che è la sua
sostanza. In questo senso, dunque, anche nel caso della cessazione
dell’attività, riacquistano rilevanza gli adempimenti formali, pur senza
riconoscere ad esse alcuna portata costituitiva.
A ben vedere, dunque, in questa prospettiva il soggetto assume un
ruolo quale elemento generico, indipendentemente dalle proprie
caratteristiche giuridiche.
Come si vedrà in seguito riguardo all’ordinamento nazionale, e
come appare del resto chiaro anche nella prospettiva comunitaria, la
sola valutazione sul piano oggettivo, pur essendo imprescindibile, non
è sufficiente quando si tratti di individuare i cosiddetti limiti temporali
dell’attività economica, sia perché conduce ad un approccio casistico
difficilmente riconducibile a principi condivisi, non è quindi in grado
di fornire criteri certi e precedentemente valutabili, sia perché, quanto
meno sul piano del collegamento, non è in grado di determinarne il
momento di interruzione, fondamentale per individuare la cessazione
dell’attività rilevante.
83
Capitolo I
3- P RIME
CONCLUSIONI : IL RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA E DELLA
SUA CESSAZIONE
Da quanto sin qui esposto è possibile trarre alcune prime
conclusioni sul ruolo che l’attività economica e, di conseguenza, la sua
cessazione ricoprono all’interno del sistema impositivo.
Nell’esaminare le caratteristiche delle diverse fasi dell’attività si è
cercato soprattutto di dimostrare la molteplicità degli aspetti e delle
funzioni che caratterizzano questo elemento, ponendone in luce una
complessità che supera il piano meramente oggettivo cui solitamente
viene ricondotta.
Come si è evidenziato, le discipline comunitarie relative all’attività
economica appaiono costruite secondo un particolare schema che fa
dell’attività stessa presupposto oggettivo ed elemento necessario
all’individuazione del soggetto cui la disciplina è rivolta, creando un
legame del tutto particolare e di reciproca influenza tra i due elementi.
Questo rapporto appare ben evidente all’interno della disciplina
dell’Iva.
In primo luogo, essa funge da elemento indispensabile per
l’individuazione del soggetto passivo: dove è possibile affermare
l’esistenza di un’attività qualificata come economica ai sensi
dell’ordinamento comunitario, allora si avrà anche la qualifica del
soggetto agente come soggetto passivo dell’imposta, destinatario della
disciplina dettata dalle norme europee e nazionali. Conseguentemente,
fondamentale importanza assume la determinazione degli esatti confini
temporali dell’attività, attraverso i quali sarà possibile individuare il
momento iniziale e finale della stessa soggettività passiva che,
all’interno dell’Iva, significa di fatto l’esistenza o l’inesistenza del
soggetto ai fini dell’imposta.
La presenza di un’attività che sia qualificabile come economica in
senso comunitario riveste altresì il ruolo fondamentale di
identificazione
e
qualificazione
del
presupposto
oggettivo
84
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
dell’imposta, dipendendo l’imponibilità dalla riconducibilità ad essa
delle operazioni compiute, attraverso la loro imputabilità al soggetto
passivo. In questo senso, l’ordinamento comunitario fa propria la
definizione di attività quale insieme di atti fra loro vincolati e per
questo unitariamente rilevanti, facendo dipendere l’applicabilità
dell’imposta dall’esistenza di questa visione unitaria. Anche con
riferimento al piano oggettivo è l’esistenza dell’attività a costituire
l’elemento discriminante tra ciò che rileva ai fini dell’imposta e ciò
che, al contrario, ne è totalmente estraneo.
La particolarità del sistema dell’imposta risiede proprio in questo: il
fatto che sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo vengano
determinati sulla base dello stesso elemento rende inevitabile che i due
piani si intersechino, tanto sotto il profilo applicativo quanto nella
definizione dei confini e del contenuto di questo elemento, che non
potrà determinarsi né sulla base della sola presenza di operazioni
potenzialmente imponibili né sull’esistenza di soggetti considerati
potenzialmente passivi per loro caratteristiche intrinseche.
Ne è evidente testimonianza già il contenuto delle norme impositive
laddove si individuano categorie di operazioni potenzialmente
imponibili che saranno tali solo se effettuate da un soggetto passivo
che agisca in quanto tale nell’esercizio dell’attività economica e si
sancisce, per quanto riguarda il soggetto passivo, l’irrilevanza della
forma giuridica e degli scopi da questo perseguiti a fronte della
dimostrazione dell’esistenza dell’attività.
Importante dimostrazione di questo legame è data, inoltre, dalla
funzione e dalle caratteristiche del diritto alla detrazione che, come
noto, costituisce uno degli elementi cardine del sistema dell’imposta,
proprio perché scelto come strumento principale per la realizzazione
della neutralità tra gli operatori economici che l’imposta si prefigge.
Nell’applicazione della detrazione assumono, infatti, rilevanza tanto il
profilo oggettivo, costituito dal collegamento tra operazioni a monte
ed operazioni imponibili a valle, quanto quello soggettivo, costituito
85
Capitolo I
dal fatto che l’imposta per cui si chiede la detrazione sia stata versata
da un soggetto che abbia agito in qualità di soggetto passivo,
nell’esercizio dell’attività economica.
Nessuno dei due elementi è da solo sufficiente ad attribuire il diritto a
detrarre l’imposta versata, pur se, come si è visto, in fasi particolari
dell’attività può aversi una prevalenza dell’uno sull’altro. Se dunque
nel corso dell’esercizio l’attenzione è rivolta maggiormente al
collegamento tra le spese sostenute e le operazioni effettuate, nel
momento iniziale dell’attività è la stessa giurisprudenza ad attribuire
una maggiore rilevanza al dato soggettivo, costituito dall’intenzione
del soggetto ad intraprendere un’attività economica, pur in assenza di
una concreta utilizzazione dei beni o dei servizi acquistati.
Un equilibrio differente tra le due componenti, come si è visto,
caratterizza anche la fase terminale dell’attività, momento in cui,
anche in assenza di operazioni imponibili, è il collegamento con essa
delle spese sostenute a sancire la legittimità della detrazione dei costi
sostenuti, ma deve necessariamente unirsi alla valutazione della
volontà del soggetto per individuare il momento in cui questo
collegamento viene meno.
A ben vedere, dunque, l’esistenza –attuale, futura o addirittura
passata- dell’attività economica costituisce il presupposto per
l’attribuzione e l’esercizio del diritto alla detrazione e proprio con
riferimento ad essa manifesta lo stretto collegamento che si determina
tra piano oggettivo e soggettivo nell’applicazione dell’imposta.
Sulla base di queste considerazioni si ritiene che la sovrapposizione
dei due piani nella determinazione della fattispecie -per cui, si ripete,
il soggetto passivo viene individuato sulla base dell’attività economica
e questa, per contro, è influenzata dall’esistenza del soggetto e dai
suoi comportamenti- meriti di essere valorizzata, sulla scorta delle
pronunce della Corte di Giustizia, soprattutto nell’ottica di un’analisi
dinamica che prenda in considerazione le diverse fasi dell’attività per
determinarne, per quanto possibile, gli esatti confini temporali.
Prestando particolare attenzione alla cessazione dell’attività, sembra
86
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
possibile, secondo l’impostazione adottata, fornire una lettura
differente di questa fase, nel tentativo di determinarne il ruolo e gli
effetti all’interno dell’imposta, nonché il momento concretamente
rilevante ai fini Iva.
Il tema deve, in termini generali, essere suddiviso in due diversi
aspetti tra loro strettamente connessi costituiti, da un lato, dall’attività
liquidatoria, quale fase dell’attività economica stessa -rilevante sia
sotto il profilo dell'imponibilità delle operazioni compiute, sia per il
riconoscimento del diritto alla detrazione- e, dall’altro, dalla vera e
propria cessazione che, a differenza della prima, consiste in un evento
istantaneo determinante la fine della sua esistenza, indispensabile per
l'eventuale applicazione dell'imposta in autoconsumo, generato dal
possesso di beni precedentemente destinati all'attività economica o, in
ogni caso, ad essa connessi.
L’orientamento espresso dalla Corte va nel senso di considerare la
fase liquidatoria come parte integrante dell’attività economica
rilevante ai fini dell’imposta, indipendentemente dal fatto che nel
corso di questa vi sia un esercizio effettivo costituito dal compimento
di operazioni imponibili. Come confermato dalla sentenza Fini H,
infatti, qualora non si ravvisi un abuso delle norme comunitarie e dei
diritti da esse attribuiti, in particolare quello alla detrazione, e
permanga un collegamento con la precedente attività, nel corso della
liquidazione l’imposta dovrà considerarsi pienamente applicabile, sia
dal lato attivo, gravando le cessioni eventualmente compiute, sia da
quello passivo, consentendo la detrazione dell’imposta relativa alle
spese sostenute al fine di cessare l’attività.
Sul piano oggettivo, tale interpretazione trova il suo fondamento
nelle caratteristiche stesse dell’attività economica come definita
dall’ordinamento comunitario. Da un lato, infatti, stante l’irrilevanza
dello scopo cui è destinata l’attività, a nulla rileva che esso muti da
commerciale a meramente liquidatorio, quando si manifesta,
comunque, nel compimento di operazioni che, per loro natura,
rientrano nella categoria di quelle potenzialmente imponibili.
Dall’altro, data la natura unitaria dell’attività, si ritiene sufficiente che
87
Capitolo I
le spese sostenute manifestino un collegamento con essa, collegamento
che può anche non essere determinato sulla base di elementi attuali,
ma esistenti nella precedente fase di esercizio.
Queste considerazioni potrebbero però non essere sufficienti,
laddove si volesse sottolineare il fatto che, per sua stessa natura,
l’attività implica esercizio effettivo, pena la sua inesistenza.
Importante diviene allora la valorizzazione del profilo soggettivo e
dell’influenza che esso esercita sulla determinazione dell’esistenza, o
semplice sopravvivenza, dell’attività economica rilevante. Prendendo
spunto da quanto affermato in tema di atti preparatori, per cui spetta il
diritto alla detrazione al soggetto passivo che agisca in quanto tale,
indipendentemente dal concreto esercizio dell’attività economica, si
può qui sostenere che l’applicabilità del regime ordinario anche alla
fase liquidatoria discende dalla constatazione del fatto che il soggetto
passivo, riconosciuto tale in base all’attività precedentemente
esercitata, continui ad agire in questa qualità, mantenendo vivo il
collegamento oggettivo con l’attività sino alla manifestazione, non
contraddetta da fatti che ne dimostrino il carattere abusivo, della
volontà di cessare.
Le stesse osservazioni possono applicarsi anche alle operazioni
attive compiute nel corso della liquidazione. Generalmente esse
costituiscono cessioni di beni potenzialmente imponibili, sia per la
natura dell’operazione sia per il fatto che hanno ad oggetto beni in
precedenza destinati all’attività o da essa prodotti.
Se però si volessero, anche in questo caso, valorizzare il principio di
effettività e l’intero sistema impositivo, incluse dunque le norme che
sanciscono l’imposizione per autoconsumo, l’applicabilità del regime
ordinario alla fase liquidatoria potrebbe essere messo in discussione e
sostituito dall’autoconsumo già al momento della cessazione di fatto
dell’esercizio, proprio perché la conclusione di questo importerebbe,
su un piano meramente oggettivo, l’interruzione del collegamento tra
cessioni effettuate e attività rilevante, causando la perdita della
soggettività passiva.
Anche in questo senso, dunque, è necessario valorizzare il profilo
88
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
soggettivo della fattispecie, considerando come sia proprio il fatto che
il soggetto passivo continua ad agire in quanto tale a mantenere vivo il
collegamento tra le operazioni e l’attività.
In questo senso trova applicazione anche nella fase conclusiva
dell’attività il principio espresso dalla giurisprudenza comunitaria, in
base al quale l’intenzione del soggetto ad esercitare un’attività
economica è in grado di determinare l’applicazione dell’imposta, a
condizione che sia oggettivamente riscontrabile e non contraddetta da
comportamenti che costituiscono abuso delle norme comunitarie 9 8 .
Da queste considerazioni sulla fase liquidatoria è possibile trarre
importanti osservazioni sull’individuazione del momento di cessazione
dell’attività ai fini dell’imposta.
La prima è implicita nella stessa affermazione dell’assoggettabilità
al regime ordinario della liquidazione: ai fini Iva a nulla rileva la
cessazione di fatto dell’esercizio dell’attività tipica. L’ordinamento
comunitario, per voce della Corte di Giustizia continua, pertanto a
considerare esistente l’attività economica fintanto che permangano le
condizioni già esposte (un collegamento tra le operazioni e la
precedente attività tipica ed un soggetto passivo che continui ad agire
in quanto tale) limitando la portata del principio di effettività,
sacrificato alle ragioni della coerenza del sistema impositivo e alla
concreta realizzazione della sua neutralità.
Esclusa la rilevanza di questo elemento di fatto, diviene allora
necessario tentare di individuare quale sia il momento cui
l’ordinamento collega la cessazione dell’attività rilevante e, di
conseguenza, la perdita della soggettività passiva.
In questo senso, si ritiene che, al fine di evitare una possibile
soggezione all’imposta senza fine, debbano essere valorizzati il profilo
soggettivo e quello formale, quale diretta manifestazione del primo.
In proposito diviene importante un’altra considerazione fatta in
merito alla fase liquidatoria. Sancitane la soggezione al regime
98
Cfr. CGCE, Gabalfrisa cit. ,p.47; Ghent Coal Terminal cit.; Inzo cit., p. 23 e
24
89
Capitolo I
impositivo ordinario pur in assenza di operazioni attive, la Corte
afferma nella pronucie Fini H che a nulla rileva la sua durata, salvi,
come sempre, i casi di abuso. Da questa affermazione si è ricavata la
conclusione che, di fatto, le caratteristiche, le modalità e la durata di
questo momento sono lasciati alla libera scelta del soggetto passivo.
Ciò implica che questi sia libero di determinarne la conclusione nel
momento che ritenga più opportuno, non essendo vincolato da
stringenti disposizioni di natura sostanziale 9 9 .
Se dunque la liquidazione costituisce, di fatto, l’ultima fase
dell’attività economica rilevante ai fini dell’imposta e la sua durata, o
addirittura il suo svolgimento, sono lasciati nella maggior parte dei
casi alla volontà del soggetto passivo, se ne desume che le scelte
effettuate dal soggetto influiranno necessariamente sull’individuazione
del momento di cessazione dell’attività.
Come si è già ricordato, così come l’intenzione di intraprendere
un’attività economica è in grado di determinare l’acquisto della
soggettività passiva, allo stesso modo, e alle stesse condizioni,
l’intenzione di cessarla deve avere effetti sulla sua perdita.
Diversi sono gli elementi che portano a questa affermazione. Tra
questi merita di essere valorizzato il ruolo che il soggetto esercita
nella determinazione del legame tra operazioni e beni con l’attività.
Deve infatti sempre tenersi presente che, accanto agli elementi di
collegamento oggettivo quali, ad esempio la natura dei beni,
fondamentale per l’individuazione del legame necessario è l’indirizzo
impresso dal soggetto, sia sulla destinazione dei beni sia sulla
riconducibilità o meno delle operazioni all’attività economica, come
conferma la Corte quando afferma che la destinazione dei beni
all’esercizio dell’attività dipende dalla scelta del soggetto e, sulla base
di questa scelta, verrà determinata la spettanza e la misura del diritto
alla detrazione 1 0 0 .
99
Di fatto nemmeno sul piano nazionale, laddove si consideri che le norme che
disciplinano, ad esempio, la liquidazione delle società sono volte a scandirne il
procedimento, non ad individuarne puntualmente l’oggetto.
100
Cfr. retro pg. 51
90
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
Da ciò deriva la considerazione che, necessariamente, dovrà tenersi
presente l’influenza del comportamento e della volontà del soggetto
sulla permanenza di quel collegamento che la giurisprudenza ritiene
necessario per l’applicazione dell’imposta alla fase liquidatoria. Per
questo, dovrebbe essere difficile contestare l’estinzione di tale legame
nel momento in cui il soggetto passivo manifesti concretamente la
propria intenzione a porre fine all’attività economica.
Il riscontro oggettivo di tale intenzione richiesto dalla giurisprudenza
dovrebbe risiedere di per sé già nell’abbandono dell’attività tipica e
nel compimento della fase liquidatoria, uniti alla mancata ripresa
dell’esercizio, soprattutto non in forma irregolare.
Si ritiene altresì che un dato importante a questi fini possa essere
costituito dalla dichiarazione di cessazione dell’attività che la stessa
Direttiva impone al soggetto passivo. Non si vuole qui contestare la
costante giurisprudenza comunitaria che nega la portata costitutiva
degli adempimenti formali 1 0 1 , pienamente accoglibile; si ritiene
tuttavia che sarebbe utile, in particolare ai fini della certezza del
diritto, attribuire ad essi una portata potenzialmente presuntiva ai fini
della dimostrazione del proprio contenuto, soprattutto con riguardo ad
ipotesi spesso controverse come, appunto, la cessazione dell’attività.
Sembra, infatti, del tutto coerente con il pensiero espresso dalla
giurisprudenza comunitaria ritenere che il contenuto delle
dichiarazioni formali, di fatto diretta manifestazione della volontà del
soggetto passivo, possa considerarsi corrispondente alla realtà,
fintanto che non ci siano concrete manifestazioni del contrario, unendo
a ciò la considerazione del fatto che, in ogni caso, si tratta di
adempimenti imposti dalla stessa normativa comunitaria che, in quanto
obbligatori, non possono essere totalmente privati di rilevanza.
Ciò non significa attribuire valore di presunzione assoluta o costituivo
agli adempimenti formali, significa però individuare un indice certo di
cessazione dell’attività, cui ricondurre, soprattutto temporalmente, gli
101
Cfr. ad esempio quanto affermato, circa la dichiarazione di inizio attività e
le altre formalità previste dagli ordinamenti nazionali, nella sent. Gabalfrisa cit. in
nt. 72
91
Capitolo I
effetti della cessazione, sia sotto il profilo dell’interruzione del
necessario legame di operazioni e beni con l’attività precedentemente
esercitata sia sotto quello della definitiva perdita della soggettività
passiva.
Da questa ricostruzione della nozione di attività economica
all’interno dell’imposta e dall’analisi svolta circa le ipotesi di
applicazione dell’imposta in autoconsumo nel caso di possesso di beni
residui alla cessazione dell’attività discende un’ulteriore importante
considerazione non tanto sul momento di cessazione dell’attività,
quanto sulla funzione che la stessa cessazione svolge all’interno
dell’imposta.
Unendo i dati emersi è infatti possibile qualificare la cessazione non
solo come momento terminale dell’attività rilevante ai fini
dell’imposta, ma altresì come ultimo atto dell’attività imponibile,
l’ultima ipotesi di operazione imponibile, secondo quanto sancito dalle
norme comunitarie.
Il momento di cessazione dell’attività ai fini dell’imposta non
rappresenta, dunque, solo la manifestazione esterna e definitiva di un
processo già precedentemente concluso, ma costituisce manifestazione
propria dell’esperienza economica di cui segna la fine, dando vita
all’ultima fattispecie imponibile prevista dal sistema.
In questo, pertanto, l’evento cessazione presenta le stesse funzioni e la
stessa complessità che si sono attribuite all’attività economica,
naturalmente in senso opposto. Esso è infatti al contempo necessario
alla determinazione del termine della soggettività passiva, influendo
quindi sul piano soggettivo, e all’individuazione dell’ultima
operazione imponibile, in rapporto al profilo oggettivo dell’imposta.
Come accade per l’attività economica, anche per la cessazione
questa duplicità di funzioni comporta il crearsi di uno stretto legame
tra i due piani altresì nell’individuazione stessa del momento di
cessazione, rendendoli necessariamente complementari.
Questo rapporto è chiaramente dimostrato dall’incapacità della
cessazione di fatto dell’esercizio a determinare la cessazione
92
Il ruolo dell’attività economica nell’imposta sul valore aggiunto
dell’attività ai fini dell’imposta che, in assenza di un comportamento
nella stessa direzione tenuto dal soggetto passivo, non comporta altro
che un mutamento nell’attività. Allo stesso modo, nemmeno il dato
soggettivo può da solo ritenersi sufficiente a determinare la cessazione
dell’attività quando non corrisponda, sul piano oggettivo, ad una
interruzione definitiva dell’attività.
Secondo questa impostazione diviene allora fondamentale per
individuare il momento di cessazione dell’attività non tanto compiere
una verifica della realizzazione dell’uno o dell’altro elemento,
oggettivo e soggettivo, quando piuttosto individuare il momento in cui
essi si manifestano congiuntamente, momento cui potranno ricondursi
tutti gli effetti della cessazione ai fini dell’imposta, ossia
l’imponibilità del possesso di beni residui che abbiano dato diritto alla
detrazione e la definitiva perdita della soggettività passiva all’imposta.
In conclusione, ciò che si vuole affermare con le osservazioni che
precedono è la necessità che nell’esame della nozione di attività
economica ai fini Iva e delle sue vicende si presti attenzione alla
complessità e ai molteplici aspetti che essa presenta, valorizzando in
particolare il legame fra gli stessi, tipico del sistema dell’imposta.
Ciò significa che non appare corretto appiattire l’interpretazione
sulla valutazione del solo dato oggettivo, nemmeno in virtù della
centralità del dato economico nella nozione individuata dal diritto
comunitario.
Come si è visto, la preminenza del dato economico su quello giuridico
e la spiccata oggettività che ne consegue non implicano il completo
abbandono di un’analisi di natura soggettiva, del tutto ingiustificata
proprio sulla scorta dell’asserita complessità della fattispecie attività
economica nell’ambito dell’imposta.
Sembra più giusto, dunque, adottare un metodo interpretativo che
tenga conto e, al contrario, valorizzi l’interdipendenza tra presupposto
oggettivo e soggettivo all’interno dell’imposta con riferimento al ruolo
dell’attività economica, tenendo in conto anche che essa stessa quale
fenomeno unitario non può esistere in assenza di una volontà e di un
93
Capitolo I
esercizio che la rendano tale, diversa quindi da un semplice gruppo di
operazioni.
94
Capitolo II
ATTIV ITÀ ECONOMICA E CESSAZIONE
NELL ’ ORDINAMENTO NA ZIONALE
Sezione I
1- L’ attività economica nell’ordinamento nazionale 1.1- La bipartizione
tra impresa e professioni 1.2- L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972 1.3- Il
rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario a) Imprenditore e impresa nel diritto
civile b) Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel diritto civile e il
diritto tributario 2- Alcune considerazioni su impresa, attività e il significato del
termine “esercizio”
S OM M A RI O
1- L’
ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ’ ORDINAMENTO NAZIONALE
L’esame della nozione di attività economica valida nell’ordinamento
nazionale richiede alcune osservazioni iniziali, necessarie per
illustrare il percorso in seguito svolto.
In primo luogo, è necessario precisare che l’ordinamento italiano, in
realtà, non conosce una categoria attività economica che possa essere
assimilata a quella ricavabile dall’ordinamento comunitario. Come si è
tentato di sottolineare nelle pagine che precedono, la nozione
comunitaria proviene direttamente dal mondo economico e non trova
un proprio referente immediato nell’ambito delle nozioni giuridiche
nazionali, piuttosto le racchiude in sé, non prestando grande attenzione
alle differenze tra loro esistenti.
Questo fenomeno è ben evidente nel nostro ordinamento, laddove il
legislatore, anche nel trasporre le direttive Iva è rimasto fedele alla
struttura giuridica sua propria, ponendo al centro della disciplina due
distinte categorie di fenomeni economici, le attività professionali e
l’impresa, nonostante la dichiarata intenzione di discostarsi dal
modello già elaborato nelle altre branche dell’ordinamento.
A questo proposito, ciò che si continua a presentare più
problematico, e quindi meritevole di un’analisi specifica, è il
Capitolo II
presupposto costituito dall’esercizio d’impresa che all’interno della
disciplina dell’imposta, soprattutto attraverso l’interpretazione che ne
viene fornita, mostra l’intenzione di allontanarsi quanto più possibile
dalle teorizzazioni sviluppatesi nell’ambito del diritto commerciale.
È infatti soprattutto con riguardo alla nozione d’impresa rilevante ai
fini dell’imposta che si è tentato di sottolineare l’oggettività ritenuta
tipica del sistema comunitario, prendendo le distanze dalla costruzione
più marcatamente soggettiva propria del settore giuridico d’origine.
Come si vedrà, questo tentativo di affermarne ad ogni modo la portata
oggettiva porta ad attribuire rilevanza decisiva ad elementi che non
sempre sono tali nell’ordinamento comunitario, il quale, come si è
illustrato nelle pagine che precedono, porta alla luce un fenomeno
complesso non riconducibile, secondo l’interpretazione esposta, alla
mera oggettività.
Nel tentativo di dimostrare che una lettura delle disposizioni
nazionali che tenga conto del vincolo di interpretazione conforme
all’ordinamento comunitario deve necessariamente recuperare e
valorizzare quegli elementi spesso trascurati, come il profilo
soggettivo nel suo complesso, soprattutto con riguardo alla volontà
dell’agente e alle sue manifestazioni, si rende necessaria un’analisi che
guardi contemporaneamente sia all’ordinamento tributario sia a quello
commerciale, dal quale giungono importanti suggerimenti, soprattutto
se si ritiene corretta l’impostazione per cui le norme impositive non
sono tali da introdurre nozioni del tutto differenti ed autonome, ma che
piuttosto esse prendono il via dalle norme commerciali e ne
valorizzano solo gli aspetti strettamente rilevanti ai fini
dell’applicazione dell’imposta, lasciando inalterato ciò che della
disciplina sostanziale non è espressamente derogato.
Ciò che si afferma è, dunque, che la nozione d’impresa deve
ritenersi unitaria all’interno dell’ordinamento, rendendo possibile una
circolazione tra i diversi settori delle riflessioni svolte in merito, salvi
i casi in cui queste non si dimostrino incompatibili con le finalità e
l’integrità delle diverse discipline esaminate, così come si è tentato di
dimostrare con riguardo ad attività economica ed impresa
96
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
nell’ordinamento comunitario.
Tutto questo porta, come si è detto, a rivalutare anche ai fini
dell’imposta, nell’individuazione dell’impresa rilevante e, soprattutto,
del suo momento di cessazione, elementi diversi dalla sola
destinazione dei beni o dal rapporto di inerenza, nell’ambito di
un’analisi rivolta all’integrità dei requisiti tipici del fenomeno
imprenditoriale, come si è visto non solo compatibile con lo spirito
delle norme europee, ma ad esse pienamente applicabile.
1.1- La bipartizione tra impresa e professioni
In tema di attività economica rilevante ai fini dell’imposta, già ad
un primo sguardo disciplina nazionale e comunitaria appaiono molto
diverse tra loro, pur se in gran parte ad un livello meramente formale.
La prima particolarità della disciplina domestica consiste nel
mancato riferimento alla categoria attività economica utilizzata dal
legislatore europeo cui si è sostituita la suddivisione tra le due
tipologie di fenomeni economici, e dunque di operatori, già conosciute
dall’ordinamento, ovvero l’impresa e le attività professionali ed
artistiche, di cui si occupano gli art. 1, 4 e 5 del Dpr. 633/1972.
Già da questo primo dato emerge un elemento di diversità che si può
ritenere significativo. Si è posto in evidenza che il legislatore
comunitario, noncurante delle classificazioni giuridiche, ha collocato a
base della disciplina dell’imposta la nozione di attività economica,
facendo convergere all’interno di essa qualsiasi forma di attività
indipendente rivolta al mercato che consista nella produzione, nel
commercio, nella prestazione di servizi o nello sfruttamento di un bene
materiale o immateriale.
Confrontando questa con le norme nazionali è possibile vedere
chiaramente come il legislatore italiano, estraneo ad una definizione
talmente ampia ed onnicomprensiva, abbia preferito utilizzare -anche
per l’ovvia necessità di inserire e coordinare il sistema dell’imposta
con l’ordinamento tributario nazionale, in particolare con le Imposte
sui Redditi- e piegare le proprie categorie giuridiche alle esigenze
97
Capitolo II
dell’imposta comunitaria, adattandole con le ripetute e successive
modifiche che le norme hanno subito 1 0 2 .
Si è dunque creata una bipartizione 1 0 3 della nozione di attività
economica che comporta, tra l’altro, la necessità di un più attento
esame delle situazioni concrete al fine di darne una corretta
qualificazione 1 0 4 , rilevante non solo sul piano formale, ma anche, e
soprattutto, sul piano applicativo dell’imposta.
Il principale appunto che può essere mosso alla disciplina nazionale
102
L’art. 4, in particolare, ha subito numerose e ripetute modifiche proprio al
fine di renderlo più conforme al dettato comunitario. La prima modifica è
intervenuta a seguito dell’attuazione della VI Direttiva. Per rendere la norma
maggiormente aderente al dettato comunitario la sua struttura venne integralmente
modificata ad opera del DPR 29 gennaio 1979, n. 24 con il quale venne eliminato il
rinvio agli art. 2082 e 2083 c.c. e sostituito con il semplice rinvio alle attività
commerciali ed agricole di cui agli artt. 2195 e 2135 c.c., creando dunque un
presupposto il più possibile indipendente dalle qualificazioni civilistiche. Una
seconda significativa modifica è intervenuta ad opera del Dlgs. 2 settembre 1997,
n. 313 con il quale si è armonizzata la nozione di esercizio d’impresa ai fini Iva
con quella dettata dal TUIR, estendendo la soggettività passiva anche a quelle
attività che, seppur non commerciali per natura, vengano esercitate attraverso
un’organizzazione in forma d’impresa. Va altresì ricordata l’ulteriore modifica
apportata alla norma con l’intento di uniformarla al dettato comunitario sulla
scorta delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria. Ci si riferisce
alla limitazione della portata della presunzione di soggettività applicabile alle
società nel caso in cui possiedano immobili o partecipazioni societarie, non
oggetto di un’attività economica, ma a titolo di mero godimento (art. 4, c.6 lett. a e
b).
103
In questo senso C E N T O R E , Iva europea. Aspetti interpretativi ed applicativi
dell’Iva nazionale e comunitaria, Milano, 2006, 148 e ss.,
104
Circa questa scelta del legislatore italiano si rileva in dottrina l’effetto
distorsivo rispetto alle indicazioni del legislatore comunitario. In proposito G IO R G I ,
Detrazione e soggettività passiva cit., 83 e ss. sottolinea come “la definizione dei
criteri di attribuzione della soggettività passiva sul modello delle imposte dei
redditi determina delle distorsioni nel meccanismo di funzionamento del sistema
comune d’imposta [..] distorsioni ancor più incomprensibili se si considera che
mentre nel sistema delle imposte sui redditi la distinzione tra redditi d’impresa e
98
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
è il forte scostamento, quanto meno formale, dalla struttura
dell’imposta prevista a livello europeo, allontanamento che comporta
una moltiplicazione dei criteri di individuazione dell’attività
imponibile e del soggetto passivo, attribuendo un ruolo decisivo ad
elementi che il legislatore comunitario, direttamente o per voce della
giurisprudenza, ha dichiarato irrilevanti ai fini dell’imposta.
Laddove, infatti, il legislatore comunitario ha previsto l’assoluta
indifferenza delle forme giuridiche o delle modalità di esercizio,
privilegiando semplicemente caratteri quali l’indipendenza, la stabilità
e l’oggettiva economicità dell’attività, quello nazionale ha preferito
richiamare concetti familiari al proprio ordinamento e già ben definiti,
salvo poi modificarne il contenuto per piegarlo al sistema Iva. In
questa prospettiva vengono ad assumere importanza elementi legati
alla forma giuridica, alle modalità di esercizio (ulteriori rispetto
all’indipendenza e alla professionalità) ed in generale a tutto
quell’apparato normativo che disciplina le singole categorie,
implicitamente richiamato dal riferimento ad esse.
Come sottolineato dalla dottrina, le ricorrenti modifiche del dettato
normativo già di per sé dimostrano l’inadeguatezza dell’utilizzazione
delle categorie nazionali ad avere il medesimo ambito di applicazione
del presupposto comunitario. Ripetutamente si è quindi reso necessario
estendere o limitare soprattutto il dettato dell’art. 4, al fine di renderlo
corrispondente al disposto della Direttiva Iva 1 0 5 .
di lavoro autonomo trova una giustificazione nell’esigenza di discriminare il
prelievo, nel sistema dell’Iva la distinzione tra attività d’impresa ed attività
artistiche o professionali non sembra trovare alcuna giustificazione che non sia
quella di uniformare il sistema dell’Iva a quello delle imposte sui redditi e quella
della volontà di distinguere gli obblighi formali delle due categorie di soggetti;
appare quindi evidente la scarsa sensibilità del legislatore per la cogenza e per
gli obiettivi del diritto comunitario in quanto il raggiungimento della libera
circolazione delle persone rende, sotto il profilo soggettivo, del tutto irrilevante
sia la veste giuridica sia la qualificazione dell’attività con cui il soggetto passivo
effettua le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che rientrano nella sfera di
applicazione del tributo”.
105
Sempre G IO R G I , cit., 55 ritiene che l’inadeguatezza delle nozioni adottate dal
99
Capitolo II
Queste successive e ripetute modifiche hanno senza dubbio ottenuto
un notevole avvicinamento al contenuto della norma comunitaria, tanto
che ora risultano, seppur nella diversità della terminologia utilizzata,
sostanzialmente equivalenti. Non si può però non sottolineare come la
scelta compiuta dal legislatore nazionale possa ancora determinare
delle divergenze rispetto alle fonti comunitarie, non tanto nel
contenuto, quanto piuttosto nella tipologia dei criteri utilizzati per
l’identificazione del soggetto passivo che risultano frammentati in una
pluralità di ipotesi 1 0 6 .
In particolare, la tecnica legislativa appare molto differente e molto
più complessa. Ciò anche perché, il legislatore nazionale non
accogliendo la nozione di attività economica, ha contemporaneamente
omesso di adottare quale criterio estensivo della sua portata il concetto
di sfruttamento di beni materiali o immateriali, così ampiamente
utilizzato dalla giurisprudenza comunitaria.
La mancata utilizzazione di queste nozioni generali, sostituite da
nozioni tipiche più limitate, si unisce quindi ad interventi di estensione
dell’ambito di applicazione delle norme che seguono lo stesso
legislatore italiano a definire compiutamente il presupposto indicato dal diritto
comunitario comporti un’inutile complessità delle norme che, fornita una regola
generale tramite il rinvio alle categorie tradizionali, contengono regole di
assimilazione o di esclusione necessarie al completamento del proprio contenuto.
Tale necessità sarebbe, secondo l’Autore, indice dell’estraneità delle nozioni
adottate al meccanismo del tributo, per cui a volte troppo ampie ed altre, al
contrario, insufficienti. Per un esame del rapporto tra Direttiva e norme nazionali
di attuazione si vedano anche BOSELLO F., L’attuazione delle direttive
comunitarie in materia tributaria: l’esperienza dell’imposta sul valore aggiunto,
Riv. Dir. Trib. 1998,I, 706 e MANZONI I ., L’imposta sul valore aggiunto .
Le
deviazioni della neutralità nel modello italiano, Torino, 1973
106
Pone in luce questa moltiplicazione dei criteri di individuazione del soggetto
passivo C E N T O R E , cit., 149 ss. il quale riconosce la presenza di un criterio oggettivo
fondato sulla natura dell’attività, di uno soggettivo nel caso della presunzione di
soggettività per le società ed infine di un criterio di stampo organizzativostrutturale laddove ci si riferisce alle attività non definite commerciali dal codice
civile.
100
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
indirizzo, ossia si riferiscono a nozioni tipiche e puntuali, molto
diverse da quelle comunitarie, tra cui figura anche una presunzione di
soggettività per le società che non trova alcuna corrispondenza nella
legislazione europea.
In realtà, dal confronto tra norme comunitarie e nazionali emerge in
proposito un’ulteriore differenza che interessa la stessa struttura della
disciplina e il rapporto tra gli elementi che la compongono.
Sulla scorta della più volte richiamata esigenza di assoluta
oggettività che si è riconosciuta all’imposta, la disciplina italiana
appare completamente incentrata sulle operazioni imponibili, in base
alle quali individua anche il soggetto passivo, secondo quanto disposto
dall’art. 17 del DPR. 633/72 1 0 7 .
Quanto meno ad un livello più superficiale si perde, dunque, il
rapporto diretto tra soggettività passiva ed esercizio dell’attività
economica, in favore di un legame mediato dalla preventiva
qualificazione delle operazioni compiute come imponibili.
Esercizio dell’impresa o della professione vengono intesi in questo
senso come requisito qualificante delle operazioni e solo
successivamente – e secondariamente- giungono ad identificare il
soggetto. È quindi la stessa disciplina a trascurare e porre in secondo
piano l’elemento soggettivo, forse svalutando in parte anche il ruolo
che in questo senso si è riconosciuto all’attività economica in ambito
comunitario 1 0 8 .
107
Il quale dispone che “L'imposta e' dovuta dai soggetti che effettuano le
cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla
all'erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della
detrazione prevista nell'art. 19,nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo”
108
È interessante in questo senso anche notare che l’art. 17 è l’unico a riferirsi
al soggetto passivo. In proposito, si deve ricordare la difficoltà che inizialmente
creò la struttura dell’imposta comunitaria quanto al profilo soggettivo, così diverso
dalla struttura tipica delle imposte nazionali. Il dibattito in dottrina fu su questo
aspetto molto acceso, soprattutto con riguardo al ruolo di soggetto agente e
consumatore finale. Questa difficoltà si nota già nel dettato normativo e nella
struttura del Dpr. 633/72, nel quale la soggettività passiva sembra assumere un
rilievo marginale. La centralità delle operazioni imponibili e la marcata oggettività
101
Capitolo II
Certamente, non si può negare che nella stessa legislazione europea
le operazioni imponibili costituiscano elemento fondamentale
dell’imposta, essendone il presupposto applicativo, si ritiene però,
anche
sulla
base
dell’evoluzione
dell’interpretazione
giurisprudenziale, che esse si pongano in posizione subordinata
rispetto all’elemento rappresentato dall’attività economica, che
davvero ricopre un ruolo cardine nel sistema impositivo, ruolo chiarito
dalla molteplicità di funzioni che ad essa viene assegnato, ivi
compresa l’identificazione tra soggetto agente e soggetto passivo.
All’interno della disciplina italiana questo ruolo sembra invece in
parte perdersi in favore di un maggior rilievo attribuito alle operazioni
in sé. Ovviamente esse vengono definite imponibili solo nel caso in cui
siano riconducibili ad un’attività d’impresa o professionale, ma una
volta che tale qualificazione sia stata attribuita, quanto meno
apparentemente, sono esse stesse a definire la soggettività passiva, non
più l’attività globalmente intesa.
Questa differenza appare evidente già guardando al testo delle
norme: laddove la Direttiva introduce all’art. 9 la definizione di
attività economica come elemento identificativo del soggetto passivo,
la legislazione italiana non fa alcun riferimento alla soggettività
passiva, ma semplicemente specifica il contenuto dell’espressione
esercizio d’impresa o professione utilizzato nella definizione delle
operazioni imponibili. La prima norma che, invece, nel DPR. 633/72 si
riferisce al soggetto passivo è il citato art. 17, dove appunto si
attribuisce la soggettività passiva a chi compia operazioni imponibili.
Se confrontate in questo senso le due discipline sembrano adottare
un procedimento logico in parte differente, salvo giungere ai medesimi
risultati. Questo proprio in funzione del ruolo assegnato all’esercizio
dell’attività economica in relazione ai due presupposti impositivi.
L’art. 2 della Dir. 2006/112/CE definisce imponibili le operazioni
compiute dal soggetto passivo che agisca in quanto tale, ricollegandosi
dell’impostazione nazionale, e dell’interpretazione che ne deriva, sembrano dunque
rendere nulla l’influenza delle vicende soggettive sull’imposta.
102
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
logicamente al successivo art. 9 che definisce soggetto passivo
chiunque eserciti un’attività economica. Al contrario, la normativa
italiana definisce come imponibili le operazioni effettuate
nell’esercizio dell’attività, specifica quali attività siano da ritenere
rilevanti e, infine, stabilisce che sia soggetto passivo chi compie tali
operazioni.
A ben vedere, gli elementi che compongono il ragionamento sono i
medesimi, così come il risultato che da un punto di vista sostanziale
essi raggiungono.
La diversità del percorso seguito si riflette, però, nella rilevanza
attribuita
ai
diversi
profili
nell’ambito
dell’imposta
e
dell’interpretazione della sua disciplina.
La struttura della normativa nazionale porta forse a sopravvalutare
il lato oggettivo dell’imposta, a discapito della rilevanza che invece
dovrebbe attribuirsi anche all’aspetto soggettivo, allontanandosi di
conseguenza da quell’equilibrio che sembra caratterizzare la disciplina
comunitaria. Essa, infatti, pur dimostrando la propria oggettività
attraverso la centralità di una nozione di attività economica lontana dai
tradizionali schemi giuridici e costruendo su di essa anche la
soggettività passiva, non sminuisce affatto il ruolo del soggetto, ma
anzi da esso muove per individuare gli altri elementi fondamentali per
il sistema dell’imposta.
Queste osservazioni possono non avere alcuna rilevanza quando si
tratti di esaminare la fase di pieno esercizio dell’attività, momento in
cui tutti gli elementi vengono a coincidere; diventano, invece,
maggiormente incisive quando si guardi all’evoluzione dell’attività, e
quindi al suo inizio e alla sua cessazione, nei quali spesso tale
coincidenza viene a mancare e l’assenza di un elemento deve essere
sopperita dal ruolo attribuito agli altri.
Quanto accade in ambito comunitario è già stato illustrato e si è
visto come sia la stessa giurisprudenza a fornire le basi perché si
compia questo bilanciamento tra i diversi elementi costitutivi
dell’imposta. In ambito nazionale esso appare più difficilmente
accolto, quanto meno esaminando le posizioni assunte da dottrina e
103
Capitolo II
giurisprudenza maggioritarie, che nel nome dell’oggettività
dell’imposta trascurano spesso caratteristiche e vicende che
interessano il soggetto, attribuendo una rilevanza centrale al
compimento di operazioni, a volte considerate imponibili sulla sola
base di un presunto vincolo di destinazione tra i beni che ne sono
oggetto e l’attività esercitata, soprattutto nel caso dell’impresa.
1.2 L’esercizio di imprese nel Dpr. 633/1972
Individuata la struttura della disciplina nazionale e la funzione che
in essa sembra attribuita alle due tipologie di attività riconosciute
come rilevanti ai fini dell’imposta, si rende necessario esaminare il
contenuto di esse, in particolare dell’esercizio d’impresa, che solleva i
maggiori interrogativi sia in relazione alla sua individuazione in
rapporto al diritto commerciale, sia con riguardo all’esame della sua
cessazione.
Stabilisce l’art. 4, c.1 che per esercizio di imprese si intende
l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle
attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del
codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché
l'esercizio di attività, organizzate in forma d'impresa, dirette alla
prestazione di servizi che non rientrano nell'articolo 2195 del codice
civile.
La norma in esame individua due diverse ipotesi di esercizio di
impresa rilevante ai fini Iva: un primo incentrato sulla tipologia di
attività esercitata ed il secondo caratterizzato invece dalle modalità
con cui essa viene svolta.
Nel primo caso, conformemente al dettato comunitario, viene posto
in risalto il carattere professionale ed abituale dell’esercizio,
indipendentemente dalla presenza o meno di una struttura organizzata.
Il richiamo alle norme del Codice Civile potrebbe in un primo
momento trarre in inganno, facendo pensare ad un rinvio integrale alla
disciplina in materia di imprenditore ed impresa dallo stesso dettata. A
ben vedere, invece, il legislatore ha più semplicemente inteso rinviare
104
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
a quelle attività di produzione, scambio ed intermediazione che le
norme civilistiche definiscono come commerciali ed agricole 109 ,
assumendo dunque un approccio oggettivo nei confronti della
disciplina dell’impresa e trascurandone il profilo soggettivo connesso
alla figura dell’imprenditore.
Ciò che in particolare rileva di questa prima previsione è il ruolo
secondario che viene assegnato al requisito dell’organizzazione,
ritenuto di per sé ininfluente, elemento che segna la distanza presa dal
legislatore nei confronti della nozione di impresa propria del diritto
commerciale. Si è rispettata, dunque, in questo caso l’indifferenza per
le modalità di esercizio, intese quali esistenza di una struttura
appositamente creata per lo svolgimento dell’attività 1 1 0 .
A confronto, però, con l’ampiezza della nozione comunitaria una
disposizione siffatta non sarebbe stata di fatto sufficiente ad includere
tutte le ipotesi previste. Questo è il motivo per cui il legislatore
nazionale individua un secondo caso che qualifica come esercizio
d’impresa anche lo svolgimento di attività di prestazione di servizi
che, seppur non ritenute naturalmente commerciali in quanto non
comprese nell’elenco di cui all’art. 2195 c.c., vengano condotte per
mezzo di una struttura organizzata in forma d’impresa.
E’ evidente come, in questo caso, si sia ritenuto che il requisito
109
Sottolinea in particolare l’indifferenza del legislatore tributario circa
l’esistenza dell’impresa in senso civilistico e l’utilizzo in senso atecnico del
termine impresa F AN T O Z Z I , Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e
nell’Iva, Milano, 1982
110
Questo ha permesso inoltre di superare le controversie esistenti nella
dottrina commercialistica circa l’imprenditorialità del piccolo imprenditore e
dell’imprenditore agricolo, riunendo tutti all’interno della stessa fattispecie: non
sussistendo un rinvio alla nozione civilistica di imprenditore, disciplinato dall’art.
2082 c.c., e richiamando invece espressamente l’art. 2135 che disciplina le attività
agricole, non si creano all’interno del sistema dell’imposta quelle differenze
rilevate nel settore d’origine tra imprenditore cosiddetto civile ed imprenditore
commerciale, né quelle differenti classificazioni dovute alla prevalenza del lavoro
proprio o della eterorganizzazione, considerata tipica delle imprese commerciali.
105
Capitolo II
organizzativo possa sopperire alla mancanza di commercialità 1 1 1
strettamente intesa e serva ad inserire alcune prestazioni di servizi
nell’ambito dell’impresa piuttosto che in quello dell’attività
professionale 1 1 2 . Si è cercato, dunque, di definire, quanto meno a fini
impositivi, quella “zona grigia” di confine tra attività imprenditoriale e
lavoro autonomo, area che comprende tutte quelle attività che non si
ritengono professionali ai sensi del codice civile, perché non
riconducibili al novero delle professioni intellettuali e non
espressamente disciplinate, e che lo stesso codice esclude dalla
categoria delle attività commerciali perché, ad esempio, sprovviste
della caratteristica dell’industrialità 1 1 3 .
Elemento comune ad entrambe le ipotesi è costituito dall’esercizio
per professione abituale, requisito su cui molto si è dibattuto. In
particolare, si è sostenuto che l’espressione abbia un carattere
pleonastico 1 1 4 , non essendo ben chiara quale possa essere la differenza
111
Deve rilevarsi in proposito che, come già sottolineato, simili esigenze sono
totalmente estranee al sistema comunitario in cui, tecnicamente quanto meno, non
si fa alcun riferimento al requisito della commercialità dell’attività. Del resto, se
per commercialità si intende, come avviene nel diritto commerciale, la finalità di
produzione e scambio rivolta al mercato, tale qualità appare intrinseca alla stessa
nozione di attività economica contemplata dalla Direttiva, pur se in termini forse
più lati e generici.
112
In tal senso F IC AR I , Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto:
l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, Riv. Dir. Trib., 1999, I, 562 ss.
113
Esamina e sottolinea il valore di tale elemento anche in ambito tributario,
P O LAN O , Attività commerciali ed impresa nel diritto tributario, Padova, 1984 che
pone in evidenza la necessità di una maggiore considerazione di questo elemento,
inteso quale autonomia tecnica dell’organizzazione dell’impresa, al fine di
distinguere correttamente attività imprenditoriali e lavoro autonomo.
114
Sono numerose in dottrina le voci in tal senso. In particolare esse
sottolineano come il concetto di abitualità sarebbe di per sé insito in quello di
professionalità e, dunque, servirebbe unicamente ad indicare la possibilità di
svolgere più attività contemporaneamente. Si vedano ad esempio, F AN T O Z Z I , cit.,73
e ss; F IC AR I , Il profilo cit. 557 ss.; F IO R E S E , La soggezione delle unità sanitarie
locali all’imposta sul valore aggiunto in Il regime tributario delle unità sanitarie
locali a cura di T OS I , Rimini, 1992, 129; G IO R G I , cit., 102 ss.. Svolge un’ampia
106
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
tra la professionalità e l’abitualità, posta l’interpretazione che
pacificamente si dà della professionalità nel senso di stabilità,
abitualità, sistematicità e continuità.
Una distinzione fra i due termini può essere rilevata attribuendo
all’uno una connotazione qualitativa e all’altro una connotazione
temporale 1 1 5 . In sostanza dunque, il requisito dell’esercizio
professionale dovrebbe attenere alle modalità con cui l’attività viene
svolta, al fatto che essa, per il proprio carattere complesso, richieda un
certo impegno ed un certo impiego di fattori economici 1 1 6 e che,
proprio in virtù delle modalità con cui viene svolta, sia in grado di
qualificare chi la svolge anche a livello sociale. Il requisito
dell’abitualità dovrebbe invece rientrare in una prospettiva temporale,
quale reiterazione e continuità dell’attività 1 1 7 , tale per cui si possa
disamina del tema, pur se in materia di imposte sui redditi, I N GR O S SO , Reddito
d’impresa, organizzazione in forma d’impresa e piccola impresa, Riv. Dir. Trib.
1993, I, 73 e ss. il quale, dopo aver esposto la tesi del significato pleonastico
dell’espressione, la nega sostenendo che “l’aggettivo abituale non denota una
qualità
della
professionalità,
bensì
funge
da
condizione.
Si
può
avere
professionalità pur senza che l’attività svolta sia esclusiva, ma si richiede che tra
più attività concomitanti quella commerciale, che rappresenta la fonte del reddito
d’impresa,
sia
“professionale”,
abituale.
si
rende
[..] abituale,
significativo
cumulandosi
con
dell’enfatizzazione
del
il
sostantivo
processo
di
normalità (o tipizzazione) dell’esercizio di attività d’impresa commerciale” (p.77).
115
Chi rileva invece la ripetizione insita nell’espressione professione abituale,
attribuisce allo stesso requisito di professionalità una connotazione ambivalente,
che si incentra sulla ripetitività degli atti, sulla reiterazione duratura e costante
delle operazioni oggetto dell’attività tali da rendere questa ordinaria, anche ad una
percezione esterna. In tal senso cfr. F IC AR I , Il profilo soggettivo cit. 558 ss..
116
È grazie all’interpretazione di questo requisito che viene riconosciuta la
rilevanza ai fini dell’imposta anche dell’attività costituita da un unico affare. La
distinzione di questa dall’attività meramente occasionale viene fondata appunto
sulla complessità, sulla durata, sull’impiego stabile di fattori produttivi organizzati
e sull’entità degli introiti da questa ricavati. In tal senso si vedano ad esempio
Cass.,10 maggio 1996, n. 4407; Cass., 12 marzo 1996, n. 2021;
117
In tal senso cfr. L U P I , voce Imposta sul valore aggiunto, Enc. Giur., 1989,
vol. e C E N T O R E , Iva europea cit., 155;
107
Capitolo II
distinguere
l’attività
d’impresa
dall’operazione
meramente
occasionale 1 1 8 .
Abitualità e professionalità unitamente analizzate sono state
interpretate anche come giustificazione della non necessaria esclusività
dell’attività svolta, ritenendosi, da un lato, assolutamente possibile
l’esercizio di più attività contemporaneamente e, dall’altro, che una di
esse, condotta appunto in modo professionale ed abitualmente, sia tale
da qualificare le operazioni come imponibili e attribuire la soggettività
passiva ai fini dell’imposta 1 1 9 .
I successivi commi dell’art. 4 individuano tutta un’altra serie di
ipotesi equiparate ai fini dell’imposta all’esercizio d’impresa, casi che
in parte riprendono le articolate disposizioni dettate dalla direttiva 1 2 0 .
Nessun riferimento al testo comunitario ha invece la disposizione di
cui al comma secondo, laddove il legislatore nazionale ha introdotto
un presunzione di imponibilità per le operazioni compiute dalle
società, stabilendo che l’attività da esse svolta si considera in ogni
caso attività d’impresa 1 2 1 , creando dunque un meccanismo automatico
118
Tenendo ad ogni modo sempre presente che l’abitualità dovrà valutarsi in
funzione della tipologia di attività e non in modo assoluto, non essendo in ogni
caso richiesto un esercizio ininterrotto. Per questo motivo, viene pacificamente
riconosciuto il carattere imprenditoriale delle attività stagionali. Per la stessa
ragione si ritiene che non si debba valutare l’imprenditorialità dell’attività
esaminata sulla base della sua durata ininterrotta, non essendo necessario
prevedere periodi minimi. In tal
senso si veda F IC AR I , op. loc. ult. cit.
Contra
P O LAN O , Attività commerciale e impresa cit., 25 il quale sostiene che l’impresa per
potersi considerare tale ed integrare il carattere di stabilità richiesto debba ad ogni
modo rispettare un requisito temporale minimo, predeterminato o predeterminabile.
119
In tal senso I N GR OS S O , op. loc. cit.
120
Ci si riferisce in particolare alle disposizioni dettate in materia di enti non
commerciali e pubblici o di attività di natura immobiliare.
121
Recita infatti l’art. 4, c. 2, n. 1 che si considerano in ogni caso effettuate
nell’esercizio dell’impresa “le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle
società in nome collettivo e in accomandita semplice, dalle società per azioni e in
accomandita per azioni, dalle società a responsabilità limitata, dalle società
cooperative, di mutua assicurazione e di armamento, dalle società estere di cui
108
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
di attribuzione della soggettività passiva. A prescindere dal dibattito
circa la possibile esistenza di società senza impresa, stante la finalità
di esercizio di un’attività economica e non specificamente di impresa
connaturata alla stessa nozione di società, il tenore di questa
presunzione ha da subito posto in luce i possibili contrasti con il
dettato delle norme comunitarie 1 2 2 .
Essa è, infatti, in aperto contrasto con quanto sottolineato circa la
rilevanza delle forme giuridiche in ambito Iva ed ancor di più con la
necessità, posta in luce dalla giurisprudenza comunitaria, di verificare
che un’attività economica sia effettivamente svolta, sia sotto il profilo
della rilevanza dell’attività in ambito Iva, sia sotto quello del suo
effettivo esercizio. E’ stato in particolare per risolvere la prima ipotesi
di contrasto che la norma è stata modificata, accogliendo i
suggerimenti emersi dalle pronunce della Corte di Giustizia relativi
alla non rilevanza delle ipotesi di mero godimento o esercizio del
diritto di proprietà 1 2 3 , sia nel caso di sfruttamento di un bene immobile,
sia nel caso di possesso di partecipazioni societarie 1 2 4 .
Molte altre sono le fattispecie considerate nella norma, che nel
corso del tempo, si è arricchita di sempre maggiori specificazioni,
spesso a discapito della propria chiarezza.
Gli elementi principali restano ad ogni modo quelli appena
richiamati, dall’analisi dei quali emerge una sostanziale conformità
alle norme comunitarie, seppur con le differenze evidenziate.
Sopra ogni cosa si nota la difficoltà del legislatore nazionale ad
abbandonare strutture tradizionali del proprio ordinamento, a favore di
una nozione ampia e maggiormente oggettiva che, forse, non gli
appartiene. Nonostante questo, e più che altro forse per le esigenze
stesse del sistema tributario, le norme che disciplinano, seppur come si
all’art. 2507 c.c. e dalle società di fatto”
122
Lo rileva C O M E LLI , Iva comunitaria cit., 492 ss.
123
Cfr. supra nt. 18 e 19 e la giurisprudenza ivi citata.
124
La norma contiene anche ulteriori limitazioni alla portata della norma,
introdotte in particolare in chiave antielusiva per contenere il fenomeno delle
società di comodo.
109
Capitolo II
è detto in via mediata, il presupposto soggettivo Iva abbandonano un
approccio di tipo soggettivo, incentrato sulla figura dell’imprenditore,
privilegiando invece l’oggettività data dal semplice riferimento alle
diverse tipologie di attività, indipendentemente dal fatto che queste
integrino pienamente le fattispecie definite dal diritto sostanziale 1 2 5 .
1.3 Il rapporto tra diritto Civile e diritto Tributario
a)- Imprenditore e impresa nel diritto civile
Il cuore della disciplina civilistica dell’impresa è costituito dall’art.
2082 c.c. il quale, definendo la figura dell’imprenditore, delinea
automaticamente anche i tratti fondamentali dell’impresa 1 2 6 .
Quattro sono gli elementi fondamentali che la compongono:
- l’attività economica, intesa quale insieme di atti coordinati
125
Sottolinea questa profilo, F ILIP P I , Imposta sul valore aggiunto, in Trattato di
diritto tributario a cura di A M AT U C C I , vol. IV, Padova 2001, 230 ss.
126
In proposito, uno dei dibattiti più vivi nella dottrina commercialistica, sin
dall’emanazione del codice civile, è stato quello del rapporto tra imprenditore ed
impresa. Molte sono le teorie elaborate in tal senso; si va dall’impresa intesa come
istituzione (S AN T O R O P AS S AR E LL I ), all’idea dell’impresa come autonoma e prevalente
rispetto all’imprenditore (S E GN I ), all’impresa come centro di interessi propri,
all’impresa intesa come azienda, sino all’interpretazione che la considera una
“situazione
giuridica
attiva”
posta
alla
base
di
un
diritto
soggettivo
dell’imprenditore all’impresa (N IC O LÒ ). La dottrina maggioritaria ritiene invece che
l’impresa vada considerata come un’attività svolta dall’imprenditore per mezzo
dell’azienda (G R A ZIAN I , S AN T IN I ). Su questa interpretazione della nozione di impresa
si innesta un’ulteriore dibattito sulla prevalenza giuridica di una figura o
dell’altra, dibattito che vede, da un lato, chi (O P PO , S P AD A ) vede l’impresa come
fattispecie
primaria
in
funzione
della
quale
viene
individuata
la
figura
dell’imprenditore, destinatario delle norme, e chi (B U ON O C O R E ), al contrario, ritiene
che elemento centrale e dunque fattispecie definita dalle norme sia l’imprenditore,
in base al quale si definisce successivamente l’impresa, quale oggetto del suo
agire. Per una ricostruzione di quanto qui brevemente riportato si veda B UO NO C O R E ,
L’impresa in Trattato di diritto commerciale a cura di
B U ON O C O R E ,
Torino, 2002, 52 ss e le indicazioni bibliografiche lì riportate.
110
sez. I, tomo 2.1,
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
teleologicamente e perciò autonomamente rilevanti nel loro insieme.
Requisito fondamentale è l’economicità, caratteristica che si sostanzia
nell’utilizzazione di un metodo cosiddetto economico, ovvero in modo
che i ricavi ottenuti con l’attività siano almeno pari ai costi
sostenuti 1 2 7 .
–
- la professionalità, intesa quale stabilità ed abitualità dello
svolgimento dell’attività. Si ritiene che questa caratteristica sia
strettamente connessa allo stesso concetto di attività, intesa quale
reiterazione di atti, ma che comunque rivesta un ruolo autonomo e
fondamentale soprattutto nelle distinzione tra impresa ed attività
occasionale. Il contenuto di questo requisito necessita di alcune
precisazioni in termini negativi sulle quali vi è concorde opinione
sia in dottrina che in giurisprudenza.
–
La professionalità intesa come stabilità non significa, infatti, né
continuità in senso assoluto –motivo per cui sono pacificamente
ritenute imprese anche le attività per natura temporanee, come
quelle stagionali-, né prevalenza o esclusività –è cioè possibile la
concorrenza con l’esercizio di altre attività- né, infine, principalità
dell’attività d’impresa rispetto ad altre.
- l’organizzazione dell’attività, intesa dalla dottrina maggioritaria
come creazione di una struttura coordinata dei fattori produttivi
funzionale all’esercizio dell’attività economica 1 2 8 .
127
La
dottrina è ormai concorde
nel considerare
questo il contenuto
dell’aggettivo economico. In passato, invece, si riteneva che il concetto di
economicità implicasse la produzione di una qualche utilità, il che in sostanza
rendeva
tale
requisito
ridondante
rispetto
al
fine
di
produzione
proprio
dell’impresa. L’attività definibile come economica è invece quella che viene svolta
in modo da essere astrattamente idonea a coprire i costi con i ricavi, anche in
assenza di scopo di lucro o di effettivo raggiungimento della copertura. Rilevante
è, dunque, il metodo con cui l’attività viene condotta che deve uniformarsi ad un
criterio quanto meno di economicità, in modo tale che l’impresa tragga da se stessa
i mezzi per la propria sopravvivenza. In tal senso, B UO NO C O R E , cit., 61 ss e J AE G E R D E N O ZZ A - T O FFO LE T T O , Appunti di diritto commerciale. Impresa e società, Milano,
2006, 13 ss.
128
Il ruolo di questo elemento all’interno della definizione di impresa è stato ed
111
Capitolo II
- il fine di produzione e scambio, espressamente enunciato dalla
norma, dal quale si deduce dunque la necessità che l’attività si
caratterizzi per la propria produttività, non potendosi qualificare come
impresa un’attività di mero godimento. In dottrina, alcuni ricollegano
alla richiesta di produttività dell’attività la necessità che essa sia
rivolta al mercato, quale naturale destinazione del risultato
dell’impresa 1 2 9 .
b)- Alcune considerazioni sul rapporto tra l’impresa nel diritto
è tuttora molto dibattuto. La dottrina si divide, infatti, tra chi lo ritiene elemento
necessario
ed
imprescindibile
e
chi,
al
contrario,
lo
definisce
come
pseudorequisito, non idoneo ad avere un portata discriminante. L’aspetto più
fortemente
discusso
dell’organizzazione.
è
quello
Inizialmente
relativo
si
alla
riteneva,
dimensione
infatti,
che
ed
all’oggetto
l’organizzazione
predisposta dall’imprenditore dovesse avere ad oggetto capitale, beni ed in
particolare
lavoro
altrui,
raggiungendo
dunque
determinate
dimensioni
ed
escludendo la rilevanza di quelle organizzazioni che non includessero tutti gli
elementi indicati. E’ proprio sulla base di questo e sulla constatazione che, pur in
assenza di alcuno di quei fattori, si può essere in presenza di un ‘attività
organizzata in forma d’impresa, che è nata l’opinione per cui si dovrebbe ritenere
in realtà sufficiente anche la semplice autorganizzazione del lavoro proprio, come
può accadere nel caso del piccolo imprenditore. Gli oppositori di questa
interpretazione ritengono, invece, che essa porti alla totale confusione tra attività
d’impresa e lavoro autonomo. Si ritiene, dunque, che sia necessaria una forma
anche solo essenziale di organizzazione, senza che vi sia necessità di una presenza
contemporanea di tutti i fattori produttivi, giungendo così a teorizzare la
possibilità di impresa senza azienda, così come dell’impresa senza lavoro altrui.
Fra gli autori che svalutano il ruolo dell’organizzazione si vedano G A LG AN O , voce
Imprenditore, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., vol. VII, 1992, 13 ss.; S P AD A , voce
Impresa, Dig. Disc. Priv. Sez. comm., vol. VII, 1992, 47 ss.; J AE G E R , Appunti cit.,
18 ss. in senso opposto si sono invece espressi, tra gli altri, B U ON O C O R E , L’impresa
cit., 109 ss; I D EM , voce Imprenditore, Enc. Dir., 1970, vol. XX, 516 ss.; O P PO , voce
Impresa e Imprenditore- diritto commerciale, Enc. Giur., 1989, vol. XVI, 6 ss.;
P AN U C C IO , Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 154 ss.; I D E M , voce
Impresa, Enc. Dir., 1970, vol. XX, 618.
129
Si veda, in tal senso, la ricostruzione fatta da
ss.
112
B U ON O C O R E ,
L’impresa cit., 147
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
civile e il diritto tributario
Alcune osservazioni possono essere svolte sul confronto tra la
nozione di impresa che emerge nel diritto civile e quella utilizzata dal
legislatore tributario ai fini dell’imposta. Si tratta, a dire il vero, di un
tema che ha occupato la dottrina per lungo tempo, nel tentativo di
definire il livello di autonomia dell’impresa fiscale rispetto all’impresa
comunemente intesa.
Un primo dato che innegabilmente emerge dal confronto fra le
norme è la diversa estensione che la categoria impresa assume
all’interno dell’ordinamento tributario. Laddove infatti il codice civile
fornisce una definizione generale, ancorata a precisi presupposti, tra
cui l’organizzazione e la qualificazione soggettiva di chi esercita
l’attività, cui affianca ulteriori classificazioni in funzione delle
modalità o del tipo dell’attività svolta, le norme impositive si
concentrano unicamente sul dato oggettivo costituito dall’esercizio
dell’attività, creando un’unica categoria generale 130 .
A tal fine il legislatore tributario riunisce tutte le tipologie di
attività qualificabili come economiche, raccogliendo espressamente
130
Numerosissimi sono i contributi su questo tema. Si vedano in proposito, tra
le pubblicazioni monografiche che si occupano espressamente del tema F AN T O ZZ I ,
Impresa e imprenditore cit.; S AM M AR T IN O , Profilo soggettivo cit.. Interessanti
osservazioni si trovano anche in F AN T O ZZ I , Il concetto di imprenditore nella
determinazione fiscale del reddito d’impresa, in Riforma tributaria e diritto
commerciale, Atti del convegno di Macerata, 12-13 novembre 1976, Milano 1978,
97 e ss; F IC AR I , Il profilo soggettivo cit., 555 e ss.; F ILIP P I , voce Valore aggiunto
(imposta), Enc. Dir., vol. XLVI, Milano, 1993, 135 ss.; I N GR OS S O , Reddito
d’impresa cit., 61 e ss; I N T E R DO N AT O , Gli imprenditori, in L’imposta sul valore
aggiunto- giurisprudenza sistematica di diritto tributario a cura di T E S AU R O , Torino,
2001, 131 e ss; M AS I , Categorie privatistiche e nuovo regime dell’Iva, Riv. Dir.
Civ., 1980, 413 ss.; M IC H E LI , Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in
Riforma
tributaria
e
diritto
commerciale
cit.,
34
e
ss;
O P PO ,
Categorie
commercialistiche e riforma tributaria, in Riforma tributaria e diritto commerciale
cit., 9 e ss; V E R R U CO LI , Riforma tributaria ed evoluzione del concetto d’impresa, in
Riforma tributaria e diritto commerciale cit., 57 e ss;
113
Capitolo II
dalla nozione civilistica solo il carattere di professionalità, il cui
contenuto deve ritenersi assolutamente equivalente in entrambe le
discipline.
Ciò che in misura maggiore differenzia le disposizioni in materia di
esercizio di impresa è il ruolo attribuito al requisito strutturale, ovvero
alla presenza di un’organizzazione in forma d’impresa.
Si è rilevato che, a prescindere dalle diverse posizioni espresse dalla
dottrina
commercialistica,
l’elemento
organizzazione
riveste
un’importanza rilevante, sia nella distinzione tra impresa e lavoro
autonomo, sia nell’individuazione di sottocategorie come quella del
piccolo imprenditore. In proposito, inoltre, indipendentemente dalla
tipologia dei fattori utilizzati o delle dimensioni assunte, ciò che viene
ritenuto elemento caratterizzante è la sua rilevanza esterna, portando
quindi ad escludere dal novero delle attività imprenditoriali quelle
meramente autorganizzate.
Il legislatore Iva assume, invece, a questo riguardo un
atteggiamento ambivalente, mostrando disinteresse nel caso in cui
l’attività rientri tra quelle commerciali o agricole individuate dal
codice civile e ritenendolo, invece, elemento qualificante nel caso in
cui l’attività consista nella prestazione di servizi che non possono
definirsi per loro natura commerciali, perché esclusi dalla disciplina di
cui all’art. 2195 c.c.
Non si giudica corretto sostenere che, sulla base di questa
esclusione, il legislatore tributario abbia voluto segnare un netto
distacco dall’istituto civilistico elidendone uno degli elementi
fondamentali, al contrario, sembra più opportuno ritenere che, proprio
in virtù del risalto attribuito al dato oggettivo costituito dalla natura
dell’attività svolta, di per sé già idoneo a distinguere le due categorie
di impresa e lavoro autonomo, si sia voluto porre in secondo piano il
requisito organizzativo-dimensionale, non essendo decisive, quanto
meno ai fini dell’imposta, le ulteriori suddivisioni operate dalla
normativa civilistica 1 3 1 .
131
Essendo disciplinate espressamente dalla stessa norma tributaria le deroghe
114
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
Questo spiegherebbe anche perché, laddove la natura dell’attività
non sia espressamente qualificata, il requisito organizzativo riassuma
il proprio ruolo centrale nella distinzione tra le due categorie di
attività e soggetti passivi 1 3 2 .
Si ritiene, altresì, che l’espresso riferimento alla scarsa importanza
dell’organizzazione possa rilevare sotto un altro profilo: esso dimostra
come il legislatore non abbia voluto ripudiare la nozione tradizionale
di impresa per crearne una propria, ma che al contrario sia partito da
questa ed abbia scelto di dare rilevanza solo ad alcuni elementi ritenuti
necessari nel settore impositivo.
Apparentemente, dunque, la nozione definita in ambito tributario
appare più ampia di quella individuata dal codice civile, anche se, di
fatto, unendo le diverse categorie di imprenditore, commerciale o
agricolo, nonché quella di piccolo imprenditore, si può notare come il
al regime ordinario previste per particolari categorie di attività e soggetti passivi.
L’irrilevanza dell’apparato organizzativo si spiega, allora, con la considerazione
che altri sono i criteri che il legislatore tributario individua per la suddivisione
interna alla categoria, criteri quantitativi, come il volume d’affari, più coerenti con
lo scopo e la materia disciplinata, laddove invece le norme del codice civile
utilizzano elementi qualitativi come l’organizzazione e la sua dimensione.
132
In tal senso è interessante, ma isolata, la posizione sostenuta da I N GR O S SO ,
op. loc.cit., il quale ritiene errata la prospettiva assunta dalla dottrina nel senso di
distinguere la nozione d’impresa nei due settori, ritenendo piuttosto che le scelte
effettuate dal legislatore tributario in ordine alla rilevanza dell’organizzazione non
incidano tanto sul piano sostanziale quanto su quello probatorio. Secondo l’Autore,
infatti, “il legislatore, nelle ipotesi di attività rientranti nell’art. 2195 c.c.,
nient’altro si è proposto che liberare l’ufficio dall’onere delle prova di
qualificare
come
impresa
commerciale
le
attività
di
fatto
esercitate
dal
contribuente, quando esse siano omologhe a quelle elencate dallo stesso art. 2195
c.c. Egli, in quelle ipotesi, dà allora per “presunta” l’esistenza della specifica
organizzazione imprenditoriale. [..] La formula legislativa quindi non svuota di
significato e di contenuto “l’organizzazione”, ma comporta come conseguenza
giuridica l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (79) ”. Nel
senso che il requisito organizzativo sarebbe comunque presunto dal legislatore
tributario, ma sullo stesso piano sostanziale, si vedano, ad esempio, F AN T O Z Z I ,
Imprenditore e impresa cit. e V E R R U C C O LI , Riforma tributaria cit.
115
Capitolo II
contenuto di esse sostanzialmente coincida, salvo lasciare qualche
incertezza classificatoria nel punto in cui piccola impresa e
professione si intersecano. E, fatta salva la diversa ampiezza della
categoria, non sembra si possano rilevare nella supposta impresa
tributaria caratteristiche differenti da quelle della tradizionale nozione
di impresa.
Non si ritiene, infatti, siano da accogliersi le osservazioni di chi
ritiene che la nozione di attività contenuta nell’art. 4 non richieda quel
carattere di economicità e di direzione al mercato che invece l’impresa
civilistica richiede 1 3 3 .
Quanto all’economicità, non sembra potersi fondatamente ritenere
che essa sia esclusa solo perché non espressamente richiamata dal
legislatore. La norma, da un lato, rinvia al contenuto degli art. 2135 e
2195 c.c, disposizioni che definiscono e qualificano attività
tipicamente imprenditoriali e dunque economiche; per altro verso,
inoltre, non si può dimenticare che origine della disciplina nazionale
sono le direttive comunitarie, le quali per l’appunto contemplano
esclusivamente attività definite economiche, motivo per cui, anche se
si ritenesse la qualifica irrilevante sulla base del diritto nazionale, essa
assumerebbe rilevanza in funzione delle indicazioni provenienti dal
diritto comunitario e dalla relativa giurisprudenza.
Per quanto, invece, attiene l’osservazione che non sarebbe
necessario un collegamento con il mercato, fondata sul fatto che il
sistema dell’imposta prevede l’imponibilità anche in caso di
autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, inclusa
l’assegnazione dei beni ai soci, si ritiene che non si possa desumere un
carattere di ordine generale dalla presenza di due ipotesi che non
rientrano nel novero delle operazioni naturalmente imponibili, ma sono
ad esse espressamente assimilate dal legislatore. Del resto, la stessa
natura dell’imposta, quale imposizione sul consumo, nonché la sua
133
Lo sostengono I N T E R D O N AT O , Gli imprenditori cit., 129 e ss. e, in merito alla
scarsa rilevanza della destinazione al mercato, F IC AR I , Il profilo soggettivo cit.,
555-556, il quale, invece, conferma la necessità dell’economicità dell’attività
svolta, nel senso dell’adozione di un metodo economico.
116
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
ratio ispirata all’affermazione del principio di neutralità sul mercato,
rendono evidente la necessità che l’attività sia ad esso rivolta e che
non sia, al contrario, destinata alla mera soddisfazione delle necessità
del soggetto agente.
Le diversità rilevate tra i due ordinamenti, quello civile e quello
tributario, non sembrano, dunque, giustificare l’opinione che esista
una nozione di impresa fiscale e che essa vada intesa e disciplinata
apertamente in deroga alle norme di diritto civile, quantomeno non
laddove le norme tributarie non dispongano esplicitamente in tal senso.
Esse dimostrano solo che, all’interno delle norme impositive, partendo
dalla nozione tradizionale propria dell’ordinamento nazionale, si è
scelto di dare rilevanza ad alcuni elementi piuttosto che ad altri, in
ambito Iva sicuramente anche sulla scorta delle indicazioni delle
norme comunitarie che, come si è posto in evidenza, non hanno alcun
interesse a creare suddivisioni interne alla generale categoria delle
attività economiche e, libere da un’impostazione strettamente
giuridica, hanno creato una nozione più ampia, che riunisce in sé ciò
che le norme nazionali hanno suddiviso e diversamente qualificato.
2- A LCUNE CONSIDERAZIONI
TERMINE “ ESERCIZIO ”
SU IMPRESA , ATTIVITÀ E IL SIGNIFICATO DEL
Nelle osservazioni che precedono si è tentato, seppur brevemente, di
porre in evidenza le caratteristiche dell’impresa così come delineate
sia dalle norme tributarie che dal diritto civile, sottolineandone la
sostanziale omogeneità. Si è, per così dire, condotto un esame del
profilo statico dell’impresa, prendendo in considerazione quegli
elementi che risultano imprescindibili per qualificare in tal senso un
fenomeno economico.
È, ora, necessario svolgere alcune ulteriori considerazioni che
investono il profilo dinamico del fenomeno, ovvero cercando di
individuarne le caratteristiche nel suo divenire, nel corso di quello che
viene chiamato esercizio dell’impresa.
E’ necessario in questo caso prendere le mosse dalla qualificazione
117
Capitolo II
giuridica dell’impresa come attività, elaborata dalla dottrina
civilistica.
La categoria giuridica dell’attività, la cui elaborazione ha inizio
successivamente all’emanazione del codice civile, ha suscitato
notevoli dibattiti, vista la difficoltà iniziale di definirne un’esatta
collocazione, che tenesse conto delle sue caratteristiche e la
distinguesse sia dall’atto che dal fatto giuridico 1 3 4 .
Per attività si intende, dunque, quel complesso di atti
teleologicamente orientati, aventi una continuità, una durata ed una
direzione ad uno scopo. Queste caratteristiche fanno assumere agli atti
una rilevanza giuridica unitaria, distinta da quella che essi avrebbero
ove singolarmente considerati 1 3 5 .
Una volta delineata questa nozione generale, argomento altrettanto
controverso è stata l’individuazione del contenuto dell’attività, ovvero
la specificazione di quale tipologia di atti potesse assumere tale
rilevanza unitaria. La dottrina tradizionale riteneva che dovesse
necessariamente trattarsi di atti giuridici in senso proprio la cui
disciplina andava estesa all’attività, sia in tema di imputazione che di
effetti.
Diverse sono invece le conclusioni cui è giunto ora lo studio di
134
Per una ricostruzione dell’evoluzione del dibattito sviluppatosi in materia si
vedano A LC A R O , L’attività- profili ricostruttivi e prospettive applicative, Napoli,
1999 e R O ND IN O N E , L’attività nel Codice Civile, Milano 2001. A LC A R O in particolare
pone in evidenza l’autonomia della categoria giuridica, in quanto dotata di
caratteristiche proprie e giuridicamente rilevante in modo indipendente dagli atti
che la compongono. Nello stesso senso anche P AN U C C IO , Teoria giuridica
dell’impresa, Milano, 1974, 97 ss. Diverse invece le posizioni di altri autori;
R ON D IN O N E , cit., 7 e ss. la ritiene sì una categoria autonoma, rientrante però
nell’ambito del fatto giuridico, inteso in senso lato. Per contro, O P PO , Impresa
come fattispecie in Scritti giuridici, I, Padova, 1992, 246 colloca l’impresa, in
quanto attività, nell’ambito degli atti giuridici, pur specificando che non si tratta
di atti negoziali, stante la natura comportamentale della fattispecie. Per un’analisi
complessiva si veda anche A U LE T T A , voce Attività, Enc. Dir., Milano, 1958, 981 e
ss.
135
In tal senso, P AN U C C IO , op.loc.cit.
118
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
questa categoria, con il quale si è posta in luce la complessità e la
diversità delle componenti di un’attività, elementi che vanno dall’atto
giuridico al comportamento meramente materiale. La conclusione è
dunque che l’attività debba essere considerata quale comportamento
attuativo unitario 1 3 6 rispetto al quale assume rilevanza qualsiasi “fatto
di manifestazione” 1 3 7 e che, nella sua unitarietà, assume rilevanza
preminente rispetto alle singole frazioni in cui potrebbe essere
teoricamente scomposto 1 3 8 .
Due sono i principi fondamentali che regolano l’attività così
individuata: il principio di effettività, in base al quale assume
rilevanza il dato fattuale consistente nel concreto esercizio della
stessa, e la naturale tensione ad un risultato, elemento finalistico che
riconduce ad unità gli elementi di cui l’attività si compone 1 3 9 .
Da questi principi, ed in particolare da quello di effettività,
discendono due importanti corollari che integrano la disciplina
dell’attività: l’irrilevanza della volontà dell’agente circa gli effetti
giuridici dell’attività –nel senso che essi discendono direttamente dal
concreto esercizio, anche ove non voluti o conosciuti- e la conseguente
mancanza di valore costitutivo delle dichiarazioni formali da questo
rese, qualora sia la volontà che la sua manifestazione fossero in
evidente contrasto con il dato fattuale 1 4 0 . Volontà e relative
136
La qualificazione in questo senso dell’attività si deve a O PP O , Impresa come
fattispecie cit., 113 e ss; I D E M , Impresa e imprenditore- diritto commerciale, Enc.
Giur., 1989, 2 e ss.
137
138
In questo senso, R ON D IN O N E , L’attività cit., 23.
Si veda in proposito A LC A R O , L’attività cit., 26 e ss, il quale ritiene che
l’attività debba essere considerata “un fenomeno in itinere” e che proprio in virtù
delle sue caratteristiche essa “[..] costituisce un modello logico-giuridico non
scomponibile in frammenti espressivi singolarmente di una funzione omogenea ed
univoca”
139
In tal senso cfr gli Autori citati alle note precedenti. Per una disamina
generale del principio di effettività P IO VAN I , voce Effettività, Enc. Dir., Milano,
1965, 420 e ss.
140
di
È sulla base di queste considerazioni che si è negata per l’attività la natura
atto
giuridico
negoziale,
essendo
sufficiente
119
la
sola
volontarietà
del
Capitolo II
dichiarazioni potranno, dunque, avere valore semplicemente indiziario,
in particolare con riguardo all’elemento teleologico dell’attività 1 4 1 .
All’interno della categoria attività così individuata viene, dunque,
inserita l’impresa, definita come un’attività specificamente qualificata,
le cui caratteristiche sono quelle di economicità, professionalità e
organizzazione sopra esaminate.
In questo senso, pertanto, l’elemento costituito dall’esercizio
effettivo dell’attività assume rilevanza centrale all’interno della
fattispecie, mostrando da un punto di vista diverso gli altri elementi
che la compongono ed i rapporti fra gli stessi 1 4 2 .
In particolare, la centralità dell’attività nella prospettiva dinamica
propria di questa interpretazione, attribuisce all’intera fattispecie un
carattere maggiormente oggettivo, che la avvicina, tra l’altro, a quanto
in precedenza rilevato sia a livello di ordinamento tributario, sia di
ordinamento comunitario, consentendo di ipotizzare una nozione
unitaria e sistematica.
Dalla qualificazione dell’impresa come forma di attività discende
l’applicazione anche ad essa del principio di effettività, da cui
derivano importanti conseguenze, soprattutto in relazione al tema del
suo inizio e della sua cessazione.
Il requisito dell’effettivo esercizio viene generalmente applicato in
modo molto puntuale dalla disciplina sostanziale, motivo per cui, ad
esempio, non si riconosce l’acquisto della qualità d’imprenditore a
comportamento, non degli effetti ad esso conseguenti.
141
Chiarissime in proposito le considerazioni di P AN U C C IO , Teoria giuridica cit.,
113 ss. il quale, nel rilevare la differenza tra finalità dell’attività e causa di un atto
negoziale, sottolinea il carattere inevitabilmente oggettivo che lo scopo assume in
conseguenza del principio di effettività, che porta a svalutare l’elemento
psicologico. In base a ciò, dunque, voluto e dichiarato possono fungere da
indicatore dell’orientamento dell’attività in concreto, pur senza costituirne parte
essi stessi.
142
Si ricorda in particolare la dottrina che vede nell’impresa e non
nell’imprenditore la fattispecie primaria, attribuendo a quest’ultimo solo il ruolo di
destinatario delle norme. In tal senso O P PO , L’impresa come fattispecie cit., 113 ss.
120
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
meno che l’attività non sia esercitata di fatto 1 4 3 . La citata rigidità ha un
riscontro immediato nel caso dell’imprenditore individuale, per il
quale l’esercizio effettivo dell’attività è imprescindibile e sufficiente
anche in assenza degli adempimenti formali richiesti; diversa è invece
l’applicazione nei confronti delle società, degli enti e delle persone
giuridiche in generale, per le quali non si può in ogni caso prescindere
dai requisiti formali, non tanto in ordine alla qualifica di imprenditore,
quanto per il perfezionamento stesso della fattispecie che determina la
nascita del soggetto giuridico, fondamentale per l’imputazione
dell’attività.
In questa prospettiva è possibile anche valutare diversamente l’altro
requisito tipico dell’impresa, ovvero la sua struttura organizzativa, in
particolare l’azienda.
Disciplinata
dall’art.
2555
c.c.,
l’azienda,
cui
spesso
144
l’organizzazione intesa in senso generale viene ricondotta , consiste
in quell’insieme di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa. Già dalla semplice analisi del testo normativo emerge la
funzione strumentale dell’azienda, indicata come il mezzo di cui il
soggetto si serve per lo svolgimento dell’attività.
Spesso in dottrina, in particolar modo da parte di chi sostiene la
centralità del requisito organizzativo, viene riconosciuto all’azienda un
ruolo essenziale, quasi prevalente rispetto agli altri elementi che
compongono la fattispecie impresa, specie in virtù dell’autonomia che
143
Il noto dibattito circa la riconducibilità degli atti preparatori all’esercizio
dell’impresa non investe il piano dell’effettività, quanto piuttosto quello della
professionalità, negata da coloro che vedono l’inizio dell’impresa solo con l’inizio
dell’attività propria, non essendo sufficiente quella meramente organizzativa. Per
un esame del tema in rapporto sia al diritto commerciale che al diritto tributario so
veda T AS S AN I , Gli atti preparatori e l’inizio dell’impresa, in Rass. Trib., 2000, 455.
Per una esame dei profili fiscali dell’inizio dell’impresa si veda anche F ILIP P I , Fase
di costituzione o inizio dell’attività imprenditoriale, in A M AT U C C I (a cura di) Gli
aspetti fiscali dell’impresa- in
B UO NO C O R E (a cura di) Trattato di diritto
commerciale, 1.8, Torino, 2003, 183 ss.
144
Soprattutto da parte delle teorie oggettive già ricordate che identificano
l’impresa stessa con l’azienda.
121
Capitolo II
essa, una volta costituita ed avviata, assume anche rispetto
all’elemento soggettivo dell’impresa.
Senza volersi addentrare nelle discussioni circa il rapporto di
prevalenza tra un elemento e l’altro della fattispecie, sembra però
potersi sostenere che, in un’analisi dinamica dell’impresa, il ruolo
dell’organizzazione in quanto azienda assuma caratteristiche diverse.
Nell’ambito della teoria dell’impresa come attività qualificata è
stato, infatti, sottolineato come l’organizzazione assuma una veste
duplice. Da un lato, essa costituisce un carattere proprio dell’attività,
espressamente richiesto dall’art. 2082 c.c. In secondo luogo, come
appare evidente in particolare dal richiamato art. 2555 c.c., essa
diventa componente ulteriore della fattispecie, elemento strumentale,
funzionalmente collegato all’attività per l’esercizio di questa 1 4 5 .
La particolarità che caratterizza l’organizzazione, e soprattutto
l’azienda, è il fatto che essa, una volta creata ed avviata, assuma un
carattere oggettivamente autonomo dall’attività e dal soggetto
agente 1 4 6 . Questo è uno degli elementi che hanno sicuramente portato
ad attribuirle una centralità nella nozione d’impresa, giungendo anche
a ritenere, all’estremo, che sia l’attività funzionale all’organizzazione,
quale mezzo per il suo mantenimento. Come è stato evidenziato, però,
una simile interpretazione porta a creare una confusione fra due piani,
necessari ma differenti, che costituiscono l’impresa: da un lato,
l’attività e l’agente e dall’altro, i mezzi da questi utilizzati 1 4 7 .
A ciò si aggiunga che, laddove si colga un’accezione ampia di
attività d’impresa che comprenda anche la fase preparatoria e si
145
In questo senso, O P PO , Impresa come fattispecie cit., 243 e ss.; P AN U C C IO ,
Teoria giuridica cit., 71 ss.; A LC AR O , L’attività cit., 18 ss.
146
Evidenzia questo aspetto O PP O , op.loc.ult.cit. individuando, sulla base di
questo, un’ulteriore differenza tra attività e azienda. Secondo l’Autore, infatti,
l’attività è strettamente legata al soggetto agente, oltre il quale non potrebbe
durare; l’oggettività che invece raggiunge un’organizzazione quale l’azienda
consente che essa mantenga la propria funzione anche in caso di mutamento del
soggetto cui fa capo.
147
In tal senso, P AN U C C IO , Teoria giuridica cit., 71
122
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
valorizzi
il
ruolo
dell’attività
nell’ambito
della
nozione,
l’organizzazione può assumere l’ulteriore volto di risultato di quella
parte dell’attività definita come organizzativa 1 4 8 .
Affrontato in questi termini il problema del rapporto tra impresa e
organizzazione sembra facilmente deducibile che l’organizzazione di
per se stessa non possa ritenersi sufficiente, in assenza degli altri
elementi, ad integrare la fattispecie, né tanto meno a mantenerla in vita
quando essi vengano meno.
Una simile considerazione nasce dalla stessa qualificazione
dell’impresa come attività.
Si è detto che il principio di effettività pone in secondo piano gli
elementi volitivi e formali, scindendo, dunque, piano oggettivo e
soggettivo e attribuendo a quest’ultimo un rilievo minore; è però la
stessa natura dell’attività come fenomeno dinamico e teleologicamente
orientato a rendere insufficiente l’azienda ai fini dell’esistenza
dell’impresa. Ciò che, sulla base di questa interpretazione, diviene
imprescindibile è, dunque, la sussistenza di quel nesso capace di fare
di un insieme di atti e comportamenti un’attività giuridicamente
rilevante 1 4 9 . Questo elemento deve, in virtù del principio di effettività,
emergere da dati oggettivi, ma appare inevitabilmente collegato anche
al profilo soggettivo 1 5 0 , costituito dall’agente, e, nel caso dell’impresa,
dall’imprenditore.
Ne deriva, dunque, che soprattutto in un’ottica temporale
dell’attività, quando ci si accinga a valutarne momento iniziale e finale
sarà necessario svolgere un esame che tenga conto del fenomeno nel
148
Si vedano O P PO , op. loc. cit. Le affermazioni dell’Autore vengono ripresa
anche da B UO NO C O R E , L’impresa cit., 119. Insiste sull’importanza dell’attività
organizzativa anche I N GR OS S O , Reddito d’impresa cit., 88 e ss.
149
L’importanza dell’elemento teleologico è stata rilevata anche in materia
tributaria. In particolare, si veda F IC AR I , Reddito d’impresa e programma
imprenditoriale, Padova, 2004; I D E M , Tipo societario e qualificazione dell’attività
economica nell’imposizione sul reddito e sul valore aggiunto, Rass. Trib., 2004,
1240.
150
Cfr. supra nt. 141.
123
Capitolo II
suo complesso e del collegamento fra questi diversi profili, evitando di
concentrarsi unicamente su uno di essi e prestando attenzione anche a
quegli elementi formali che poco prima sono stati definiti indiziari.
Non si ritiene, infatti, che, pur nell’ambito di una fattispecie che più di
altre rileva sotto un profilo strettamente oggettivo, possa prescindersi
completamente da ciò che emerge a livello soggettivo, anche in
considerazione che l’effettività implica l’irrilevanza della volontà
circa gli effetti, non della volontarietà iniziale del comportamento in
se stesso.
In conclusione, si ritiene che i rilievi emersi dall’esame delle
diverse posizioni sostenute nell’ambito della teoria commercialistica
possano essere utilmente applicate in modo più generale anche in
ambito tributario, prendendo spunto da essi per formulare
un’interpretazione che appaia più vicina alla lettura data
dell’ordinamento comunitario.
Si è tentato di evidenziare in precedenza come, in realtà, la nozione
d’impresa non presenti grandi differenze tra le diverse discipline,
poggiando su un sostrato concettuale comune. A ciò si aggiunga che
l’interpretazione che vede la centralità dell’attività anche in materia
commerciale, consente di avvicinare ancor di più le differenti norme,
superando, quanto meno in parte, l’approccio esclusivamente
soggettivo attribuito alla disciplina del codice civile, e facendole
assumere una connotazione oggettiva più simile a quella posta alla
base sia della nozione d’impresa comunitaria sia di quella tributaria.
Questo avvicinamento è in tal modo possibile anche in senso
opposto; si è visto, infatti, come la nozione stessa di attività comporti
la necessità di vagliare non solo inizialmente o nella fase conclusiva,
ma in realtà durante tutta la durata del suo esercizio, la presenza di un
nesso che unificando gli atti li renda un’attività giuridicamente
rilevante. Elemento che deve emergere dal dato oggettivo, ma non
solo, perché strettamente collegato alla figura dell’agente, e dunque al
piano soggettivo della fattispecie. Una simile considerazione può forse
essere in grado di mitigare il criterio rigidamente oggettivo cui si
124
L’attività economica nell’ordinamento nazionale
poggiano le norme tributarie e limitarne alcune conseguenze
potenzialmente negative. Si tratta, dunque, di spostare l’attenzione
sugli atti compiuti dall’agente e verificarne l’effettiva appartenenza
all’attività e, dunque, all’esercizio dell’impresa, non limitandosi, come
accade in alcuni casi, a considerare unicamente la natura dei beni che
ne sono oggetto, ma valutandoli anche sotto il diverso profilo
soggettivo.
In questo modo sembra possibile garantire il bilanciamento fra i
diversi
elementi
costitutivi,
valorizzando
altresì,
anche
nell’ordinamento nazionale, la complessità e la molteplicità dei ruoli
che il legislatore europeo ha assegnato all’attività economica
nell’ambito dell’imposta 1 5 1 , ponendo nella giusta luce, anche in ambito
nazionale, il legame inscindibile esistente tra attività economica,
operazioni imponibili e soggetto passivo dell’imposta.
Come si è affermato con riguardo all’ordinamento comunitario,
questo legame importa necessariamente un’influenza reciproca fra le
diverse componenti caratteristiche del sistema dell’imposta, influenza
che vede nell’attività economica l’elemento centrale, sia nel proprio
profilo oggettivo che in quello soggettivo.
La possibilità di cogliere indicazioni in tal senso già
nell’ordinamento interno dimostra come una valorizzazione della
nozione di attività, tanto nella prospettiva oggettiva quanto in quella
soggettiva, non sia del tutto estranea all’impostazione nazionale
tradizionale. Di conseguenza, appare più semplice individuare una
linea
interpretativa
differente
da
quella
sinora
applicata,
interpretazione che sia in grado di conciliare il vincolo comunitario e
l’utilizzo delle proprie categorie tradizionali atte a garantire la
coerenza interna dell’ordinamento.
Del resto, come già si è accennato e come meglio si illustrerà in
seguito con riferimento alle diverse ipotesi di cessazione, le differenze
151
Analizza la nozione di attività all’interno dell’ordinamento comunitario,
sottolineandone
l’originalità
rispetto
alle
tradizionali
impostazioni
dell’ordinamento nazionale A LC AR O , L’attività: profili applicativi e normativa
comunitaria in L’attività cit., 83 e ss.
125
Capitolo II
che si rilevano allo stato attuale tra regime nazionale e disciplina
comunitaria interessano il piano interpretativo, e non –tranne alcuni
profili- la disciplina normativa.
126
Sezione II
S OM M A RI O : 1- La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
1.1- La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento tributario: aspetti
controversi.. 1.2- ..la disciplina a)- La cessazione nelle imposte dirette: cenni b)La cessazione dell’attività economica nell’Iva 1.3- La prospettiva del diritto
commerciale 2-Le forme di cessazione dell’impresa 2.1- La liquidazione volontaria
2.1.1-La liquidazione dell’impresa nel diritto commerciale 2.1.2- Il valore degli
adempimenti formali: la cancellazione dal Registro delle imprese 2.1.3- Iva e
liquidazione ordinaria dell’impresa a)- L’approccio oggettivo di dottrina e
giurisprudenza: la sopravvivenza dell’impresa sino alla completa dismissione dei
beni. Critica b)- Il profilo formale della cessazione: la dichiarazione di cessazione
ed il suo valore c)- L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni:
autoconsumo generalizzato o necessità di destinazione estranea esplicita?. 2.1.4Cessione e affitto d’azienda: si verifica la cessazione dell’impresa? 2.1.5- I
possibili
effetti
dell’incertezza
riguardo
al
momento
di
cessazione
sull’applicazione dell’imposta 2.2- Le procedure concorsuali: 2.2.1- L’esercizio
dell’impresa e il fallimento 2.2.2- L’Iva nelle procedure concorsuali a)L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle vendite fallimentari b)- La
dichiarazione prefallimentare come dichiarazione di cessazione dell’attività.
Critica 3- Alcune considerazioni conclusive: la cessazione dell’impresa ed il suo
ruolo nell’ordinamento interno
1- L A
CESSAZIONE DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA NELL ’ ORDINAMENTO
NAZIONALE .
L’individuazione del momento di cessazione dell’impresa o, quanto
meno, di plausibili indici dell’avvenuta cessazione costituisce un tema
particolarmente controverso sia nell’ambito del diritto tributario che
del diritto commerciale, stante la pressoché totale assenza di
indicazioni normative a riguardo.
Nonostante questo, la sua importanza appare già ad un primo
sguardo innegabile, essendo la sua prima e principale funzione quella
di segnare il limite finale per l’applicazione di un determinato statuto
giuridico cui segue, come accade nell’Iva, la successiva totale
estraneità del soggetto e delle sue azioni ad esso.
Ogni settore dell’ordinamento valuta questo avvenimento secondo
127
Capitolo II
prospettive diverse, accomunate però dalla comune percezione di esso
esclusivamente, appunto, come un evento che segna un limite,
speculare agli atti preparatori che del medesimo statuto giuridico
indicano l’avvio.
Sotto questo profilo, diritto commerciale e diritto tributario sono
ancor più vicini di quanto non accada con riferimento
all’individuazione e alla disciplina dell’impresa, questo in quanto la
normativa fiscale si limita a dettare specifiche norme che regolano il
regime
impositivo
della
fase
conclusiva
dell’esperienza
imprenditoriale, sotto ogni altro aspetto lasciata alla disciplina del
codice civile o delle leggi ad esso collegate. Non si creano, quindi, in
questo contesto contrasti o differenze tra la nozione civilistica e la
nozione fiscale, essendo le due discipline perfettamente complementari
e, anzi, profondamente collegate.
Dato il senso comune con cui viene percepita l’espressione
cessazione dell’impresa, le norme ed il dibattito, sia in dottrina che in
giurisprudenza, si concentrano sulla fase terminale dell’impresa, in
particolare sulla sua liquidazione, tentando di valutarne, da un lato,
l’appartenenza o meno all’impresa stessa e, dall’altro, di trarre da essa
indicazioni valide circa il momento di effettiva cessazione.
In questo senso, la particolarità dell’ordinamento nazionale è la
persistente frammentazione sia della disciplina sia delle risposte
interpretative, diverse in funzione delle modalità o, più in generale,
delle cause che portano al verificarsi del fatto cessazione, anticipato o
posticipato, riconosciuto o negato, a seconda che si abbia a che fare
con una liquidazione volontaria, un trasferimento di azienda o una
procedura concorsuale.
La frammentarietà e la diversità della disciplina normativa
comportano, soprattutto in ambito impositivo, la difficoltà ad
individuare principi comuni alle differenti ipotesi che vedono, a volte,
valutato e reso decisivo il dato meramente fattuale ed altre sembrano
invece attribuire una maggiore rilevanza ad elementi strettamente
giuridici e, dunque, più formali.
La stessa mancanza di uniformità e, quindi, la medesima assenza di
128
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
certezza si riscontrano anche nel diritto commerciale, le cui differenze
poggiano principalmente sulla tipologia di imprenditore. Sembrano
mancare, tuttavia, in quel settore dell’ordinamento diversità
consistenti in funzione delle forme di cessazione, rese più uniformi
dalla prospettiva unitaria della teoria dell’impresa.
Seguendo le indicazioni dell’esame sinora condotto si rende
pertanto necessario analizzare le risposte fornite dall’ordinamento alle
diverse ipotesi considerate, nel tentativo di individuare quegli elementi
comuni che sembrano trascurati, esaminando contemporaneamente sia
il profilo strettamente tributario sia quello commerciale, come si è
detto, in questo particolare ambito strettamente vincolati.
Ricostruita in questi termini la disciplina della cessazione
dell’impresa nel diritto tributario, ed in particolare con riferimento
all’Iva, sarà possibile valutarne le caratteristiche e la funzione in
rapporto a quanto emerso dall’esame dell’ordinamento comunitario
che, a differenza di quello nazionale, appare totalmente indifferente di
fronte alle diverse forme di cessazione, fornendo una disciplina ed
un’interpretazione uniformi, guidate da principi, quale quello di
neutralità, comuni all’intero sistema dell’imposta.
1.1- La cessazione dell’attività
tributario: aspetti controversi…
economica
nell’ordinamento
Partendo da un esame in termini generali, diversi sono i profili che
emergono con riguardo alla fase terminale dell’impresa nell’ambito
dell’ordinamento tributario. Da un lato, essa può determinare
l’applicazione di un particolare regime impositivo con regole differenti
rispetto a quello ordinariamente applicabile all’impresa, dall’altro
influisce sull’applicabilità stessa dell’imposta, che nell’Iva viene
meno, rendendo estranee al suo ambito di applicazione le successive
operazioni compiute.
Come si vedrà più dettagliatamente in seguito, il regime ai fini Iva e
quello ai fini delle imposte sui redditi sono tra loro molto diversi, ma
devono affrontare entrambi le medesime incertezze applicative ed
129
Capitolo II
interpretative intrinseche alla materia, non diverse da quelle che la
caratterizzano in modo trasversale in tutto l’ordinamento, seppur
connotate dalle particolarità del settore impositivo.
Dall’analisi di dottrina e giurisprudenza che si sono occupate del
problema della cessazione dell’impresa emergono differenti opinioni,
spesso opposte, che richiamano in larga parte gli interrogativi che
caratterizzano il dibattito commercialistico e propongono soluzioni
non del tutto convincenti.
Concentrando l’attenzione su quella che sembra essere l’opinione
maggioritaria, accolta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza,
emerge quello che si ritiene sia un vizio di fondo della prospettiva su
cui essa si basa, costituita esclusivamente dal trattamento dei beni
residui.
Nel tentativo di giustificare l’imponibilità delle operazioni di cui
essi siano oggetto anche successivamente alla cessazione dell’esercizio
tipico e, addirittura, in un momento successivo alla chiusura della
liquidazione, viene assegnato un ruolo essenziale all’elemento
oggettivo della fattispecie, svalutando automaticamente la rilevanza
dell’esercizio dell’attività e del profilo soggettivo ad esso
necessariamente connesso.
La prospettiva adottata porta alla teorizzazione di un’impresa fiscale
diversa da quella cui ci si è riferiti sinora, che, in realtà, non sembra
apparire giustificabile nemmeno sulla base del carattere oggettivo che
si è detto tipico della disciplina tributaria, né sulla necessità di
garantire la tassazione di determinati beni al momento della loro uscita
dal circuito economico, dal momento che le norme stesse individuano
le modalità con cui possono soddisfarsi le esigenze di chiusura del
ciclo fiscale dei beni dell’impresa senza protrarne artificialmente la
vita.
Sulla base di questa presunta impresa fiscale, di fatto corrispondente
all’azienda nella sua accezione più classica, nell’ambito dell’Iva si
giunge a dilatare la nozione stessa dell’impresa sine die, con la
conseguenza che essa potrebbe perdurare o addirittura riapparire,
esclusivamente a fini impositivi, anche molto dopo l’effettiva
130
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
cessazione dell’attività da parte del soggetto, alla cui volontà e alle cui
vicende sostanzialmente viene negata qualsiasi rilevanza, con
conseguenze che interessano soprattutto la certezza del diritto e del
regime impositivo di volta in volta applicabile.
Essendo questo il principio ispiratore dell’interpretazione
maggioritaria, diverse sono le prospettive che di essa emergono sul
piano applicativo, in relazione alle diverse imposte.
Nell’ambito delle imposte dei redditi, ad esempio, la stessa linea
interpretativa è stata applicata al problema delle plusvalenze che
emergono in sede di cessazione, con particolare attenzione al problema
delle cessioni a titolo gratuito. Asserendo la perdurante destinazione
imprenditoriale dei beni –in particolare dell’azienda- in grado di
garantire la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, si voleva
escludere l’emersione di plusvalenze imponibili nel caso di cessioni a
titolo gratuito laddove il legislatore nulla disponeva, spostando, di
conseguenza, il momento di imposizione alla definitiva uscita, a titolo
oneroso, del bene dal circuito economico inteso in senso generale 1 5 2 .
In entrambe le imposte si pone, poi, il problema dell’esatta
applicazione delle norme che attribuiscono rilevanza anche alle ipotesi
di autoconsumo o destinazione a finalità estranee all’impresa, quali
norme di chiusura che limitano il rischio che alcuni beni sfuggano del
tutto alla tassazione.
Come si vedrà, la dottrina maggiormente legata all’oggettività
dell’impresa nell’ordinamento tributario ritiene necessario che, per
l’espulsione dei beni dal regime tipico dell’impresa, vi sia anche in
questi casi una differente destinazione espressa, non ritenendosi
sufficiente la mera inutilizzazione successiva alla cessazione
dell’attività.
152
Attualmente, il problema delle plusvalenze in caso di trasferimento a titolo
gratuito è stato eliminato in radice perlomeno con riguardo alle vicende
dell’azienda nel suo complesso, in quanto ora sono le stesse norme a prevedere
che, sia ai fini Irpef che ai fini Ires, la cessione gratuita dell’azienda non comporti
emersione
di
alcuna
plusvalenza,
il
cui
valore
dovrà
invece
successivamente al momento della prima cessione verso corrispettivo.
131
calcolarsi
Capitolo II
Un ulteriore profilo controverso, soprattutto in ambito Iva, è quello
che riguarda gli effetti ed il valore attribuibile agli elementi formali,
quali la dichiarazione di cessazione dell’attività o la stessa
cancellazione dal Registro delle imprese ai sensi delle norme del
codice civile, il cui rilievo viene generalmente svalutato in favore di
un approccio che valorizza maggiormente il dato sostanziale, sulla
scorta della già sottolineata indifferenza mostrata verso il profilo
soggettivo dell’impresa, sia in termini di volontà sia in termini di
manifestazioni come si è detto forse riconducibile alla struttura stessa
della disciplina, incentrata sulle operazioni imponibili e non sul
profilo della soggettività passiva.
1.2…la disciplina
a)-La cessazione nelle imposte dirette: cenni
Il legislatore tributario disciplina espressamente la fase della
liquidazione ai fini delle imposte dirette, distinguendo tra il periodo
che precede l’apertura della liquidazione e quello della vera e propria
fase liquidatoria.
Anche nel caso di liquidazione volontaria, così come accade
nell’ipotesi del fallimento, possiamo dunque individuare un primo
periodo che va dall’inizio dell’esercizio all’apertura della
liquidazione, con riguardo al quale dovrà essere presentata apposita
dichiarazione, ed un secondo periodo che copre invece tutta la durata
della liquidazione, pur se entro i limiti temporali espressamente
indicati.
L’art. 182 Tuir disciplina compiutamente la fase della liquidazione,
indicando le modalità di determinazione del reddito d’impresa, in parte
differenti da quelle applicabili per l’esercizio ordinario, e
distinguendole in funzione della tipologia di soggetti interessati.
Nel caso dell’imprenditore individuale e delle società di persone, se
la liquidazione termina entro la residua frazione del periodo d'imposta
nel quale ha avuto inizio, il reddito d'impresa è determinato in base al
132
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
bilancio finale di liquidazione. Se la liquidazione prosegue anche negli
esercizi successivi, fino ad un massimo di tre, ogni periodo d’imposta
verrà considerato separatamente, ma la determinazione definitiva di
reddito ed imposta avverrà solo alla fine del periodo di liquidazione.
Per questo motivo il reddito d'impresa relativo ai periodi intermedi si
determina in via provvisoria, applicando le regole ordinarie adottate
dal contribuente, sia fiscali che contabili; il reddito e l’imposta
definitiva verranno determinate solo al termine della liquidazione
attraverso un bilancio finale nel quale verranno operati i conguagli
derivanti dai precedenti bilanci provvisori. Diversamente, nei casi in
cui la fase di liquidazione si protragga oltre il triennio, i redditi
determinati in via provvisoria si considereranno definitivi e non si
procederà al conguaglio finale.
È importante sottolineare che tale regime non è necessariamente
applicabile per il fatto che, trattandosi di soggetti per i quali non viene
espressamente disciplinato il procedimento di liquidazione, essi
potrebbero anche ometterlo, giungendo direttamente alla cessazione.
In particolare per l’imprenditore individuale, privo di qualsiasi
disciplina per la fase conclusiva dell’impresa, la norma in esame
precisa che la data di inizio della liquidazione corrisponde a quella
indicata nella dichiarazione di variazione presentata ai fini Iva, con la
conseguenza che, in caso di omessa presentazione, continuerà
comunque ad applicarsi il regime impositivo ordinario 1 5 3 . In tal senso,
la mancata comunicazione dell’inizio della liquidazione dovrebbe
implicare l’impossibilità di usufruire della tassazione separata,
prevista dall’art. 17, c. 1, lett. g Tuir per le plusvalenze derivanti dalla
cessione di aziende o la liquidazione di imprese possedute da più di
cinque anni.
Il regime applicabile alle società di capitali è sostanzialmente
uniforme a quello appena descritto, pur se prevede termini differenti,
riferendosi in questi casi un periodo quinquennale per la
153
In tal senso L E O , Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2007, II,
2630 ss.
133
Capitolo II
considerazione unitaria della fase di liquidazione o, in caso di
superamento, la definitività dei redditi determinati in via provvisoria.
Chiusa la liquidazione con la redazione del bilancio finale, in base
al quale si determinano redditi imponibili e relativa imposta dovuta,
l’impresa dovrebbe ritenersi anche fiscalmente cessata, non essendo di
fatto prevista alcuna ulteriore formalità.
Cessata l’impresa, dunque, per le persone fisiche tornerà ad essere
applicabile l’ordinario regime di qualificazione e quantificazione del
reddito imponibile. Avvenuta invece l’estinzione delle persone
giuridiche, avverrà anche l’estinzione del soggetto passivo, con la
conseguenza che anche le pendenze tributarie eventualmente
sopravvenute in seguito ad accertamento saranno imputabili agli ex
soci secondo il disposto dell’art. 2495 c.c.
Questa scelta si giustifica in conseguenza delle modifiche
intervenute nella norma del Codice Civile che non permettono più di
considerare la società esistente sino alla definizione di tutti i rapporti
una volta che sia intervenuta la cancellazione dal Registro delle
Imprese. È pertanto automatico che i riflessi di tale disciplina si
manifestino anche in ambito tributario, perché scomparendo la persona
giuridica è inevitabile che venga meno anche il soggetto passivo
dell’imposta, dei cui debiti residui risponderanno coloro che hanno
avuto beneficio dallo scioglimento dell’ente, in proporzione a quanto
ricevuto.
Sotto il profilo reddituale, la cessazione dell’impresa coinvolge
diverse altre disposizioni del testo unico, in particolare quelle relative
alle plusvalenze generate dalla cessione dei beni relativi all’impresa.
Il principale problema che veniva in proposito esaminato dalla
dottrina riguardava la possibilità che tali plusvalenze emergessero
anche nei casi di trasferimento a titolo gratuito dell’intera azienda,
dovendosi valutare un eventuale incremento del valore rispetto a
quello fiscalmente riconosciuto anche in assenza di un corrispettivo
percepito dall’imprenditore.
In proposito, emergevano due orientamenti contrapposti, l’uno che
valutando il profilo soggettivo dell’impresa ed il suo collegamento con
134
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
la persona dell’imprenditore riteneva che in ogni caso il trasferimento
fosse in grado di far emergere plusvalori in conseguenza del distacco
da una specifica impresa, pur se di fatto i beni rimanevano inseriti nel
circuito economico, ma destinati ad altra impresa 1 5 4 . L’altro, ponendo
invece in risalto il carattere oggettivo della destinazione
imprenditoriale dei beni, proponeva l’esclusione dei trasferimenti
gratuiti dalle ipotesi di emersione delle plusvalenze, rilevabili solo nel
caso di una successiva cessione a titolo oneroso, dovendosi attribuire
rilevanza alla permanenza dei beni nel circuito fiscale delle imprese,
così da configurare la neutralità del trasferimento che consentisse di
mantenere costanti, anche successivamente, i valori fiscali dei beni
interessati 1 5 5 .
Questa seconda linea interpretativa sembra essere stata accolta dal
legislatore che prevede ora, nell’art. 58 TUIR, la non emersione delle
plusvalenze nel caso di trasferimento a titolo gratuito o mortis causa,
disponendo l’assunzione dell’azienda da parte del beneficiario agli
stessi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del cedente e
l’emersione delle plusvalenze solo successivamente, al momento della
cessione a titolo oneroso, il cui corrispettivo è qualificato come
reddito diverso ai sensi dell’art. 67, c. 1, lett. h bis TUIR. Anche con
riferimento ai soggetti passivi IRES, l’art. 86 specifica che si ha
plusvalenza solo nel caso di trasferimento oneroso, escluse dunque le
cessioni o i trasferimenti a titolo gratuito 1 5 6 .
Nel novero delle vicende che possono interessare l’azienda,
particolare rilievo assume, infine, il caso dell’affitto dell’unica
azienda da parte dell’imprenditore individuale e della sua valenza
estintiva nei confronti dell’impresa.
Sulla base del dettato dell’art. 67, c. 1, lett. h i redditi derivati
154
155
In tal senso, M IC C IN E S I , Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993
Così S T E V AN AT O , Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario,
Padova, 1994
156
In realtà, nei trasferimenti a titolo gratuito vengono solitamente ricomprese
solo donazioni o trasferimenti a causa di morte, contemplando dunque ipotesi che
coinvolgono persone fisiche, piuttosto che giuridiche.
135
Capitolo II
dall’affitto o dalla concessione in usufrutto dell’azienda devono
considerarsi come non conseguiti nell’esercizio dell’impresa,
rientrando dunque nell’ambito dei redditi diversi. Da ciò dovrebbe
desumersi che il legislatore, accogliendo la tesi che fa discendere
dall’affitto dell’unica azienda la perdita della qualifica di imprenditore
al locatore, ritiene in questi casi l’impresa cessata, senza considerare
dunque i casi in cui, terminato il contratto d’affitto, il soggetto
riprenda l’esercizio dell’attività temporaneamente sospesa. In questo
senso, dunque, si dovrebbe ammettere l’emersione delle plusvalenze
contestualmente alla nascita del contratto, cessando, di fatto, l’impresa
del locatore, pur mantenendo questi la titolarità dell’azienda. Le
disposizioni dell’art. 67 risultano pertanto controverse, in quanto
stabiliscono che, solo una volta cessato l’affitto, la cessione
dell’azienda sarà produttiva di plusvalenze, da qualificarsi anche in
questo caso come reddito diverso.
Un ultimo aspetto che può interessare la fase terminale dell’impresa
anche ai fini delle imposte sui redditi è quello relativo all’applicabilità
delle disposizioni che equiparano la destinazione all’uso personale
dell’imprenditore o a finalità estranee all’impresa rispettivamente a
ricavi o plusvalenze, a seconda dei beni che vengono ad interessare 1 5 7 .
Si tratta infatti di stabilire, come si vedrà più ampiamente in ambito
Iva, se la cessazione dell’esercizio dell’impresa possa di per sé
comportare il passaggio in autoconsumo dei beni che eventualmente
residuino dalla cessazione o se, come sostenuto da parte della dottrina,
sia necessaria una destinazione espressa, non potendosi considerare la
semplice inutilizzazione come uso personale.
In realtà, stante il ruolo della disposizione in esame, ossia di norma
di chiusura che consente l’emersione di materia imponibile anche in
ipotesi che secondo le regole ordinarie dovrebbero escludersi,
sembrerebbe più opportuno ritenere che una volta cessata
definitivamente l’impresa, con la fine dell’esercizio, la liquidazione
dell’attività e l’adempimento dei necessari obblighi formali, i beni
157
Cfr. artt. 57, 58, 85 e 86 del TUIR.
136
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
passino automaticamente nella sfera personale del contribuente, in
quanto viene meno l’elemento –l’impresa- cui prima erano riferibili e
che consentiva un loro trattamento speciale.
b)-La cessazione dell’attività economica nell’Iva
Come si è già sottolineato, l’importanza dell’individuazione del
momento di cessazione e, dunque, estinzione dell’impresa, assume in
ambito Iva una rilevanza del tutto differente da quella che la connota
in ambito di imposte sui redditi.
Dal combinato disposto degli art. 1 e 4 del Dpr. 633/1972 emerge,
infatti, che l’esistenza dell’impresa ed il suo esercizio influiscono
tanto sull’individuazione delle operazioni imponibili quanto su quella
del soggetto passivo dell’imposta, pur se in via mediata, ponendo in
luce il particolare legame esistente tra profilo oggettivo e soggettivo
dell’imposta.
La disciplina dettata dal Dpr. 633/1972 inerente alle fasi conclusive
dell’attività economica 1 5 8 si limita a poche norme che non comportano
grandi differenze rispetto alla disciplina ordinaria, ma precisano alcuni
punti di grande rilievo.
La prima ad affrontare la questione è l’art. 2 che al punto 5 include
fra le operazioni assimilate alle cessioni di beni imponibili le ipotesi
di autoconsumo o destinazione a finalità estranea all’impresa, “anche
se determinate da cessazione dell’attività”.
Successivamente, l’art. 30, laddove sancisce la possibilità per il
contribuente di portare in detrazione le eccedenze emerse in sede di
dichiarazione annuale o, in alternativa di chiederne il rimborso,
precisa, ovviamente, la sola possibilità della richiesta di rimborso in
caso di cessazione dell’attività.
158
Con riguardo alla cessazione difatti il legislatore non distingue tra i due
diversi tipi di soggetti passivi, lavoratori autonomi o impresa. Viene dunque
adottato un linguaggio più ampio che si riferisce genericamente all’attività
economica svolta, applicando la medesima disciplina ad entrambe le ipotesi.
137
Capitolo II
Infine, l’art. 35 che contiene la disciplina delle necessarie
dichiarazioni di inizio, variazione e cessazione dell’attività volte
all’identificazione del soggetto passivo e alla registrazione delle
diverse vicende che lo interessano sino alla sua cessazione.
Questa norma assume un ruolo centrale nella disciplina della fase
conclusiva dell’attività, in quanto, indicando la fine delle operazioni di
liquidazione dell’azienda come dies a quo del termine di trenta giorni
per la presentazione della dichiarazione di cessazione, precisa
l’inserimento di queste nell’ambito delle operazioni imponibili,
specificando anche che, per tutta la durata della liquidazione, il
soggetto sarà tenuto ai medesimi obblighi di versamento, fatturazione,
registrazione, liquidazione e dichiarazione dell’imposta previsti per
l’esercizio ordinario. A ciò si aggiunge la previsione che, in sede di
ultima dichiarazione annuale, dovrà tenersi conto anche delle ipotesi di
autoconsumo o destinazione estranea assimilate ai sensi dell’art. 2,
nonché di quelle operazioni la cui imposta non sia ancora divenuta
esigibile per espressa previsione normativa 1 5 9 .
Emerge dalle norme richiamate l’omogeneità della disciplina
impositiva tra esercizio ordinario e fase terminale dell’attività svolta,
includendo per espressa previsione legislativa le operazioni di
liquidazione tra quelle imponibili.
La disciplina dettata, pur se apparentemente chiara e ben definita,
non è però priva di aspetti di controversi che riguardano, da un lato, le
ragioni che giustificano l’imponibilità delle attività di liquidazione,
richiamando in parte gli stessi interrogativi che emergono nell’ambito
159
L’art. 35, c. 4 dispone infatti che “In caso di cessazione dell’attività il
termine per la presentazione della dichiarazione di cui al comma 3 decorre dalla
data di ultimazione delle operazioni relative alla liquidazione dell'azienda, per le
quali rimangono ferme le disposizioni relative al versamento dell'imposta, alla
fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione. Nell'ultima dichiarazione
annuale deve tenersi conto anche dell'imposta dovuta ai sensi del n. 5)
dell'articolo
2,
da
determinare
computando
anche
le
operazioni
indicate
nell'ultimo comma dell'articolo 6, per le quali non si è ancora verificata
l'esigibilità dell'imposta.”
138
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
del diritto sostanziale circa la natura della fase liquidatoria, il suo
reale contenuto ed i suoi effetti, e, dall’altro, alla disciplina delle
ipotesi di cessazione in assenza di liquidazione cui il disposto
normativo non fa alcun accenno.
Infatti, posta l’imponibilità delle operazioni antecedenti alla
definitiva estinzione dell’impresa, dai più giustificata dalla natura dei
beni che ne sono oggetto – e dunque sulla base di considerazioni
unicamente di natura oggettiva- né le norme né tanto meno dottrina e
giurisprudenza
forniscono
indicazioni
univoche
circa
la
determinazione del momento di cessazione della fase liquidatoria e, di
conseguenza, dell’impresa.
1.3- La prospettiva del diritto commerciale
Il problema della corretta individuazione del momento di cessazione
dell’impresa assume grande rilievo anche nell’ambito del diritto
commerciale, in questo caso soprattutto nella prospettiva
dell’assoggettabilità al fallimento dell’imprenditore cessato in base al
disposto dell’art. 10 L.Fall. 1 6 0 .
Il tema, oggetto di ampio dibattito da sempre, è tornato di grande
attualità recentemente, prima grazie all’intervento della Corte
Costituzionale 1 6 1 che ha in parte dichiarato l’illegittimità costituzionale
160
Dispone l’art. 10, c. 1 R.D. 267/1942 che “Gli imprenditori individuali e
collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal
registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla
medesima o entro l’anno successivo.” Precentemente alla riforma intervenuta con
il Dlgs. 5/2006 la norma non faceva riferimento alla cancellazione dal registro
delle imprese, bensì alla cessazione dell’impresa.
161
Corte cost. 12-03-1999 (8-03-1999), n. 66; Corte cost. 21-07-2000
(11-07-2000), n. 319; Corte cost. 07-11-2001 (06-11-2001), n. 361 (ord.); Corte
cost. 22-04-2002 (11-04-2002), n. 131 (ord.).
Con la prima delle sentenze citate, la 66/1999, la Corte Costituzionale, pur
dichiarando infondata la questione postale, ha espresso un principio che modifica
tutta la precedente giurisprudenza, ponendosi in particolar modo in contrasto con
139
Capitolo II
della norma citata, laddove non prevedeva che il dies a quo del
termine annuale dovesse ritenersi per le società il momento di
cancellazione dal Registro delle imprese, ed ora in virtù delle
modifiche legislative 1 6 2 che sembrano accogliere i suggerimenti sia del
giudice costituzionale che della dottrina.
L’argomento, da sempre affrontato anche nel settore d’origine con
particolare attenzione all’imprenditore individuale, necessita oggi di
alcune riflessioni anche con riferimento all’imprenditore collettivo, a
la consolidata giurisprudenza di legittimità. Si afferma infatti che la certezza delle
situazioni giuridiche richiede la previsione di un termine ben definito per la
dichiarazione di fallimento, tanto dell’imprenditore cessato, quanto del socio non
più responsabile. Si è sostenuta dunque la valenza di principio generale del
disposto degli art. 10 e 11 L.fall. Con la sentenza 319/2000 la Corte ha dichiarato
l’illegittimità parziale degli art. 10 e 147 L.fall. sostenendo che “Il termine
annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di
fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre - appunto secondo il diritto
vivente - non già dalla cessazione dell'attività o dallo scioglimento della società
medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la
chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti
facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque
assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da
definire. E' evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta
sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può
essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei
suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento
in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa,
non può nemmeno ipotizzarsi l'esistenza dello stato di insolvenza, costituente il
presupposto della dichiarazione di fallimento. Va chiarito, a tale proposito, che
rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente,
per l'impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il
quale il fallimento dev'essere dichiarato dopo la cessazione dell'impresa, così
come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi.
La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale
viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare
completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo
140
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
seguito della riforma del diritto societario ed in particolare di alcune
norme del codice civile che ne regolano il regime pubblicitario ed i
relativi effettivi, ponendo fine al lungo dibattito tra dottrina e
giurisprudenza di legittimità 1 6 3 .
La tendenza che si va affermando nell’ambio del diritto sostanziale
muove, dunque, verso l’attribuzione di un maggior rilievo al dato
formale
costituito
dalle
dichiarazioni
obbligatorie
rese
dall’imprenditore, a tutela di una maggiore certezza del diritto e, in tal
modo, dei terzi che abbiano rapporto con l’impresa, in particolare i
creditori.
Come emerge dall’esame delle pronunce e delle novità legislative,
la nuova direzione accolta non si contrappone totalmente all’indirizzo
così del tutto inutile. Va perciò dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 10
della legge fallimentare - risultando assorbita in tale pronuncia la censura
relativa all'art. 147 - nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla
cessazione dell'impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di
fallimento, decorra, per l'impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei
rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società
stessa dal registro delle imprese.”
Le due successive ordinanze, pur dichiarando l’inammissibilità della
questione proposta dai giudici di merito, che lamentavano una disparità di
trattamento tra imprenditore individuale e collettivo fondata sull’irrilevanza della
cancellazione dal Registro delle imprese per il primo, riaffermano ad ogni modo il
principio contenuto nelle sentenze precedenti dichiarando che “successivamente
all'entrata in vigore della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle
camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), istitutiva del registro
delle imprese, va esclusa la configurabilità di un diritto vivente sulla rilevanza, ai
fini della decorrenza del termine di cui all'art. 10 della legge fallimentare, della
semplice cessazione di fatto dell'impresa individuale”
162
Modifiche che hanno interessato sia il diritto fallimentare (Dlgs. 9 gennaio
2006, n. 5) sia il diritto societario (Dlgs. 17 gennaio 2003, n. 6)
163
Ci si riferisce in particolare all’art. 2495 c.c che riproduce, modificandolo, il
dettato del precedente art. 2456 c.c. a seguito della riforma attuata con il Dlgs. 17
gennaio 2003, n. 6, disponendo l’efficacia costitutiva della cancellazione delle
società di capitali dal Registro delle imprese.
141
Capitolo II
tradizionale, ma con esso si concilia lasciando ampio spazio alla
verifica del dato concreto emergente dalla situazione di fatto, in
attuazione del principio di effettività, necessariamente operante in
relazione all’impresa.
Queste novità sembrano, inoltre, potersi mettere in relazione con
quanto
precedentemente
sottolineato
circa
la
necessaria
compenetrazione
tra
profilo
oggettivo,
diretta
conseguenza
dell’effettività, e profilo soggettivo, nel senso di attribuire un rilievo,
potenzialmente determinante, alle dichiarazioni rese dall’imprenditore
le quali, anche se obbligatorie, rientrano senza dubbio nella sfera
giuridica propria del soggetto agente, quale manifestazione esterna
della sua intenzione di porre fine all’esperienza imprenditoriale.
La rilevanza di questi elementi formali risalta, dunque, anche sotto
un ulteriore profilo: essi possono infatti costituire il dato oggettivo che
comprova e delimita la volontà del soggetto. Questo a maggior ragione
nel momento in cui gli effetti giuridici di tali dichiarazioni vengono
precisamente individuati dal legislatore. Né una simile disciplina può
ritenersi lesiva di alcuno degli interessi coinvolti o del tutto incoerente
con le caratteristiche proprie della fattispecie, dal momento che sia le
norme che l’interpretazione giurisprudenziale tutelano il profilo
sostanziale ed effettivo dell’impresa nei casi di contrasto tra dato
formale e dato fattuale.
Da un primo esame superficiale di questi elementi sembra allora che
si sia voluta definire maggiormente la valenza sistematica di alcune
previsioni, soprattutto di quelle relative al regime delle iscrizioni che,
sino ad ora, da un lato prescrivevano all’imprenditore di adempiere a
precise formalità e, dall’altro, le svuotavano, a livello applicativo, di
concreta efficacia giuridica, stante la quasi completa irrilevanza del
loro contenuto, quanto meno a fini probatori.
Fine primario di queste modifiche è sicuramente l’individuazione di
elementi precisi che garantiscano la certezza delle situazioni
giuridiche e delle loro modificazioni, fornendo ai soggetti interessati e
all’interprete indispensabili punti di riferimento nell’individuazione
corretta della disciplina applicabile.
142
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Il contributo che questo orientamento fornisce non dovrebbe,
inoltre, limitarsi al solo diritto sostanziale, ovvero alla sola disciplina
civilistica dell’impresa, ma potrebbe essere utile strumento anche in
ambito impositivo, laddove dall’applicazione dei medesimi principi,
quale quello di effettività e di piena rilevanza del solo dato oggettivo,
discendono altrettante situazioni di incertezza, conseguenza di una
disciplina che collega gli effetti giuridici principalmente al dato
fattuale ed ai riscontri oggettivi, per loro natura poco idonei
all’individuazione di regole universalmente applicabili, ma piuttosto
forieri di un’interpretazione casistica e frammentata.
2-L E
FORME DI CESSAZIONE DELL ’ IMPRESA
Illustrati in questi termini i caratteri generali della fase liquidatoria
e della cessazione dell’impresa sia nell’ordinamento tributario sia in
quello commerciale, l’analisi deve proseguire avendo riguardo alle
diverse forme di cessazione previste.
La disciplina civilistica dell’impresa conosce infatti, sia a livello
normativo che a livello di prassi, diverse forme di cessazione, ovvero
differenti ipotesi cui ultima conseguenza è, in linea di principio, quella
della cessazione dell’attività imprenditoriale.
In assenza di indicazioni univoche da parte del legislatore, dottrina
e giurisprudenza sono spesso giunte a conclusioni differenti, sia in
funzione delle modalità del procedimento adottato a conclusione
dell’attività –liquidazione, procedure concorsuali o cosiddette forme di
cessazione senza liquidazione-, sia in ragione del soggetto coinvolto,
sia esso imprenditore individuale o collettivo.
In particolare, l’opera della dottrina si è concentrata nel tentativo di
individuare i cosiddetti indici di cessazione sulla base dei quali
valutare i diversi casi concreti esaminati.
L’esame della fase finale è stato condotto in parallelo a quello della
fase iniziale, tentando di applicare ad entrambi i momenti dell’impresa
un’interpretazione che rispettasse il principio di effettività
143
Capitolo II
caratteristico della fattispecie 1 6 4 .
I risultati raggiunti non sono però univoci e, soprattutto, non sono
apparsi decisivi nell’indicare una via sicura verso la certezza delle
situazione giuridiche. In particolare, c’è da sottolineare la
frammentarietà della disciplina e delle soluzioni individuate, dato che
ha condotto ad un approccio più casistico che sistematico.
È possibile, allora, verificare quali siano le conclusioni raggiunte in
proposito, esaminando le ipotesi più importanti, liquidazione
volontaria, fallimento e trasferimento dell’azienda, e cercando di
evidenziare gli eventuali punti di contatto.
Le medesime conclusioni, stante il rinvio integrale alla disciplina
sostanziale evidente nella mancanza di norme tributarie derogatorie,
dovranno poi verificarsi in rapporto alla disciplina dettata dal
legislatore tributario in materia di Iva e con le soluzioni in questo
ambito individuate da dottrina e giurisprudenza.
2.1- L A
LIQUIDAZIONE VOLONTARIA
2.1.1- La liquidazione dell’impresa nel diritto commerciale
Il legislatore disciplina la fase liquidatoria dell’impresa solo in
relazione alle società, dettando una normativa dettagliata circa le
modalità e gli adempimenti necessari, sia per le società di persone
(artt. 2275 e ss., 2308 e ss.; 2323 e 2324 c.c) sia per le società di
capitali (artt. 2484 e ss. c.c.).
Il fatto che le norme si limitino alla sfera societaria non significa
però che lo svolgimento della fase liquidatoria non sia riconoscibile
anche a conclusione dell’impresa individuale, in cui, anzi, si pongono
164
Critica questo approccio L U B R AN O
DI
S CO R P AN IE LLO , Cessazione dell’impresa e
procedure concorsuali, Milano 2005, 11 e ss. ritenendo che sia possibile lo studio
della fase conclusiva dell’impresa indipendente dalle conclusioni raggiunte in
merito al momento iniziale, prescindendo in particolare dalla distinzione tra
imprenditore individuale e collettivo.
144
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
problematiche differenti dovute alla mancanza di separazione tra
persona fisica ed imprenditore e, in particolare, all’inesistenza di
un’autonomia patrimoniale dell’impresa rispetto al patrimonio
personale dell’imprenditore.
Lo studio della natura e della valenza della liquidazione è stato,
infatti, condotto soprattutto con riguardo all’imprenditore individuale,
con l’intento, da un lato, di individuarne l’esatto contenuto –vista
l’assenza di precise indicazioni normative- e, dall’altro, di determinare
in quale momento della fase liquidatoria si verifichi la cessazione
dell’impresa.
In proposito, si sono nel tempo susseguite diverse opinioni, nessuna
delle quali si è in realtà dimostrata decisiva 1 6 5 .
Una prima dottrina, più risalente, ha escluso che il periodo di
liquidazione e definizione dei rapporti facenti capo all’impresa possa
ritenersi parte integrante della stessa.
Il principale argomento su cui questa tesi si fonda è costituito dal
rispetto del principio di effettività, in base al quale non sarebbe
possibile individuare il concreto esercizio dell’attività economica se
non durante lo svolgimento della fase produttiva tipica dell’impresa,
periodo in cui si possono riscontrare altresì le altre caratteristiche
richieste, come la professionalità, l’organizzazione e la finalità di
produzione e scambio.
Tale opinione applica, dunque, ad entrambe le ipotesi di confine
dell’impresa lo stesso principio: come non si può ritenere che
l’impresa esista per il solo compimento di atti preparatori, così non si
può sostenere che essa sopravviva alla cessazione delle operazioni
attive, tipiche della fase produttiva.
Sul versante opposto si colloca quella dottrina che riconosce la
piena imprenditorialità della liquidazione, ritenendo che tutte le
165
Per una ricostruzione delle diverse posizioni assunte dalla dottrina si vedano B U ON O C O R E ,
L’impresa in Trattato cit., 168 ss.; L U B R AN O
DI
S CO R P AN IE LLO , La cessazione cit., 62
e ss; S P AD A , L’impresa in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., vol. VII, Milano 1992, 59 e
ss.
145
Capitolo II
operazioni volte alla dissoluzione dell’impresa e alla definizione dei
rapporti giuridici ad essa facenti capo debbano includersi nell’attività
d’impresa, la cui cessazione si avrà, pertanto, al termine della
liquidazione.
È questa la linea interpretativa che dilata maggiormente il contenuto
della liquidazione e dell’impresa, convogliando in essa e, quindi,
all’interno dell’impresa tutti quegli atti che portano alla completa
disgregazione dell’attività, dell’organizzazione e dei rapporti giuridici
da essa derivati 1 6 6 .
Un approccio intermedio è quello che, pur collocando nella
liquidazione tutte le operazioni che portano al totale dissolvimento di
attività e organizzazione, compreso l’esaurimento dei rapporti giuridici
pendenti, non ritiene che la cessazione dell’impresa sia
necessariamente da collocarsi al termine di questa.
In particolare, con riferimento all’imprenditore individuale, al fine di
dare concreta attuazione al principio di effettività, si ritiene che la
semplice intenzione, o una sua manifestazione, di cessare l’impresa
non siano sufficienti a dettare un limite ad essa. Perché ciò accada è
necessario che la decisione dell’imprenditore si dimostri definitiva ed
irrevocabile sotto il profilo oggettivo, ossia si accompagni alla
disgregazione della struttura produttiva con la conseguente
impossibilità a riprendere l’attività 1 6 7 .
166
Tale approccio è stato applicato soprattutto dalla giurisprudenza di merito e
legittimità con riguardo alle società, per cui si arrivava a negare cessazione
dell’impresa ed estinzione del soggetto sino all’esaurimento di tutti i rapporti
pendenti, nonostante la liquidazione –definita in questo caso formale- si fosse già
conclusa con la cancellazione dal registro delle imprese. Sulla distinzione tra
liquidazione formale e liquidazione effettiva si veda ad esempio Cass., 8 gennaio
1997, n. 73
167
B UO NO C O R E , L’impresa in Trattato cit., 171 ss. il quale sostiene che si avrà
cessazione quando alla delibera dell’imprenditore si unisca la disgregazione del
complesso aziendale. Tale effetto si produrrà una volta che sia esaurita la
liquidazione dell’attivo, operazione in grado di interrompere il nesso funzionale
tra
attività
e
azienda.
Circa
la
necessaria
146
irrevocabilità
delle
scelte
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Gli autori che hanno sostenuto questa tesi hanno, dunque, teorizzato
una distinzione negli atti che compongono la liquidazione, sostenendo
che per aversi cessazione dell’impresa, ed in particolare perché si
abbia disgregazione dell’azienda, sia sufficiente il completamento
della liquidazione dell’attivo dell’impresa, ricomprendendo in esso
tutti i beni ed i rapporti giuridici strumentali all’esercizio dell’attività
economica. La definizione degli altri rapporti, in particolare la
riscossione dei crediti o il pagamento dei debiti, pur facendo parte
della liquidazione, si collocherebbe al di fuori della fattispecie
impresa, perché, soprattutto le operazioni di definizione delle
passività, sarebbero da ritenersi ad essa estranee.
Un’ultima tesi sulla possibilità di includere la liquidazione
nell’ambito dell’impresa si colloca sempre ad un livello intermedio fra
le due tesi antitetiche inizialmente esposte, ma in termini leggermente
diversi rispetto alla precedente.
Essa pone al centro del proprio ragionamento la nozione di atti
obiettivi d’impresa, ossia quelle operazioni oggettivamente e
tipicamente riconducibili a ciascuna attività e come tali riconoscibili
dai terzi. Così, come nel momento iniziale non si potrà ritenere
integrata la fattispecie fino che non ci sia una esteriorizzazione
dell’attività attraverso atti oggettivamente legati all’attività tipica 1 6 8 ,
indipendentemente dal nesso di tipo soggettivo impresso dal soggetto
agente, allo stesso modo nella fase finale si dovrà riconoscere
l’avvenuta cessazione dell’impresa nel momento in cui siano terminate
quelle
operazioni
tipiche
di
ciascun
tipo
di
attività 1 6 9 .
dell’imprenditore individuale l’Autore richiama, in particolare, le tesi del
M IN E R VIN I , L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 34 ss
168
Motivo per cui verrebbero escluse dagli atti preparatori rilevanti le
operazioni meramente finanziarie.
169
G H ID IN I , Inizio e cessazione dell’impresa, in Temi, 1962, 416 ss.; M AS I ,
C ategorie
privatistiche cit., 462; O PP O , Realtà giuridica globale dell’impresa
nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici, I, Padova 1992, 64 ss.
Sembra accogliere questa posizione circa la cessazione dell’impresa
individuale –e delle società di persone- la giurisprudenza maggioritaria, che non
147
Capitolo II
Conseguentemente,
la liquidazione potrà considerarsi parte
dell’impresa fin tanto che questa tipologia di operazioni 1 7 0 continui ad
essere compiuta, mentre non si riterranno parte dell’impresa le
ulteriori attività di definizione dei rapporti pendenti 1 7 1 .
Nell’ambito di questa interpretazione viene, infine, dato risalto al
requisito della professionalità, intesa quale reiterazione e sistematicità
degli atti. In virtù di tale caratteristica si suggerisce, dunque, di tenere
conto anche del fattore temporale nella valutazione delle singole
operazioni: gli atti sporadici, pur se tipici, non integrando più la
necessaria professionalità, non sono in grado di mantenere in vita
l’impresa, che inevitabilmente dovrà considerarsi cessata in un
momento precedente.
Dal confronto fra tutte le opinioni emerge la difficoltà ad
individuare indici di cessazione univoci, difficoltà motivata anche
dalla ricordata assenza di un’esatta definizione della liquidazione, del
suo contenuto e del suo termine finale, in riferimento a cui non
emergono precise indicazioni nemmeno nelle norme recentemente
riformate 1 7 2 .
ritiene esercizio d’impresa le operazioni volte unicamente alla disgregazione del
complesso aziendale, ma sostiene che si abbia cessazione già al “ compimento
dell’ultima operazione intrinsecamente identica a quelle normalmente poste in
essere durante l’esercizio dell’impresa”. In tal senso si vedano, ex pluribus, Cass.,
21 febbraio 2007, 4105; Cass., 9 agosto 2002, n. 11213; Cass., 28 marzo 2001, n.
4455; Cass., 13 dicembre 2000, n. 15716; Cass., 14 giugno 2000, n. 8099.
170
G H ID IN I , op.loc.cit. fa l’esempio delle vendite di liquidazione che hanno ad
oggetto merci o materie prime residue.
171
In particolare vengono escluse le operazioni di realizzazione dei crediti o
estinzione dei debiti, perché non viene loro riconosciuta una rilevanza autonoma
pur se collegate all’impresa, in quanto volte a definire posizioni creditorie o
debitorie generate dall’attività tipica.
172
Non è infatti possibile definire, nemmeno su base normativa, quale debba
essere l’esatto contenuto della liquidazione e quali i suoi confini, se cioè debba
giungere alla completa definizione di tutti i rapporti facenti capo all’impresa o
possa arrestarsi prima. A dire il vero l’imputabilità ai soci dei rapporti
sopravvenuti o residui farebbe propendere per la seconda opinione, con cui
148
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Emerge, dunque, che con riferimento all’imprenditore individuale,
stante l’esclusiva rilevanza attribuita al dato sostanziale, è difficile
individuare non tanto un termine esatto per la cessazione, quanto un
elemento univoco che funga anche solo da indicatore della conclusione
del fenomeno imprenditoriale nel suo complesso.
L’approccio casistico, conseguenza quasi obbligata della necessità
di riscontri unicamente oggettivi, non è infatti in grado di fornire
indicazioni; né del resto sembrano concederlo, in questo senso, la
stessa natura di impresa e liquidazione.
Si tratta infatti di fenomeni fluidi, in continuo divenire, difficilmente
predeterminati o svolti secondo tempistiche e regole sempre uguali a
se stesse 1 7 3 .
Certamente, come si è sottolineato anche in dottrina 1 7 4 , il problema
fondamentale consiste nel verificare se i comportamenti esaminati,
ovvero la fase liquidatoria, siano in grado di integrare la fattispecie
impresa e le caratteristiche stabilite dal legislatore.
Difficile allora negare il carattere economico o professionale delle
operazioni di liquidazione, così come è difficile negarne il legame con
la precedente attività gestoria, quanto meno sotto il profilo dei beni
interessati.
Altrettanto, risulta difficile negare il nesso teleologico tra le
operazioni della fase finale, parzialmente diverso da quello che
caratterizza la fase produttiva, ma garantito sia sul piano oggettivo che
sul piano soggettivo.
In questo senso allora potrebbero ritenersi coerenti solo le due tesi
contrapposte inizialmente illustrate: se si accetta l’appartenenza
contrasta, però, la responsabilità prevista per i liquidatori nel caso di omessa
liquidazione di alcuni rapporti dovuta a loro colpa, disposizione che fa quanto
meno presumere la necessità di definire tutti i rapporti pendenti.
173
Soprattutto con riguardo alla c.d. disgregazione si sottolinea la difficoltà
nell’individuazione
del
momento
di
realizzazione
del
comportamento,
che
inevitabilmente dipende da scelte del tutto personali dell’imprenditore e non
sempre ha un significato univoco.
174
In tal senso, S P AD A , L’impresa cit. 59 e ss.
149
Capitolo II
all’esercizio d’impresa degli atti preparatori e si ammette quindi di
mitigare la portata del principio di effettività, lo stesso dovrà farsi con
la fase liquidatoria, in caso contrario si dovranno escludere entrambe
le fasi, in quanto non perfettamente riconducibili all’attività d’impresa
intesa quale attività produttiva, rilevante finché concretamente svolta a
tal fine.
Non è nemmeno pienamente condivisibile il tentativo di distinguere
tra atti in qualche modo tipici dell’attività considerata ed atti che
invece non lo sono, soprattutto se si considera che, nella maggior parte
dei casi, le operazioni di liquidazione consistono nella vendita dei beni
dell’impresa, strumentali o merce che siano, operazioni in un certo
senso sempre tipiche di qualsiasi attività e che possono, dunque,
ritenersi in grado di integrare l’esercizio.
Infine, non si può fondatamente sostenere che l’esistenza
dell’impresa dipenda dalle vicende dell’azienda che, come già
ricordato, costituisce strumento funzionale all’attività, non la sua
stessa essenza. In tal senso, la disgregazione dell’azienda non potrebbe
ritenersi né un indice univoco, stante la possibilità che l’impresa sia
organizzata anche in sua assenza, né un elemento che rende
irrevocabile la decisione dell’imprenditore, proprio in quanto si tratta
di una definitività valutabile solo nei fatti, perché priva di
conseguenze predeterminate e sempre aperta alla possibilità di una
riorganizzazione.
In conclusione, ciò che appare più evidente è che la mancata
individuazione di un contenuto definito, la difficoltà a distinguere tra
un tipo di operazione e l’altra al fine di valutarne l’appartenenza
all’attività d’impresa e l’approccio casistico adottato, pur rispettando
le caratteristiche del fenomeno economico e la sua tendenziale
elasticità, creano serie difficoltà sul piano giuridico, perché, definita la
sostanza della fattispecie, tenendo conto soprattutto delle sue
caratteristiche extra giuridiche, non si sono forniti gli strumenti per
individuarne i confini e, anche laddove indicati, li si è privati della
150
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
necessaria efficacia giuridica 1 7 5 .
2.1.2- Il valore degli adempimenti formali: la cancellazione dal
registro delle imprese
Viste le difficoltà che si incontrano sulla base dei soli riscontri
oggettivi è necessario esaminare il ruolo che possono svolgere
nell’individuazione della cessazione dell’impresa gli adempimenti
formali imposti all’imprenditore, in particolare il regime delle
iscrizioni nel Registro delle imprese delle vicende relative all’impresa.
Anche in questo caso il tema assume una valenza diversa in rapporto
ad imprenditore individuale o collettivo ed è, in conseguenza, stato
esaminato anche dalla dottrina in modo differente, questa volta con
particolare attenzione al fenomeno societario.
Le principali norme che disciplinano il regime delle iscrizioni sono:
-l’art. 2196 c.c., che dispone l’iscrizione nel Registro delle imprese
dell’impresa commerciale, delle sue modificazioni e della sua
cessazione entro trenta giorni dal verificarsi del fatto dichiarato;
-l’art. 2200 c.c. che impone l’obbligo dell’iscrizione a tutte le società
–escluse le società semplici- indipendentemente dalla natura
dell’attività esercitata;
-gli artt. 2330 e 2331 c.c. che regolano l’iscrizione delle società di
capitali e gli effetti ad essa conseguenti 1 7 6 ;
-l’art. 2495 c.c. che dispone la cancellazione della società di capitali
una volta approvato il bilancio finale di liquidazione.
Circa l’ambito di applicazione delle suddette norme, l’opinione
prevalente ritiene che le norme direttamente riferite alle società
dettino una disciplina speciale per l’imprenditore collettivo,
175
Si potrebbe ritenere che, vista la particolarità della materia, il legislatore
avesse voluto lasciare la valutazione di alcuni elementi al libero apprezzamento del
giudice. Di fatto, però, al momento è la stessa giurisprudenza che si sta movendo
verso indici di tipo formale, sulla base dei quali valutare il dato fattuale.
176
In particolare, l’acquisto della personalità giuridica.
151
Capitolo II
escludendo pertanto l’applicabilità ad esso dell’art. 2196 c.c.,
apparentemente diretto al solo imprenditore individuale 1 7 7 . Tale
interpretazione si fonda sull’equivalenza dai più affermata, e sostenuta
anche dalla giurisprudenza, tra società e impresa, per cui una volta
sorta la società inizierebbe automaticamente anche l’impresa.
Mentre con riferimento all’imprenditore individuale assistiamo ad
una rigida applicazione del principio di effettività per tutta la durata
del fenomeno imprenditoriale, in base al quale, dunque, le
dichiarazioni e le iscrizioni prescritte dall’art. 2196 c.c. non avrebbero
valore in assenza del concreto svolgimento dell’attività o della sua
effettiva cessazione 1 7 8 , nel caso delle società viene applicata una
diversa disciplina a seconda che si guardi all’avvio dell’impresa o alla
sua conclusione.
La presunta equivalenza società-impresa 1 7 9 comporta infatti che,
quanto alla fase iniziale, si prescinda dall’effettivo svolgimento di
un’attività d’impresa, facendo coincidere nascita del soggetto e nascita
dell’impresa, basandosi sull’idea che l’indicazione dell’oggetto sociale
e la proiezione della società al suo raggiungimento siano elementi già
177
Contra, nel senso di distinguere tra società e impresa e considerare,
conseguentemente, applicabile anche alle società l’art. 2196 c.c, laddove non
esistano norme specifiche che disciplinino iscrizioni dallo stesso contenuto
L UB R AN O
DI
S C O R P AN IE LLO , cit., 53 ss.; Z O R ZI , Decorrenza e natura del termine
annuale ex art. 10 l. fall. per l'imprenditore individuale, Giur. comm. 2002, 5, 563
ss e la dottrina ivi citata; I D EM , Cancellazione della società dal registro delle
imprese, estinzione della società e tutela dei creditori. Giur. comm. 2002, 1, 91.
per una ricostruzione in termini generali del sistema di pubblicità dell’impresa si
veda IBBA C., Il sistema della pubblicità d’impresa, oggi, Riv. Dir. Civ., 2005, I,
587
178
A dire il vero la giurisprudenza si è su questo fronte dimostrata meno rigida
nel giudicare l’irrilevanza delle iscrizioni nel registro delle imprese, attribuendo
ad esse il valore di presunzione semplice suscettibile in ogni caso di prova
contraria. In questo senso, Cass., 15 luglio 2004, n. 13124; Cass., 27 novembre
1999, n. 13921.
179
Per una ricostruzione delle diverse posizioni in dottrina si veda B U ON O C O R E ,
L’impresa cit., 95 ss.; I D EM , voce Imprenditore cit, 545.
152
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
sufficienti a determinare l’avvio dell’impresa 1 8 0 .
Diversa è invece stata fino ad ora la disciplina della fase terminale.
Come si è visto, il Codice Civile delinea espressamente, pur senza
indicarne una nozione, la fase di liquidazione delle società, con norme
parzialmente diverse per società di persone e società di capitali. In
particolare, il legislatore stabilisce che al termine della liquidazione si
debba chiedere la cancellazione della società dal Registro delle
imprese, evento a cui solo ora consegue l’estinzione della società per
espressa statuizione del legislatore 1 8 1 .
Applicando la stessa linea interpretativa vista per l’avvio
dell’impresa, si dovrebbero far coincidere in questo momento
cessazione dell’impresa ed estinzione del soggetto agente,
prescindendo, dunque, da una puntuale verifica dell’effettività ed
includendo la liquidazione nell’ambito dell’impresa.
Non così è stato, soprattutto in giurisprudenza.
In vigenza del precedente art. 2456 c.c. che, prima della riforma del
2003, disciplinava la cancellazione dal Registro delle imprese senza
dichiararne l’efficacia estintiva 1 8 2 , si è sostenuta la teoria per cui non
poteva considerarsi estinto il soggetto né cessata l’attività sino alla
definizione di tutti i rapporti pendenti, indipendentemente dal fatto che
la società avesse concluso la liquidazione formale e richiesto la
cancellazione dal Registro delle imprese.
Si applicava, dunque, alla fase di cessazione lo stesso principio di
180
Si vedano ad esempio Cass., 26 giugno 2001, n. 8694; Cass., 4 novembre
1994, n. 9084
181
Cfr. il nuovo testo dell’art. 2495 c.c che ha sostituito e modificato l’art.
2456 c.c
182
La norma precedente non dichiarava l’efficacia estintiva, ma nemmeno la
escludeva, disponendo in ogni caso che eventuali rapporti sopravvenuti o non
definiti fossero imputabili ai soci e, in caso di omissione colposa, agli stessi
liquidatori. La distinzione tra liquidazione formale e liquidazione effettiva è di
origine giurisprudenziale ed è quella che, presupponendo la sopravvivenza della
società, comportava la possibilità di agire contro la società stessa anche
successivamente alla cancellazione.
153
Capitolo II
effettività valido per l’imprenditore individuale –pur se riferito alla
società e non direttamente all’impresa- privando di sostanziale
rilevanza, principalmente a tutela dei creditori sociali, le formalità
imposte all’imprenditore, con l’effetto di posticipare l’applicabilità
dell’art. 10 L. Fall., sino a renderlo quasi inoperante nei confronti
delle società 1 8 3 .
Le critiche avanzate a questa impostazione sono di due ordini.
Con uno sguardo generale al fenomeno imprenditoriale si è da più
parti sostenuto che sia ingiustificata una diversa disciplina
dell’impresa sulla sola base della forma giuridica con cui essa viene
condotta. Si critica, dunque, l’equivalenza società-impresa, sostenendo
che, se principio cardine dell’attività d’impresa è l’effettività, esso
deve ritenersi universalmente applicabile, con la conseguenza che, per
qualificare come imprenditore una società si debba verificare il
concreto esercizio dell’attività, sia al suo avvio che al momento della
sua cessazione 1 8 4 .
183
Perché ovviamente un eventuale stato di insolvenza presuppone l’esistenza
di rapporti pendenti e, dunque, secondo l’interpretazione giurisprudenziale,
l’esistenza della società. Di conseguenza, le società rimanevano sempre soggette al
fallimento nei modi ordinari anche quando cancellate dal Registro delle imprese e
non più operanti.
184
Tra chi ha mosso critiche a questa impostazione si può distinguere tra gli
autori che lamentano una sovrapposizione tra piano soggettivo e attività (L UB R AN O
DI
S CO R P AN IE LLO ) e quelli che ritengono che, con riferimento alle società, si crei una
distinzione tra impresa ed esercizio d’impresa (G H ID IN I ) .
Nel primo caso, si ritiene che una cosa sia il disposto dell’art. 2196 c.c.
relativo all’impresa in generale e, dunque, applicabile anche alle società, altra
invece le disposizioni che disciplinano specificamente le società, a cominciare
dall’art. 2200 c.c. Queste ultime investirebbero unicamente la sfera soggettiva,
dettando la disciplina relativa alla nascita del soggetto giuridico in quanto tale,
non in quanto imprenditore. Ciò comporterebbe pertanto la possibile concorrenza
dei due tipi di iscrizioni, non necessariamente coincidenti. In particolare, il regime
di cui all’art. 2196 c.c. sarebbe strettamente legato al principio di effettività,
dovendosi ricollegare alla nozione generale di impresa e di imprenditore di cui
all’art. 2082 c.c., laddove si richiede appunto l’esercizio dell’attività e non la sua
154
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
In riferimento, invece, alla sola cessazione dell’impresa, e
riconosciuta l’equivalenza tra soggetto e attività, si è criticato
l’orientamento giurisprudenziale, in particolare, contestando l’idea per
cui la cancellazione delle imprese non avesse efficacia estintiva, ma
meramente dichiarativa e, soprattutto, non probante.
Indicazioni interessanti in proposito vengono dalle recenti riforme
legislative che hanno interessato sia il diritto societario che la legge
fallimentare.
Quanto al primo, la riforma organica della disciplina delle società di
capitali ha portato alla modifica del disposto dell’art. 2456 c.c.
sostituito dall’attuale art. 2495.
La nuova norma interviene nel dibattito tra dottrina e giurisprudenza
maggioritaria adottando una soluzione che appare più vicina alle
posizioni della dottrina. Essa sancisce, infatti, l’efficacia costitutiva
della cancellazione della società dal Registro delle imprese da cui
discende l’estinzione del soggetto, con la conseguente imputazione
delle eventuali sopravvenienze passive ai soci e ai liquidatori 1 8 5 . Si è
semplice previsione quale finalità della società.
Parzialmente diverse sono invece le considerazioni svolte da chi individua,
nel caso dell’imprenditore collettivo, una scissione tra l’impresa ed il suo
esercizio. La prima nascerebbe sulla sola base degli adempimenti formali, essendo
sufficiente la previsione dell’oggetto sociale al momento della costituzione della
società. L’esercizio dell’attività sarebbe invece verificabile solo in concreto,
quando effettivamente svolta.
Tra
chi
contesta
l’equivalenza
società-impresa
e
la
conseguente
attenuazione del principio di effettività, considerando che impresa e società siano
due fattispecie differenti, troviamo anche B UO NO C O R E , voce Imprenditore cit. e
O PP O , voce Impresa e Imprenditore cit.
185
Fra le prime sentenze che accolgono il nuovo principio si veda Cass., sez. I,
28-08-2006, n. 18618 che si è pronunciata in questi termini: “L’iscrizione nel
Registro delle imprese della cancellazione di una società di capitali ne produce
l’estinzione, con effetto costitutivo irreversibile, anche in presenza di crediti
insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti: il principio, che emerge dalla
legge di riforma, concerne non la cancellazione in sé, bensì i suoi effetti, e trova
applicazione anche alle cancellazioni già iscritte in precedenza”.
155
Capitolo II
posta così fine alla prassi consolidata per cui, nonostante la chiusura
della liquidazione e la cancellazione, si riteneva che la società
sopravvivesse sino all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici a lei
imputabili, estendendo di fatto senza limiti la sua esistenza 1 8 6 .
Altri elementi interessanti circa il rapporto tra società e impresa,
così come tra liquidazione e impresa, emergono dall’esame delle
norme che disciplinano la liquidazione delle società di capitali.
Abrogato il divieto per i liquidatori di compiere nuove operazioni 1 8 7 , si
parla ora di esercizio provvisorio e facoltativo dell’impresa in fase di
liquidazione, lasciando forse intendere che i due concetti non siano del
tutto sovrapponibili, ma, al contrario, solo eventualmente coincidenti.
Sembra, dunque, che la liquidazione venga considerata come fase
terminale della società in quanto soggetto esercente l’impresa, non
come fase terminale dell’impresa, il cui concreto esercizio viene
ritenuto meramente opzionale.
Simili considerazioni non hanno in realtà rilevanza univoca in
quanto potrebbero essere portate a sostegno tanto dell’erroneità
dell’equivalenza tra società ed impresa quanto dell’opposto
orientamento che, fondato sulla piena corrispondenza, riconosca
un’attenuazione del principio di effettività nella fase di cessazione, per
cui pur avendosi impresa non vi sarebbe necessità di un suo effettivo
esercizio data la peculiarità e le finalità della fase liquidatoria.
Deve inoltre sottolinearsi che tali disposizioni, contenute nel Libro
V, Titolo V, Capo VIII, riguardano espressamente lo scioglimento e la
liquidazione delle sole società di capitali e non interessano, pertanto,
le società di persone. Tale affermazione sembra potersi desumere dal
fatto che, anche successivamente alla riforma, con riguardo alle società
di persone la giurisprudenza continua ad applicare il medesimo
principio di effettività visto per l’imprenditore individuale, non
attribuendo efficacia costituiva alla cancellazione dal Registro delle
186
In proposito Cass., 28 maggio 2004, n. 10314; Cass., 24 settembre 2003, n.
14147; Cass., 26 aprile 2001, n. 6078; Cass., 12 giugno 2000, n. 7972.
187
Divieto che permane invece per i liquidatori delle società di persone.
156
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
imprese, ma ritenendo necessaria per l’estinzione dell’ente la
definizione di tutti i rapporti giuridici ad esso imputabili 1 8 8 .
Indicazioni differenti ci giungono, al contrario, dal nuovo testo
dell’art. 10 L. Fall. che, accogliendo le indicazioni della Corte
Costituzionale, si spinge oltre e stabilisce che il termine annuale per il
fallimento dell’imprenditore cessato, di qualsiasi natura esso sia, dovrà
calcolarsi a partire dalla cancellazione dell’impresa dal Registro delle
imprese, non più dal momento di effettiva cessazione dell’attività.
La rigidità del criterio indicato dal legislatore della riforma è
mitigato solo in due casi: per l’imprenditore individuale e le società
cancellate d’ufficio si fa salva la possibilità di dimostrare il momento
di effettiva cessazione. Ciò significa che i creditori 1 8 9 potranno ad ogni
modo far valere la continuazione dell’impresa, dimostrando la falsità
dell’iscrizione della cancellazione nel Registro e prolungando, di
conseguenza i termini previsti per la dichiarazione di fallimento.
Con questa scelta, il legislatore sembra dimostrare, anche attraverso
la previsione di una soluzione unitaria per ogni tipo d’imprenditore, la
propria intenzione di garantire quanto più possibile la certezza delle
188
Si vedano in proposito, Cass., 2 marzo 2006, n. 4652; Cass., 23 maggio
2006, n. 12114; Cass., 15 gennaio 2007, n. 646; Cass., 11 maggio 2005, n. 9917
con nota di
FU M AG A LLI ,
in Società, 2006, 6, 710.
Diverse alcune pronunce dei giudici di merito. Si veda, ad esempio, Corte
d’Appello di Napoli, 06-05-2005 in cui si legge “L’estinzione di una società, sia
essa società di capitali ovvero sia società di persone registrata, acquista efficacia
nel momento in cui è effettuata l’iscrizione della cancellazione presso il
competente
registro
delle
imprese,
indipendentemente
dalla
possibile
sopravvivenza alla formalità pubblicitaria di rapporti patrimoniali, sostanziali e
processuali,
attivi
e
passivi;
dopo
la
cancellazione
della
società,
conseguentemente, i creditori insoddisfatti possono esperire soltanto le azioni
previste dal 2º comma dell’attuale art. 2495 e non anche, come prima dell’entrata
in vigore del Dlgs.. n. 6/2003, l’azione contro la società, per essere questa ormai
definitivamente estinta.”
189
O eventualmente il Pubblico Ministero che abbia avviato la procedura, come
specificato dalle ultime modifiche alla norma introdotte con il Dlgs. 12 settembre
2007, n. 169.
157
Capitolo II
situazioni giuridiche, tornando ad un approccio di tipo formale che
pone in secondo piano le diverse valutazioni di natura sostanziale,
fatte comunque salve a garanzia della veridicità delle iscrizioni.
La giurisprudenza coglie, infatti, nella riforma un principio
universalmente applicabile in base al quale la cessazione assume
rilevanza quando portata a conoscenza dei terzi con i mezzi idonei. Pur
in assenza di iscrizione, dunque, il termine annuale deve considerarsi
applicabile dal momento in cui si abbia concreta manifestazione della
cessazione e non, come in precedenza, dall’esaurimento dei rapporti
giuridici 1 9 0 .
Appare dunque evidente che in un settore che aveva creato
numerose difficoltà e dato adito a interpretazioni spesso opposte fra
loro, il legislatore ha scelto di valorizzare, anche sulla scorta
dell’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale, il ruolo del
190
In tal senso l’interpretazione della Corte di Cassazione che nella sentenza
Cass. 28-08-2006, n. 18618 si è così espressa: “In tema di fallimento, il principio,
emergente dalla sentenza 21 luglio 2000 n. 319 e dalle ordinanze 7 novembre 2001
n. 361 ed 11 aprile 2002 n. 131 della Corte Costituzionale, secondo cui il termine
di un anno dalla cessazione dell’attività, prescritto dall’art.10 l.fall. ai fini della
dichiarazione, di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto
per quelli collettivi, dalla cancellazione dal Registro delle imprese, anziché dalla
definizione dei rapporti passivi, non esclude l’applicabilità del predetto termine
anche alle società non iscritte nel registro delle imprese, nei confronti delle quali
il necessario bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela del creditori e di
certezza delle situazioni giuridiche impone d’individuare il dies a quo nel
momento in cui la cessazione dell’attività sia stata portata a conoscenza dei terzi
con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione
ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata.”
Diversa l’opinione espressa in dottrina (B O N FAT T I -C E NS O N I , Manuale di
diritto fallimentare, II ed., Padova 2007, 35 e ss).secondo cui in caso di società
irregolari dovrebbe farsi comunque riferimento alla cessazione effettiva. Diversa
sembra essere anche l’opinione dello stesso legislatore, dal momento che nella
Relazione Ministeriale si legge che le società irregolari o di fatto restano soggette
al fallimento senza alcun limite temporale.
158
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
regime delle iscrizioni, confermando che, soprattutto a tutela della
certezza delle situazioni giuridiche, punto di riferimento debba essere
il momento in cui le decisioni dell’imprenditore e le vicende
dell’impresa vengono pubblicizzate e portate a conoscenza dei terzi
attraverso gli strumenti indicati dalla legge e non la mera valutazione
delle situazioni di fatto, troppo eterogenee e poco determinate per
poter garantire la sicurezza degli effetti giuridici che conseguono al
comportamento del soggetto.
In questo senso, prima la Corte Costituzionale e successivamente il
legislatore hanno intrapreso un cammino che tende a garantire la tutela
degli interessi di tutti i soggetti coinvolti attraverso il giusto
bilanciamento degli elementi che compongono la fattispecie,
vincolando strettamente l’oggettività dei riscontri fattuali richiesti dal
principio di effettività con la soggettività delle scelte e della volontà
dell’agente che si sostanziano negli adempimenti formali prescritti
dalle norme, secondo una prospettiva che sembra rispettare
maggiormente le caratteristiche dell’impresa intesa come espressione
qualificata della categoria giuridica dell’attività.
2.1.3- Iva e liquidazione ordinaria dell’impresa
a)- L’approccio oggettivo di dottrina e giurisprudenza: la
sopravvivenza dell’impresa sino alla completa dismissione dei beni.
Critica
Ricostruita in questi termini la disciplina sostanziale della
liquidazione ordinaria, è ora possibile esaminarne i profili rilevanti ai
fini fiscali.
Affrontando in termini generali la nozione di impresa si è
accennato, contestandola, all’esistenza di una tesi, che appare a dire il
vero maggioritaria, che desume dalle norme impositive una nozione di
impresa in senso fiscale, caratterizzata dalla maggiore estensione
rispetto alla fattispecie civilistica e denotata da una più spiccata
oggettività rispetto a quello che si giudica l’orientamento
159
Capitolo II
esclusivamente soggettivo del diritto sostanziale.
Per valutarne le implicazioni in tema di cessazione dell’attività
occorre qui brevemente riassumerne i punti fondamentali.
Si parte dal presupposto che l’ordinamento tributario proponga un
modello che, indipendente da quello civilistico ed incentrato
esclusivamente
sul
profilo
oggettivo,
prescinde
totalmente
dall’elemento soggettivo della fattispecie e dal collegamento che possa
esistere tra attività e soggetto agente 1 9 1 .
Valorizzando questo aspetto dell’impresa si giunge, in coerenza con
le esigenze tipiche delle norme impositive 1 9 2 , a considerare elemento
realmente rilevante nell’individuazione dell’impresa fiscale la
presenza di una struttura produttivo- patrimoniale 1 9 3 , ossia l’esistenza
191
In tal senso S T E VAN AT O , Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto
tributario, cit., 20 ss. il quale sostiene che l’impostazione oggettiva delle norme
impositive “ha un effetto dirompente sul piano dei rapporti imprenditore-impresa,
in quanto finisce per dissolvere il connubio tra i due termini a favore di una
considerazione
oggettivata
dell’attività:
ciò
che
conta,
per
il
legislatore
tributario, non è che vi sia un soggetto “imprenditore”, ma che sia configurabile
l’esercizio di un’attività produttiva di risultati economici su cui esercitare il
prelievo”. Nello stesso senso anche S AM M AR T IN O , Il profilo soggettivo cit., 124
192
Che necessariamente guardano ai beni e alla loro circolazione. In proposito
S AM M AR T IN O , Inapplicabilità dell’Iva sulle cessioni di beni effettuate dopo la
cessazione dell’attività, in Dir. Prat. Trib., 1980, II, 424 sostiene che “ per una
corretta identificazione della data di cessazione dell’attività, giova ricordare che
la normativa tributaria, in stretta aderenza alla sua finalità specifica, che è quella
del prelievo fiscale, non può accogliere il principio di effettività.” Allo stesso
tempo, però, riconduce gli atti di liquidazione ad una nozione unitaria di attività,
che dunque rispecchierebbe la struttura dell’impresa, costituendone una fase,
affermando che “L’impresa cessa con l’ultima operazione di vendita di beni
relativi ad essa, realizzata nel contesto di una serie di atti effettivamente posti in
essere ed unitariamente considerati dal diritto”
193
Cfr. S T E VAN AT O , Inizio cit., 24 secondo il quale si configura “l’impresa in
senso fiscale come un patrimonio autonomo assoggettato ad un particolare regime
giuridico. Autonomo e separato perchè la struttura produttiva riceve una
particolare qualificazione dal punto di vista tributario che la differenzia dal resto
del patrimonio dell’imprenditore: l’esistenza di un regime fiscale cui sono
160
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
di un complesso di beni organizzati per lo svolgimento dell’attività.
Da ciò consegue l’ulteriore svalutazione dello stesso profilo
dinamico che costituisce l’impresa, ossia l’effettivo esercizio
dell’attività economica, per assegnare un ruolo determinante
all’elemento materiale della sua struttura 1 9 4 .
Questa ricostruzione del presupposto influisce inevitabilmente
anche sulle fasi iniziale e conclusiva dell’impresa, attribuendo
rilevanza sia agli atti preparatori che alle operazioni di liquidazione,
qualificati come esercizio d’impresa perché aventi ad oggetto beni ad
essa collegati. Si ammette, dunque, che in casi come questi per
l’esistenza fiscale dell’impresa possa essere sufficiente la sola
presenza di un patrimonio destinato o di una struttura anche solo
potenzialmente idonea all’esercizio di un’attività economica 1 9 5 .
Principio fondamentale del fenomeno imprenditoriale non è più
allora l’effettività dell’esercizio dell’attività economica, ma la
presenza di un vincolo di destinazione dei beni ad essa destinati, con
la conseguenza che, ai fini impositivi, l’impresa si considererà cessata
e si avrà estinzione del soggetto passivo Iva solo nel momento in cui
questo vincolo venga interrotto definitivamente.
Sulla base di questa impostazione, dunque, ogni atto di
disposizione, anche successivo alla formale cessazione dell’attività e
dell’impresa sarà imponibile, perché considerato in ogni caso esercizio
dell’attività, ad essa riconducibile in virtù del vincolo che
continuerebbe a caratterizzare i beni, salvo nel caso in cui la
assoggettati i beni relativi all’impresa consente di attribuire una rilevanza
costitutiva alla struttura patrimoniale dell’impresa medesima”.
194
Si ritiene che il nucleo fiscale dell’attività non sia costituito dall’esercizio
effettivo di un’attività commerciale, ma dall’apparato produttivo e dal patrimonio
funzionale a tale esercizio. Ne consegue che l’organizzazione non assume
rilevanza in quanto in forma d’impresa -che costituirebbe solo una modalità di
produzione e organizzazione-, ma esclusivamente in quanto azienda, ossia insieme
di beni funzionalmente collegati allo scopo di esercitare l’impresa.
195
Così sempre S T E VAN AT O , op.cit., 141. Nello stessi senso anche F IC AR I , Il
profilo soggettivo cit, 585 ss.
161
Capitolo II
destinazione a finalità extra imprenditoriali o personali del soggetto
non venga espressamente disposta già nel momento della cessazione
formale 1 9 6 .
Questa impostazione non sembra potersi condividere.
In primo luogo, perché essa si fonda su una ricostruzione del
presupposto impositivo che non si ritiene del tutto corretta. Nel
delineare la nozione generale di impresa la si è qualificata una
fattispecie rientrante nella categoria delle attività, definita come
complesso di atti teleologicamente orientati, aventi una continuità, una
durata ed una direzione ad uno scopo definito ed impresso dal soggetto
agente, necessariamente rette dal principio di effettività.
Sulla base di questa classificazione si è, pertanto, ridefinito il ruolo
dei diversi elementi che compongono la fattispecie, sottolineando, in
particolare, il ruolo strumentale che l’elemento organizzativo viene ad
assumere e la necessaria interdipendenza di profilo oggettivo e
soggettivo, necessario sia per l’imputazione dell’attività che per la
determinazione dell’elemento finalistico che la caratterizza.
La stessa ricostruzione può essere applicata all’ambito tributario per
diversi motivi.
Emerge chiaramente dalle disposizioni che disciplinano l’imposta
sul valore aggiunto come esse si riferiscano all’attività d’impresa,
196
Questo profilo si collega, infatti, alla valutazione degli effetti della
cessazione
sull’applicabilità
dell’imposta
per
autoconsumo
da
parte
dell’imprenditore prevista dall’art. 2, c. 2, n. 5 e sul valore della dichiarazione di
cessazione dell’attività su cui la dottrina si divide. Sulla necessità di una diversa
destinazione espressa si vedano F AN T O Z Z I , Imprenditore e impresa cit., 224 ss.,
F IC AR I , Il profilo soggettivo cit., 586; S AM M AR T IN O , Il profilo soggettivo cit., 127;
I D EM , Inapplicabilità cit, 425; S T E VAN AT O , Inizio cit., 182 ss.
Contra
si vedano invece C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo, Enc. Giur, IV,
Roma, 1996, 7; F E D E LE , Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’Iva e
nell’Imposta di Registro, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Atti
del convegno di S. Remo (21-23 marzo 1980), Padova, 1981, 166; M IC C IN E S I , Le
plusvalenze d’impresa, Milano 1993, 167; T AS S AN I , Cessazione dell’impresa e
trattamento fiscale dei beni residui, Riv. Dir. Fin., 1999, 3, 79.
162
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
concepita nel suo continuo svolgimento e qualificata, come si è visto,
in modo non così differente dall’impresa civilistica.
Dall’analisi sistematica della disciplina impositiva risulta inoltre
molto chiaro quale sia il ruolo assegnato all’attività economica:
l’individuazione delle operazioni imponibili, in quanto effettuate
nell’esercizio dell’attività, la determinazione del soggetto passivo
dell’imposta
cui
le
norme
sono
applicabili,
in
ragione
dell’attribuibilità allo stesso dell’attività rilevante, pur se, come si è
detto, questo avviene in via mediata attraverso l’imputazione delle
operazioni imponibili, ed infine l’indicazione degli acquisti che
attribuiscono il diritto alla detrazione, perché effettuati nell’esercizio
dell’impresa.
Ecco, dunque, riproporsi lo schema che si è appena ricordato e che
vede nell’esercizio dell’attività elemento centrale, da un lato, per la
delimitazione degli atti riconducibili al fenomeno imprenditoriale e,
dall’altro, per l’individuazione del soggetto cui essi vanno imputati,
imputazione che, nell’Iva, coincide necessariamente con l’attribuzione
della soggettività passiva all’imposta.
Se si considera corretta questa impostazione, se ne può desumere
che, vista la sostanziale omogeneità dei fenomeni, l’oggettività
generalmente
richiamata
quale
caratteristica
fondamentale
dell’ordinamento tributario, ed in particolare del sistema Iva, non
possa spingersi sino all’elisione di elementi costitutivi della
fattispecie.
Ciò significa che l’elemento soggettivo, nonostante la struttura
normativa che sembra porre in rilievo esclusivamente l’elemento
oggettivo costituito dalle operazioni imponibili, non può considerarsi
del tutto ininfluente, perché necessario alla stessa struttura
dell’imposizione e per l’identificazione unitaria dell’attività, e
soprattutto che non si può, per via interpretativa, ridurre l’impresa, che
lo stesso legislatore richiama in termini di attività ed esercizio –
accogliendo pertanto il principio di effettività 1 9 7 - alla mera esistenza di
197
In questo senso F AN T O ZZ I , Impresa e imprenditore cit., 199 ss.
163
Capitolo II
beni fra loro funzionalmente legati da un presunto vincolo di
destinazione.
Questa considerazione appare ancor più evidente laddove si
consideri il fatto che il legislatore Iva assegna un ruolo marginale al
requisito strutturale-organizzativo e che, anche nei casi in cui
attribuisce rilievo al rapporto di inerenza dei beni, lo fa in funzione
dell’attività e delle operazioni imponibili, al fine dell’attribuzione del
diritto alla detrazione, non per la verifica della stessa esistenza
dell’impresa 1 9 8 .
Pertanto, ritenere che il presupposto costituito dall’esercizio
dell’impresa possa ritenersi integrato, ma soprattutto perdurare, per la
sola presenza di un insieme di beni che, nel corso dell’attività
ordinaria, erano ad essa strumentali significa privare di ogni rilevanza
elementi fondamentali dello stesso presupposto, elementi che il tenore
delle norme non porta assolutamente ad escludere, anzi, al contrario,
rende necessari per l’applicazione dell’imposta.
Ragionare esclusivamente in termini di destinazione dei beni porta,
come si è detto, ad una eccessiva dilatazione della durata dell’impresa
che finisce per sfuggire, in questo modo, al principio di effettività che
dovrebbe informarla, e che viene giustificata dall’inclusione fra le
operazioni imponibili delle attività di liquidazione dell’azienda,
accolta come un’espressa estensione dell’impresa fiscale in funzione
della definitiva espulsione dei beni dall’area giuridica dell’impresa.
Si tratta, inoltre, di un approccio che, se in realtà neutrale con
riferimento al soggetto passivo società 1 9 9 , rischia di falsare la
198
Così anche T IN E LLI , voce Azienda nel diritto tributario, Dig. Disc. Priv. Sez.
comm., II, Torino, 104 secondo il quale “ai fini della qualificazione dell’attività ai
fini Iva, la presenza di un‘azienda, in difetto dei presupposti previsti dall’art. 4,
non può considerarsi rilevante, ma soltanto indicativa ai fini dell’accertamento
dei requisiti legali per l’individuazione del presupposto soggettivo”
199
Con riguardo a cui, essendo previsto un procedimento formale di
liquidazione si pongono meno problemi di coordinamento, se non nel caso delle
società di persone che, in assenza di liquidazione, potrebbero trovarsi nella stessa
situazione di incertezza dell’imprenditore individuale.
164
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
disciplina della cessazione dell’impresa individuale -per la quale,
come noto, non è prevista una fase di liquidazione obbligatoriasoprattutto nel momento in cui si svaluta il profilo formale e si adotta
un’interpretazione restrittiva dell’art. 2, c. 2 n. 5 laddove prevede
l’imponibilità di autoconsumo e destinazione a finalità estranea
all’impresa dei beni in caso di cessazione.
Si ritiene, dunque, che sia più opportuno esaminare la fase terminale
dell’impresa prestando attenzione a tutti gli elementi che la
costituiscono, ponendone in risalto i legami e cercando, su queste basi,
di individuare la ragione dell’imponibilità delle operazioni di
liquidazione.
Posta l’applicabilità del regime impositivo ordinario anche alla fase
di liquidazione dell’azienda, sancita espressamente dal legislatore, si
rileva in giurisprudenza ed in dottrina un atteggiamento duplice che
riassume in sé parte delle opinioni emerse con riguardo al diritto
sostanziale.
Da un lato, infatti, sembra generalizzarsi il principio in base al
quale la liquidazione effettiva non può considerarsi conclusa sino
all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici facenti capo all’impresa e,
dall’altro, si accoglie l’idea per cui rientrano nell’esercizio
dell’impresa tutte le operazioni che portano alla disgregazione del
complesso aziendale, momento in cui si considera cessata l’impresa,
con riguardo sia all’impresa individuale sia a quella collettiva.
Si possono, quindi, richiamare gli stessi dubbi avanzati in merito a
queste opinioni in sede di analisi del diritto sostanziale, cui si
aggiungono alcune brevi considerazioni legate al sistema dell’imposta.
Come si è già sottolineato, attribuire rilevanza costitutiva alla
disgregazione aziendale non appare coerente all’interno di un’imposta
che considera elemento marginale la presenza dell’azienda o,
comunque, di una struttura organizzata, nel senso non di escluderla,
ma di ritenerla ininfluente per l’integrazione del presupposto 2 0 0 .
200
In questo senso F E D E LE , La struttura cit., 149, il quale sostiene che “la
165
Capitolo II
Questo, unito alla natura tipicamente strumentale del complesso di
beni organizzati dal soggetto, porta a concludere che non si possa
attribuire valore essenziale e costitutivo alle sue vicende, di per sé
inidonee a fornire indicazioni univoche circa le sorti dell’impresa.
In secondo luogo, l’idea per cui si avrebbe chiusura della
liquidazione e cessazione dell’impresa al definitivo esaurimento di
tutti i rapporti giuridici potrebbe condurre al paradosso
dell’impossibilità di determinare tale momento. Se, infatti, la
disciplina Iva dispone la possibilità di richiedere il rimborso
dell’eccedenza d’imposta versata al momento della cessazione e si
pretende far coincidere la cessazione con la definizione di tutti i
rapporti giuridici imputati all’impresa, essendo il rapporto tributario
niente altro che uno di questi rapporti giuridici in attesa di definizione,
si rischierebbe di non poter mai né ottenere il rimborso né considerare
cessata l’impresa 2 0 1 .
struttura organizzativa sottesa all’attività è, in linea di principio, irrilevante, in
quanto
l’unica
forma
di
organizzazione
necessariamente
richiesta
per
la
sussistenza dell’attività attiene alla correlazione fra gli atti ed i comportamenti
che la costituiscono”
201
Effetto paradossale, ma in teoria possibile, negato però dalla giurisprudenza
che ritiene la richiesta di rimborso come l’ultimo atto di liquidazione che segna il
momento di cessazione dell’impresa. In questo senso, ad esempio, Cass., 27 giugno
2003, n. 10227.
Di fatto, però, questa ricostruzione può risultare inapplicabile nel caso in
cui sorgano contestazioni con l’Amministrazione che comportano la necessità di
una definizione successiva dei rapporti. Lo stesso potrebbe poi dirsi nel caso in
cui, anche successivamente, l’Amministrazione effettui un accertamento sui
periodi d’imposta precedenti alla cessazione. Seguendo l’impostazione che fa
corrispondere la cessazione alla definizione di tutti i rapporti giuridici dovrebbe
allora ipotizzarsi la sopravvivenza dell’impresa quanto meno sino al momento in
cui l’amministrazione non decada dal potere di accertamento, il che equivarrebbe a
prolungare artificialmente la vita dell’impresa anche laddove essa sia già estinta.
Si notano, quindi, gli stessi profili discutibili già notati con riguardo al diritto
commerciale e alla presunta sopravvivenza della società fino all’esaurimento di
tutti i rapporti non definiti in sede di liquidazione.
166
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Si pone, pertanto la necessità di verificare l’applicabilità delle altre
due tesi che sono emerse nello studio del diritto commerciale anche
nell’ambito dell’Iva.
Esse, pur se profondamente differenti, sono accomunate da una
prospettiva che prescinde dalla natura dei beni oggetto delle
operazioni di liquidazione, ma guarda unicamente all’attività e alle sue
caratteristiche, valorizzandone l’aspetto finalistico.
La prima, che nega l’imponibilità della liquidazione, sostiene
l’incompatibilità del concetto di attività con la fase liquidatoria,
ritenendo in sostanza che non si possano considerare gli atti finalizzati
allo smantellamento della struttura imprenditoriale e produttiva quali
parte della stessa attività, sottolineando l’inconciliabilità di fondo
esistente fra gli scopi che nei due diversi momenti ci si prefigge 2 0 2 .
La seconda, come si è detto, distinguendo all’interno della
liquidazione atti rientranti nell’attività d’impresa ed atti ad essa non
più riconducibili, ragiona in termini di operazioni obiettivamente
d’impresa e, soprattutto, di sistematicità delle stesse, ponendo in
evidenza anche la necessità che le operazioni mantengano una certa
costanza, non potendosi più attribuire rilevanza agli atti meramente
sporadici.
Entrambe le posizioni pongono, dunque, in risalto il legame tra gli
atti necessario per la configurazione dell’attività, prospettiva che può
sicuramente applicarsi anche in ambito Iva, proprio perché legata a
Anche in ambito tributario questa impostazione comportava la possibilità di
notificare ed eseguire i provvedimenti amministrativi direttamente nei confronti
della società anche
successivamente
alla sua cancellazione.
Le
modifiche
legislative intervenute in merito all’efficacia costitutiva della cancellazione delle
società di capitali sembrano doversi applicare anche in materia tributaria, con la
conseguenza che, una volta intervenuta la cancellazione e la conseguente
estinzione del soggetto, anche il soggetto passivo dell’imposta dovrà considerarsi
estinto, comportando la necessità di imputare gli eventuali debiti d’imposta
successivamente emersi ai soci.
202
Per una ricostruzione delle diverse posizioni G AFFU R I , Iva e vendite
fallimentari, Giur. Comm., 1974, I, 125
167
Capitolo II
quegli elementi della fattispecie che si ritiene di accogliere anche
all’interno del sistema dell’imposta.
La prima impostazione, pur se corretta in una prospettiva che
valorizzi l’effettività e lo scopo di produzione e scambio attribuito
all’attività d’impresa, appare in realtà eccessivamente restrittiva e, di
fatto, in contrasto con la disposta imponibilità degli atti liquidatori, a
meno che non si voglia attribuire una diversa qualificazione alle
disposizioni che dispongono l’imponibilità delle vendite liquidatorie.
Si tratterebbe, allora, di rilevare che l’inserimento della liquidazione
nell’ambito dell’attività rilevante non implica una sua equiparazione
all’esercizio d’impresa, ma si giustifica, piuttosto per ragioni di
coerenza e completezza del sistema dell’imposta in riferimento ai
principi che la reggono, in particolare quello di neutralità.
Pertanto, così come autoconsumo e destinazione a finalità estranee
all’impresa costituiscono una disposizione di chiusura del sistema e
vengono assimilate alle operazioni imponibili pur potendo, di fatto,
non presentare le caratteristiche proprie delle cessioni o prestazioni
ordinariamente imponibili 2 0 3 , allo stesso modo potrebbe qualificarsi la
prevista imponibilità della liquidazione.
Posta la diversità di scopo che interromperebbe il nesso tra le
operazioni, impedendo di qualificarle come attività d’impresa, la
norma si giustificherebbe allora come elemento volto a garantire, alla
fine dell’esperienza imprenditoriale, il rispetto della ratio
dell’imposta, in base alla quale ogni ipotesi di fuoriuscita dei beni dal
circuito economico deve essere qualificato come immissione al
consumo e pertanto soggetta all’imposta.
Questa considerazione si ricollega all’idea della chiusura del ciclo
fiscale dei beni d’impresa, per cui l’applicazione dell’imposta si pone
in diretta relazione alla detrazione di cui il soggetto passivo ha potuto
usufruire al momento della destinazione dei beni all’esercizio
dell’impresa. Si prescinderebbe, quindi, in questo caso dalla
203
Perché gratuite o non rivolte al mercato o non ricollegabili all’attività
quanto al nesso teleologico.
168
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
persistenza dell’esercizio d’impresa quale presupposto fondamentale,
ritenendo sufficiente la presenza di un rapporto di inerenza tra oggetto
delle operazioni e precedente attività imponibile 2 0 4 .
Una siffatta impostazione consentirebbe, dunque, di fare salva la
struttura propria dell’imposta, evitando al contempo di costruire
un’artificiale sopravvivenza dell’impresa.
Effetto che sarebbe, però, garantito unicamente dalla valorizzazione
della dichiarazione di cessazione dell’attività prescritta dall’art. 35,
unico elemento che in questo caso sarebbe in grado di fungere da
discrimine tra operazioni imponibili, perché effettuate da un soggetto
passivo, e operazioni al contrario realizzate da un privato e,
conseguentemente, non rilevanti. In assenza di questa valorizzazione si
giungerebbe altrimenti alle medesime conclusioni affermate dalla tesi
che si è precedentemente contestata, in quanto ci si porrebbe sullo
stesso piano di esclusiva rilevanza dei beni e del loro rapporto con la
precedente impresa, senza possibilità di individuare il momento in cui
questo rapporto viene ad interrompersi 2 0 5 .
204
Del resto si ritiene generalmente che tutte le operazioni che abbiano ad
oggetto beni dell’impresa debbano considerarsi ad essa imponibili. In tal senso
B O S E LLO , L’imposta sul valore aggiunto, Bologna, 1979; F E D E LE , La struttura cit.,
165 ss.
205
Tale ricostruzione potrebbe inoltre apparire difficilmente conciliabile con le
posizioni che, come si vedrà in seguito, sono recentemente emerse a livello
comunitario in base alle quali, coerentemente con la necessità di rispettare il
principio di neutralità che caratterizza l’imposta, il soggetto passivo continua a
godere del diritto di detrazione anche con riferimento alle spese sostenute nella
fase conclusiva della vita dell’impresa, pur in assenza di operazioni attive. Se si
affermasse
l’esclusione
totale
della
liquidazione
dalla
vita
dell’impresa,
riconoscere il diritto alla detrazione per l’imposta corrisposta a monte in questa
fase sarebbe difficile, venendo meno, di fatto, la necessità di rispettare una
neutralità che non appare più applicabile, non trattandosi di operazioni che
confluiranno in un’attività destinata al mercato e all’immissione finale al consumo,
perché non più inserite nel circuito economico dell’impresa. Anche in questo caso,
dunque, il diritto alla detrazione potrebbe essere riconosciuto solo in forza del
disposto dell’art. 35 che prevede il mantenimento del regime ordinario, pur in
169
Capitolo II
La seconda interpretazione proposta sembra, invece, valorizzare un
profilo più consono al sistema Iva, concentrando l’attenzione sulla
riconducibilità delle operazioni all’impresa in funzione delle proprie
caratteristiche e non solo del loro oggetto. La possibilità di valutare il
legame delle operazioni effettuate durante la liquidazione su queste
basi appare inoltre più coerente con l’applicabilità del regime
ordinario sancita dal legislatore, comprensiva dunque di imponibilità a
valle e detrazione a monte, permettendo di considerare cessata
l’impresa in coincidenza con l’esaurimento di questo vincolo,
valutabile in termini oggettivi, ma inevitabilmente collegato al ruolo
del soggetto agente e sulla sua capacità di imprimere tale legame.
Di fatto poi, all’interno del sistema dell’imposta e con l’ausilio
delle disposizioni di cui all’art 2, c. 2 n. 5, questa interpretazione
sembra potersi applicare sia ai casi in cui l’impresa venga a cessare in
assenza di liquidazione sia a quelli, in realtà più frequenti, in cui si
verifichi una forma, seppur semplificata, di liquidazione. Permette,
dunque, di individuare una linea interpretativa comune ai diversi tipi
di soggetti passivi, a differenza della precedente che, del tutto coerente
alle ipotesi di assenza di liquidazione, è più difficilmente conciliabile
con i casi in cui questa si svolga.
Certamente, come già si è sottolineato, anche questa impostazione
non va esente da critiche laddove impone un’analisi necessariamente
casistica, che valuti di volta in volta le caratteristiche del singolo caso,
tuttavia sembra consentire un maggiore rispetto delle peculiarità della
fattispecie impresa, cui la disciplina impositiva non deroga, e delle
stesse esigenze del sistema dell’imposta.
b)- Il profilo formale della cessazione: la dichiarazione di
cessazione ed il suo valore
Esaminati gli elementi oggettivi della fase conclusiva dell’impresa,
assenza
del
requisito
soggettivo
e,
dunque,
all’esercizio dell’impresa.
170
di
riferibilità
degli
acquisti
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
occorre ora rivolgere l’attenzione anche a quello che si è definito il
profilo soggettivo dell’impresa, costituito dal ruolo del soggetto
passivo, quale centro d’imputazione dell’attività imponibile. Si tratta,
dunque, di valutare se sia possibile, anche nell’ambito della disciplina
dell’Iva attribuire una qualche rilevanza alla volontà del soggetto e
alle sue manifestazioni, anche indirette, se non in termini di effetti
costitutivi, quanto meno sotto il profilo di indice di cessazione,
valutandone gli effetti sull’esistenza stessa dell’impresa.
Parallelamente a quanto accade nell’ambito del diritto commerciale
con le iscrizioni nel Registro delle imprese, anche nell’ambito
dell’imposta si tende a non attribuire valore alla dichiarazione di
cessazione dell’attività, preferendo, al contrario, riconoscere maggiore
rilevanza al dato fattuale, costituito, come si è visto, dall’esaurimento
dei rapporti giuridici o dalla completa disgregazione della struttura
patrimoniale dell’impresa 2 0 6 . Si ritiene in sostanza che, data la
funzione di mera comunicazione all’Amministrazione tributaria priva
di effetti sostanziali, la dichiarazione di cessazione avrebbe rilievo ai
soli fini di anagrafe tributaria, non influendo né negativamente né
positivamente sul rapporto sostanziale 2 0 7 .
In realtà, le posizioni soprattutto della giurisprudenza oscillano tra
questa interpretazione, che deve ad ogni modo ritenersi
maggioritaria 2 0 8 , e l’opposta, in base alla quale la presentazione della
206
Così gli Autori precedentemente citati: F AN T O ZZ I , Imprenditore cit., 224;
F IC AR I , profilo soggettivo cit., 586; I N T E R D O N AT O , Gli imprenditori cit., 156;
S AM M AR T IN O , Inapplicabilità cit., 426; S T E VAN AT O , Liquidazione cit., 177.
207
In tal senso, Cass., 2 marzo 2004, n. 4234 con nota di CATTELAN G.,
Rimborso e cessazione di attività in assenza di fase liquidatoria, Corr. Trib., 2004,
1906. In essa affermando appunto l’inefficacia sostanziale della dichiarazione, si
nega che la sua mancanza possa influire sul credito d’imposta spettante al
contribuente. Le dichiarazioni rientrerebbero esclusivamente nel novero degli
adempimenti formali, neutrali nei confronti del rapporto sostanziale. In questo
senso CTR Toscana, 10 ottobre 1997, n. 39.
208
Così le più recenti pronunce del giudice di legittimità in materia, a dire il
vero non molto numerose. Si vedano in proposito le già citate Cass., 27 giugno
171
Capitolo II
dichiarazione segnerebbe il momento oltre il quale l’impresa debba
comunque considerarsi cessata con conseguente perdita della
soggettività passiva Iva e distacco definitivo dei beni eventualmente
residui dalla realtà imprenditoriale 2 0 9 .
Il significato attribuibile alla dichiarazione di cessazione e al suo
contenuto si collega inevitabilmente all’interpretazione che si ritiene
di accogliere circa la natura ed il contenuto della fase liquidatoria.
Anche in questo caso sembra dunque necessario valutare la
compatibilità e gli effetti di una tesi che, partendo dal presupposto che
l’attività d’impresa sussista fintanto che sia possibile verificare la
sussistenza del nesso tra le operazioni compiute e l’attività, si colloca
in una posizione intermedia tra quelle appena ricordate, inserendo la
dichiarazione nel contesto generale dell’impresa e non esaminandone
invece gli effetti in senso assoluto.
Ragionare in termini di oggettiva assimilabilità degli atti compiuti a
quelli tipici dell’impresa, valorizzandone anche il legame sotto il
profilo della sistematicità –che dovrebbe integrare il requisito della
professionalità- consente infatti di svolgere un’analisi complessiva che
pone in risalto anche il ruolo del soggetto e l’influenza delle sue scelte
sulla sopravvivenza di questo legame.
2003, n. 10227; Cass., 2 marzo 2004, n. 4234. Fra le pronunce delle corti di merito
si veda CTR Lazio, 20 ottobre 2004, n. 39. Pur se emessa con riferimento ad una
diversa ipotesi –si trattava di un accertamento induttivo ai fini delle imposte sui
redditi giustificato dalla mancata presentazione della dichiarazione- si veda anche
Cass., 3 ottobre 2007, n. 20708 nella quale si afferma che la presentazione delle
dichiarazione di cessazione dell’attività ai fini Iva non può costituire prova
contraria che vinca le presunzioni applicate dall’Amministrazione, nel caso in cui
emergano dati di fatto contrari. Tale pronuncia sembra, infatti, dimostrare
ulteriormente l’orientamento che non attribuisce rilevanza sostanziale al contenuto
della dichiarazione.
209
In questo senso l’orientamento più risalente della Cassazione. Si vedano in
proposito, Cass., 19 gennaio 1996, n. 6198; Cass., 10 maggio 1996, n. 8145; Cass.,
18 giugno 1996, n. 5589. Conforme anche recentemente CTR Sardegna, 22 gennaio
2003, n. 5.
172
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Si è detto, infatti, che il principio di effettività comporta
l’irrilevanza della volontà e delle sue manifestazioni, precisando, però,
che si tratta di un’ininfluenza limitata agli effetti derivanti dallo
svolgimento dell’attività, che non riguarda, dunque, la volontarietà dei
comportamenti.
Da questo dovrebbe potersi desumere che la manifestazione di una
volontà contraria al proseguimento dell’attività d’impresa, comprovata
da elementi oggettivi, quali possono essere appunto la liquidazione e
la cessazione delle operazioni tipiche, dovrebbe essere in grado di
influire sul nesso presente fra gli atti sino al riconoscimento della sua
estinzione.
In ambito tributario, la stessa dottrina che riconosce un ruolo
fondamentale al vincolo di destinazione dei beni ne riconosce
l’innegabile natura di elemento strettamente volontaristico 2 1 0 ,
dimostrabile con ogni mezzo, salvo poi concludere che l’autonomia
tipica dei complessi aziendali organizzati li rende, una volta costituiti,
insensibili alla rottura del legame con l’attività o addirittura con il
soggetto 2 1 1 .
Sembra, invece, che riconosciuta la volontarietà come necessario
presupposto, dovrebbe giungersi a conclusioni opposte, nel senso di
ritenere che una volta manifestata la volontà di cessare l’attività,
210
211
In tal senso S T E VAN AT O , Inizio cit., 169
Così sempre S T E VAN AT O , Inizio cit., 182 secondo il quale le esigenze di
mantenimento del ciclo impositivo sui beni consentirebbe di mantenere costante la
destinazione
all’impresa
e,
dunque,
il
regime
fiscale
anche
nei
casi
di
trasferimento e mutamento della titolarità. In questo senso anche S AM M AR T IN O ,
Profilo cit., 124 ss., secondo il quale la norma di cui all’art 35, che prevede la
possibilità di presentare le dichiarazioni di variazione dei dati relativi all’impresa,
dimostrerebbe l’ininfluenza di elementi quali il soggetto e l’oggetto sull’esistenza
dll’impresa.
Contrario a questa impostazione, nel senso di valorizzare il profilo
soggettivo dell’impresa, per cui il mutamento della titolarità comporterebbe
l’interruzione del ciclo fiscale dei beni con riferimento a quella impresa, M IC C IN E S I ,
Le plusvalenze cit., 202.
173
Capitolo II
soprattutto se con le dovute formalità, il legame prima impresso
dovrebbe ritenersi estinto, salvo prova contraria.
La diversa posizione poggia, come si è visto, su una diversa
ricostruzione del presupposto che inevitabilmente influenza tutto il
ragionamento successivo. L’idea che l’impresa si identifichi a fini
fiscali solo ed esclusivamente con il proprio patrimonio conduce
infatti sia ad una ingiustificata sottovalutazione del profilo
soggettivo 2 1 2 sia ad una dilatazione di fatto artificiale della sua durata,
soprattutto laddove si ritenga che il cambio di destinazione debba
avvenire in modo esplicito e non sia una diretta conseguenza della
cessazione dell’attività.
Questa impostazione porta infatti ad assumere l’impresa, o meglio la
struttura ad essa destinata, come un qualcosa di assoluto, del tutto
autonomo e indenne ai mutamenti che possono intervenire a livello
soggettivo.
Sembra invece più corretto accogliere una nozione di impresa
comprensiva di tutti gli elementi che in realtà la compongono, incluso
il soggetto. Se l’azienda è un complesso di beni organizzati che una
volta creata diviene in parte autonoma dalla vicende soggettive,
potendo benissimo essere trasferita mantenendo inalterate le proprie
caratteristiche, lo stesso non può dirsi dell’impresa che, proprio perché
fenomeno più complesso, non identificabile con l’azienda, ma
soprattutto volontario, è strettamente vincolata al soggetto cui è
imputabile.
Sulla base di tale ricostruzione, diviene inevitabile attribuire un
qualche significato alle manifestazioni, anche indirette, della volontà
di questi, valutando gli effetti delle sue scelte.
È su queste basi che si dovrebbe dunque valorizzare il significato
212
Quasi come se fosse lo stesso patrimonio a divenire soggetto passivo
dell’imposta e non la persona, fisica o giuridica, cui l’impresa è imputata.
L’approccio oggettivo connaturato all’Iva non può ad ogni modo condurre a tali
conclusioni, del resto non necessarie laddove è lo stesso sistema a prevedere norme
di chiusura che mirano a garantirlo dal rischio che alcuni beni giungano al
consumo senza essere tassati.
174
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
della dichiarazione di cessazione dell’attività presentata dal
contribuente.
Pur partendo dalla considerazione incontestabile che essa non
assume il valore di una dichiarazione di volontà, visto il proprio
contenuto
che
è
di
fatto
una
semplice
comunicazione
all’amministrazione tributaria di un fatto già verificatosi e non
presenta alcun elemento che rientri fra quelli riconosciuti negoziali
anche nelle dichiarazioni tributarie 2 1 3 , gli elementi che essa apporta
dovrebbero ad ogni modo considerarsi pienamente efficaci nel senso di
rendere certa l’avvenuta cessazione dell’attività, salva sempre la
possibilità di accertare la continuazione, a questo punto irregolare,
dell’esercizio.
Diverse sono le ragioni che conducono a questa considerazione.
In primo luogo, è dato ritenere che laddove il legislatore stabilisca
un obbligo formale, prevedendo altresì una sanzione in caso di
mancato adempimento 2 1 4 , non si possa privarlo sul piano applicativo di
qualsiasi valore. È lo stesso sistema dell’imposta e del nutrito apparato
di formalità che esso prevede ad imporre di tenere conto di quanto
contenuto in dichiarazioni che sono espressamente disciplinate 2 1 5 .
213
Così Cass., 2 marzo 2004, n. 4234 nella quale si sostiene la natura, ormai
pacifica, di mera dichiarazione di scienza alla quale il legislatore collega
specifico predeterminato effetto, che nella specie va identificato solo nella
cancellazione della partita
214
Stabilisce infatti l’art. 5, c. 6 D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 che
“Chiunque, essendovi obbligato, non presenta una delle dichiarazioni di inizio,
variazione o cessazione di attività, previste nel primo e terzo comma dell'articolo
35 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, o la
presenta
con
indicazioni
incomplete
o
inesatte
tali
da
non
consentire
l'individuazione del contribuente o dei luoghi ove è esercitata l'attività o in cui
sono conservati libri, registri, scritture e documenti è punito con sanzione da €
516,00 a € 2065,00. La sanzione è ridotta ad un quinto del minimo se l'obbligato
provvede alla regolarizzazione della dichiarazione presentata nel termine di
trenta giorni dall'invito dell'ufficio”.
215
Anche sotto il profilo degli effetti. Così, come nel caso di omessa
presentazione sarà onere del contribuente dimostrare l’effettiva cessazione
175
Capitolo II
A questo si aggiungono ragioni di natura sistematica e di
collegamento sia fra le norme impositive sia fra queste ed il resto
dell’ordinamento. Se si guarda infatti alla disciplina della fase
liquidatoria ai fini delle imposte sui redditi è possibile notare come le
disposizioni dell’art. 182 TUIR, nello stabilire il dies a quo del
periodo di liquidazione per l’imprenditore individuale, facciano
espresso riferimento alla data indicata nella dichiarazione di
variazione ex art. 35 Dpr. 633/72 che il contribuente è tenuto a
presentare all’inizio della liquidazione, attribuendo di fatto rilevanza
determinante al contenuto di questa nell’individuazione del momento
in cui diviene applicabile la disciplina specifica per i redditi collegati
alla fase di liquidazione.
Se dunque si attribuisce rilevanza decisiva al contenuto di una
comunicazione che, di fatto, all’interno dell’Iva non ha alcuna
funzione se non quella di mera notifica all’Amministrazione
dell’apertura della fase liquidatoria, non influendo sul regime
applicabile, non si vede come si possa negare la rilevanza di una
dichiarazione che al contrario comporta, ai fini Iva, la cancellazione
della partita Iva e, quindi, almeno formalmente l’uscita del
contribuente dal sistema dell’imposta.
Parimenti, è necessario valutare la portata della dichiarazione di
cessazione in rapporto alle altre formalità previste per l’impresa dalla
disciplina civilistica. Pur nel disporre la semplice possibilità di
presentare la dichiarazione di cessazione ai fini dell’imposta sul valore
aggiunto al Registro delle imprese unitamente alle altre di cui è
richiesta l’iscrizione, è lo stesso art. 35 a creare un parallelo tra le due
discipline, rendendone automatico un confronto. Valutando, dunque, le
modifiche recentemente intervenute e la tendenza verso la
dell’attività e la conseguente perdita della soggettività passiva per contestare
un’eventuale pretesa dell’Amministrazione, nell’ipotesi opposta, di fronte ad una
dichiarazione di cessazione correttamente presentata dovrebbe ritenersi compito
dell’Amministrazione
apportare
elementi
che
dell’esercizio, nonostante la cessazione formale.
176
comprovino
la
continuazione
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
rivalutazione del dato formale che si è descritta in campo civilistico,
sembrerebbe opportuno muoversi nella stessa direzione anche in
ambito tributario, applicando le medesime cautele circa la necessaria
corrispondenza del dichiarato alla situazione reale.
Scelta questa che appare ora quasi obbligata con riguardo alle
società essendo venute a cadere, sul piano sostanziale, le premesse per
l’interpretazione che ne vedeva l’estinzione solo alla completa
definizione dei rapporti giuridici, ammettendone la sopravvivenza alla
cancellazione formale. Ora, dunque, alla cancellazione della società
corrisponde la sua estinzione come soggetto giuridico, fatto che ha
inevitabili conseguenze anche sul piano tributario, venendo meno in
senso assoluto il soggetto passivo e non solo le caratteristiche per
qualificarlo tale 2 1 6 .
Sulla base di queste premesse, ossia del ruolo che la volontà del
soggetto svolge all’interno dell’attività d’impresa e della mancanza di
norme che specifichino il contenuto della liquidazione, ammettendo
pertanto l’ipotesi che essa si chiuda anche prima dell’esaurimento dei
rapporti o dell’alienazione di tutti i beni, sembrerebbe opportuno
valorizzare il ruolo della dichiarazione di cessazione dell’attività quale
elemento che, proprio perché espressione della volontà del soggetto e
216
A dire il vero è difficile che si pongano problemi, anche dal punto di vista
impositivo, con riguardo alle società di capitali la cui liquidazione, disciplinata per
legge, si chiude solitamente o con la cessione totale dei beni o con l’eventuale
assegnazione di questi ai soci, operazioni entrambe imponibili, difficilmente
verificandosi l’ipotesi di beni residui non liquidati.
Qualche perplessità, come si è visto, potrebbe ancora permanere con
riferimento
alle
società
di
persone,
nei
confronti
delle
quali
anche
la
giurisprudenza tributaria accoglieva l’interpretazione sostanziale, continuando a
considerarla
soggetto
passivo
dell’imposta
anche
successivamente
alla
cancellazione, qualora sopravvenissero debiti d’imposta. Infatti, anche con
riguardo alle eventuali pendenze fiscali sopravvenute alla cancellazione si riteneva
che il provvedimento dovesse essere notificato direttamente alla società in persona
dell’ex liquidatore, rivalendosi sul patrimonio dei soci o dello stesso liquidatore
secondo le norme del codice civile
177
Capitolo II
disciplinata dallo stesso legislatore, sia in grado di segnare il limite tra
esercizio dell’impresa ed operazioni successive, tra liquidazione
imponibile e cessioni non più riconducibili all’impresa, pur tenendo
sempre presente la necessità di un’esatta corrispondenza tra dichiarato
e riscontri sul piano sostanziale, prevalenti nel caso in cui dimostrino
una continuazione dell’esercizio dell’impresa, da non ricondursi però
alla mera presenza di beni inutilizzati 2 1 7 .
In questo modo potrebbe garantirsi anche in ambito impositivo il
giusto bilanciamento tra i diversi profili della fattispecie impresa,
unendo l’oggettività casistica alla soggettività formale, valorizzando la
natura ed il ruolo dell’attività nei confronti di entrambi i presupposti
dell’imposta.
c)- L’interruzione del vincolo di destinazione dei beni:
autoconsumo generalizzato o necessità di destinazione estranea
esplicita?
Nelle pagine precedenti si è criticato quell’approccio di parte di
dottrina e giurisprudenza che, portando all’estrema conseguenza il
carattere oggettivo della disciplina tributaria, concentrano l’analisi
volta alla determinazione del momento di cessazione dell’impresa sulla
sola esistenza di un vincolo di destinazione dei beni organizzati a
formarne la struttura produttivo-patrimoniale.
Si è, infatti, sottolineata l’opportunità di allargare la prospettiva
217
Tale conclusione sembra del resto compatibile sia con il valore presuntivo
che la giurisprudenza riconosce agli adempimenti formali in campo civilistico, sia
con la considerazione che nel caso di contestazione della cessazione dovrebbe
comunque essere l’Amministrazione a fondare su evidenze contrarie la pretesa
impositiva avanzata, escluso forse il caso in cui si procedesse ad accertamento
induttivo in caso di omessa presentazione della dichiarazione Iva da parte del
contribuente. In quel caso, infatti, la semplice dichiarazione di cessazione non
potrebbe avere l’effetto di prova contraria sufficiente a vincere la presunzione a
favore dell’Amministrazione, ma dovrebbe essere integrata anche da riscontri
oggettivi.
178
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
adottata fino a coinvolgere tutti gli elementi costitutivi della
fattispecie impresa, non ritenendo di fatto accettabile la conclusione in
quella sede raggiunta per cui vi sarebbe sopravvivenza dell’impresa, e
quindi continuazione della soggettività passiva, sino al momento in cui
persista un gruppo di beni organizzati o inerenti all’attività con cui
sarebbe anche solo potenzialmente possibile riprendere l’esercizio
dell’attività.
L’affermazione dell’insufficienza di questa tesi per l’individuazione
del momento di cessazione non implica, pur tuttavia, la svalutazione
del profilo da essa esaminato, il quale sicuramente riveste un ruolo
importante nell’ambito della disciplina tributaria.
Quando si guarda al sistema dell’Iva, il collegamento dei beni
oggetto delle operazioni con l’esercizio dell’impresa, pur non
rilevando ai fini dell’identificazione dei presupposti dell’imposta,
assume sicuramente una determinata importanza con riferimento al suo
meccanismo applicativo, laddove garantisce il riconoscimento del
diritto alla detrazione 2 1 8 .
Posto, dunque, che la disciplina Iva parla di operazioni imponibili,
di fatto trascurando natura o tipologia dei beni che ne sono oggetto 2 1 9 ,
non si può comunque non tenere conto, soprattutto con riferimento alle
fase terminale della vita dell’impresa, del profilo dell’inerenza degli
stessi all’attività, valutandone anche quello che si è definito vincolo di
destinazione all’impresa, in considerazione delle già ricordate esigenze
di chiusura del ciclo fiscale dei beni che con l’impresa sono in qualche
modo stati collegati, divenendo dunque soggetti al regime impositivo
tipico di questa.
È per questo motivo che le trattazioni susseguitesi nel tempo si sono
218
Dispone infatti l’art. 19 Dpr. 633/1972 che “è detraibile dall’ammontare
dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o
dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai
beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa.”
219
Sono infatti le stesse norme che specificano, ad esempio, con riguardo alle
cessioni imponibili che si considerano tali quelle che abbiano ad oggetto beni di
ogni genere, salve le esclusioni espressamente previste.
179
Capitolo II
concentrate non tanto sull’individuazione di un effettivo punto di
distinzione tra esercizio dell’impresa e sfera privata dell’agente una
volta cessato questo, quanto sull’individuazione del trattamento fiscale
degli
eventuali
beni
residui,
rimasti
nella
disponibilità
dell’imprenditore –in particolare individuale- cessato, lasciando
emerge posizioni spesso differenti sia in dottrina che in
giurisprudenza.
La norma che, in particolare, è stata oggetto di diverse
interpretazioni è l’art. 2, n.5 laddove sancisce l’assimilazione della
destinazione dei beni all’uso personale dell’imprenditore o della sua
famiglia e, in ogni caso, la destinazione a finalità estranee all’impresa
alle ordinarie cessioni di beni imponibili indicate nella medesima
norma.
Come si è detto, essa ha il valore di norma di chiusura volta ad
assoggettare all’imposta operazioni che secondo i canoni ordinari non
lo sarebbero, giustificata dalla necessità, da un lato, che i beni che
hanno dato diritto alla detrazione non giungano sul mercato senza aver
scontato l’imposta e, dall’altro, che vi sia una parità di trattamento tra
l’imprenditore che preleva un bene prima appartenuto all’impresa,
libero, quindi, dall’imposta in virtù della detrazione, ed il consumatore
finale che, al contrario, resterebbe inciso dall’imposta 2 2 0 .
Portata e ratio della disposizione sono in realtà molto chiare, non
comportano particolari problemi interpretativi, se non, forse, sotto il
profilo dell’individuazione dell’evento effettivamente in grado di
modificare la destinazione del bene e rendere, conseguentemente,
obbligatoria l’applicazione dell’imposta.
In particolare, posto che la norma richiama espressamente il caso
220
Sulla questa funzione delle norme che dispongono l’imposizione per
autoconsumo c’è concordia in dottrina. In questo senso ci vedano ad esempio,
C AR P E N T IE R I , voce Autoconsumo cit., F AN T O Z Z I , Imprenditore cit., 235; M AN DÒ M AN DÒ , Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2005, 23 e ss;
M IC C IN E S I , Le plusvalenze cit., 159 ss.; S T E V AN AT O , La cessazione dell’impresa nel
diritto tributario, in A M AT U C C I , Gli aspetti fiscali dell’impresa in Trattato di diritto
commerciale a cura di Buonocore, vol. 1.8, Torino, 2003, 298;
180
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
della cessazione dell’impresa, si è cercato di valutare se la
destinazione extra imprenditoriale e l’autoconsumo siano effetto
immediato della cessazione o vi sia, al contrario, la necessità di
un’interruzione esplicita del vincolo, attraverso l’attribuzione di una
diversa funzione al bene 2 2 1 .
Secondo l’interpretazione esposta precedentemente, che sostiene
l’imponibilità di qualsiasi attività liquidatoria che riguardi i beni
dell’impresa anche successivamente alla cessazione formale
dell’attività, vi sarebbe la necessità di un cambiamento esplicito di
funzione del bene, onde segnarne il distacco dall’impresa. Ciò
implicherebbe, pertanto, la non tassazione di quei beni che, non
assegnati per uso personale o non imprenditoriale, restassero
221
Le indicazioni della giurisprudenza in merito non sono univoche. Da un lato,
infatti, l’orientamento pressoché costante della Commissione Tributaria Centrale
era nel senso della necessità di una destinazione esplicita, in assenza della quale
non poteva esserci imposizione. In questo senso si vedano ad esempio CTC, 4
febbraio 1992, n. 888; CTC, 22 aprile 1998, n. 2097. La stessa Commissione
Centrale si era però precedentemente espressa in senso contrario in CTC, 12 marzo
1986, n. 6972; CTC, 5 aprile 1995, n. 1378 e CTC, 24 febbraio 1998, n. 1010. In
queste due ultime in particolare la Commissione poneva in relazione due diversi
criteri, il collegamento tra le operazione e l’attività, da un lato, e la cessazione
dell’impresa, dall’altro. Si riteneva in sostanza che se le cessioni successive alla
formale cessazione fossero in grado, anche per una questione temporale, di
mostrare un collegamento con la precedente attività d’impresa allora l’Iva si
sarebbe dovuta applicare al momento della cessione, considerata ancora imponibile
quale vendita liquidatoria. Ove però tale collegamento non sussistesse ed il
periodo intercorso tra cessazione e alienazione fosse tale da escludere qualsiasi
riconducibilità alla precedente attività, se ne doveva desumere il passaggio in
autoconsumo dei beni residui, con applicazione dell’imposta al momento della
cessazione.
Nello stesso senso sembrano muovere alcune pronunce della Corte di
Cassazione, che individuano nella cessazione la fonte dell’imposizione per
autoconsumo, attribuendo un ruolo significativo alla dichiarazione di cessazione
quale limite della fase liquidatoria imponibile. In questo senso Cass., 19 gennaio
1996, n. 6198; Cass., 10 maggio 1996, n. 8145; Cass., 18 giugno 1996, n. 5589.
181
Capitolo II
inutilizzati fino al momento della cessione o della destinazione ad un
uso differente 2 2 2 .
Sul fronte opposto si collocano, invece, quelle opinioni che vedono
nella cessazione dell’attività un elemento sufficiente all’applicazione
della norma a quei beni che non vengano ceduti in fase di liquidazione.
La cessazione dell’attività d’impresa avrebbe dunque di per sé sola la
forza di interrompere il nesso tra beni e precedente destinazione 2 2 3 , in
considerazione del fatto che, in assenza dell’impresa apparirebbe
difficile individuare una costanza di destinazione, non ritenendo
questa assoluta ed indipendente dalle vicende che interessano
l’elemento di riferimento. Determinante torna a questo punto ad essere
il momento in cui si ritiene cessata l’impresa, se in coincidenza con
l’abbandono dell’esercizio tipico o successivamente, esaurite le
operazioni ad esso comunque riconducibili.
A favore di un’applicazione automatica dell’imposta al momento
della cessazione sembrano deporre in primo luogo le stesse norme del
decreto Iva 224 . Da un lato, infatti, è lo stesso art. 2 a sancire la
222
Così si esprime chiaramente S AM M AR T IN O , Inapplicabilità cit., 425 secondo il
quale “Posto che la mancata vendita non può indurre a far presumere l’avvenuta
destinazione, può affermarsi che, finchè esistono dei beni in attesa di esser
venduti e non utilizzati per le finalità di cui all’art. 2, n.5 si ha esercizio
d’impresa, non si verifica la cessazione e non decorre il termine per la
presentazione della dichiarazione finale”
223
In proposito, C AR P E N T IE R I , Autoconsumo cit., 7 la quale, pur se in tema di
imposte dirette, sostiene che “i beni (residui) alla cessazione dell’attività
d’impresa sono inevitabilmente destinati a passare dalla sfera dell’impresa alla
sfera privata dell’imprenditore e dunque divenire sostanzialmente oggetto di
autoconsumo, non potendo rimanere a tempo indeterminato iscritti nell’inventario
al solo fine di rinviarne l’emersione delle plusvalenze latenti”.
224
In questo senso anche T AS S AN I , Cessazione cit, secondo cui l’attività di
liquidazione deve non solo avere ad oggetto un bene aziendale, ma anche
manifestarsi con aspetti tali da poterne individuare la connessione e la continuità
con un precedente esercizio imprenditoriale di gestione e, in definitiva, in grado
di farne emergere la natura di attività d’impresa. Ne deriva che, ove un simile
collegamento non sia riconoscibile, i beni aziendali sconteranno l’imposta al
182
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
possibilità che si verifichi autoconsumo in caso di cessazione
dell’attività, ritenendo evidentemente che questo solo fatto sia in grado
di spezzare il legame tra bene ed impresa.
Dall’altro, l’art. 35, nell’indicare il contenuto dell’ultima
dichiarazione annuale presentata in caso di cessazione, prescrive
esplicitamente l’inserimento di tali operazioni. Se si considera che la
dichiarazione verrà presentata successivamente alla chiusura della
liquidazione, quando si presume pertanto che l’imprenditore cessato
abbia già disposto circa la sorte dei beni facenti capo all’impresa, si
può ritenere che il legislatore volesse ritenere automatica
l’applicazione dell’imposta per autoconsumo con riferimento a quei
beni rimasti nella disponibilità del soggetto una volta esaurita la
liquidazione, senza la necessità di dimostrare quale sia la funzione ad
essi effettivamente attribuita, nonostante l’uso del termine
destinazione, che secondo i sostenitori della prima interpretazione
implicherebbe un’attività del soggetto.
Del resto, la possibilità di applicare l’imposta per destinazione ad
uso personale rappresenta un’ipotesi di imponibilità pur in assenza di
modifiche nella titolarità del bene, che semplicemente passa dalla sfera
dell’impresa a quella privata del medesimo soggetto, fatto difficile da
dimostrarsi soprattutto con riguardo alle persone fisiche, ma che
dovrebbe discendere automaticamente dalla fine dell’esperienza
imprenditoriale del soggetto 2 2 5 .
Inoltre, vista la funzione della norma esaminata, non apparirebbe
con essa compatibile la possibilità di considerare ancora riferibili
momento della cessazione dell’attività gestoria dell’impresa (in quanto ultimo
momento dell’attività economica) e le successive alienazioni saranno estranee alla
sfera di applicazione dell’Iva”
225
In questo senso chiarisce F E D E LE , Considerazioni generali sulla disciplina
fiscale degli atti e delle vicende dell’impresa, in AA.VV. Il reddito d’impresa nel
nuovo Testo Unico, Padova 1988, 782 che “la destinazione al consumo familiare o
personale dell’imprenditore, pur non implicando alcun trasferimento, costituisce
una diretta realizzazione del fine proprio dell’impresa attraverso l’immediata
appropriazione dei risultati dell’attività alla sfera personale dell’imprenditore”
183
Capitolo II
all’impresa ormai estinta beni non più utilizzati né a quello né ad altro
fine. Se si ritiene valida l’asserita necessità di chiusura del ciclo
fiscale dei beni, anche al fine di evitare che i beni giungano al
consumo detassati e tutelare il meccanismo tipico dell’Iva, in
particolare con riferimento a beni che inizialmente hanno garantito il
diritto alla detrazione, non si può accettare l’idea che beni, di fatto
distaccati dall’attività economica 2 2 6 , ancora nella disponibilità del
soggetto, pur se inutilizzati, vadano esenti dall’imposizione
unicamente per questo motivo, potendo, potenzialmente restare tali
all’infinito.
Si ritiene pertanto che un’applicazione puntuale della norma in
questione sarebbe in grado di garantire una maggiore certezza nella
disciplina della fase estintiva dell’impresa, tutelando al contempo
soggetto passivo e struttura dell’imposta.
Da un lato, infatti, si eviterebbe il prolungamento artificiale della
vita dell’impresa, anche all’insaputa del soggetto passivo, evitando in
tal modo il rischio di conseguenze quali la negazione del rimborso, il
recupero dell’imposta da parte dell’Amministrazione, applicata ad
operazioni non più ritenute imponibili dal contribuente o l’irrogazione
di sanzioni per il mancato adempimento di obblighi formali non più
ritenuti necessari. Dall’altro, si garantirebbe l’assoggettamento ad
imposta dei beni al momento della loro uscita dal circuito economico,
eliminando ab origine la possibilità di salti d’imposta o definitiva non
tassazione 2 2 7 . Questa interpretazione permetterebbe, altresì, di
226
Nonostante l’oggettiva autonomia che gli organismi aziendali vengono ad
assumere, non si ritiene accettabile l’idea di un vincolo di destinazione perpetuo,
soprattutto perché sembra abbastanza lineare il ragionamento per cui, posta la
differenza ontologica tra impresa e beni ad essa funzionali, venuta meno l’impresa,
non possa più esistere qualcosa ad essa destinato, venendo meno il primo termine
di riferimento.
227
Secondo S T E VAN AT O , Liquidazione dell’impresa individuale e operazioni
successive alla cessazione dell’attività: è possibile far rivivere il regime Iva
precedente?, in Rass. Trib., 1997, II, 169 il passaggio in autoconsumo dei beni
residui potrebbe fortemente penalizzare il contribuente nel caso di una successiva
184
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
valorizzare, unitamente all’applicazione dell’imposta dovuta ad
autoconsumo, il ruolo stesso della cessazione all’interno del sistema
dell’imposta, non solo come fatto che implica la fuoriuscita del
soggetto e dell’attività dal sistema Iva, ma anche come fenomeno
affine all’attività imponibile di cui segna l’estinzione.
Accogliendo dunque l’interpretazione già proposta, che unisce la
considerazione del dato oggettivo con la valorizzazione del profilo
soggettivo, costituito dalla volontà del soggetto passivo e delle
manifestazioni di questa, dovrebbe ipotizzarsi, come fa parte della
giurisprudenza, l’applicazione dell’imposta in autoconsumo al
momento della cessazione formale dell’attività non contraddetta da
elementi di fatto di segno opposto, da intendersi quale momento in cui,
interrotto anche per volontà del soggetto il collegamento tra beni ed
attività, così come tra operazioni ed attività, si estingue l’impresa
rilevante ai fini dell’imposta con conseguente definitiva perdita della
soggettività passiva.
2.1.4- Cessione e affitto d’azienda: si verifica la cessazione
dell’impresa?
Ulteriori ipotesi che meritano attenzione, seppur brevemente, sono
quelle del trasferimento dell’azienda o della costituzione su di essa di
un diritto di godimento attraverso l’affitto o l’istituzione di un
usufrutto, molto frequenti anche nella fase liquidatoria dell’impresa.
La particolarità di questi casi consiste nella separazione che si
verifica tra struttura organizzativa dell’impresa e soggetto
cessione soggetta ad esempio ad imposta di registro.
Questo perché, pur non configurandosi una doppia imposizione stante la
diversità dei presupposti costituita da due diversi trasferimenti del bene, tuttavia di
fatto lo stesso bene sconterebbe per due volte l’imposizione. Per questo motivo si
riterrebbe più opportuna un’interpretazione che vedesse in queste ipotesi un
mantenimento della soggettività passiva Iva pur in presenza di attività quiescente,
considerando
l’esercizio
dell’impresa
non
temporaneamente sospeso.
185
cessato,
ma
semplicemente
Capitolo II
imprenditore, partizione che impone la necessità di valutare se
l’impresa sopravviva, e dunque il soggetto possa ancora qualificarsi
come imprenditore, o se il trasferimento dell’azienda costituisca un
caso di cessazione dell’impresa.
Per tentare di individuare una soluzione è necessario riproporre
brevemente alcune delle considerazioni già esposte circa il rapporto tra
impresa e organizzazione e tra organizzazione in senso lato e l’azienda
definita all’art. 2555 c.c.
Descrivendo le caratteristiche del fenomeno imprenditoriale si sono
esposte le due posizioni contrastanti che vedono, da un lato, chi
equipara integralmente impresa e azienda, facendo di quest’ultima
l’essenza stessa dell’impresa e, dall’altro, chi, ponendo in risalto
l’elemento dinamico costituito dall’attività svolta dall’impresa,
assegna all’azienda un ruolo strumentale allo svolgimento dell’attività,
distinguendo pertanto i due piani.
Deve inoltre ricordarsi come le più recenti riflessioni in tema di
organizzazione, superato il dibattito tra auto ed etero organizzazione,
abbiano posto in luce come il requisito sia integrato anche in presenza
di un livello minimo di organizzazione costituito indifferentemente da
beni, lavoro o solo investimento di capitale 2 2 8 .
Poste queste premesse si può tentare di esaminare l’effetto che il
trasferimento del complesso aziendale può avere sulla vita
dell’impresa, orientandosi però sull’esame del caso più problematico,
ovvero quello dell’imprenditore che disponga di un’unica azienda.
Accogliendo la prima tesi esposta della coessenzialità di impresa e
azienda, cui può altresì ricollegarsi l’opinione che individua nella
completa disgregazione aziendale il più sicuro indice di cessazione
dell’impresa, le diverse ipotesi di cessione, affitto o usufrutto
dovrebbero potersi ricondurre ad unità circa l’effetto estintivo
dell’impresa con conseguente perdita della qualità di imprenditore in
capo al soggetto cedente-locatore. I motivi di questa conclusione
poggiano sulla considerazione che, laddove si considerino esistenza ed
228
Supra par. 1.3 – a, nella Sezione I di questo capitolo.
186
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
utilizzazione dell’azienda indispensabili per la sussistenza del
fenomeno impresa, la perdita della disponibilità, pur se temporanea e
senza mutamento di titolarità della stessa, finisce per costituire un
inequivocabile indice di cessazione. Anche laddove l’azienda tornasse
nella disponibilità del precedente titolare la ripresa dell’esercizio
dovrebbe segnare l’inizio della nuova impresa e non la continuazione
della precedente.
Diverse sembrano invece le conclusioni raggiungibili qualora si
sottolinei la valenza meramente strumentale dell’azienda, ritenendola
di per sé non indispensabile all’esistenza dell’impresa, nel caso in cui
il necessario requisito dell’organizzazione venga soddisfatto in altro
modo. In questo caso è necessario distinguere le diverse ipotesi di
cessione definitiva o semplice concessione in godimento cui possa fare
seguito una ripresa dell’attività temporaneamente interrotta.
Nel caso della cessione potrà dunque aversi cessazione dell’impresa
nel caso in cui l’attività cui l’azienda era strumentale non venga in
alcun modo proseguita e la cessione del complesso aziendale possa,
dunque, qualificarsi come un atto di liquidazione volontario
dell’imprenditore.
Diverso il caso in cui, ceduta l’azienda, il cedente prosegua la
propria attività economica, pur se diversamente organizzata. Come
ricordano dottrina e giurisprudenza, qualora la persona che esercita
l’attività economica resti la medesima, pur modificandosi alcuni
elementi della stessa, non potrà aversi né cessazione né inizio di una
nuova impresa, essendo questa ad ogni modo vincolata
all’imprenditore 2 2 9 . Del resto, come sostenuto circa la concreta
229
Sull’ininfluenza della modifica dell’oggetto o di elemento quali la ditta,
B U ON O C O R E , L’impresa cit., 69. In giurisprudenza le pronunce in tal senso sono
risalenti, tuttavia non sembrano rinvenibili sentenze in senso contrario, se non
quelle, di cui si discuterà in seguito, in materia tributaria. Si veda ad esempio,
Cass., 22 gennaio 1983, n. 623 che si esprime in questi termini “ La cessione di
azienda, così come l'affitto di essa, non comporta il passaggio al cessionario o
all'affittuario,
assieme
all'azienda,
della
relativa
impresa,
ma
determina
normalmente una soluzione di continuità tra la precedente e la successiva
187
Capitolo II
rilevanza della disgregazione aziendale come indice di cessazione, la
cessione dell’azienda può non avere un significato univoco, né di per
sé comportare automaticamente la perdita della qualifica di
imprenditore, anche se unica 2 3 0 .
Le stesse considerazioni potranno svolgersi con riguardo al caso
dell’affitto. In questa ipotesi, anzi, sembra corretto poter parlare di
interruzione, o meglio sospensione, dell’esercizio dell’attività da parte
dell’imprenditore, ma non di cessazione. L’impresa interrotta potrà
infatti essere ripresa al termine del contratto di affitto, senza che sia
necessario, come suggerito da alcuno 2 3 1 , che essa venga cancellata dal
Registro delle imprese all’inizio del contratto e nuovamente iscritta
quando l’azienda torni nella disponibilità dell’imprenditore.
Sembra, pertanto, di poter desumere che le vicende dell’azienda non
debbano di per sé essere considerate quale caso di cessazione
dell’impresa che dovrà essere verificato, anche in queste ipotesi,
secondo i criteri ordinari, guardando, da un lato, agli elementi
oggettivi legati all’esercizio dell’attività, alla sussistenza dei necessari
requisiti ed al complesso degli altri fattori, non strettamente oggettivi,
che compongono la fattispecie.
Per
quanto
riguarda
il
profilo
impositivo,
accogliendo
l’interpretazione che si è definita maggioritaria sulla centralità
dell’aspetto strutturale e patrimoniale per l’esistenza dell’impresa, la
giurisprudenza riconosce generalmente una valenza estintiva ai
trasferimenti o alla concessione in affitto dell’azienda, tranne nei casi
in cui l’impresa non disponga di più complessi organizzati o la parte
trasferita non costituisca che un ramo di un’azienda più ampia 2 3 2 .
gestione, che deve ritenersi del tutto distinta ed indipendente dalla prima, in
quanto l'impresa, quale attività economica organizzata per la gestione di
un'azienda (art. 2555 cod. civ.), è inseparabile dall'imprenditore”
230
In questo senso
231
In tal senso,
232
GA ZZ O N I ,
Manuale di diritto privato, Napoli 2004, 1323
LU B R AN O D I SC O R P AN IE LLO ,
Cessazione cit., 69 ss.
In tal senso ad esempio più recenti CTC, 25 marzo 2003, n. 2489 che
espressamente afferma che “salvo che l'affitto non avvenga in relazione ad attività
imprenditoriale che continua ad essere esercitata, non può che intendersi come
188
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Visto il ruolo fondamentale che si attribuisce alla presenza di beni
destinati all’esercizio dell’attività, si ritiene infatti che l’affitto o la
cessione dell’unica azienda facciano perdere la qualità di imprenditore
al soggetto, comportando automaticamente una diversa qualificazione
dei redditi percepiti e la perdita della soggettività passiva Iva, a meno
che la cessione o la locazione non rientrino nell’esercizio di un’attività
più estesa che consentirebbe allora di mantenere lo status di
imprenditore senza alterare il regime fiscale applicabile.
Come già esposto precedentemente, non si ritiene che questa tesi
debba essere accolta, sostanzialmente per le stesse ragioni che
conducono a negare l’equivalenza tra cessazione dell’esercizio e
chiusura effettiva della liquidazione.
Se dunque è corretta l’impostazione che distingue, anche in ambito
impositivo, i due piani costituiti da esercizio dell’attività e struttura ad
esso eventualmente funzionale, dovrebbe derivarne la considerazione
che anche le ipotesi che interessino l’intero complesso aziendale non
implichino necessariamente la cessazione dell’impresa.
Essa dovrà dunque valutarsi concretamente verificando se, di fatto,
il soggetto continui l’esercizio dell’impresa diversamente organizzata
mantenendo la soggettività passiva Iva, questo sia nel caso della
cessione che nel caso dell’affitto. Si ritiene, infatti, non sia questione
di valutare se oggetto del contratto di affitto o della cessione sia un
ramo d’azienda –secondo il ragionamento della giurisprudenza- quanto
piuttosto di verificare se il cedente/locatore continui ad ogni modo ad
dismissione della medesima, che invece viene "trasferita", per così dire, in capo
al cessionario” arrivando addirittura ad equiparare affitto dell’unica azienda e
cessione della medesima. Sempre sulla perdita della qualità d’imprenditore con
consequenziali effetti sul regime impositivo si vedano anche Cass., 29 marzo 2006,
n. 7292 e Cass., 7 novembre 2005, n. 21583 in materia di imposte dirette.
Il problema non dovrebbe in realtà porsi con riguardo alle società, la cui
soggettività passiva, in forza della presunzione contenuta nell’art. 4, viene
pacificamente riconosciuta anche in assenza di esercizio effettivo e per qualsiasi
tipo di operazione, sino alla loro estinzione. Così I N T E R DO N AT O , Gli imprenditori
cit., 157 ss
189
Capitolo II
esercitare la propria impresa anche in assenza dell’azienda trasferita 2 3 3 .
La sussistenza dell’impresa in queste ipotesi necessariamente
dovrebbe influire anche sull’applicabilità dell’Iva a queste operazioni.
Per quanto riguarda l’ipotesi della cessione, in realtà sono le stesse
norme ad escluderne l’imponibilità, con la conseguenza che in questo
caso può aversi un’incertezza circa la presenza del presupposto
soggettivo, ma la certa mancanza di quello oggettivo 2 3 4 .
Più controversa è l’esclusione dell’affitto che dovrebbe potersi
qualificare come prestazione di servizi al pari delle altre locazioni,
dovendo pertanto assoggettarsi ad Iva e non ad Imposta di Registro.
Sussistendo pacificamente il presupposto oggettivo 235 , l’aspetto
contestato in questa ipotesi è la presenza del requisito soggettivo,
233
Del resto, per potersi parlare di cessione d’azienda non è detto che
l’imprenditore cedente debba spogliarsi di tutto, ma è sufficiente che il complesso
trasferito sia in grado di proseguire lo svolgimento dell’attività in modo
autosufficiente. Così, secondo opinione costante della stessa giurisprudenza, è
possibile che oggetto del contratto sia un’azienda, pur se non comprende rapporti
finanziari o commerciali. In questo senso Cass., 19 novembre 2007, n. 23857;
Cass., 4 maggio 2007, n. 10273; Cass., 30 maggio 2005, n. 11457; Cass., 25
gennaio 2002, n. 897. Sulla base di questa interpretazione è ben possibile
ipotizzare che pur avendosi trasferimento dell’azienda l’imprenditore prosegua
nell’esercizio dell’attività.
234
È infatti lo stesso art. 2, c. 3, lett. b ad escludere dal novero delle cessioni
imponibili cessioni
o conferimenti in società che abbiano ad oggetto aziende o
rami d’azienda.
235
Il problema circa la qualificazione dell’affitto concerne la possibilità di
considerarlo operazione imponibile o, al contrario, mero godimento di un bene di
proprietà. Sembra in realtà che, guardando alla disciplina comunitaria e al
contenuto lì contemplato per l’attività economica, l’affitto dell’azienda dovrebbe
potersi considerare quale forma di sfruttamento di un bene che assicuri la
percezione di introiti potenzialmente stabili, perlomeno per tutta la durata del
contratto. Per una ricostruzione delle diverse posizioni F IC AR I , Il profilo cit., 587 e
ss.;
L AN GE LLA ,
L’affitto
dell’unica
azienda
dell’imprenditore
individuale
nell’imposizione indiretta., Il Fisco, 2003, 23, 3590 ss. In proposito anche
MICCINESI M., Aspetti fiscali dell’affitto d’azienda in materia di imposte sui
redditi, in Giur. Comm., 1984, I, 948
190
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
ritenuto mancante dalla giurisprudenza maggioritaria che sostiene la
perdita della qualità di imprenditore da parte del soggetto che affitti
l’unica azienda.
Nel caso in cui l’esercizio non continui in altre forme, sembrerebbe
al contrario più giusto sostenere che in questi casi si verifichi una
semplice sospensione dell’esercizio, privo di effetti estintivi
sull’impresa e sulla soggettività passiva 2 3 6 , quanto meno per tutta la
durata del contratto, al cui termine dovrà valutarsi l’eventuale ripresa
o la definitiva cessazione sulla base del comportamento concretamente
tenuto dal soggetto 2 3 7 , qualificandosi in ogni caso l’esercizio
successivo come continuazione dell’impresa precedente e non come
nuova impresa.
236
Alla stessa conclusione giunge anche chi sostiene che la cessazione non
avvenga sino alla destinazione estranea all’impresa di tutti i beni, pur se
argomentando in modo differente. Nell’ambito di questa interpretazione viene
infatti proposta un’idea di destinazione oggettiva all’impresa che rimarrebbe tale
anche nel caso del trasferimento a titolo gratuito o dell’affitto, mutando di fatto
solo il soggetto che dell’azienda si serve, non la sua strumentalità all’esercizio di
un’attività d’impresa. In questo senso S T E V AN AT O , Inizio cit., 188 ss ; I D EM , La
cessazione dell’impresa cit., 317 ss
237
In questo senso M IC C IN E S I , Le plusvalenze cit., 169 ss. che svolge le stesse
considerazioni
con
riguardo
al
tema
della
possibilità
di
emersione
delle
plusvalenze relative all’azienda nel caso dell’affitto e della qualificazione dei
redditi da esso derivanti. Egli nega infatti l’insorgere delle plusvalenze, che le
stesse norme ricollegano alla successiva vendita dell’azienda, sostenendo che non
vi sia cessazione dell’impresa, ma semplice sospensione sino al termine del
contratto d’affitto. Egli sostiene, inoltre, contrariamente a quanto stabilito dal Tuir
che li qualifica come redditi diversi, l’inclusione dei canoni fra i redditi d’impresa,
proprio in virtù della sopravvivenza dell’impresa anche nel corso dell’affitto. In
materia di Iva, anche l’amministrazione appare favorevole all’idea della semplice
sospensione dell’esercizio, disponendo che in questi casi il contribuente mantenga
comunque il proprio numero di partita Iva, pur non essendo soggetto, in caso di
mancato esercizio dell’attività, al rispetto degli adempimenti formali ai fini
dell’imposta, obblighi che dovranno ritenersi nuovamente attivi una volta cessato
l’affitto e tornato nella disponibilità dell’azienda. Si vedano, ad esempio, CM. 29
settembre 2006, n. 30/E e CM. 30 maggio 1995, n. 154/E-III- 6-542.
191
Capitolo II
La sospensione dell’esercizio dovrebbe pertanto rendere l’affitto
dell’azienda non imponibile ai fini dell’imposta, perché di fatto non
riconducibile all’attività economica; diverso invece sarebbe il caso in
cui il locatore continuasse in qualche modo l’esercizio dell’attività pur
senza l’ausilio dell’azienda: in queste ipotesi non si avrebbe alcuna
sospensione e, quindi, sia l’affitto che le altre operazioni compiute
dovrebbero ricondursi nell’ambito dell’imposta, sia sul lato attivo che
su quello passivo.
2.1.5 I possibili effetti dell’incertezza riguardo al momento di
cessazione sull’applicazione dell’imposta
L’incertezza che investe l’individuazione del momento di
cessazione, influendo sulla stessa sussistenza dei presupposti dell’Iva,
interessa inevitabilmente anche il piano applicativo dell’imposta,
laddove ritenendo ancora integrato il presupposto soggettivo si
pretenda di applicare il regime Iva a situazioni quanto meno dubbie.
Il primo profilo che viene ad essere interessato è il diritto al
rimborso attribuito al contribuente una volta cessata l’attività.
Come si è visto, l’art. 30 2 3 8 prevede il rimborso come unica modalità
di soddisfazione del credito tributario spettante al contribuente in caso
di cessazione, scelta obbligata dal fatto che, cessando l’impresa ed
uscendo dal circuito applicativo dell’imposta, non sarebbe più
possibile portarlo in detrazione nelle dichiarazioni successive.
Diritto al rimborso e detrazione si pongono all’interno dell’imposta
su due piani differenti, ma altrettanto importanti per il corretto
funzionamento della struttura dell’Iva e del meccanismo su cui essa si
238
Il quale dispone che “Se dalla dichiarazione annuale risulta che l'ammontare
detraibile di cui al n. 3) dell'articolo 28, aumentato delle somme versate
mensilmente, è superiore a quello dell'imposta relativa alle operazioni imponibili
di cui al n. 1) dello stesso articolo, il contribuente ha diritto di computare
l'importo dell'eccedenza in detrazione nell'anno successivo, ovvero di chiedere il
rimborso nelle ipotesi di cui ai commi successivi e comunque in caso di cessazione
di attività”.
192
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
fonda.
Questo perché, una volta determinato l’ammontare dovuto attraverso
la detrazione dell’imposta versata a monte da quella a valle, il
recupero dell’eventuale eccedenza risultante a favore del contribuente
si pone come strumento ulteriore per garantire, attraverso la
riscossione di un credito, la neutralità del sistema 2 3 9 . Dunque, posta
l’intangibilità della detrazione come strumento per la determinazione
dell’imposta, rimborso e riporto dell’eccedenza a credito per l’anno
successivo si pongono come mezzi alternativi di soddisfazione di tale
credito, la cui scelta è lasciata al contribuente, pur nei limiti stabiliti
sanciti dal legislatore.
Assegnata questa funzione al recupero dell’eccedenza versata, la sua
importanza inevitabilmente si accresce in un caso come quello della
cessazione per cui non è possibile tale scelta alternativa e la via del
rimborso risulta dunque obbligata.
Sulla base di questa constatazione sono numerose le pronunce
giurisprudenziali che riconoscono valore fondamentale all’espressione
“comunque in caso di cessazione” contenuta nell’art. 30, affermando
che in questi casi il legislatore riconosce al contribuente un diritto
incondizionato cui non sono applicabili né la condizione della presenza
di somme detraibili nelle due dichiarazioni precedenti 240 né i termini
239
Sul rapporto tra detrazione e rimborso dell’eccedenza,
B AS ILA VE C C H IA ,
situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al
rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, 2000; M IC E LI , Il recupero dell’Iva
detraibile tra principi comunitari e norme interne, Rass. Trib., 2006, 1871
240
Cfr. art. 30, c. 4 secondo il quale “Il contribuente anche fuori dai casi
previsti nel precedente terzo comma puo' chiedere il rimborso dell'eccedenza
detraibile, risultante dalla dichiarazione annuale, se dalle dichiarazioni dei due
anni precedenti risultano eccedenze detraibili; in tal caso il rimborso puo' essere
richiesto per un ammontare comunque non superiore al minore degli importi delle
predette eccedenze”. La giurisprudenza ritiene infatti che tale disposizione sia
applicabile alle sole imprese in attività, non a quelle cessate o fallite, nei confronti
delle quali la mancata erogazione del rimborso costituirebbe un arricchimento
indebito. Così, Cass., 10 dicembre 1992, n. 13091.
193
Capitolo II
biennali per l’esercizio dell’azione generale di rimborso ex art. 21
D.lgs. 546/92 2 4 1 .
Si desume da queste affermazioni quanto diventi rilevante l’esatta
individuazione del momento di cessazione al fine di attribuire il diritto
al rimborso.
Anche alla luce di questo sembrano dunque contestabili quelle tesi
che prolungano sine die la vita dell’impresa in funzione della sola
permanenza di beni potenzialmente produttivi nella disponibilità
dell’imprenditore formalmente cessato. In base ad esse, infatti,
l’Amministrazione dovrebbe disconoscere il diritto al rimborso per
mancanza dei presupposti necessari sino alla completa alienazione di
tutti i beni, con il rischio che il contribuente finisca per non percepire
di fatto alcunché.
Non sussistendo il requisito della cessazione tornerebbero infatti ad
essere applicabili sia il termine biennale per ricorrere contro il diniego
di rimborso sia la condizione della presenza di somme detraibili nelle
due dichiarazioni precedenti. Ponendo il caso che il provvedimento
dell’Amministrazione giunga dopo parecchio tempo, va da sé che
quanto meno il rispetto della suddetta condizione in capo ad
un’impresa del tutto inattiva potrebbe essere difficilmente integrata.
A ciò si aggiunga il fatto che anche laddove il credito venisse
comunque riconosciuto, ma trasformato in importo detraibile a causa
della mancanza dei requisiti per il rimborso, secondo le disposizioni
dell’art. 1 del D.lgs. 443/97 2 4 2 , si potrebbero porre problemi di tipo
241
Così Cass., 8 aprile 2003, n. 5486, nella quale si afferma che le disposizioni
dell’art. 30 devono ritenersi specifiche al caso del rimborso da cessazione,
escludendo, come lo stesso art. 21 D.lgs. 546/92 dispone, l’applicabilità del
termine biennale. A fronte dell’inapplicabilità del termine il contribuente può
dunque agire per il rimborso dell’eccedenza nell’ordinario termine di prescrizione
decennale ex art. 2946 c.c.
242
Il quale dispone che “L'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto, che a
seguito dell'esame della richiesta di rimborso ne accerta la non spettanza per
difetto dei presupposti stabiliti dall'articolo 30 del decreto del Presidente della
Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, procede alla notifica del provvedimento di
194
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
formale discendenti dal fatto che ove vi sia stata la cessazione formale
il contribuente, chiusa la partita Iva, non presenterà più dichiarazioni
ai fini dell’imposta 2 4 3 .
Non bisogna infine dimenticare che il mancato riconoscimento della
cessazione formalmente avvenuta, qualora intervenisse a distanza di
tempo dalla fine dell’attività, potrebbe esporre il contribuente anche al
rischio dell’irrogazione di diverse sanzioni per violazione degli
adempimenti formali connessi alla soggettività passiva Iva, dalla
mancata registrazione di operazioni attive e passive, alla mancata
fatturazione sino all’omessa dichiarazione 2 4 4 , in base a cui
l’Amministrazione sarebbe legittimata a procedere ad accertamento
induttivo ex art. 55 Dpr. 633/72.
A fronte di tutte queste possibili conseguenze che, pur se
concretamente superabili, finiscono per rendere assolutamente incerta
la disciplina della fase post cessazione, quanto meno sino allo spirare
dei termini per l’accertamento dell’ultimo periodo d’imposta
diniego con contestuale indicazione del credito spettante. Il relativo credito è
portato in detrazione, successivamente alla notificazione, in sede di liquidazione
periodica, ovvero nella dichiarazione annuale.” Il credito riconosciuto potrà,
dunque, essere portato in detrazione nella prima dichiarazione periodica o annuale
successiva al provvedimento, anche nel caso in cui le somme riconosciute non
fossero state indicate nelle dichiarazioni precedenti. Così C.M. 25 maggio 1998, n.
134/E.
Sull’inapplicabilità della decadenza del diritto alla detrazione nel caso in
cui l’importo sia stato indicato in dichiarazione nel momento in cui è sorto, ma
omesso nelle successive si veda R.M. 19 aprile 2007, n. 74.
243
Restando a questo punto o la possibilità di effettuare la compensazione
orizzontale con altre imposte dovute o l’impugnazione del provvedimento per
ottenere l’erogazione del rimborso. Per un esame della disposizione esaminata, L A
R O S A , Rettifica dell’opzione per il rimborso e neutralità dell’Iva, Riv. Dir. Trib.,
2004, 6, 679.
244
Non si deve dimenticare, infatti, che l’obbligo di dichiarazione permane
anche in assenza di operazioni imponibili, dovendo il contribuente ritenersi
esonerato solo nel caso in cui compia esclusivamente operazioni esenti sulla base
del disposto dell’art. 8 Dpr. 322/98.
195
Capitolo II
dichiarato, sembrerebbe preferibile adottare una nozione di
liquidazione più limitata, la cui rilevanza ai fini dell’imposta sia
rilevata in funzione della reale assimilabilità all’esercizio dell’impresa
e non esclusivamente in base alla natura dei beni che viene ad
interessare, escludendo così ab origine la possibilità di teorizzare
un’impresa quiescente in perenne attesa di alienare i beni residui o
riprendere improvvisamente l’esercizio effettivo 2 4 5 .
In questo senso, pertanto, nel valutare il legame fra le operazioni di
liquidazione e l’esercizio dell’impresa sarebbe necessario attribuire
una certa rilevanza anche alla dichiarazione formale, quale elemento
che, con esclusione delle ipotesi fraudolente, sia in grado di
manifestare l’interruzione del suddetto legame da parte dello stesso
245
La negazione dell’ipotesi dell’impresa quiescente sembra doversi sostenere
anche alla luce dei recenti interventi del legislatore in tema di società non
operative, disciplinate dall’art. 30 L. 23 dicembre 1994, n. 724 modificato ad opera
del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248), dai commi
109
ss della Legge Finanziaria 2007 e in ultimo dal comma 128 della Legge
Finanziaria 2008, che vanno nel senso di favorire lo scioglimento di tali società o
la loro trasformazione in società semplici, attraverso un regime agevolato. Da tali
previsioni è dato presumere che il legislatore voglia favorire l’uscita dal regime
fiscale proprio dell’impresa dei soggetti inattivi, limitando quindi la fondatezza di
un’interpretazione che al contrario favorisca la sopravvivenza dell’impresa sulla
base della sola presenza di beni residui, anche nel caso dell’impresa individuale.
Nei confronti delle società commerciali una tale interpretazione rischierebbe
inoltre di rendere applicabile il regime antielusivo previsto per i soggetti non
operativi, non essendo più lo stato di liquidazione fra le cause di esclusione
previste. Con riferimento all’Iva,
l’applicazione del regime comporterebbe
l’impossibilità di ottenere il rimborso dell’eccedenza detraibile, l’impossibilità di
utilizzarla per la compensazione orizzontale con le altre imposte e l’impossibilità
di cedere il credito nei confronti dell’Erario; a ciò deve aggiungersi la definitiva
perdita del credito nel caso in cui lo stato di società non operativa venisse
riscontrato per un periodo di tre anni successivi. Ne deriva che in aggiunta alle
difficoltà
già
evidenziate
nel
testo
relativamente
al
concreto
recupero
dell’eccedenza, laddove si accogliesse l’interpretazione contestata il contribuente
potrebbe definitivamente perdere il proprio credito, sia sotto forma di rimborso sia
sotto forma di detrazione.
196
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
imprenditore, individuando il momento oltre il quale, in ogni caso,
l’impresa non possa più ritenersi esistente.
Tale interpretazione renderebbe il regime impositivo della fase
terminale dell’impresa più semplice e meno esposto a successive
modifiche o contestazioni.
Data l’applicazione dell’ordinario regime alle operazioni sia attive
che passive riconducibili all’impresa, anche per espressa previsione
legislativa, per i beni che il contribuente intenda mantenere presso di
sé, anche solo temporaneamente, diverrebbe applicabile l’imposta per
autoconsumo che, come si è visto, l’art. 35 espressamente indica fra
gli elementi da inserire nell’ultima dichiarazione annuale presentata.
Da un lato, dunque, fatti salvi i termini per i successivi
accertamenti, potrebbe ritenersi comunque cessata l’impresa e di
conseguenza persa la soggettività passiva, in modo tale che le
successive operazioni compiute dal contribuente, potenzialmente
imponibili, dovrebbero ritenersi estranee all’ambito Iva per mancanza
sia del presupposto soggettivo che di quello oggettivo, soggette se del
caso all’imposta di registro.
Dall’altro, il diritto al rimborso delle eventuali eccedenze emerse
nell’ultima dichiarazione dovrebbe in ogni caso considerarsi acquisito
e non più modificabile in credito detraibile, rimanendo soggetto
esclusivamente ad una possibile rettifica del suo importo secondo la
disciplina di cui all’art. 38 bis.
2.2-L E
PROCEDURE CONCORSUALI :
2.2.1-L’esercizio dell’impresa e il fallimento
Sotto profilo dell’individuazione del momento di cessazione
dell’impresa il caso delle procedure concorsuali, ed in particolare del
fallimento, pone degli ulteriori quesiti, distinti da quelli sinora
affrontati.
Generalmente, come si è visto, il tema viene affrontato in funzione
dell’assoggettabilità dell’imprenditore al fallimento, trascurando il
profilo del rapporto tra impresa e fallimento una volta che la procedura
197
Capitolo II
sia già stata avviata.
Dalla giurisprudenza e dalla dottrina giungono indicazioni
abbastanza uniformi dalle quali è dato desumere che la dichiarazione
di fallimento comporta l’interruzione dell’esercizio dell’impresa, non
la sua cessazione definitiva.
Si può dunque sostenere che l’inizio della procedura concorsuale dia
inizio ad una fase di liquidazione che, seppur coatta e con le
peculiarità che la caratterizzano, non appare diversa dall’ipotesi della
liquidazione volontaria prima esaminata.
In questo senso sembrano deporre le caratteristiche stesse della
procedura fallimentare e gli effetti che la dichiarazione di fallimento
comporta a carico del fallito, patrimoniali e non.
Guardando al principale effetto del fallimento, ossia lo
spossessamento, si può infatti notare che esso consiste nella
separazione, apprensione e destinazione del patrimonio 246 ad uno scopo
preciso, costituito dalla soddisfazione dei creditori dell’imprenditore
in stato d’insolvenza dichiarata.
La dichiarazione di fallimento non comporta, dunque, né la perdita
della titolarità dei beni 2 4 7 né tanto meno la perdita della capacità
d’agire, ma semplicemente l’impossibilità per il fallito di disporre ed
amministrare il proprio patrimonio e l’inefficacia relativa delle
obbligazioni da questo assunte, pienamente valide, ma inopponibili
alla procedura.
In questo quadro si inseriscono gli organi della procedura ed in
246
B O N FAT T I - C E NS O N I , Manuale di diritto fallimentare, II ed., Padova 2007, 103.
Come noto, infatti, il fallimento investe il patrimonio del debitore nel suo
complesso non solo i beni direttamente destinati all’impresa. Questo avviene sulla
base della generale responsabilità patrimoniale del debitore definita dall’art. 2740
c.c., laddove il legislatore ha disposto che siano posti automaticamente a garanzia
delle obbligazioni assunte tutti i beni presenti e futuri del debitore.
247
In passato, vi era chi al contrario sosteneva che con la dichiarazione di
fallimento il fallito perdesse la titolarità dei beni e che questa si trasferisse
direttamente in capo alla procedura stessa, considerata come una sorta di ente
indipendente.
198
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
particolare il curatore, il cui ruolo ed i cui poteri vanno specificati
proprio in relazione a questi effetti del fallimento. Non investendo lo
spossessamento la titolarità dei beni coinvolti nel fallimento, il
curatore, pur ottenendo i propri poteri a titolo originario, assume
unicamente quel potere di amministrazione di cui il debitore viene
privato, non altro.
Ciò implica che, indipendentemente dalla natura giuridica che si
voglia attribuire al curatore 2 4 8 , avendo questi solo un potere di
amministrazione finalizzato alla liquidazione del patrimonio e non
intervenendo modifiche nella titolarità dei beni, non si verifichi in
realtà alcuna soluzione di continuità tra la situazione precedente alla
dichiarazione di fallimento e quella successiva.
O per meglio dire, si ha un mutamento nella finalità cui
l’amministrazione è volta, non più produttiva ma liquidatoria 2 4 9 , si ha
248
Si è a lungo discusso in dottrina circa la qualificazione della figura del
curatore
fallimentare.
Escluso
che
possa
trattarsi
di
un
rappresentante
dell’imprenditore fallito, stante il carattere originario e non derivato delle sue
attribuzioni e la sua posizione di terzo all’interno della procedura, indipendente
tanto dal fallito quanto dai creditori, ci si poneva il dubbio se potesse essere
qualificato come successore o sostituto del debitore.
Chi
nega
la
qualifica
di
successore
lo
fa
sempre
sulla
scorta
dell’attribuzione a titolo originario dei poteri di amministrazione, ritenendo che,
diversamente, lo si possa ritenere un sostituto del fallito. La dottrina più recente
nega entrambe le ipotesi, qualificando il curatore unicamente quale incaricato
giudiziario che, investito di tale funzione, gestisce un patrimonio altrui. Nel primo
senso si veda S AT T A , Diritto fallimentare cit., 126 ss. Per l’opposta posizione,
B ON FAT T I - C E NS O N I , Manuale cit., 72 ss.
249
Indicazioni parzialmente differenti ci giungono dallo spirito della recente
riforma del diritto fallimentare la quale appare ispirata, quanto meno nelle
intenzioni, a finalità conservative e di risanamento, più che liquidatoriesanzionatorie. Si legge infatti nella Relazione Ministeriale di accompagnamento al
D.lgs. 5/2006: “[..] considerare le procedure concorsuali non più in termini
meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinate ad un risultato di
conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza,
ove possibile, di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, ed in
199
Capitolo II
un temporaneo mutamento soggettivo, ma non si hanno cambiamenti
dal punto di vista oggettivo che riguardino l’esistenza dell’impresa.
Ciò che il curatore amministra e liquida, ciò che in questo momento
riacquista come funzione principale quella di garanzia delle
obbligazioni assunte dal debitore è l’impresa già esistente, che
sopravvive alla dichiarazione di fallimento, pur nelle particolarità
dello stato d’insolvenza 2 5 0 .
A sostegno di quanto sinora sostenuto si pone anche il dato letterale
costituito dal testo dell’art. 104 L.Fall. laddove prevede la possibilità
di autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa nei casi in cui
l’interruzione possa provocare un danno grave. L’utilizzo del termine
interruzione chiarisce abbastanza precisamente quali siano gli effetti
del fallimento: esso provoca una sospensione dell’esercizio di
un’impresa fino a quel momento attiva, ma non ne provoca la
cessazione definitiva.
La stessa norma prevede inoltre che la continuazione dell’esercizio
possa essere disposta anche successivamente alla dichiarazione di
fallimento, in un momento in cui l’interruzione si è già verificata 2 5 1 . Il
primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale
attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali”
250
S AT T A , op. cit. passim si esprime chiaramente in questi termini, sostenendo
che, da un lato, chi fallisce è l’imprenditore, non l’impresa in sé stessa; dall’altro,
che lo stato d’insolvenza costituisce una fase della vita dell’impresa, non ad essa
estranea.
251
Anteriormente alla riforma l’esercizio provvisorio era disciplinato dall’art.
90 L.Fall. che individuava due ipotesi distinte: una prima successiva alla
dichiarazione di fallimento e la seconda successiva al decreto di approvazione
dello stato passivo. Con particolare riguardo alla seconda ipotesi la stessa norma
parlava di ripresa dell’esercizio nei casi in cui la continuazione non fosse stata
disposta con la dichiarazione di fallimento.
Così come ora, sotto la vigenza dell’art. 90 la dottrina poneva in luce
alcuni punti: 1- doveva trattarsi di un’impresa attiva al momento del fallimento,
non potendo la norma applicarsi al caso del fallimento dell’imprenditore cessato;
2- è fatto divieto al curatore di iniziare una nuova impresa, egli dunque potrà
unicamente subentrare nella gestione dell’impresa del fallito; 3- il titolare
200
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
testo della legge sembra dunque deporre a favore della tesi che
sostiene gli effetti meramente interruttivi della dichiarazione di
fallimento, dovendosi considerare diverso il caso della cessazione
definitiva dell’impresa.
In realtà, questa conclusione sembra essere l’unica compatibile con
gli stessi presupposti della procedura concorsuale laddove si dispone
che essa sia applicabile agli imprenditori commerciali: va da sé che,
come disposto dall’art. 2082 c.c., l’esistenza dell’impresa è
indispensabile per l’attribuzione della qualifica d’imprenditore, né si
può ragionevolmente pensare che l’inizio della procedura faccia venire
meno il proprio presupposto soggettivo. Le stesse conclusioni
sembrano, inoltre, potersi derivare dalla previsione delle due ipotesi
eccezionali del fallimento dell’imprenditore cessato e quello
dell’imprenditore defunto, speciali proprio perché si applicano pur in
assenza, al momento dell’apertura della procedura, del presupposto
soggettivo.
Individuate in questi termini, pur se sommariamente, le conseguenze
della dichiarazione di fallimento, sembra potersi ricondurre anche in
questo caso la discussione nei termini generali precedentemente
esposti.
Si ripropone, dunque, anche nel caso del fallimento, inteso quale
fase liquidatoria, il problema della qualificazione della liquidazione
come fase dell’impresa o esterna ad essa, a nulla rilevando, si ritiene,
l’attribuzione del potere di amministrazione al curatore o
l’apprensione, da parte della procedura, dell’intero patrimonio del
fallito e non solo dei beni e dei rapporti giuridici facenti capo
dell’impresa resta ad ogni modo il fallito, configurando l’esercizio provvisorio un
caso di gestione imprenditoriale sostitutiva di natura giudiziaria (C E N S ON I , op. cit.,
95): non mutando la titolarità dei beni oggetto del fallimento sia l’impresa che le
operazioni in essa svolte continuano ad essere imputabili al fallito che, una volta
chiusa la procedura e cessato lo spossessamento potrà, ove sussistano ancora le
condizioni, riprendere l’attività interrotta riassumendo i poteri di gestione e
amministrazione di cui era stato privato.
201
Capitolo II
direttamente all’impresa 2 5 2 .
Analizzando, dunque, il tema negli stessi termini visti in precedenza
si prospettano quattro differenti ipotesi:
a) se si fa coincidere la cessazione dell’impresa con la fine
dell’esercizio dell’attività tipica, allora la dichiarazione di fallimento
produrrà anche la cessazione dell’impresa, salvi i casi in cui non si
disponga subito l’esercizio provvisorio;
b) se, invece, si ritiene che la liquidazione sia parte integrante
dell’impresa, sino alla definizione di tutti i rapporti giuridici facenti
capo all’impresa, di conseguenza, forse, nemmeno la chiusura della
procedura potrà determinare la cessazione dell’impresa, qualora
residuino ancora crediti insoddisfatti in sede concorsuale ed il fallito
non possa usufruire dell’istituto dell’esdebitazione 2 5 3 ;
252
L’irrilevanza di questo profilo discende dalla considerazione delle finalità
della procedura come manifestazione della generale garanzia patrimoniale dei beni
del debitore. La commistione all’interno della procedura tra beni personali e beni
dell’impresa non sembra poter influire sulla sopravvivenza o meno dell’impresa
stessa. Del resto, la cosiddetta universalità oggettiva del fallimento altro non fa
che
rispecchiare
le
caratteristiche
proprie
dell’imprenditore
soggetto
alla
procedura, né crea differenze rispetto alla situazione dell’imprenditore in bonis.
Parlando di imprenditore individuale o di società con soci illimitatamente
responsabili la funzione di garanzia dell’intero patrimonio esiste tanto in caso di
fallimento quanto al di fuori di una procedura concorsuale, pur sussistendo nei casi
previsti il beneficio di preventiva escussione. Allo stesso modo, nel caso di società
i cui soci godano della responsabilità limitata nemmeno nel fallimento si verifica
una confusione di patrimoni, restando i beni personali dei soci, così some i soci
stessi, estranei al fallimento, salve le ipotesi di estensione espressamente previste.
253
Il nuovo art 142 L. Fall. disciplina, infatti, l’esdebitazione, istituto che,
sostituendo la precedente “riabilitazione”, consente al fallito persona fisica di
ottenere la completa liberazione dai debiti concorsuali non soddisfatti, esistenti
anteriormente alla procedura, attraverso un decreto del Giudice Delegato che
assume efficacia costitutiva quando concorrano le seguenti condizioni “1) abbia
cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la
documentazione utile all'accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo
svolgimento delle operazioni; 2) non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a
202
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
c) applicando la tesi che individua come termine la fine della
liquidazione dell’attivo, intesa quale disgregazione della struttura
aziendale, allora potrà verificarsi l’ipotesi che la cessazione
dell’impresa intervenga nel corso della procedura, presumibilmente in
un momento anteriore all’attuazione del piano di riparto, a nulla
rilevando che conclusa la procedura permangano rapporti non definiti,
a quel punto imputabili all’ex imprenditore personalmente;
d) infine, nel caso in cui si faccia corrispondere la cessazione con
l’esaurimento delle operazioni intrinsecamente identiche all’attività
d’impresa si tratterà di verificare di volta in volta, anche in rapporto
alla durata e al legame fra le operazioni, se le vendite fallimentari
rivestano questo carattere e, di conseguenza, collocare il momento di
cessazione dell’impresa all’interno o successivamente alla procedura.
Ovviamente
differente
sarà
l’ipotesi
dell’autorizzazione
all’esercizio provvisorio, caso in cui le valutazioni appena esposte
dovrebbero posticiparsi al momento di cessazione di questo.
Appare evidente come, in realtà nessuna di queste soluzioni appaia
facilmente praticabile, né in realtà particolarmente utile.
La prima ipotesi appare del tutto incompatibile con la possibilità di
disporre la continuazione dell’esercizio anche in un secondo momento,
fatto che, se si ritenesse cessata l’impresa al momento della
dichiarazione di fallimento, determinerebbe l’inizio di una nuova
impresa, che, come si è visto, non rientra nei poteri del curatore o di
ritardare lo svolgimento della procedura; 3) non abbia violato le disposizioni di
cui all'articolo 48; 4) non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni
precedenti la richiesta; 5) non abbia distratto l'attivo o esposto passività
insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa
la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso
abusivo al credito; 6) non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato
per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l'economia pubblica, l'industria e
il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l'esercizio dell'attività
d'impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. Se è in corso il
procedimento penale per uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento
fino all'esito di quello penale.”
203
Capitolo II
altri organi della procedura 2 5 4 . La seconda porta sempre con sé il
rischio di un’eccessiva dilatazione della durata dell’impresa,
includendovi anche fatti ad essa non più riconducibili. Le altre due
ipotesi si espongono anch’esse alle medesime critiche mosse in
precedenza, costringendo ad una valutazione casistica spesso
impraticabile.
Si pone, pertanto, la necessità di valorizzare, da un lato, il dato
letterale che emerge dalla disciplina del fallimento e dall’altro la
concreta portata degli effetti della procedura e della sua successiva
chiusura.
Considerando che le norme stesse parlano semplicemente di
interruzione dell’esercizio –lasciando presupporre che, anche in
assenza di esercizio provvisorio, questo possa riprendere in un
momento successivo- e che gli effetti del fallimento, primo fra tutti lo
spossessamento, hanno una valenza temporanea limitata alla durata
della procedura, alla cui chiusura il fallito tornato in bonis riacquista
la piena disponibilità dei propri beni, oltre a vedersi imputati gli effetti
degli atti compiuti nel corso del fallimento 2 5 5 , non sembra errato
sostenere che la procedura concorsuale debba considerarsi quale fase
temporanea priva, generalmente, di effetti estintivi dell’impresa
coinvolta, effetti che si determineranno e andranno valutati
successivamente alla sua chiusura.
Nulla vieta, infatti, che, sussistendone le condizioni 2 5 6 , l’ex-fallito
possa riavviare l’esercizio precedentemente interrotto, né sembrano
esistere elementi che impongono di considerare l’attività
eventualmente ripresa come una nuova impresa. Queste sicuramente
saranno valutazioni di fatto desumibili in modo oggettivo dal
254
Anche considerando che si tratterebbe di un’ipotesi d’impresa avviata senza il
concorso della volontà del fallito, pur se al lui imputabile.
255
Si deve infatti tenere presente che misure personali ultrattive quali l’inibizione
dall’esercizio di un’impresa discendono dalla condanna per i reati di bancarotta,
non dalla procedura concorsuale ordinaria priva di risvolti penalmente rilevanti.
256
Ipotesi a dir la verità rare in cui alla chiusura del fallimento residuino delle
attività in grado di consentire la ripresa dell’esercizio.
204
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
comportamento assunto successivamente dal soggetto.
A questo punto potranno assumere nuovamente rilevanza le
risultanze delle iscrizioni nel Registro delle imprese, del tutto
indipendenti dalla procedura fallimentare 2 5 7 , e che, anche in questo
caso potrebbero fungere da indice di cessazione, quale manifestazione
delle intenzioni dell’imprenditore tornato in bonis, fatta salva sempre
la possibilità di dimostrare il momento di effettiva cessazione.
2.2.2- L’Iva nelle procedure concorsuali
Per quanto riguarda il profilo impositivo del fallimento, sia
nell’ambito delle imposte dirette sia nell’Iva ci sono disposizioni
specifiche che disciplinano espressamente la fase concorsuale,
dettando un regime in parte diverso da quello applicabile alla fase di
esercizio ordinario.
In termini generali, il legislatore distingue, anche attraverso la
previsione di specifici obblighi formali, tra periodo prefallimentare e
fase di svolgimento della procedura, cui si applica un regime fiscale
257
A questo proposito l’unico elemento che ci viene dal testo normativa è
l’onere attribuito al curatore di effettuare la cancellazione della società fallita una
volta chiusa la procedura in base al testo del riformato art. 118 L.fall. Nulla viene
stabilito con riguardo all’impresa individuale, motivo per cui potrebbe, in teoria,
aversi cancellazione tanto nel corso della procedura quanto successivamente ad
opera dello stesso imprenditore in bonis. Con riguardo alle società di capitali, visti
gli effetti costituitivi della cancellazione, la dottrina sembra essersi espressa nel
senso di una applicazione in senso restrittivo della norma, limitandola ai casi in
cui i soci non manifestino alcun interesse alla prosecuzione o, di fatto, al termine
della procedura non residui nessun attivo. Nelle altre ipotesi, dunque, in caso di
residuo attivo o di interesse dei soci a ricapitalizzare la società la cancellazione ad
opera del curatore apparirebbe del tutto ingiustificata. In tal senso B ON FAT T I –
C E N S ON I , Manuale cit., 354. Questa considerazione nasce anche dalla riforma
societaria che ha escluso il fallimento dalle cause di scioglimento delle società di
capitali e dal fatto che, anche qualora operasse come causa di scioglimento, gli
organi della società, che restano in carica nel corso della procedura, potrebbero
disporre la revoca dello stato di liquidazione una volta chiuso il fallimento.
205
Capitolo II
particolare.
Le differenze maggiori riguardano le imposte sui redditi,
disciplinate dall’art. 183 TUIR, nell’ambito delle quali la procedura
concorsuale viene fatta corrispondere ad un unico periodo d’imposta, il
cosiddetto maxi periodo, al termine del quale il reddito imponibile sarà
costituito dall’eventuale differenza tra il residuo attivo della procedura
ed il patrimonio netto esistente all’inizio della stessa.
In campo Iva, la disciplina del fallimento è contenuta nell’art. 74
bis che, oltre alla menzionata differenza tra periodo prefallimentare e
procedura, disciplina un regime omogeneo a quello ordinario,
caratterizzato solo da alcune differenze.
In riferimento al periodo antecedente alla dichiarazione di
fallimento la norma dispone che gli obblighi di registrazione e
fatturazione i cui termini non siano ancora spirati debbano essere
assolti dal curatore, il quale, secondo quanto previsto dall’art. 8, c. 4
del DPR. 22 luglio 1998, n. 322, dovrà entro i termini ordinari o, al
massimo, entro quattro mesi dalla nomina, presentare la dichiarazione
per l’anno solare precedente all’inizio della procedura.
Allo stesso modo, e sempre nei termini ordinari, egli dovrà
presentare la dichiarazione dell’imposta relativa all’anno in cui il
fallimento è stato dichiarato, nonché quella eventualmente relativa alle
operazioni imponibili registrate nella frazione di anno solare
antecedente all’avvio della procedura.
La finalità di questi adempimenti è, secondo l’uniforme parere di
dottrina e giurisprudenza, quella di fotografare lo status quo della
posizione fiscale del fallito, in modo tale che vengano determinate le
imposte dovute e l’Amministrazione possa procedere all’insinuazione
al passivo per ottenere il pagamento in concorso con gli altri
creditori 2 5 8 .
258
La normativa vigente non permette infatti di collocare il credito tributario su
un piano diverso da quello degli altri crediti concorsuali. Il principio della par
condicio creditorum che informa l’intero sistema delle procedure d’insolvenza
porta a collocare le pretese impositive sullo stesso piano di quelle private,
206
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
La fase propriamente fallimentare è soggetta ad una disciplina in
parte diversa da quella ordinaria, pur senza la previsione del
cosiddetto maxi periodo individuato, invece, con riferimento alle
imposte dirette.
Ferma, dunque, la normale suddivisione in singoli periodi d’imposta
per tutta la durata della procedura, si stabilisce l’applicabilità del
regime ordinario alle operazioni imponibili compiute, sia in presenza
di esercizio provvisorio, sia in caso di semplice attività liquidatoria,
sostituendo al soggetto passivo il curatore, che è tenuto a tutti gli
adempimenti previsti dalla disciplina ordinaria, e quindi alla
fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione dell’imposta.
Dalla norma, come si è detto, emergono differenze unicamente in
rapporto ai termini assegnati al curatore per tali adempimenti: un
termine unico per la fatturazione delle operazioni, indicato in 30 giorni
dalla loro effettuazione, e soprattutto la possibilità che la liquidazione
periodica dell’imposta venga effettuata solo nel caso di compimento di
operazioni imponibili nel periodo relativo.
mantenendo intatto, in entrambi i casi, il solo sistema dei privilegi disciplinato dal
Codice Civile. Il libro VI del c.c. permette di delineare una graduazione dei diversi
crediti esistenti in capo allo stesso debitore, la cui disciplina ed ordine sono
espressamente disciplinati. Gli artt. 2752, 2759, 2771 e 2772 c.c. sanciscono i
privilegi di cui godono lo Stato e gli altri Enti impositori per le diverse imposte
loro dovute, creando un impianto normativo che trova piena applicazione anche
nell’ambito delle procedure concorsuali. Ciò che accomuna e caratterizza i
privilegi codicistici è la loro limitazione temporale, in forza della quale potranno
considerarsi privilegiati solo i crediti relativi ai due anni precedenti (uno nel caso
dell’art. 2771 c.c.), mentre gli altri dovranno necessariamente essere qualificati
come chirografari. Il credito tributario non concorre, dunque, in ogni caso in via
privilegiata: tutte le somme dovute che siano ascrivibili ad un periodo che superi i
due anni antecedenti all’istanza di insinuazione al passivo concorreranno in via
chirografaria, così come quanto dovuto a titolo di sanzione, tranne il caso delle
sanzioni Iva, espressamente richiamate dalla normativa codicistica.
In base al principio generale dettato dall’art. 54 L.Fall., infine, la parte di
credito che non risulti soddisfatto con il bene oggetto del privilegio, concorrerà al
riparto finale, anche in questo caso in via chirografaria.
207
Capitolo II
Sia nell’ambito delle imposte dirette sia nell’Iva, il curatore
presenterà una dichiarazione finale al termine della procedura 259 ,
attraverso cui potrà richiedersi il rimborso delle eventuali eccedenze
d’imposta derivanti dalle ritenute subite per gli interessi sui conti
correnti bancari o dall’Iva versata a monte per le spese della
procedura 2 6 0 .
Pur se apparentemente chiara, la disciplina fiscale del fallimento
solleva numerosi dubbi ed interpretazioni controverse che si
distinguono in base al significato, estintivo o meramente sospensivo
sull’impresa, che ad esso si attribuisce con ovvi riflessi sul tema,
soprattutto in riferimento all’Iva, della soggettività passiva e
dell’applicabilità dell’imposta.
a)- L’evoluzione della dottrina sull’imponibilità delle vendite
fallimentari
Prima dell’introduzione nel Dpr. 633/72 dell’art. 74 bis, la
questione più dibattuta era quella relativa all’applicabilità dell’Iva alle
vendite fallimentari, fermamente negata dalla giurisprudenza,
contrariamente alle posizioni della dottrina che apparivano in materia
più orientate a considerare il fallimento una fase liquidatoria
259
In realtà, nell’Iva verranno presentate le dichiarazioni, annuali o periodiche,
secondo i termini ordinari.
260
È questo uno degli aspetti più spinosi che interessano il regime fiscale del
fallimento, a causa delle difficoltà che si incontrano per la riscossione del credito.
Posto che esso emerga in sede di dichiarazione finale e che il curatore debba
presentare questa alla conclusione della procedura, ne discende l’impossibilità per
il curatore ad ottenere il pagamento delle somme una volta terminato il proprio
incarico. Intitolato a ricevere il pagamento tornerà allora ad essere il fallito tornato
in bonis, che per effetto della chiusura del fallimento riacquista la piena
disponibilità del proprio patrimonio (residuo) e dei rapporti ad esso connessi.
Questo comporta però l’impossibilità di utilizzare queste somme ai fini del riparto
fra i creditori iscritti, cui in realtà esse spetterebbero, trattandosi di attività
maturate
durante
il
fallimento
e
quindi
fallimentare.
208
destinate
a
confluire
nell’attivo
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
dell’impresa, nonostante il suo carattere forzato 2 6 1 .
I principali elementi portati a sostegno dell’esclusione delle vendite
fallimentari dall’ambito di applicazione dell’Iva poggiavano sulla
considerazione che la dichiarazione di fallimento creerebbe una
frattura insanabile all’interno dell’impresa, causandone la cessazione
con conseguente perdita della soggettività passiva del fallito e
irrilevanza delle operazioni compiute ai fini dell’imposta.
Tale opinione si fondava sulla considerazione che, in rispetto al
principio di effettività, per aversi impresa debba aversi esercizio
concreto di un’attività, da cui una fase di liquidazione volta al solo
soddisfacimento dei creditori inevitabilmente esulerebbe.
Si tratterebbe, inoltre, di rilevare la profonda differenza tra gli scopi
tipici dell’impresa, consistente nella produzione o scambio di beni per
un sostanziale scopo di lucro, e quelli di una fase liquidatoria cui
unica finalità è quella di disgregare l’apparato aziendale, monetizzare
il patrimonio dell’impresa e definire i rapporti ad essa facenti capo. In
molte pronunce dei Tribunali fallimentari era inoltre possibile
rinvenire la considerazione che l’applicazione dell’imposta sarebbe di
fatto andata a solo svantaggio della procedura, aumentandone oneri e
costi a discapito della naturale finalità volta alla realizzazione di un
attivo sufficientemente ampio da soddisfare i creditori iscritti.
In opposizione a queste tesi si portavano principalmente argomenti
fondati sulla natura e sulla struttura dell’imposta, che sarebbero
risultati inevitabilmente alterati dall’esclusione dal proprio ambito
delle cessioni fallimentari, cui si univa la considerazione che il
fallimento, pur nella sua particolarità, altro non è che una forma di
261
Per una ricostruzione delle diverse posizioni cfr. G AFFU R I , L’iva e le vendite
fallimentari, cit, 115; L A R OS A , Iva e vendite fallimentari, Dir. Prat. Trib., 1974, I,
321; S AM M AR T IN O , Profilo cit., 130 ss. Sulla disciplina fiscale di fallimento e
procedure concorsuali M IC C IN E S I , voce Fallimento nel diritto tributario, Dig. Disc.
Priv. Sez. comm., 1990, V, 453; I D EM , L’imposizione sui redditi nel fallimento e
nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990; S T E VAN AT O , Inizio cit., 231 ss;
T ON E T T I , Aspetti fiscali delle procedure concorsuali, Padova, 2006; T O S I (a cura
di), Problematiche fiscali del fallimento e prospettive di riforma, Padova, 2005.
209
Capitolo II
liquidazione dell’impresa al pari di quella volontaria.
Si rilevava da parte di alcuni che la nozione di impresa valida in
campo Iva prescinderebbe dall’esercizio attuale in favore di una
qualificazione più ampia, incentrata sulla effettiva capacità di produrre
valore aggiunto all’interno del ciclo produttivo. Si riteneva, dunque,
che pur intervenuto il fallimento i beni appartenenti all’impresa, merce
o strumentali che fossero, avessero già maturato un valore aggiunto
che non poteva andare esente da imposizione 2 6 2 . In questo senso,
dunque, l’esclusione dell’imponibilità delle vendite effettuate in seno
alla procedura andrebbe contro la struttura dell’imposta e la sua ratio,
non potendosi ritenere che la dichiarazione di fallimento, pur se
comportasse la cessazione dell’impresa, agisca retroattivamente
elidendo il valore aggiunto già prodottosi in capo ai beni dell’impresa.
Alla stessa conclusione si arrivava anche per la via che valorizzava
maggiormente il profilo oggettivo dell’imposta, in base al quale
dovevano ritenersi imponibili tutte le operazioni che avessero ad
oggetto i beni dell’impresa, in ragione soprattutto della struttura stessa
dell’imposta e della finalità, ad essa connaturata, di neutralità nei
confronti dell’imprenditore, irrimediabilmente lesa da una interruzione
ingiustificata della sua applicazione 2 6 3 .
In base a tale considerazione, si riteneva che due fossero le
soluzioni possibili: o applicare automaticamente l’imposta al momento
della dichiarazione di fallimento per autoconsumo dovuto alla
cessazione dell’impresa o ammettere l’imponibilità delle vendite nel
corso della procedura sulla base del collegamento oggettivo che esse
manterrebbero con il precedente esercizio in ragione della natura dei
beni alienati.
L’introduzione di una norma specifica ha posto fine a tali contrasti
sancendo espressamente la continuazione del regime ordinario anche
all’interno della procedura, sia che vi sia esercizio provvisorio sia che
l’attività degli organi fallimentari consista nella mera liquidazione del
262
In questo senso G AFFU R I , L’iva cit., 132
263
Così L A R O S A , Iva cit., 326 ss.
210
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
patrimonio aziendale e degli altri beni dell’impresa.
Tuttavia, anche successivamente all’introduzione della norma la
principale motivazione che veniva posta per la non imponibilità, ossia
l’avvenuta cessazione dell’impresa ad opera della dichiarazione di
fallimento, non è stata abbandonata. Si continua a sostenere, dunque,
che la ragione dell’imponibilità delle operazioni fallimentari vada
ricercata unicamente all’interno della stessa norma che la dispone,
norma che sarebbe da considerarsi speciale e derogatoria rispetto alle
altre disposizioni del decreto Iva istitutive del presupposto
dell’imposta 2 6 4 .
b)- La dichiarazione prefallimentare
cessazione dell’attività. Critica
come
dichiarazione
di
Nonostante, dunque, le indicazioni del legislatore circa il
mantenimento del regime Iva ordinario anche in sede di fallimento,
orientamento pressoché costante della giurisprudenza tributaria è
quello che afferma gli effetti estintivi della dichiarazione di fallimento
sull’impresa, facendo coincidere pertanto cessazione dell’attività
264
Si veda S AM M AR T IN O , Profilo cit., 134, nt.8 secondo cui con la dichiarazione
di fallimento verrebbe a mancare il presupposto soggettivo dell’imposta, perdendo
il fallito la qualità di imprenditore,
ponendo così irrimediabilmente fine
all’impresa stessa. Sembra che l’Autore, non assimilando liquidazione volontaria
fallimento quanto a funzione, giunga ad applicare in questo caso criteri diversi da
quelli che fondano invece la sua ricostruzione circa la riconducibilità della
liquidazione all’esercizio dell’impresa. In quel caso, infatti, l’appartenenza dei
beni
all’impresa
viene
ritenuto
elemento
sufficiente
per
configurarne
la
sopravvivenza anche in assenza di esercizio effettivo dell’attività tipica.
Nel caso del fallimento, invece, ritiene che il soggetto perda la qualifica di
imprenditore proprio in conseguenza dell’assenza di un effettivo esercizio
dell’attività, attribuendo così rilievo ad un elemento soggettivo prima trascurato. A
ciò, secondo l’Autore, si aggiunge la considerazione che la confusione tra
patrimonio
personale
e
beni
dell’impresa
all’interno
della
procedura
comporterebbe l’interruzione del vincolo funzionale prima esistente tra i beni
dell’impresa, causandone in conseguenza la cessazione.
211
Capitolo II
economica ed apertura della procedura concorsuale.
La Corte di Cassazione afferma in sostanza che “con la
dichiarazione di fallimento - e salva l'ipotesi, non attuale, di
autorizzazione all'esercizio provvisorio -, cessa l'attività dell'impresa,
mentre la disponibilità e l'amministrazione dei beni passa
dall'imprenditore alla curatela fallimentare. Nessuna continuità è
dunque giuridicamente riscontrabile - anche ai fini dell'IVA, per
quanto qui interessa - fra gestione dell'imprenditore (prima del
fallimento) ed amministrazione fallimentare, essendo mutati, per
effetto della dichiarazione di fallimento, il contribuente ed il soggetto
responsabile della gestione.” 2 6 5
In questo contesto, dunque, la dichiarazione che il curatore è tenuto
a presentare, in base al disposto dell’art. 74 bis, relativamente
all’imposta relativa alle operazioni compiute dal fallito prima
dell’apertura della procedura dovrebbe considerarsi prima di tutto al
pari di una dichiarazione annuale –perché si prevede l’allegazione dei
documenti giustificativi, diversamente da quanto accade per le
liquidazioni periodiche- ed in particolare equivalente ad una
dichiarazione di cessazione dell’attività ex art. 35 Dpr. 633/72.
Tale affermazione muove dalla considerazione che, escluso il caso
di esercizio provvisorio, l’attribuzione di tutta l’amministrazione e
degli adempimenti formali al curatore siano segno di un’interruzione
definitiva della precedente attività economica, cui neanche l’eventuale
ritorno in bonis alla chiusura del fallimento potrebbe porre rimedio 2 6 6 .
Conseguentemente
a
tale
impostazione,
la
dichiarazione
265
Così Cass., 15 dicembre 2003, n. 19169. Nello stesso senso, fra le più
recenti, si vedano anche Cass., 2 marzo 2004, n. 4225; Cass., 20 febbraio 2004, n.
3430; Cass., 15 gennaio 2004, n. 478; Cass., 12 dicembre 2003, n. 19072; Cass., 22
marzo 2002, n. 4104. In proposito si veda STESURI A., Dichiarazione Iva del
curatore per il periodo prefallimentare e richiesta di rimborso, Fall., 2004, 12,
1353
266
Secondo questa impostazione si ritiene infatti che l’eventuale ripresa
dell’attività successivamente alla chiusura della procedura configurerebbe l’inizio
di una nuova impresa, non la ripresa di quella precedentemente sospesa.
212
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
prefallimentare darebbe diritto al curatore ad ottenere il rimborso
dell’eventuale eccedenza emersa secondo il disposto dell’art. 30,
essendo esclusa, in virtù dell’avvenuta cessazione, la possibilità del
riporto del credito in detrazione nella successiva dichiarazione 2 6 7 .
Questa conclusione viene motivata dalla giurisprudenza anche sulla
base di un’ulteriore considerazione: da un punto di vista meramente
fattuale, il curatore potrebbe nel corso della procedura non compiere
alcuna operazione imponibile e di conseguenza non presentare alcuna
dichiarazione in cui effettuare la detrazione, con il rischio di definitiva
perdita del credito; in punto di diritto, la cessazione dell’attività
importerebbe l’impossibilità di compensare il credito con l’eventuale
debito d’imposta successivo perché si tratterebbe di somme imputabili
a differenti contribuenti e, quindi, fra loro non compensabili.
Di avviso totalmente opposto è, invece, l’Amministrazione
Finanziaria che sembra negare la portata estintiva della dichiarazione
del fallimento, spostando il momento di cessazione dell’attività alla
chiusura della procedura 2 6 8 .
La diversa posizione poggia sul differente valore attribuito alla
267
Tutte le pronunce richiamate in precedenza affermano la cessazione
dell’impresa al fine di assicurare il diritto al rimborso dell’eccedenza al curatore.
In questo senso il primo precedente richiamato è Cass., 10 dicembre 1992, n.
13091, nel quale si afferma il carattere incondizionato del diritto al rimborso nei
casi in cui l’impresa sia cessata o fallita, non applicandosi a questi casi la
condizione contenuta nello stesso art. 30 che prevede l’erogabilità del rimborso nel
caso della presenza di eccedenze detraibili nelle due dichiarazioni precedenti.
L’aspetto curioso di questo rinvio è costituito dalla diversità delle situazioni di
fatto che hanno dato origine alle pronunce. La sentenza del 1992 si riferisce infatti
ad una richiesta di rimborso avanzata dall’ex curatore di un fallimento già chiuso,
momento in cui effettivamente l’attività era cessata, terminata la soggettività
passiva e, quindi, del tutto impossibile compensare il credito con alcuna posizione
debitoria. Le successive pronunce si riferiscono, al contrario, sempre ad ipotesi di
dichiarazione Iva prefallimentare, cui inevitabilmente ne seguiranno altre.
268
Così, le deduzioni riportate in Cass. 19169/03 cit. Per ulteriori riferimenti
sull’orientamento della prassi si veda altresì la Circolare n. 25/E del 22 marzo
2002.
213
Capitolo II
dichiarazione Iva per il periodo antecedente alla dichiarazione di
fallimento che, secondo l’Amministrazione, non sarebbe equivalente
ad una dichiarazione annuale, ma avrebbe la semplice funzione di
fotografare la situazione e comunicarla agli organi competenti. Questo
perché, in ogni caso, la dichiarazione di fallimento non avrebbe
l’effetto di provocare, quanto meno ai fini dell’imposta, la cessazione
dell’impresa, fatto dimostrato dalla considerazione che nel corso della
procedura,
indipendentemente
dall’autorizzazione
all’esercizio
provvisorio, vengono svolte operazioni imponibili.
Guardando alla disciplina fiscale del fallimento in termini generali,
quindi anche con riferimento alle imposte dirette, l’Amministrazione
ritiene che il legislatore abbia avuto intenzione di considerare la fase
concorsuale come l’ultimo periodo d’imposta riferibile all’impresa e,
di conseguenza, anche ai fini Iva sarà la chiusura della procedura ad
integrare un’ipotesi di cessazione dell’attività. Per questo motivo, solo
al termine della procedura il curatore sarà tenuto a presentare la
dichiarazione di cessazione disciplinata dall’art. 35 e la successiva
dichiarazione annuale nei termini ordinari, solo a questo punto diverrà
applicabile il disposto dell’art. 30 laddove attribuisce al contribuente
un diritto al rimborso incondizionato 2 6 9 .
Si ritiene che le posizioni appena esposte, pur se fra loro antitetiche,
si espongano a critiche sostanzialmente omogenee che in primo luogo
interessano la natura e gli effetti del fallimento.
269
Come si legge nella Circolare n. 3 del 28 gennaio 1992 la presentazione della
dichiarazione di cessazione non sarebbe comunque condizionata dall’emanazione
del decreto di chiusura del fallimento, potendo il curatore adempiervi anche prima,
purchè siano terminate tutte le operazioni imponibili.
Si ritiene, tuttavia, che una simile interpretazione non sia in grado di
risolvere i problemi di riscossione dell’eventuale credito che emerga alla chiusura
della
procedura. Anche anticipando la presentazione della dichiarazione di
cessazione, non sarebbe comunque possibile provvedere al calcolo dell’imposta e
alla presentazione della dichiarazione annuale successiva, in quanto solo al
momento della chiusura della procedura verranno liquidate le ultime spese a questa
imputabili, tra cui il compenso dello stesso curatore, soggetto all’imposta.
214
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
Esaminandone la disciplina sostanziale si è posta in evidenza la
necessità di valorizzare da un lato il dato letterale delle norme che
regolano il fallimento e dall’altro la concreta portata degli effetti della
procedura e della sua successiva chiusura.
Considerando che le norme si esprimono in termini di interruzione
dell’esercizio –lasciando presupporre che, anche in assenza di
esercizio provvisorio, questo possa riprendere in un momento
successivo- e che gli effetti del fallimento, primo fra tutti lo
spossessamento quale perdita del potere di amministrazione e
disposizione, hanno una valenza temporanea limitata alla durata della
procedura 2 7 0 , si è ritenuto corretto sostenere che la procedura
concorsuale debba considerarsi quale fase temporanea priva di
automatici effetti estintivi dell’impresa coinvolta, effetti che si
determineranno e andranno valutati successivamente alla sua chiusura.
Nulla vieta, infatti, che, in caso di fallimento chiuso per mancanza
di insinuazioni al passivo o pagamento dei creditori prima della
ripartizione finale dell’attivo, il fallito tornato in bonis possa riavviare
l’esercizio precedentemente interrotto, né sembrano esistere elementi
che impongano di considerare l’attività eventualmente ripresa come
una nuova impresa.
Non si ritiene ci siano motivi per discostarsi da tale impostazione
con riferimento al profilo fiscale delle procedure concorsuali, dettato
da norme che non ne modificano in nulla la disciplina sostanziale.
Soprattutto guardando alla disciplina Iva, è dato rilevare una
sostanziale omogeneità del regime applicabile, di fatto incompatibile
con l’idea che la dichiarazione di fallimento comporti la cessazione
dell’impresa, a meno che, anche in questo caso, non si voglia sostenere
che l’imponibilità delle operazioni fallimentari poggia unicamente su
necessità di chiusura del ciclo fiscale dell’impresa, dando vita ad una
fattispecie eccezionale che, rispetto alla disciplina ordinaria, sarebbe
270
Alla cui chiusura il fallito tornato in bonis riacquista la piena disponibilità
dei propri beni, oltre a vedersi imputati gli effetti degli atti compiuti nel corso del
fallimento
215
Capitolo II
carente sia del profilo soggettivo che di quello oggettivo del
presupposto.
Ma anche se si volesse ritenere questa l’unica ragione
dell’imponibilità delle operazioni fallimentari, l’asserita discontinuità
fra esercizio ordinario e fallimento, discontinuità che addirittura
importerebbe un cambiamento di soggetto passivo non sembra in realtà
trovare alcun fondamento normativo.
In primo luogo, non sembra che l’equiparazione tra dichiarazione
iniziale del curatore e dichiarazione di cessazione sia sostenibile. Si è
detto che la ratio di questa interpretazione sta nell’intenzione di
garantire al curatore la possibilità di ottenere il rimborso delle
eccedenze eventualmente emerse, possibilità che in realtà può
benissimo verificarsi anche sulla base dell’applicazione delle
disposizioni ordinarie, senza che sussista una reale necessità di
individuare un’ipotesi di cessazione, cui la stessa disciplina
dell’imposta si oppone. Nulla vieta, infatti, che anche in questi casi si
possa applicare il disposto dell’art. 30 in tema di rimborsi. Del resto è
lo stesso art. 74 bis a richiamarne il disposto, riferendosi sia ai
rimborsi eventualmente non liquidati all’apertura del fallimento così
come ai successivi, senza creare fra essi distinzioni o senza fornire
alcun elemento che limiti il rinvio al solo secondo comma dell’art. 30
e non a tutte le altre ipotesi previste nei commi successivi.
Ugualmente discutibile è la considerazione che consentire il solo
riporto a credito potrebbe comportare la perdita delle somme dovute
nel caso in cui non si compissero operazioni imponibili e non si
dovessero, quindi, presentare dichiarazioni. Posto che l’art. 74 bis
sancisce l’applicazione dell’ordinario regime Iva, spostandone solo gli
adempimenti in capo al curatore, una simile eventualità non sembra
concretamente prospettabile. La norma infatti esenta il curatore dalla
presentazione delle dichiarazioni periodiche laddove non ci siano state
operazioni imponibili nel periodo considerato, ma nulla dice in merito
all’esclusione dalla presentazione della dichiarazione annuale, che
resta soggetta alle disposizioni ordinarie. Per questo motivo, sulla base
dell’art. 8 del DPR 322/1998, il curatore sarà tenuto a presentare la
216
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
dichiarazione annuale anche in caso di assenza di operazioni
imponibili, essendone esonerato esclusivamente, secondo la disciplina
ordinaria, nel caso in cui compia solo operazioni esenti.
Altro profilo controverso della tesi giurisprudenziale è la
considerazione del tutto marginale che essa fa dell’esercizio
provvisorio nel corso del fallimento. Tale ipotesi viene ritenuta solo
meramente eventuale e, di conseguenza, una semplice eccezione alla
norma generale che comporterebbe la cessazione dell’impresa. Sembra
però che la giurisprudenza tenga conto unicamente dell’ipotesi in cui
l’esercizio provvisorio venga disposto immediatamente, fatto che
impedirebbe
la
cessazione
dell’impresa,
consentendone
la
continuazione nel corso della procedura. Non sembra invece
considerata l’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio sia disposto nel
corso del fallimento successivamente ad un periodo di sospensione,
ipotesi che, come si è visto, è del tutto incompatibile con l’idea che la
dichiarazione di fallimento provochi la cessazione definitiva
dell’impresa, a meno che non si voglia ipotizzare che nel corso della
procedura possa iniziarsi una nuova impresa imputabile, comunque, al
fallito.
Già sulla base di questi pochi elementi è possibile contestare l’idea
che la dichiarazione di fallimento comporti la cessazione dell’impresa
anche a fini impositivi, dovendo piuttosto preferirsi un’interpretazione
che, anche in base alla disciplina Iva, ne valorizzi la continuità.
Un ultimo elemento non condivisibile della citata giurisprudenza è
quello che nega la possibilità di compensare il credito d’imposta con il
debito successivamente emerso nel corso della procedura sull’assunto
che tra fase pre e post fallimentare muti il contribuente, rendendo
quindi impossibile l’applicazione dell’istituto della compensazione.
Contro questa affermazione si pongono diverse considerazioni,
alcune provenienti dalla stessa giurisprudenza, altri relativi alla
disciplina sostanziale del fallimento.
In primo luogo, deve ricordarsi che lo spossessamento conseguente
alla dichiarazione di fallimento priva il fallito del potere di
amministrare e disporre del proprio patrimonio, lasciandone, però,
217
Capitolo II
immutata la titolarità cui consegue l’imputabilità di tutti gli atti
compiuti all’imprenditore, restando in capo lui la titolarità sia dei beni
che dei rapporti giuridici ad essi relativi. Sul piano tributario questo
comporta la naturale conseguenza che, una volta chiusa la procedura,
anche i rapporti tributari i cui presupposti si siano verificati durante la
procedura saranno comunque imputabili all’ex fallito tornato in bonis .
Anche per quanto riguarda il rapporto impositivo, dunque, lo
spossessamento non comporta un cambiamento di titolarità, o meglio
di soggettività passiva, ma semplicemente un cambiamento nella
gestione di tale rapporto, che nel corso della procedura viene affidata
al curatore fallimentare. Del resto, per sostenere che vi sia un
cambiamento sul piano sostanziale non sembra sia sufficiente la sola
attribuzione al curatore degli adempimenti formali relativi all’imposta.
Essi, pur essendo parte integrante e fondamentale della disciplina Iva,
non ne costituiscono però il presupposto che, anche nel caso del
fallimento, continua ad essere riferibile al fallito, titolare di
un’impresa che il curatore solamente amministra, pur se con finalità
liquidatorie.
È del resto la stessa giurisprudenza, interrogata sulla legittimazione
del fallito ad impugnare un atto di accertamento notificato nel corso
della procedura, a fondare la propria risposta affermativa sulla
considerazione che il fallito non perde la soggettività passiva del
rapporto tributario 2 7 1 .
Pur trattandosi, nei casi esaminati, di accertamenti riferibili ad
271
Così Cass., 19 gennaio 2006, n. 4235; Cass., 26 settembre 2003, n.14301;
Cass., 19 dicembre 2002, n. 9951; Cass., 8 marzo 2002, n. 3427. Da questa
giurisprudenza emerge il principio per cui, pur dovendosi notificare un eventuale
atto di accertamento al curatore che è nella disponibilità del patrimonio del fallito,
anche perché la pretesa fiscale influisce sullo stato passivo della procedura, il
provvedimento dovrà essere comunicato anche al fallito stesso che resta titolare
del rapporto tributario e, soprattutto, destinatario delle conseguenze dell’atto, sia
patrimoniali che sanzionatorio. La notifica al fallito è indispensabile perché questi,
in caso di inerzia del curatore, possa provvedere ad impugnare autonomamente
l’accertamento che altrimenti diverrebbe definitivo.
218
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
imposte dovute per presupposti realizzatisi prima della dichiarazione
di fallimento, sembra che il principio sia applicabile in termini
generali all’intera procedura. Fatto questo testimoniato, ad esempio,
dall’imputabilità dei redditi maturati nel corso del fallimento
all’imprenditore e, dall’altro, dalla considerazione che il principale
problema della disciplina fiscale del fallimento è costituito dal fatto
che, chiusa la procedura, gli eventuali crediti d’imposta, emersi nelle
dichiarazioni finali, vengono riscossi solitamente dall’ex fallito,
invece che confluire nell’attivo fallimentare ed essere ripartiti fra i
creditori iscritti.
Più che modificare il profilo sostanziale della soggettività deve,
dunque, ritenersi che il fallimento provochi una separazione tra il
piano della soggettività passiva e il piano applicativo dell’imposta,
così come dal punto di vista sostanziale avviene tra titolarità dei beni
ed amministrazione.
Ciò significa che non esiste un reale ostacolo alla compensazione tra
i crediti emersi per la fase prefallimentare e il debito d’imposta
relativo alle operazioni fallimentari 2 7 2 : il soggetto passivo del rapporto
272
Si ritiene invece che, posta la continuità dell’impresa anche in pendenza del
fallimento e, quindi, l’ordinaria applicabilità della disciplina dei rimborsi ex art.
30, la scelta tra rimborso e riporto a credito dovrebbe essere lasciata, ove ne
sussistano
i
presupposti,
al
curatore
nell’ambito
della
sua
attività
di
amministrazione. Del resto, non si ritiene che un’eventuale compensazione
potrebbe concretamente provocare un depauperamento dell’attivo fallimentare in
danno ai creditori concorsuali, proprio perché a fronte della non riscossione di un
credito ci sarebbe una minore uscita a carico della procedura, mantenendo in
sostanza il risultato invariato. Allo stesso modo, non si può sostenere un
ingiustificato vantaggio per l’Amministrazione che vedrebbe soddisfatto il proprio
credito al di fuori del concorso. Si tratta infatti di posizioni diverse: il credito
tributario iscritto al passivo è sorto anteriormente all’apertura della procedura e
concorre regolarmente con gli altri crediti iscritti; le imposte inerenti alle attività
della procedura stessa non sono qualificabili come crediti concorrenti e, pur se
imputabili al medesimo soggetto passivo, non sono soggette alla par condicio
creditorum proprio perché, al pari del compenso del curatore, sono oneri gravanti
sulla stessa procedura perché spese sostenute in favore della massa.
219
Capitolo II
è lo stesso, pur se il presupposto è realizzato sotto la direzione altrui
per la particolarità della fase in cui l’impresa si trova; il fatto che tali
imposte rientrino tra le spese prededucibili del resto non indica una
diversità di soggetti passivi, ma si giustifica sulla base delle stesse
norme fallimentari, laddove separano crediti anteriori al fallimento, e
dunque concorrenti, e spese o oneri sostenuti nel corso della procedura
per la liquidazione dell’attivo.
Così come non si ritiene debba accogliersi l’indirizzo
giurisprudenziale che fa discendere dalla dichiarazione di fallimento
un immediato effetto estintivo, ugualmente non sembra del tutto
corretto l’orientamento amministrativo che posticipa tale effetto
automaticamente alla chiusura della procedura. Si deve infatti ritenere
che, sulla base della ricostruzione fatta del fallimento dal punto di
vista sostanziale, la cessazione dell’impresa non sia necessariamente
conseguente alla fine della procedura.
Soprattutto nei casi in cui essa termini per assenza di passivo o
soddisfazione dei crediti iscritti senza totale liquidazione dell’attivo,
nulla vieta che l’attività riprenda in capo al fallito tornato in bonis.
Posta la continuità che si è evidenziata nel rapporto tributario, che
resta in ogni caso riferito all’imprenditore, non sembra allora
giustificabile l’idea secondo la quale un’eventuale ripresa
dell’esercizio costituisca l’inizio di una nuova impresa, cui dovrebbe
necessariamente collegarsi una diversa posizione nei confronti del
Fisco 2 7 3 , stante oltretutto l’assenza di indicazioni normative in tal
senso.
Non sembra, dunque, corretto ritenere che alla chiusura della
procedura il curatore debba necessariamente presentare la
dichiarazione di cessazione ex art. 35. Come si è visto, la norma
prevede come criterio generale che essa sia redatta entro trenta giorni
273
Al contrario, come l’impresa mantiene la medesima partita Iva durante tutta
la procedura, ugualmente la manterrà successivamente qualora prosegua l’attività.
Se
si
ipotizzasse
la
nascita
di
una
nuova
necessariamente mutarne anche gli aspetti formali.
220
impresa
allora
dovrebbero
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
dal termine della liquidazione, senza introdurre criteri specifici per
casi quali il fallimento. La chiusura del fallimento di per sé non può
integrare i requisiti di applicazione della norma, sia perché la
liquidazione potrebbe proseguire successivamente ad opera dello
stesso imprenditore, sia perché l’attività potrebbe riprendere, come si è
detto, con una diversa organizzazione.
In questi casi sarebbe allora del tutto ingiustificato che il curatore
fosse tenuto a decretare l’estinzione di un soggetto passivo che in
realtà può ancora integrare i presupposti impositivi ai fini dell’Iva.
Anche con riferimento al profilo fiscale, il fallimento dovrebbe
allora essere considerato più come una fase circoscritta della vita
dell’impresa che come una fase necessariamente terminale. La
particolarità della fattispecie è in grado di determinare delle modifiche
nel regime impositivo che evidenziano la separazione dall’esercizio
ordinario, ma che di fatto non contengono indicazioni sulla sua portata
estintiva nei confronti del soggetto coinvolto.
Pertanto, nel determinare se in conseguenza del fallimento vi sia la
cessazione dell’impresa, si dovrà compiere un’analisi più aderente alla
concreta situazione di fatto, evitando qualsiasi meccanismo
automatico, ma svolgendo un esame pari a quello che si è visto
necessario nell’ipotesi di liquidazione volontaria, verificando se,
anche in seguito alla procedura fallimentare, sia riscontrabile
un’attività per le proprie caratteristiche riconducibile all’impresa,
capace, quindi, di conservare la soggettività passiva in capo all’ex
fallito ed integrare, conseguentemente, i presupposti per l’applicazione
dell’imposta.
3-
A LCUNE
CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE :
IMPRESA ,
ATTIVITÀ
ECONOMICA E CESSAZIONE NELL ’ ORDINAMENTO INTERNO
Dalla ricostruzione sin qui condotta emergono due problematiche
principali relative alla cessazione dell’impresa: quali sono le ragioni
per cui la fase liquidatoria viene ricondotta all’interno della stessa
impresa e quando è possibile determinare il corretto momento di
221
Capitolo II
cessazione.
Questi temi si traducono, in ambito impositivo, in due fondamentali
interrogativi, ovvero per quale motivo la fase liquidatoria è
assoggettata al regime impositivo ordinario e quale evento comporta il
venir meno del presupposto, ovvero la cessazione dell’attività
rilevante.
La risposta al primo quesito, esclusa l’ovvia considerazione che è il
legislatore a disporre in questo senso, poggia sulla capacità della
liquidazione ad integrare il presupposto impositivo attraverso il
compimento di operazioni imponibili che consentono il mantenimento
della soggettività passiva.
Posta la struttura prettamente oggettiva della normativa nazionale,
la ragione della sopravvivenza dell’impresa viene individuata nella
natura dei beni che sono oggetto di tali operazioni. Trattandosi di beni
prodotti dall’impresa o a questa strumentali la loro imponibilità viene
data per scontata, ritenendosi sufficiente questo elemento a mantenere
in vita l’impresa ed il legame tra le operazioni.
Sulla base di questa interpretazione, la presenza dei beni sarebbe
dunque in grado di sopperire alla mancanza di un effettivo esercizio
dell’attività produttiva e delle altre caratteristiche richieste per
l’attività.
In questo, la dottrina tributaria accoglie quelle soluzioni emerse nel
diritto commerciale per cui non si avrebbe estinzione dell’impresa sino
alla completa ed irreversibile disgregazione della struttura aziendale,
sicuro indice dell’impossibilità di riprendere l’attività.
Se però in ambito commerciale una simile considerazione appare
logica alla luce del ruolo che l’elemento organizzativo-strutturale
ricopre all’interno dell’impresa, più difficilmente si adatta ad
un’imposta che mostra, già nelle norme, una sostanziale indifferenza
nei confronti dell’organizzazione.
Questo allontanamento dalle caratteristiche proprie del presupposto
viene allora giustificato con la necessità di chiudere il ciclo fiscale
222
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
dell’impresa, assoggettando a tassazione beni che, nel corso
dell’esercizio, hanno dato diritto alla detrazione dell’imposta di cui
erano gravati.
Questa soluzione è criticabile nella prospettiva che qui si è deciso di
assumere, ma di per sé perfettamente coerente alla struttura
tipicamente oggettiva della normativa italiana, più attenta a ragionare
in termini di operazioni imponibili e di inerenza che di attività e
soggettività passiva.
Pur se coerente, essa non appare tuttavia sufficiente nemmeno nella
propria prospettiva, perché, limitandosi alla valutazione di un solo
profilo del presupposto impositivo, sembra non avere, a volte, elementi
sufficienti a fornire una visione unitaria e costante.
Per questo motivo trovano spazio nell’interpretazione tributaria le
stesse differenze che si possono riscontrare nel diritto commerciale, in
funzione della natura del soggetto imprenditore, così come si
presentano altre diversità, tipicamente tributarie, in ragione delle cause
che portano alla cessazione dell’impresa.
Ciò in conseguenza del fatto che il solo dato oggettivo costituito
dalla destinazione dei beni e dalla presenza di una struttura
potenzialmente produttiva non è in grado di individuare il momento in
cui viene meno il presupposto impositivo e, dunque, si verifica la
cessazione dell’impresa.
Se l’assenza di attività tipica viene considerata irrilevante e la sola
presenza di beni integra l’esistenza dell’impresa (quindi l’imponibilità
della loro cessione e la soggettività passiva dell’agente) vengono a
mancare elementi che permettano di determinare il momento di
cessazione, sia nei casi in cui la liquidazione manca sia in quelli in cui
essa si chiude prima dell’integrale cessione di tutti i beni.
Di fatto, non si riesce ad individuare un elemento che sia in grado di
interrompere il collegamento tra i beni e la precedente attività, perché
negando rilevanza al soggetto, alla sua volontà e alle formalità
espressione di questa non resta che attendere la cessione integrale di
tutto il patrimonio aziendale.
223
Capitolo II
La presunta oggettività dell’Iva e dell’ordinamento tributario inteso
in senso generale conduce, inoltre, ad alterare la prospettiva con cui
questo collegamento viene considerato: infatti, pur riconoscendone la
forte ed innegabile componente volontaristica –per cui non si può
avere destinazione ad alcuna finalità in assenza di un soggetto che
volontariamente la imprima- essa viene completamente disconosciuta
nel momento in cui si tratti di valutarne la cessazione.
Sembra, dunque, che si voglia affermare una sorta di oggettivazione
e perpetuazione del vincolo impresso fintanto che esso non venga
esplicitamente modificato, pur se, cessata l’attività in modo definitivo,
è innegabile che l’elemento volontaristico necessario sia venuto meno
o, in ogni caso, abbia radicalmente mutato la propria direzione.
Così facendo, di fatto, si finisce per alterare, anche solo a livello
potenziale, il sistema dell’imposta, incidendo sull’applicabilità delle
disposizioni che prevedono l’imponibilità per autoconsumo nei casi di
cessazione dell’impresa, senza raggiungere in nessun caso conclusioni
né certe, in merito all’individuazione di questo momento, né unitarie,
per le differenti ipotesi di conclusione dell’esperienza imprenditoriale.
Ciò che appare più chiaramente, però, è che nel tentativo di
individuare una ragione per l’imponibilità dell’attività liquidatoria,
venga modificato e ricostruito in modo non corretto lo stesso
presupposto impositivo. Già solo con riferimento all’ordinamento
italiano nel suo complesso risulta, infatti, evidente come l’impresa
richiamata dalle norme tributarie non possa ricondursi a semplice
insieme di beni vincolati all’esercizio di un’attività.
In essa sono ugualmente presenti l’elemento oggettivo, costituito
dall’attività e dal suo esercizio, quanto un elemento soggettivo,
costituito dall’agente, dalla sua volontà e dall’indirizzo che questi
imprime all’attività stessa.
La scelta di un approccio maggiormente oggettivo, che porta ad
escludere effetti automatici sulla sola base della qualificazione
soggettiva, non implica tuttavia la necessità di privare di ogni
rilevanza il ruolo che l’agente/soggetto passivo ricopre all’interno
della struttura dell’imposta. Ciò a maggior ragione laddove la sola
224
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
ragione oggettiva non consenta di individuare soluzioni soddisfacenti
ed uniformi.
Questa considerazione nasce dalle evidenti oscillazioni che,
soprattutto la giurisprudenza, mostra nei diversi casi esaminati.
Se infatti si confrontano le diverse ipotesi cui viene solitamente
ricondotta la cessazione dell’impresa, è possibile notare come,
nonostante l’applicazione tendenzialmente uniforme di un approccio
oggettivo, non mancano ipotesi che se ne discostano, minando ancor
più la certezza delle situazioni giuridiche o, quanto meno, la
possibilità di fornire un’interpretazione non contraddittoria del
fenomeno cessazione.
Tutto ciò è assolutamente evidente se si osserva che:
- nel caso di una liquidazione volontaria di un’impresa individuale
viene ritenuto prevalente il criterio della destinazione dei beni
dell’impresa, capace di giustificare la sopravvivenza anche
dell’impresa non più in esercizio e formalmente cessata;
- nel caso della liquidazione delle società, è diventata ora una scelta
obbligata quella di considerare l’impresa cessata al più tardi al
momento della cancellazione della società dal Registro delle imprese,
viste le modifiche subite dalla disciplina civilistica che dispone
l’estinzione del soggetto. Diverso continua, tuttavia, ad essere il caso
delle società di persone per cui il Codice Civile nulla prevede
esplicitamente, consentendo per tanto di continuare ad applicare in
criterio affine a quello visto per le imprese individuali che fa
coincidere cessazione e totale estinzione dei rapporti giuridici ad
essa imputabili;
- la prospettiva sembra mutare radicalmente quando si abbia a che fare
con un’ipotesi di trasferimento dell’intera azienda, soprattutto
quando questa sia l’unica posseduta dall’imprenditore individuale. In
un caso simile, la giurisprudenza collega la cessazione dell’impresa
alla perdita in capo al soggetto della qualifica di imprenditore
causata dal trasferimento, anche solo temporaneo, dell’unica azienda,
finendo per ignorare la possibilità che l’attività sia solo sospesa e
225
Capitolo II
possa riprendere al termine del contratto o che venga continuata in
altre forme. Qui, dunque, fondamentale diviene l’elemento soggettivo
costituito dalla qualificazione o meno del soggetto come
imprenditore.
- ancora diversa appare invece la soluzione adottata in caso di
fallimento, ipotesi in cui la giurisprudenza individua la cessazione
dell’impresa in coincidenza della dichiarazione di fallimento,
nonostante la stessa legge fallimentare parli di sospensione e preveda
la possibilità di esercizio provvisorio deliberato in un momento
successivo, nel corso della procedura.
Indipendentemente dalle motivazioni che vengono portate a
sostegno di questa tesi, appare evidente che in questo caso non viene
prestata particolare attenzione né al profilo oggettivo (e quindi
all’esercizio) né a quello oggettivo (qualificazione del soggetto) in
favore del riferimento ad un elemento classificabile come formale,
quale è la sentenza dichiarativa di fallimento.
Tali oscillazioni sono diretta conseguenza dell’incertezza sulla
qualificazione della fase liquidatoria e della sua imponibilità, che
finisce per essere giustificata o sulla sola base dei beni che ne sono
oggetto o sulla semplice constatazione che è il legislatore ad avere
così disposto.
Manca infatti un elemento che accomuni le attività liquidatorie,
volontarie o concorsuali, indipendentemente dalle modalità con cui
vengono condotte o dai soggetti interessati e consenta, dunque, di
fornirne una visione unitaria, soprattutto nell’ottica di un collegamento
con il presupposto dell’imposta.
Si crede che questo elemento di sintesi debba essere riconosciuto
nel ruolo stesso dell’attività economica, considerata in tutti i suoi
elementi costitutivi, così come accade all’interno dell’ordinamento
comunitario, in cui la nozione di attività economica, generale ed estesa
in funzione della neutralità dell’imposta, ricopre il ruolo fondamentale
di elemento attorno al quale tutta la disciplina viene costruita.
Infatti, le due prospettive oggettiva e soggettiva, come si è
affermato, vengono a coincidere quando venga valorizzato il profilo
226
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
costituito proprio dall’attività economica e dal suo esercizio,
all’interno del quale è possibile conciliare la visione oggettivata
dell’ordinamento tributario con la funzione della disciplina civilistica
che è, tra le altre, quella di individuare il soggetto cui attribuire gli
effetti legati all’attività d’impresa.
In una prospettiva dinamica dell’impresa, vista come fattispecie
appartenente alla categoria giuridica dell’attività, qualificata
dall’economicità, dalla professionalità e dall’essere in qualche modo
organizzata, appare più evidente la complessità del fenomeno –che non
può ridursi né a solo soggetto né a soli atti, materiali o giuridici- e,
soprattutto, lo stretto legame che vincola fra loro gli elementi che la
costituiscono, rendendone necessaria una valutazione complessiva, che
unisca esercizio e soggetto agente, volontà ed effettività, formalità e
riscontri oggettivi, probabilmente bilanciandone la rilevanza a seconda
della fase esaminata.
Così, nella fase di pieno esercizio dell’impresa, sarà inevitabile
attribuire una maggiore rilevanza alla componente oggettiva,
concentrandosi sulla sua corrispondenza al principio di effettività e
alle altre caratteristiche richieste dalla norme.
Diversamente si dovrà, invece, ragionare quando sia evidente
l’avvenuta cessazione dell’esercizio di fatto dell’attività tipica, ma sia
tuttavia riconoscibile la permanenza di un’attività, pur se in parte
diversa, ed il suo collegamento con l’impresa.
In queste fasi, si ritiene diventi fondamentale la valutazione
dell’elemento soggettivo, diventando lo stesso soggetto il più
importante fattore in grado di causare l’interruzione del legame tra le
operazioni della fase finale ed il precedente esercizio e determinare la
cessazione definitiva dell’attività ai fini dell’imposta.
La ricerca di un equilibrio fra queste componenti, insito nella stessa
figura dell’attività intesa quale categoria giuridica, consente di
raggiungere soluzioni più certe sotto il profilo dell’applicazione
dell’imposta, ma che al contempo hanno il grande vantaggio di essere
universalmente applicabili ad ogni ipotesi di cessazione, interessando
gli stessi elementi costitutivi dell’attività economica la cui struttura,
227
Capitolo II
indipendente dalle modalità con cui si estingue, resta sempre uguale a
se stessa e, quindi, più facilmente qualificabile.
Valorizzare il ruolo dell’attività significa pertanto porre nella giusta
luce anche il profilo soggettivo di questa e con esso anche il valore
degli adempimenti formali che le norme prevedono. Un simile percorso
sembra già avviato nell’ambito del diritto commerciale dove il
legislatore,
seguendo
le
indicazioni
della
giurisprudenza
costituzionale, ha assegnato un ruolo di maggiore rilevanza a formalità
quali la cancellazione dal Registro delle imprese, sancendo di fatto che
esse assumano un valore probatorio presuntivo circa l’avvenuta
cessazione dell’impresa, pur facendo al contempo salva la possibilità
di dimostrare il contrario.
Completamente opposto, si è visto, continua ad essere l’approccio
del legislatore tributario che, pur sanzionando l’inadempimento degli
obblighi formali imposti al soggetto passivo, quali la presentazione
della dichiarazione di cessazione ai fini Iva, non riconosce ad essa
alcun valore in modo esplicito, dando adito all’affermazione di quelle
linee interpretative che, a fronte della presenza di elementi oggettivi,
anche se solo costituiti dalla presenza di beni residui, la considerano di
fatto come inesistente e in alcun modo significativa, escludendo quindi
la possibilità di avere punti di riferimento certi nell’individuazione del
momento di cessazione.
Anche in questa prospettiva, nulla osta a che anche in ambito
impositivo si proceda ad una valorizzazione in tal senso e del ruolo del
soggetto passivo e del valore delle manifestazioni delle intenzioni di
questo, ben rappresentate dagli adempimenti formali prescritti,
elementi in grado di fornire indicazioni univoche e certe sulle vicende
dell’impresa.
Sulla base di queste osservazioni, si ritiene che, nonostante la
costruzione letterale del DPR. 633/72, il quale apparentemente collega
in via diretta solo attività ed operazioni, trascurando il legame con il
soggetto passivo, dovrebbe trovare accoglimento un’interpretazione
che muova verso una valutazione complessiva degli elementi che
compongono il presupposto impositivo, da riconoscersi nell’esercizio
228
La cessazione dell’attività economica nell’ordinamento nazionale
dell’impresa quale forma di attività.
Ciò significa, dunque, conciliare una prospettiva oggettiva e
casistica con una soggettiva più attenta all’influenza della volontà del
soggetto agente sull’esistenza dell’attività. In tal modo sarebbe
pertanto possibile fornire una lettura della cessazione dell’impresa più
coerente con il complesso della disciplina impositiva, attribuendo
maggiore rilevanza anche all’ipotesi di imposizione per autoconsumo
dovuto a cessazione dell’attività, espressamente disciplinato dal
legislatore.
Così, valutato il presupposto nel suo complesso e valorizzate le
disposizioni della stessa disciplina impositiva, potrebbe costruirsi una
visione unitaria della cessazione, come unitaria è nella prospettiva
dell’imposta l’attività economica rilevante, capace di garantire una
maggiore certezza dal punto di vista applicativo ed una maggiore
aderenza alle indicazioni che, come si è visto, vengono dalla
giurisprudenza comunitaria.
229
Capitolo III
S ISTEMA
COMUNITARIO DELL ’ IMPOSTA E
REGIME NAZIONALE A CONFRONTO
S OM M A RI O : 1-La compatibilità tra la disciplina comunitaria ed il regime
nazionale 1.1-La centralità del vincolo di destinazione dei beni nell’individuazione
del momento di cessazione dell’impresa in contrasto con l’irrilevanza
dell’organizzazione. 1.2-La frammentazione della disciplina nazionale in contrasto
con l’approccio unitario che emerge dalla giurisprudenza comunitaria:
l’indifferenza della forma di cessazione.. 1.3- ..e della natura giuridica del
soggetto passivo 1.4- La compatibilità delle interpretazioni nazionali nella
prospettiva applicativa dell’imposta 2-I L R U O LO D E LL ’ AT T IV IT À E C ON O M IC A E D E LLA S U A
C E SS A ZIO N E A CO N FR O N T O
1- L A
COMPATIBILITÀ TRA LA DISCIPLINA COMUNITARIA ED IL REGIME
NAZIONALE
L’esame sinora condotto ha cercato di evidenziare i punti salienti
emersi in dottrina e giurisprudenza, sia a livello nazionale che
comunitario, circa la nozione di attività economica e, soprattutto, circa
le caratteristiche ed il regime impositivo applicabile alla fase
conclusiva di questa, nel tentativo di individuare criteri utili
all’identificazione del momento di cessazione dell’esperienza
imprenditoriale.
Si rende ora necessario confrontare i risultati emersi al fine di
verificare se vi sia una reale corrispondenza tra l’orientamento
nazionale e quello desumibile dalle pronunce della Corte di Giustizia.
In tal senso, due sono i profili che assumono una rilevanza centrale in
questo confronto: da un lato, il rilievo che l’interpretazione nazionale,
ispirata a criteri forse eccessivamente oggettivi, attribuisce al vincolo
di destinazione dei beni all’impresa; dall’altro, la frammentarietà che
si è visto caratterizzare la disciplina nazionale in relazione alle diverse
forme di cessazione dell’impresa, con inevitabili conseguenze anche
sul piano impositivo.
Sulla base delle considerazioni che precedono e confrontando le
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
ragioni che nei due ordinamenti vengono individuate per giustificare
l’imponibilità della fase liquidatoria dell’attività, sarà possibile
valutare il diverso ruolo che sembra riconosciuto nei due ordinamenti
alla stessa nozione di attività economica e alla sua cessazione.
1.1- La centralità del vincolo di destinazione dei beni
nell’individuazione del momento di cessazione dell’impresa in
contrasto con l’irrilevanza dell’organizzazione.
Con riguardo al primo profilo sembrano emergere dal confronto tra
le dottrine emerse a livello nazionale e l’elaborazione comunitaria
alcune differenze che investono sia le caratteristiche del presupposto
che, di conseguenza, l’individuazione del momento di cessazione.
Da un lato, infatti, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie,
assumendo quale principio cardine l’oggettività che sarebbe insita
nell’ordinamento tributario ed in particolare nell’individuazione del
presupposto dell’Iva, delineano una nozione di impresa che finisce per
coincidere sostanzialmente con l’insieme dei beni ad essa destinati.
Si mette in risalto, quindi, il vincolo di destinazione dei beni
all’impresa che diventerebbe elemento da solo in grado di integrare il
presupposto impositivo e di mantenerlo in vita anche laddove gli
ulteriori elementi che dovrebbero costituirlo vengano meno.
Si finisce in questo modo per assegnare una rilevanza centrale
all’elemento costituito dall’azienda, intesa quale struttura attraverso
cui l’attività viene svolta e, in forza dell’autonomia e della pretesa
autosufficienza che tale complesso di beni è in grado di assumere una
volta organizzato, vengono svalutati altri profili che caratterizzano
l’impresa quale esercizio di un’attività economica, primo fra tutti
quello soggettivo.
Una simile ricostruzione non sembra trovare piena corrispondenza a
livello comunitario.
Nonostante la dimensione prettamente oggettiva che il legislatore
europeo accoglie nel delineare la disciplina dell’imposta sul valore
aggiunto, in virtù dell’utilizzazione di nozioni più vicine al mondo
231
Capitolo III
economico che alla dimensione strettamente giuridica del fenomeno
imprenditoriale e professionale, la giurisprudenza della Corte ha
dimostrato di accogliere una nozione più complessa di attività
rilevante sottolineando come, in realtà nessuno degli elementi che
compongono la fattispecie possa essere sottovalutato nell’applicazione
dell’imposta.
Una prima considerazione coinvolge le stesse indicazioni normative
ed il ruolo che esse assegnano ai beni dell’impresa confluiti
nell’azienda. Come risulta anche dalle norme italiane che hanno dato
attuazione alle direttive in materia di Iva, ciò che rileva per
l’integrazione dei presupposti oggettivo e soggettivo non è la
possibilità di individuare una struttura dedicata all’esercizio
dell’impresa, ma il fatto che tale esercizio sia concretamente esistente
e si manifesti nel compimento di operazioni imponibili ai fini
dell’imposta.
In questo senso, la diversa prospettiva con cui si valuta la
destinazione dei beni all’esercizio dell’attività economica si riflette
anche sulla differente considerazione del rapporto di inerenza, che
assume un diverso rilievo in ambito comunitario e nazionale 274 .
Sembra, infatti, che, mentre l’elaborazione comunitaria ricerca ed
attribuisce valore al nesso esistente tra le operazioni che costituiscono
l’attività –nesso in base al quale si garantisce la possibilità di
effettuare la detrazione dell’imposta versata nelle operazioni a monteattribuendo funzione meramente indicativa al rapporto di inerenza che
riguarda più limitatamente i beni oggetto di tali operazioni,
l’orientamento emerso a livello nazionale si fermi alla valutazione di
questo secondo profilo, assegnandogli un ruolo preminente rispetto ad
una prospettiva più ampia che guardi alle operazioni in quanto tali, con
inevitabili riflessi non tanto sull’individuazione dell’attività rilevante
sotto il suo profilo statico, quanto in relazione al suo profilo dinamico.
Questo non significa che in ambito comunitario si sottovaluti il
274
Per un ampia analisi che pone in evidenza la diversità delle prospettive
adottate in relazione all’esercizio della detrazione si veda G IO R G I , Detrazione e
soggettività passiva cit., 269 ss.
232
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
profilo del collegamento fra i beni e l’attività economica, sembra però
diverso il contesto in cui ad esso si attribuisce rilevanza.
Il rapporto e l’utilizzazione del bene nell’esercizio dell’attività
economica e, quindi, il collegamento con le operazioni imponibili
trova la sua principale funzione nell’attribuzione del diritto alla
detrazione, o meglio nel determinarne le modalità, non
nell’individuazione dell’attività nel suo complesso e, di conseguenza,
della soggettività passiva che, nella struttura europea dell’imposta, si
pongono come premessa rispetto alla valutazione di operazioni e
beni 2 7 5 .
Questa differenza di prospettiva ha inevitabilmente influssi anche
sulla determinazione del momento conclusivo della vita dell’impresa e
sulla disciplina ad esso applicabile. Essa si manifesta già
dall’approccio con cui viene affrontato il tema della riconducibilità
della liquidazione nell’alveo dell’attività economica rilevante.
Se nella prospettiva comunitaria la principale preoccupazione è
quella di garantire al soggetto passivo il diritto alla detrazione, anche
in assenza di un esercizio effettivo, ricorrendo dunque alla verifica del
nesso con la precedente attività, nell’ambito della dottrina nazionale la
prospettiva si sposta sulla ricerca del motivo che giustifichi
l’imponibilità delle operazioni di liquidazione una volta che l’esercizio
dell’attività propriamente intesa sia cessato.
Nel primo caso, è la necessità di rispettare il principio di neutralità
che giustifica il parziale allontanamento dalle caratteristiche proprie
dell’attività, prima fra tutti l’effettività del suo esercizio, in favore di
un diverso bilanciamento fra le differenti componenti del presupposto;
a livello nazionale questa attenuazione viene motivata, invece, sulla
sola considerazione che l’esistenza dell’attività deve ritenersi
comunque garantita dalla presenza di beni ad essa destinati, al fine di
275
Inoltre, che si tratti di valutare la natura dell’attività o la spettanza della
detrazione, non si deve dimenticare come la stessa giurisprudenza comunitaria
ritenga la natura dei beni solo uno dei possibili criteri utilizzabili e non sempre
decisivo.
233
Capitolo III
assicurare la corretta chiusura del ciclo fiscale dei beni dell’impresa.
Tuttavia, anche prendendo in considerazione lo stesso profilo, ossia
quello dell’imponibilità delle operazioni attive svolte in fase di
liquidazione, sembra potersi sostenere che le ragioni individuabili a
livello comunitario siano comunque differenti.
Secondo i principi che sono emersi nell’ambito della giurisprudenza
sugli atti preparatori, le norme europee non distinguono, infatti, tra
operazioni tipiche dell’attività ed operazioni estranee, in favore di
un’interpretazione letterale del dettato normativo che attribuisce
rilevanza a quelle compiute dal soggetto passivo in quanto tale,
assegnando un ruolo residuale alla natura e alla funzione di beni che
possono esserne oggetto, considerato semplicemente come uno dei
possibili criteri utilizzabili.
Trattandosi, nel caso della liquidazione, di operazioni che per le
proprie caratteristiche non differiscono da quelle espressione
dell’esercizio dell’attività vera e propria, secondo l’impostazione
comunitaria non è necessario ricercare un ulteriore collegamento che
non sia quello rappresentato, di fatto, dalla considerazione che esse
sono imputabili al soggetto passivo riconosciuto come tale, elemento
che evidentemente viene ritenuto di per sé sufficiente a mantenere in
essere il legame con l’attività economica produttiva ormai
abbandonata.
Sono evidenti, dunque, la diversità di prospettive e la diversità
delle conclusioni cui esse conducono, ragionandosi in un ordinamento
in termini di operazioni imponibili e nell’altro in relazione alla natura
dei beni. I riflessi della differente impostazione sono particolarmente
evidenti nell’applicazione dell’imposta per autoconsumo.
Il legislatore italiano, come si è visto, ha esercitato la facoltà
concessa dalla Direttiva, assimilando alle cessioni imponibili anche i
casi di autoconsumo dovuti a cessazione dell’attività economica. Il
testo delle norme è, però, apparentemente diverso e dà adito ad
interpretazioni in parte discordanti.
Infatti, laddove la norma comunitaria parla di assimilazione del
semplice possesso di beni dell’impresa, la norma italiana mantiene la
234
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
formula della destinazione ad uso personale, senza far riferimento al
caso della semplice disponibilità dei beni in capo all’imprenditore
cessato.
La sostanza delle norme non è differente, potendo condurre sul
piano interpretativo ai medesimi risultati. Tuttavia, nell’ambito
dell’orientamento che si è ricordato, che attribuisce un ruolo
essenziale al vincolo di destinazione di beni, la diversa formulazione
della norma conduce ad una notevole riduzione del suo ambito di
applicazione. Il parlare di destinazione ad uso personale, come si è già
ricordato, porta infatti a ritenere che il passaggio in autoconsumo si
verifichi solo nei casi di destinazione espressa e non nelle ipotesi di
mera inutilizzazione, con la conseguenza che la vita dell’impresa viene
prolungata sino alla completa estromissione di questi beni.
Se confrontato con il dettato della norma comunitaria questa
interpretazione sembra del tutto infondata e con essa incompatibile.
Il legislatore comunitario parla di destinazione ad uso privato solo
nel caso di autoconsumo che si verifichi nel corso dell’esercizio,
mentre sembra prevedere un meccanismo automatico in tutte le ipotesi
in cui, a seguito della cessazione dell’attività, rimangano nella
disponibilità dell’imprenditore beni non liquidati.
Da ciò appare ancora più evidente come il legislatore comunitario
distingua nettamente cessazione dell’attività e liquidazione della
stessa, non ritenendo evidentemente necessario che ai fini dell’imposta
per verificarsi la prima debba esaurirsi la seconda.
Posta l’imponibilità della fase liquidatoria cui, sia sotto il profilo
attivo che sotto quello passivo, resta applicabile integralmente il
regime impositivo ordinario per le ragioni prima esposte, le
disposizioni comunitarie, distinguendo le due ipotesi, sembrano
pacificamente ammettere che la cessazione si verifichi in qualsiasi
momento, indipendentemente dalla fine o, addirittura dalla presenza, di
una fase liquidatoria.
Del resto, a fronte della previsione di un’applicazione automatica
dell’imposta sulla base del semplice possesso dei beni residui,
nell’ottica comunitaria non esiste alcuna esigenza di prolungare
235
Capitolo III
l’esistenza dell’attività economica ed è per questo possibile
valorizzare maggiormente il ruolo del soggetto passivo. Pertanto, se è
il soggetto passivo che agisce in quanto tale a garantire la possibilità
di applicare l’imposta anche in assenza di un esercizio effettivo
-creando un vincolo in prospettiva se si tratta di atti preparatori o
retrospettivo in fase di liquidazione- inevitabilmente un suo
comportamento in senso opposto, ossia il cessare di agire come tale,
avrà la capacità di interrompere quel legame, provocando
contemporaneamente l’applicazione dell’imposta in autoconsumo, la
cessazione dell’attività e, conseguentemente, l’estinzione stessa del
soggetto passivo ai fini dell’imposta.
Se questo ragionamento è corretto, emerge con ancora più evidenza
la differenza tra l’impostazione della disciplina europea e
l’interpretazione che ha preso piede a livello nazionale.
Tale differenza si accresce ulteriormente se, come si è suggerito, si
estende alla cessazione l’interpretazione che la Corte di Giustizia ha
applicato al caso degli atti preparatori, unendo l’oggettività del
principio di inerenza al profilo soggettivo costituito dalle intenzioni
del soggetto passivo.
In questa prospettiva, dovendo individuare il momento di
cessazione, cui si collega l’interruzione del nesso dei beni all’attività,
sembra più utile accogliere la valutazione dell’elemento soggettivo che
viene fatta in sede di determinazione dell’inizio dell’attività rilevante,
recependo anche le valutazioni relative al valore degli adempimenti
formali.
Anche in questo caso, dunque, escluso qualsiasi valore costitutivo
della dichiarazione di cessazione presentata dal contribuente, dovrebbe
comunque ritenersi valido il principio per cui essa, in quanto
espressione delle intenzioni del soggetto, dovrebbe mantenere la
propria validità fintanto che non si dimostri priva di elementi concreti
a proprio sostegno o contrarie alle reali intenzioni del soggetto che si
manifestano in comportamenti abusivi.
Se queste sono le considerazioni che possono desumersi dalla
giurisprudenza comunitaria, appare evidente la distanza con le
236
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
posizioni che, a livello nazionale, giungono a riconoscere la
permanenza dell’impresa anche successivamente alla sua cessazione
formale, ritenendo che essa non sia di per sé in grado di interrompere
il legame tra beni e attività e fra questa e le operazioni
successivamente svolte.
Secondo questa interpretazione, pertanto, la dichiarazione di
cessazione avrebbe di fatto la mera funzione di una comunicazione
priva di effetti non solo, come giusto, quando sia contraddetta da una
continuazione dell’attività, ma anche dalla permanenza di beni non
ceduti e non espressamente destinati all’uso personale, con la
conseguenza di richiedere al soggetto che abbia cessato l’attività un
comportamento attivo (la destinazione all’uso personale) assente dalla
disciplina comunitaria e non particolarmente utile nemmeno nella
prospettiva nazionale.
In conclusione, quindi, si ritiene corretto sostenere che la linea di
oggettività estrema assunta da una certa dottrina nazionale
nell’interpretazione del presupposto Iva e, soprattutto, nella
individuazione del momento di cessazione dell’attività economica,
attribuendo un ruolo decisivo al vincolo di destinazione dei beni e alla
sua permanenza, oltre ad esporsi alle critiche già avanzate sotto il
profilo dell’ordinamento nazionale, si manifesti eccessivamente
distante anche rispetto alle indicazioni ricavabili dall’ordinamento
comunitario, giungendo a conclusioni da esse difformi, soprattutto in
tema di autoconsumo, che ne impongono il rigetto in favore di
un’interpretazione maggiormente aderente all’orientamento europeo.
1.2- La frammentazione della disciplina nazionale in contrasto
con l’approccio unitario che emerge dalla giurisprudenza
comunitaria: l’irrilevanza della forma di cessazione..
Un ulteriore elemento di differenziazione che emerge dal confronto
tra la normativa e la giurisprudenza comunitaria e l’orientamento
nazionale può essere ravvisabile nella frammentarietà che questo
dimostra a fronte di una sostanziale uniformità dell’approccio
237
Capitolo III
comunitario.
Delineando il contenuto della nozione di attività economica definita
a livello europeo, accanto al suo carattere più marcatamente oggettivo
rispetto a quello rinvenibile a prima vista nel diritto commerciale
nazionale, se ne sono sottolineate l’ampiezza e l’uniformità.
Come posto in evidenza dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia la nozione di attività economica, quale presupposto per la
soggettività passiva all’imposta, deve essere interpretata nel modo più
esteso possibile, così da comprendere tutte le possibili forme di
attività economiche che siano potenzialmente in grado di influire sul
mercato.
Tale impostazione è diretta conseguenza della ratio dell’imposta che
mira a garantire la neutralità fiscale per i soggetti coinvolti nei
processi produttivi e la parità di trattamento fra gli stessi; in questa
prospettiva, pertanto, quanto più varia è la tipologia dei soggetti
passivi e quante più sono le attività economiche soggette al regime
uniforme, tanto più si potranno favorire la neutralità fiscale e l’equo
funzionamento del mercato, coinvolgendo tutti gli operatori e tutte le
fasi della produzione antecedenti all’immissione al consumo dei beni e
dei servizi.
Come si è visto, tale impostazione comporta l’assoluta irrilevanza ai
fini dell’imposta delle forme giuridiche con cui queste attività si
manifestano, indifferenza che interessa tanto il piano dei soggetti
quanto quello delle operazioni imponibili, sia attive che passive, che in
linea generale la stessa Direttiva individua sotto il profilo degli effetti
sostanziali, più che della forma negoziale.
Queste considerazioni investono il sistema dell’imposta in ogni suo
aspetto ed interessano tanto il processo di determinazione delle attività
rilevanti, quanto quello della fase dinamica dell’impresa, come
chiarito dalla giurisprudenza in tema di atti preparatori che ha
dichiarato la sostanziale irrilevanza della forma giuridica che essi
assumono rispetto al profilo sostanziale, consistente nel fatto di
rappresentare un costo dalla cui incidenza il soggetto passivo deve
essere liberato, perché sia rispettato il principio di neutralità.
238
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
Affermata l’omogeneità delle pronunce rese dalla Corte con
riguardo alle diverse fasi dell’attività economica rilevante, ritenute
nella sostanza tutte espressioni del principio di neutralità, si è
conseguentemente sostenuta la possibilità, o meglio l’opportunità, di
applicare le considerazioni emerse con riguardo ad un particolare
momento anche alle altre fasi dell’attività.
Pertanto, se questa è l’impostazione che la Corte assume nei
confronti della fase iniziale dell’attività economica, ne discende che il
medesimo ragionamento debba essere applicato anche alla sua fase
conclusiva, adottando un’interpretazione che, indipendentemente dalle
forme giuridiche con cui essa viene raggiunta, consideri in maniera
uniforme il suo profilo sostanziale che, di fatto, consiste nella perdita
della soggettività passiva e nel contestuale verificarsi dell’ultima
ipotesi di imponibilità, costituita dalla tassazione in autoconsumo dei
beni eventualmente residui.
A confronto con tale orientamento, dunque, la frammentarietà che
caratterizza l’ordinamento nazionale appare ingiustificata e comporta
la necessità che, anche in via interpretativa, si ricerchi una maggiore
uniformità.
Come emerge dall’analisi condotta, le considerazioni che a livello
nazionale vengono svolte sul tema della cessazione dell’impresa
giungono a conclusioni differenti, soprattutto sotto il profilo
applicativo, in considerazione principalmente di due fattori: la forma
con cui la cessazione si manifesta e la tipologia del soggetto che
esercita l’attività economica.
Un primo tipo di suddivisioni sulla base di elementi giuridici che
non trova riscontro sul piano comunitario è, infatti, quello che si fonda
sui diversi processi che conducono alla cessazione dell’attività.
Come si è illustrato, infatti, se nel caso della liquidazione o della
cessazione volontaria si attribuisce rilievo alla permanenza di beni
dell’impresa, ritenendo necessario che per aversi cessazione
dell’attività debba essere esaurita la dismissione di questi,
completamente diverse sono le conclusioni raggiunte soprattutto dalla
giurisprudenza nel caso in cui l’impresa vada soggetta a fallimento.
239
Capitolo III
In questo caso, indipendentemente dal fatto che le operazioni della
procedura siano espressamente dichiarate imponibili e che, anche nella
sostanza, esse coincidano con le attività liquidatorie generalmente
intese, si ritiene che la cessazione dell’attività intervenga
automaticamente al momento della dichiarazione di fallimento,
rendendo di fatto ingiustificabile sotto un profilo sistematico
l’applicabilità del regime impositivo ordinario nel corso della
procedura ed il mantenimento della soggettività passiva in capo al
fallito, che dovrebbe decadere al momento della cessazione.
Già solo sulla base di questi esempi appare evidente la scarsa
coerenza insita nelle diverse interpretazioni; l’una oggettiva sino
all’eccesso, rende ininfluente l’elemento soggettivo, ritenendo la
dichiarata intenzione di cessare l’attività priva di conseguenze sul
piano impositivo, perché incapace di alterare il vincolo di destinazione
dei beni che costituirebbe la sostanza stessa dell’impresa; l’altra,
invece, diametralmente opposta, rende ininfluente quel vincolo dal
momento in cui interviene un dichiarazione di fallimento, che, in
realtà, interessa la sfera giuridica del soggetto più che la funzione dei
beni in esso coinvolti.
A ciò si aggiunga l’ulteriore variazione che si avverte quando si
affrontino le cosiddette forme di cessazione senza liquidazione, a
seguito di un trasferimento, anche solo temporaneo, dell’azienda. In
questi casi, sia che si tratti di cessione sia che si verifichi un semplice
affitto dell’azienda, si è visto che la giurisprudenza sancisce la
cessazione dell’impresa individuale esercitata attraverso quell’unica
azienda, a causa della perdita della qualifica di imprenditore in capo al
soggetto passivo.
Oltre alle critiche nel merito che già si sono esposte a proposito di
questa interpretazione, si aggiunge la considerazione circa la diversità
del criterio qui utilizzato per determinare la cessazione dell’impresa,
non più rigidamente oggettivo, né legato ad elementi formali, ma, al
contrario unicamente legato alla figura del soggetto e alle sue possibili
qualificazioni.
Nulla di tutto ciò è rinvenibile nel contesto europeo.
240
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
Sia che si tratti di liquidazione dei singoli beni, sia che si abbia a
che fare con il trasferimento dell’intero complesso aziendale, sia che si
parli di esercizio dell’attività o di atti preparatori, la prospettiva della
giurisprudenza comunitaria non cambia, ma, come si è visto, al
massimo modula gli elementi cui fare riferimento per la tutela del
principio di neutralità.
La caratteristica dell’Iva è quella di essere un’imposta
sostanzialmente oggettiva che si applica ad un determinato tipo di
operazioni espressamente individuato. Di conseguenza, una volta
stabilita l’imponibilità di queste, o la rilevanza delle corrispondenti
operazioni passive nell’attribuzione del diritto alla detrazione, a nulla
rileva come o perché esse vengano svolte, purchè esse manifestino un
nesso fra di loro e con l’attività nel senso individuato dalle norme.
Posta quindi l’applicabilità del regime ordinario alla liquidazione
volontaria -considerata parte dell’attività rilevante in virtù di un
collegamento di natura sia oggettiva che soggettiva, a fronte
dell’indifferenza nei confronti della cessazione dell’attività tipica
precedentemente svolta- non avrebbe senso applicare una diversa
interpretazione ad operazioni nella sostanza identiche, ma forse
differenti solo nello scopo o nella forma giuridica.
Questo perché, se l’estensione della nozione di attività economica si
giustifica con la necessità di garantire la neutralità del sistema
dell’imposta, situazioni nella sostanza omogenee richiedono in quella
prospettiva la medesima soluzione, una soluzione che in primo luogo si
mostri coerente con i principi che caratterizzano il sistema
dell’imposta e non crei difformità laddove non è lo stesso legislatore
ad individuarle.
L’insegnamento che ci viene dalla giurisprudenza comunitaria è
appunto questo, la necessità di fornire un’interpretazione omogenea ed
oggettivamente unitaria, perché laddove le forme giuridiche non
influiscono sulla nascita o sull’esistenza dell’attività economica, non
appare giustificato che esse possano incidere sulla determinazione
della sua estinzione, anticipandola o posticipandola a seconda del
criterio utilizzato per la sua individuazione.
241
Capitolo III
1.3 ..e della natura giuridica del soggetto passivo
Accanto alle differenze che sul piano nazionale si riscontrano in
funzione del processo che conduce alla cessazione dell’attività
economica si collocano le differenze generate dal fatto che l’impresa
sia imputabile ad un imprenditore individuale o collettivo.
Sulla scorta delle differenze che fra le due ipotesi vengono
individuate già a livello di disciplina sostanziale dell’impresa,
l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza nazionali si è concentrata
in particolar modo sulla disciplina della cessazione dell’impresa
individuale, finendo per applicare la tesi già contestata circa la
centralità del vincolo di destinazione dei beni che, ipotizzando la
sopravvivenza dell’impresa anche alla sua cessazione formale,
soprattutto nei casi in cui non si proceda alla liquidazione, prolunga la
soggettività passiva all’unico scopo di applicare l’imposta ai beni
residui solo nel momento di effettiva cessione, escludendo l’ipotesi del
passaggio in autoconsumo.
Oltre ai motivi già esposti, questa tesi appare criticabile anche per il
fatto che essa risulta applicabile solo al caso dell’imprenditore
individuale, non prendendo sostanzialmente in considerazione quello
collettivo che, in quanto destinatario di norme che ne disciplinano
espressamente il procedimento di liquidazione, verrà considerato
cessato, salvi i casi manifestamente fraudolenti, nel momento in cui la
fase liquidatoria concluda il proprio iter determinato.
Le diversità circa la considerazione della natura del soggetto
passivo emerge, sul piano nazionale, anche per motivi legati alla stessa
formulazione del Dpr. 633/72 che, come visto, prevede all’interno
dell’art. 4 una presunzione di commercialità delle attività svolte da
società ed enti commerciali, presunzione che di conseguenza investe la
stessa soggettività passiva.
Di conseguenza, mentre nel caso dell’imprenditore individuale la
norma nazionale prevede un meccanismo di attribuzione della
soggettività passiva omogeneo a quello comunitario, per cui si pone la
242
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
necessità della verifica dello svolgimento di un’attività economica, nel
caso degli enti collettivi la soggettività all’imposta appare strettamente
vincolata all’esistenza del soggetto giuridico, indipendentemente
dall’esercizio di un’attività economica.
Inevitabilmente, questo meccanismo automatico di attribuzione
della soggettività influisce anche nella prospettiva della cessazione
dell’attività e della conseguente perdita della soggettività stessa, che
sarà in queste ipotesi legata all’estinzione dell’ente collettivo,
trascurando anche in questo caso la permanenza di un’attività
economica o di un collegamento tra operazioni attive e passive
compiute pur in assenza di esercizio tipico.
Come si è visto, questa differenza in ambito impositivo in funzione
della natura giuridica del soggetto discende dall’accoglimento tacito
nell’ambito
dell’imposta
dell’equivalenza
sancita,
a livello
interpretativo, nel diritto sostanziale tra impresa e società, per cui le
sorti dell’una sono inscindibili dalle vicende dell’altra.
Esaminando l’ordinamento comunitario nella medesima prospettiva
si è, al contrario sottolineato, come nulla di simile sia lì rinvenibile,
dovendosi affermare la sostanziale irrilevanza delle diverse forme
giuridiche ai fini dell’imposta. Differenze che potranno interessare al
massimo il profilo materiale, nell’individuazione concreta degli atti
che, distinti a seconda del soggetto, siano in grado di integrare il
presupposto.
Ciò che caratterizza l’ordinamento comunitario, come si è detto, è
l’assenza di qualsiasi automatismo nell’attribuzione della soggettività
passiva, riconoscimento che passa sempre e comunque attraverso il
vaglio dell’esistenza di un’attività, anche in forma potenziale, e della
sua qualificabilità come economica ai fini dell’imposta.
Questo implica che, a livello europeo, vengano individuate categorie
generali e generiche sia per quanto riguarda l’attività che per quanto
riguarda il soggetto, inteso non quale persona fisica o ente, ma
semplicemente come centro di imputazione dell’attività e quindi
dell’imposta, indipendentemente dalle proprie caratteristiche.
Tali considerazioni sono emerse in particolare dalla constatazione
243
Capitolo III
che la giurisprudenza sostiene i medesimi principi in relazione ad
ogni tipologia di soggetto. A ciò si aggiunge l’espressa negazione di
qualunque meccanismo presuntivo nel caso delle società pur in
mancanza di un’attività economica, chiaramente dimostrato dalla
negazione della soggettività alle holding che non esercitino alcuna
influenza sull’attività delle società partecipate.
La constatazione di queste differenze ha già portato ad una modifica
della normativa italiana che, come si è visto, ha limitato l’applicabilità
della presunzione escludendola nei casi di attività di mero godimento
da parte delle stesse società 2 7 6 .
Tuttavia il differente approccio è ben visibile a livello interpretativo
anche nella fase conclusiva dell’attività, laddove in ambito nazionale
risulta evidente la difficoltà a ragionare in base a categorie omogenee
che prescindano da considerazioni di natura strettamente giuridica che
coinvolgono il soggetto e, anche laddove si assiste al tentativo di dare
una visione unitaria, si finisce con l’attribuire valore ad elementi quali
la destinazione dei beni all’impresa che, come si è sostenuto, appaiono
altrettanto distanti dall’impostazione europea.
La difficoltà ad intendere il soggetto genericamente ed in quanto
tale porta inoltre a svalutarne l’influenza nell’ambito della
realizzazione del presupposto, attribuendo uno scarsissimo rilievo alla
sua volontà e alle manifestazioni formali di questa, pur se imposte
dalle stesse norme.
Questi fattori comportano, dunque, sul piano interpretativo
nazionale una distanza non giustificabile dalle indicazioni provenienti
dall’ordinamento comunitario, influendo sulla stessa ricostruzione del
presupposto attività che, da un lato, viene collocato su un piano di
276
Pur se a livello interpretativo si sostiene che tali disposizioni costituiscano
una limitazione al diritto alla detrazione e non un’esclusione della soggettività
passiva. Per una ricostruzione della disciplina nazionale a confronto con la
giurisprudenza comunitaria si veda ad esempio, G IO R G I , L’effettuazione di
operazioni nel campo di applicazione dell’IVA nell’attribuzione della soggettività
passiva e del diritto alla detrazione d’imposta: profili comunitari e interni, in
Rass. Trib., 1999, 1
244
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
secondaria importanza a fronte della struttura giuridica del soggetto e,
dall’altro, muta le proprie caratteristiche, allontanandosi da quel
modello unitario ed omogeneo che le norme e la giurisprudenza
comunitarie costruiscono.
1.4- La compatibilità delle interpretazioni
prospettiva applicativa dell’imposta
nazionali
nella
Un ulteriore profilo che merita di essere verificato sotto il profilo
dell’aderenza all’ordinamento comunitario è quello degli effetti che
l’interpretazione accolta sul piano nazionale ha a livello di
applicazione dell’imposta.
In proposito si sono già sottolineate perplessità circa i rischi che un
prolungamento forzato della vita dell’attività economica potrebbe
avere in particolare sull’esercizio del diritto al rimborso
dell’eccedenza versata.
Come si è evidenziato, diritto al rimborso e detrazione, pur
ponendosi all’interno dell’imposta su due piani differenti, sono
ugualmente importanti per il corretto funzionamento della struttura
dell’Iva e del meccanismo su cui essa si fonda.
Questo perché, una volta determinato l’ammontare dovuto attraverso
la detrazione dell’imposta versata a monte da quella a valle, il
recupero dell’eventuale eccedenza risultante a favore del contribuente
si pone come strumento ulteriore per garantire, attraverso la
riscossione di un credito, la neutralità del sistema.
Da questa considerazione discende che anche sul piano
interpretativo, dovrebbero evitarsi quelle posizioni che rischiano di
alterare il meccanismo di detrazioni e rimborsi, anche solo rendendone
più gravoso l’esercizio.
Questo è quello che si verifica con l’accoglimento di quelle tesi che
prolungano sine die la vita dell’impresa in funzione della sola
permanenza di beni potenzialmente produttivi nella disponibilità
dell’imprenditore formalmente cessato. In base ad esse, infatti, non
riconoscendosi la cessazione dell’impresa, dovrebbe disconoscersi il
245
Capitolo III
diritto al rimborso da questa generato, i cui presupposti non potrebbero
verificarsi sino alla completa alienazione di tutti i beni, con il rischio
che il credito non riesca ad essere recuperato.
Una simile eventualità è sicuramente censurabile in un’ottica
comunitaria. Tale constatazione appare ancora più evidente nel
momento in cui si è identificato nel principio di neutralità l’elemento
cardine della giurisprudenza comunitaria e nella detrazione lo
strumento con cui esso viene attuato.
In tale prospettiva si colloca il rapporto tra detrazione e rimborso
dell’eccedenza, che figura come strumento alternativo alla
realizzazione del medesimo principio.
Questo collegamento appare chiaramente delineato nelle conclusioni
dell’avvocato generale Jacobs, presentate nel caso Fini H, laddove egli
afferma che l’IVA è definita come un’imposta generale sul consumo
(finale, privato) e non come un carico gravante su imprese che
operano nelle fasi che portano a tali consumi. La Corte ha
costantemente evidenziato che il sistema delle detrazioni è inteso ad
esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata
nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Le situazioni in cui un
soggetto passivo può recuperare l’IVA pagata a monte senza effettuare
operazioni tassabili a valle comportano semplicemente la restituzione
di somme precedentemente anticipate alle autorità fiscali sul
presupposto che le operazioni che le avevano giustificate portassero
ad un’ultima operazione tassabile per il consumo finale. Se tale
presupposto non è soddisfatto e tale consumo finale non si verifica,
manca il fondamento per la riscossione dell’imposta in stadi
precedenti. Di conseguenza, gli importi anticipati devono essere
restituiti al soggetto passivo su cui grava attualmente il carico
fiscale. 2 7 7
Essendo questa la funzione del rimborso dell’eccedenza versata,
soprattutto quando questo sorga in seguito alla cessazione dell’attività
e sia, di conseguenza, una scelta obbligata, si può ritenere che
277
Cfr. Conclusioni presentate il 28 ottobre 2004, causa C-32/03, Fini H
246
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
qualsiasi limitazione all’esercizio di questo diritto sia da considerarsi
illegittima al pari delle limitazioni all’esercizio della detrazione che,
per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, possono essere
ammesse solo laddove previste dal legislatore comunitario o nei casi in
cui sia necessario contrastare comportamenti abusivi tenuti dal
soggetto passivo.
In sintesi, se tali limitazioni sono censurabili quando provengano
direttamente dal legislatore, esse a maggior ragione lo saranno quando
sia l’interpretazione delle norme, di per sé assolutamente in linea con
il dettato comunitario, a creare delle difficoltà nell’esercizio di diritti
che, come si è visto, costituiscono la struttura fondante il sistema
dell’imposta, garantendone completezza, coerenza e ratio.
2- I L
RUOLO DELL ’ ATTIVITÀ ECONOMICA E DELLA SUA CESSAZIONE
Unendo le osservazioni sin qui svolte diviene forse possibile
confrontare quale sia concretamente il ruolo che i due ordinamenti,
comunitario e nazionale, assegnano all’interno dell’imposta all’attività
economica e, conseguentemente, alla sua cessazione.
Punto di partenza di questo confronto è la differenza, sul piano
formale e di formulazione letterale delle norme, che si avverte
osservando la Direttiva Iva e il DPR. 633/72.
Come si è detto, la prima, nonostante la riconosciuta ed intrinseca
oggettività dell’imposta, assegna all’attività economica la principale
funzione di individuare il soggetto passivo, identificato con colui al
quale l’attività sia imputabile.
Definito in tal modo il presupposto soggettivo dell’imposta, esso
diventa l’elemento fondamentale per la qualificazione delle operazioni
imponibili, definite come tali quando siano riconducibili al soggetto
passivo.
Unendo i due presupposti si giunge poi alla determinazione della
disciplina
applicabile
alla
detrazione,
meccanismo
cardine
dell’imposta. Il diritto alla detrazione viene dunque riconosciuto nel
247
Capitolo III
momento in cui questi elementi coincidano, ossia si sia in presenza di
un soggetto passivo che agisca in quanto tale e le spese sostenute siano
ricollegabili alle operazioni imponibili nell’ambito dell’attività
economica rilevante.
La normativa nazionale sembra invece adottare una prospettiva
differente. Principale funzione dell’attività economica rilevante è
quella di determinare l’imponibilità delle operazioni, distinguendo
dunque fra quelle potenzialmente tali, perché rientranti nella categoria
delle cessioni o delle prestazioni di servizio, e quelle realmente tali
perché riconducibili all’attività.
Identificato il presupposto oggettivo è questo che consente
l’individuazione del soggetto passivo, definito come colui che compie
operazioni imponibili. Ne deriva che il rapporto tra attività e soggetto
passivo è mediato dalla preventiva qualificazione delle operazioni, a
differenza di quanto avviene nell’ordinamento comunitario in cui il
procedimento è l’opposto.
Sotto il profilo sostanziale, queste differenza non hanno alcun
effetto, come appare ben dimostrato dalla disciplina nazionale della
detrazione che, al pari di quella europea, discende dalla contemporanea
presenza di entrambi i presupposti.
Nella sostanza della disciplina, dunque, tanto nell’ordinamento
comunitario quanto in quello nazionale, l’attività economica riveste il
ruolo centrale nell’identificazione del presupposto impositivo, sia
oggettivo sia soggettivo, ed è altresì determinante nella prospettiva
applicativa dell’imposta, essendo indispensabile per la corretta
attribuzione e determinazione del diritto alla detrazione e, di
conseguenza, per la piena realizzazione della neutralità cui l’imposta è
votata.
Sotto il profilo sostanziale nemmeno il contenuto e le caratteristiche
della nozione attività economica appaiono differenti, ad esclusione
degli elementi che già si sono rilevati, fra cui la bipartizione in
impresa e professione caratteristica dell’ordinamento nazionale.
248
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
Da quanto emerso nelle pagine precedenti, sembra tuttavia che
questo diverso approccio abbia effetti sul piano interpretativo, sia con
riguardo all’individuazione degli elementi necessari perché vi sia
un’attività economica rilevante sia relativamente alla disciplina della
sua fase conclusiva.
Si è detto che dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, oltre ad
emergere una nozione ampia di attività economica svincolata dalle
forme giuridiche e dagli scopi che si prefigge, ne sorge anche una
visione attenta a tutti i suoi elementi costitutivi, esercizio, soggetto,
beni interessati e collegamento tra gli atti che la compongono,
diversamente modulati a seconda della fase esaminata e delle esigenza
di neutralità dell’imposta.
L’ordinamento italiano, al contrario, pur rispettandone le
caratteristiche fondamentali, come si è visto, attribuisce a volte valore
ad elementi dalla prima trascurati quale la forma giuridica e, come
orientamento generale, predilige un approccio maggiormente, o meglio
quasi esclusivamente, oggettivo che inevitabilmente porta a ridurre il
numero dei fattori considerati realmente rilevanti.
Così, giurisprudenza e dottrina nazionali sono portate a trascurare il
profilo soggettivo dell’attività, limitando la propria indagine ad
elementi quali l’esercizio, i beni e la struttura.
Questo diverso atteggiamento sembra essere al contempo causa ed
effetto della differente impostazione normativa, l’una che pone al
centro il soggetto passivo e l’altra che, all’opposto, concentra la
propria attenzione sulle operazioni imponibili.
Il condurre l’esame della fattispecie in una prospettiva
esclusivamente oggettiva, indifferente il più delle volte alla vicende
soggettive in qualsiasi forma esse si manifestino, impedisce che a
livello nazionale si verifichi quel medesimo bilanciamento cui si
assiste a livello comunitario e, soprattutto, favorisce la
frammentazione di disciplina ed interpretazione, rendendo molto più
difficile la giustificazione dell’applicazione dell’imposta a fasi quali
l’avvio e la cessazione dell’attività.
Per questo motivo, dottrina maggioritaria e giurisprudenza hanno
249
Capitolo III
cercato di individuare il minimo comune denominatore applicabile ad
ogni fase e ad ogni tipo di attività nella destinazione dei beni
all’impresa, quale elemento in grado di identificare e regolare la vita
dell’attività economica ai fini dell’imposta, senza tuttavia riuscire a
superare l’ostacolo costituito, nell’impostazione tradizionale, dalla
differenza tra soggetto individuale o collettivo.
Come si è visto, ciò accade soprattutto con riferimento all’esame
delle fasi particolari dell’attività economica, quali il suo avvio e la sua
cessazione.
Se, dunque, per l’ordinamento comunitario, accanto al dato
oggettivo costituito dall’idoneità degli atti ad integrare un’attività o
dal legame tra questa ed i costi sostenuti, uno dei principali elementi
di collegamento, sia prospettico che retrospettivo, è costituito dalla
presenza di un soggetto passivo che agisca volontariamente in quanto
tale, capace di costituire o mantenere viva un attività rilevante ai fini
dell’imposta laddove non vi sia il concreto esercizio dell’attività
produttiva tipica, l’interpretazione nazionale delle medesime situazioni
pone al centro del dibattito la presenza o la permanenza di un vincolo
di destinazione dei beni, prescindendo a volte non solo dalla presenza
dell’esercizio, ma altresì dal soggetto, dalla sua volontà manifesta e
dalle sue decisioni.
È evidente che determinare il soggetto passivo non in base
all’attività rilevante, ma in funzione delle operazioni rende più
difficile individuare la ragione dell’applicazione del sistema Iva
laddove tali operazioni non ci siano, come accade a livello comunitario
dove, come si è visto, si ammette la permanenza dell’attività anche in
totale assenza di operazioni attive.
A ben vedere, dunque, in questa prospettiva i due ordinamenti
sembrano collocarsi agli antipodi e quindi difficilmente convergenti,
se non laddove si valorizzi una nozione di attività economica più
uniforme anche negli elementi costitutivi e più attenta alla possibile
influenza di tutti questi.
Sforzo questo reso ancor di più necessario dalla verifica che la
250
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
scelta dell’oggettività assoluta non è comunque in grado di fornire una
chiave di lettura unitaria dell’attività economica e, soprattutto, della
sua cessazione, uniformità che è la stessa struttura delle norme
comunitarie a richiedere in virtù della più volte ribadita irrilevanza di
forme giuridiche e scopi.
In base ad essa, proprio per coerenza con l’impianto comunitario
dell’imposta, pur utilizzando le proprie categorie giuridiche
tradizionali si dovrebbe evitare che queste influiscano sul piano
sostanziale dell’imposta. Per questo motivo, pur accogliendo il
legislatore nazionale le nozioni di impresa, arti e professioni, quanto
meno a livello interpretativo si dovrebbe cercare di darne una lettura
unitaria, conforme all’omogeneità della nozione di attività economica
di cui sono espressione, non rilevando nell’ambito dell’imposta le
differenze legate al dato giuridico che esse mostrano nell’ordinamento
nazionale.
Ciò significa che anche con riguardo alla cessazione non dovrebbero
trovare spazio, nella prospettiva dell’imposta, le differenze legate alla
natura giuridica del soggetto passivo, come si è visto, irrilevante nella
prospettiva comunitaria. È questa la principale ragione per cui anche
con riguardo alla cessazione è importante individuare criteri uniformi
che ne consentano una lettura unitaria.
Allo stesso modo, l’insufficienza dell’approccio obiettivo emerge
dagli effetti che questo ha sull’interpretazione della norma che dispone
l’autoconsumo in caso si cessazione dell’attività, come si è visto,
completamente differente dall’impostazione comunitaria.
Anche questa ulteriore diversità è giustificabile sulla base delle
differenti prospettive adottate.
In ambito comunitario è ovvio che, quando alla mancanza di
esercizio e di operazioni imponibili si aggiunga anche la mancanza di
un soggetto passivo che agisca in quanto tale, l’attività debba
considerarsi automaticamente cessata e trovi applicazione la norma che
dispone l’imponibilità del possesso di beni residui che abbiano dato
diritto alla detrazione.
251
Capitolo III
Nell’ottica nazionale questo automatismo non è altrettanto facile. In
un’impostazione che trascura sia il profilo soggettivo sia quello
dell’esercizio ed individua il nucleo centrale dell’attività rilevante
nella presenza di beni ad essa destinati, è naturale che la semplice
decisione di cessare l’attività mantenendo al contempo il possesso di
quei beni impedisca di individuare l’estinzione dell’attività prima della
completa dismissione o differente destinazione degli stessi beni.
L’alterazione che questo approccio è in grado di produrre nel
sistema applicativo dell’imposta già di per sé dovrebbe essere
sufficiente a contestarne la fondatezza.
A questo deve, tuttavia, unirsi un’ultima considerazione che,
fondandosi sulla ricostruzione della nozione di attività economica e
sull’interpretazione delle norme che dispongono l’imposizione
sull’autoconsumo appena richiamate, interessa l’influenza che tali
opposte prospettive hanno sullo stesso ruolo della cessazione
dell’attività economica all’interno dell’imposta sul valore aggiunto.
Si è affermato che, nella prospettiva comunitaria, vista
l’automaticità dell’applicazione dell’autoconsumo, il momento di
cessazione dell’attività ai fini dell’imposta non rappresenta solo la
manifestazione esterna e definitiva di un processo già precedentemente
concluso, ma costituisce altresì manifestazione propria dell’esperienza
economica di cui segna la fine, dando vita all’ultima operazione
imponibile prevista dal sistema.
Diverse sono, invece, le conclusioni cui è possibile giungere in
ambito nazionale, laddove di fatto non si riconosce alcuna valenza
autonoma alla cessazione sotto il profilo impositivo. Nella prospettiva
che solo una destinazione esplicita all’uso privato costituisca
autoconsumo, la cessazione dell’attività finisce per essere
esclusivamente una possibile circostanza in cui questo si verifica. La
cessazione non appare, dunque, come un’espressione stessa
dell’attività, ma si limita ad esserne il momento conclusivo, rilevante
non ai fini dell’applicazione dell’imposta, ma in negativo, ai fini della
sua definitiva disapplicazione.
Queste
ulteriori
differenze
influiscono
profondamente
252
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
sull’individuazione del fatto cessazione e dei criteri a tal fine
utilizzabili.
Se la cessazione è diretta manifestazione dell’attività, si è detto,
essa dovrà avere le stesse caratteristiche e per la sua determinazione
sarà necessario fare riferimento agli stessi elementi. Nella prospettiva
dell’ordinamento comunitario dovrà dunque aversi riguardo alla
presenza contestuale sia dell’elemento oggettivo sia di quello
soggettivo: non saranno sufficienti nè la sola cessazione di fatto
dell’attività produttiva né la sola volontà in tal senso, ma l’una dovrà
unirsi all’altra, individuando solo nel momento di tale coincidenza la
definitiva cessazione dell’attività ai fini dell’imposta.
L’interpretazione affermatasi a livello nazionale sembra invece
indifferente a questi fattori, non ritenendo sufficienti né l’assenza
dell’esercizio né la manifestata intenzione di cessare l’attività né il
concorso di questi fattori, neutralizzati dall’eventuale presenza di beni
residui. La determinazione della cessazione dell’attività viene quindi a
dipendere dal verificarsi di un fatto che interrompa definitivamente il
collegamento tra attività e beni, inevitabilmente differente a seconda
delle modalità seguite per porre fine all’esperienza imprenditoriale e,
dunque, necessariamente legato ad un’indagine di tipo casistico.
Sulla base di queste riflessioni si comprende, pertanto, la difficoltà
riscontrata in ambito nazionale nel tentativo di individuare criteri
omogenei per la disciplina della cessazione dell’attività economica,
difficoltà che si riflette di fatto su tutta la disciplina dell’imposta e
sulla sua applicazione alle fasi controverse dell’attività.
Se ne coglie altresì la distanza dai principi emersi al livello
comunitario, principi che, come si è visto, interessano il piano
interpretativo ed applicativo dell’imposta, non quello della sua
disciplina normativa, nella sostanza, e necessariamente, omogenea tra i
due ordinamenti.
Le diversità rilevate tra l'impostazione dei due ordinamenti discende
senza dubbio dalla difficoltà, sottolineata nel corso della trattazione, a
conciliare la costruzione prettamente economica propria della
253
Capitolo III
disciplina comunitaria con l'impostazione giuridica dell'ordinamento
nazionale.
Nonostante nella trasposizione della Direttiva Iva il legislatore
nazionale abbia tentato di allontanarsi dalle categorie tipiche del
proprio ordinamento per accogliere, attraverso l'utilizzazione di una
costruzione spiccatamente oggettiva, nozioni più ampie ed elastiche,
come richiesto dalla normativa europea, sono evidenti ed inevitabili i
legami che ancora si colgono nell'impostazione della normativa
nazionale con la disciplina sostanziale dell'impresa.
Si giustificano così previsioni quali la presunzione di soggettività
delle società e degli enti commerciali, così come la previsione espressa
dell'estensione del regime impositivo ordinario anche a fasi quali la
liquidazione ed il fallimento.
Tali scelte si mostrano, in un'ottica nazionale, del tutto coerenti con
l'impostazione generale dell'ordinamento che, da un lato, riconosce
l'equazione società-impresa e, dall'altro, vincolata al principio di
effettività ed attenta allo scopo cui sono volte le attività
imprenditoriali -non necessariamente di lucro, ma sicuramente
produttivo- fatica a ricondurre nell'alveo dell'impresa quelle fasi, come
la liquidazione o la stessa fase preparatoria, che non rispettano
pienamente queste caratteristiche, imponendo pertanto la necessità che
l'estensione dell'attività rilevante ai fini dell'imposta venga
espressamente statuita.
Tali esigenze, come si è tentato di dimostrare, non emergono invece
a livello di
disciplina comunitaria che, fondata sulla sostanza
economica dell'attività e poco attenta al dato strettamente giuridico, è
di per sé capace di estendere, attraverso l'opera interpretativa della
Corte di Giustizia, il proprio ambito di applicazione anche oltre i
confini tradizionalmente riconosciuti all'attività economica.
Tuttavia, ciò che sembra emergere dall'esame sin qui condotto è la
possibilità anche a livello nazionale di giungere ad un'interpretazione
più vicina a quella comunitaria, valorizzando, sia nell'ambito della
disciplina sostanziale dell'impresa sia in ambito Iva, il ruolo
dell'attività economica in quanto tale, distintamente dalle
254
Disciplina comunitaria e regime nazionale a confronto
caratteristiche proprie delle diverse tipologie di soggetto interessate.
Come si è illustrato, indicazioni in tal senso emergono già in ambito
nazionale con la valorizzazione della categoria giuridica dell'attività e
degli elementi costitutivi di questa, primo fra tutti il collegamento,
anche soggettivo, esistente tra gli atti che la compongono.
Accogliendo tali indicazioni sarebbe dunque possibile, mantenendo
sempre la coerenza interna dell'ordinamento ed il necessario
collegamento tra le differenti discipline che lo compongono, adottare
una linea interpretativa in linea con le indicazioni europee, senza
concentrarsi unicamente, come ora accade, sul profilo oggettivo della
fattispecie, che si è dimostrato tanto insufficiente nella determinazione
precisa
della
cessazione
dell’impresa,
quanto
distante
dall'interpretazione comunitaria.
Un’interpretazione che voglia raggiungere anche sul piano
interpretativo risultati più armonici con le indicazioni che provengono
dall’ordinamento comunitario, non può, dunque, prescindere
dall’esame di tutti gli elementi costitutivi della nozione di attività
economica, elementi che interessano sia le operazioni imponibili sia il
soggetto passivo, i quali, se correttamente bilanciati, consentono la
piena realizzazione della neutralità dell’imposta e delle certezza del
diritto cui sempre la giurisprudenza comunitaria si richiama.
255
C ONCLUSIONI
L’esame sin qui condotto ha seguito principalmente due direttrici,
da un lato, l’individuazione delle ragioni per cui la fase liquidatoria,
pur non integrando appieno le caratteristiche dell’attività economica
rilevante, sia considerata parte di questa e quindi soggetta al regime
impositivo ordinario; dall’altro, il tentativo di determinare criteri
uniformi per la determinazione dell’esatto momento di cessazione
dell’attività, fondamentale per stabilire quando il presupposto
impositivo venga meno e, dunque, cessi di essere applicabile
l’imposta.
Strettamente vincolato a questi profili risulta essere la
determinazione dell’esatto ruolo dell’attività economica nel contesto
dell’imposta e, conseguentemente, la valenza che deve attribuirsi alla
sua cessazione, considerandola semplice fattore temporale o, al
contrario, manifestazione dello stesso presupposto, pur se in senso
contrario.
Nel corso di questa ricostruzione sono emerse numerose differenze
tra quello che si ritiene essere l’approccio comunitario e
l’interpretazione sviluppatasi a livello nazionale, riassumibili in un
apparente contrasto tra l’adozione di una prospettiva attenta ad ogni
profilo del presupposto, incluso dunque quello soggettivo, ed una che,
al contrario, appare orientata unicamente alla valutazione del dato
oggettivo, salvo poi mostrare sul piano applicativo una notevole
oscillazione tra l’applicazione di un criterio e l’altro.
L’origine di tali diversità è stato individuato già nella differente
struttura normativa che, pur conducendo da un punto di vista
sostanziale alla medesima disciplina, mostra sin dall’inizio un opposto
atteggiamento nei confronti dell’elemento soggettivo.
L’art. 2 della Dir. 2006/112/CE definisce imponibili le operazioni
compiute dal soggetto passivo che agisca in quanto tale, ricollegandosi
logicamente al successivo art. 9 che definisce soggetto passivo
chiunque eserciti un’attività economica. Al contrario, la normativa
italiana definisce come imponibili le operazioni effettuate
Conclusioni
nell’esercizio dell’attività, specifica quali attività siano da ritenere
rilevanti e, infine, stabilisce che sia soggetto passivo chi compie tali
operazioni.
A ben vedere, gli elementi che compongono il ragionamento sono i
medesimi, così come il risultato che da un punto di vista sostanziale
essi raggiungono.
In entrambe le discipline l’attività economica rilevante risulta
fondamentale per l’individuazione tanto del soggetto passivo quanto
delle operazioni imponibili, ma la diversità del percorso seguito si
riflette nella rilevanza attribuita ai diversi profili nell’ambito
dell’imposta e dell’interpretazione della sua disciplina.
La struttura della normativa nazionale porta forse a sopravvalutare
il lato oggettivo dell’imposta, a discapito della rilevanza che invece
dovrebbe attribuirsi anche all’aspetto soggettivo, allontanandosi di
conseguenza da quell’equilibrio che sembra caratterizzare la disciplina
comunitaria.
Essa, infatti, pur dimostrando la propria oggettività attraverso la
centralità di una nozione di attività economica lontana dai tradizionali
schemi giuridici e costruendo su di essa anche la soggettività passiva,
non sminuisce affatto il ruolo del soggetto, ma anzi da esso muove per
individuare gli altri elementi fondamentali per il sistema dell’imposta.
Inoltre, come chiarito dalla giurisprudenza, l’esercizio di un’attività
economica è sicuramente indispensabile per l’attribuzione della
soggettività passiva, ma le esigenze di neutralità e di coerenza del
sistema impositivo consentono in casi particolari, come ad esempio
l’avvio dell’attività, di assegnare un ruolo preminente al soggetto e
alle sue intenzioni manifeste ed obiettivamente dimostrabili, pur in
assenza di un concreto esercizio, permettendo, dunque, che la
soggettività passiva venga attribuita in funzione di una qualificazione
volontaria dell’attività e non solo successivamente ad una verifica
oggettiva della sua esistenza.
Nelle pagine che precedono si è prospettata la possibilità di
applicare la medesima interpretazione anche alla fase conclusiva
dell’attività economica rilevante ai fini Iva.
257
Conclusioni
Lo stesso ragionamento non pare ricavabile dalle indicazioni che
emergono dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionali.
Nella prospettiva oggettiva che caratterizza l’interpretazione
italiana ciò che giustifica l’applicazione del regime ordinario sia agli
atti preparatori che alla fase liquidatoria è la presenza di beni destinati
all’impresa, in base a cui dottrina e giurisprudenza identificano il
collegamento con l’attività e ne estendono l’ampiezza.
Di fatto, anche in ambito nazionale ai fini dell’applicazione
dell’imposta alla fase liquidatoria poco rileva la cessazione
dell’attività tipica: la nozione di impresa viene dilatata ed in parte
modificata e conseguentemente si assiste ad una riduzione del rilievo
del principio di effettività, come del resto lo stesso legislatore
prescrive. Al pari di quanto avviene nell’ordinamento comunitario, lo
scopo è quello di tutelare il sistema impositivo, la sua neutralità e la
sua coerenza, da cui nasce la necessità che beni che hanno dato diritto
alla detrazione nel corso dell’esercizio vengano nuovamente
assoggettati all’imposta nel momento in cui escono dal circuito
economico.
Nella sostanza, dunque, anche in ambito nazionale si adotta un
criterio affine a quello visto in ambito europeo, ossia una forma di
collegamento con il precedente esercizio che giustifichi la permanenza
dell’attività, cui, però, viene a mancare l’ulteriore elemento necessario
per individuarne la cessazione, costituito come si è visto dal profilo
soggettivo.
La dottrina italiana sostiene che:
- la fase liquidatoria è imponibile perché i beni oggetto delle
operazioni sono ben destinati all’impresa;
- di più, secondo parte della dottrina commercialistica, la
liquidazione non termina e l’impresa sopravvive finchè non c’è stata
disgregazione
integrale
dell’apparato
strutturale
funzionale
all’esercizio dell’attività;
- a ciò si aggiunge l’idea che l’interruzione del vincolo tra i beni e
l’impresa possa avvenire solo a seguito di una diversa destinazione
impressa espressamente e non semplicemente in conseguenza alla
258
Conclusioni
cessazione dell’attività.
Le conseguenze di tale impostazione sono principalmente due: si
trova una giustificazione per l’applicazione dell’imposta pur in
assenza di esercizio, ma concretamente si individua un criterio che non
è pienamente in grado di individuare un termine per l’attività
liquidatoria e, di conseguenza, per l’attività rilevante ai fini
dell’imposta.
Questo rappresenta l’aspetto più controverso dell’elaborazione
nazionale in tema di attività e cessazione.
Si è discussa l’opportunità dell’adozione di un criterio quale la
destinazione dei beni, che porta a fare dell’impresa un’azienda e crea
una nozione fiscale d’impresa, distante sia da quella nazionale che da
quella europea.
Tuttavia, nello schema dell’imposta disciplinata dal Dpr. 633/72 la
scelta d questo criterio appare coerente: la normativa nazionale si
concentra sul profilo oggettivo del presupposto impositivo, sulle
operazioni imponibili e sulla natura dei beni 2 7 8 , tralasciando l’elemento
soggettivo che diviene semplicemente il centro d’imputazione passivo
dell’attività, delle operazioni e dei beni.
In questa prospettiva appare naturale che sia l’inerenza, qui intesa
in senso lato come destinazione all’impresa, a giustificare la
sopravvivenza del presupposto laddove non ne ricorra più l’elemento
fondamentale, ossia l’esercizio effettivo ed abituale.
In questo, la dottrina tributaria, nonostante la dichiarata volontà di
discostarsi dalla struttura giuridica dell’impresa commerciale, appare
ad essa molto più vicina di quanto non si affermi.
Si vuol dire, ricostruendo le posizioni della dottrina commerciale
relativa alla qualificazione della fase liquidatoria, si sono individuate
quattro posizioni principali:
- è esclusa per mancanza di esercizio effettivo;
- è pienamente integrata nell’impresa, che si estingue solo alla
278
Non si deve dimenticare che la prima formulazione della norma prevedeva
l’imponibilità di tutte le operazioni aventi ad oggetto qualsiasi bene relativo
all’impresa.
259
Conclusioni
definizione di tutti i rapporti ad essa imputabili;
- rientra nell’impresa sino a che non si abbia disgregazione
dell’attivo aziendale;
- costituisce impresa fino a che siano identificabili atti obiettivi
d’impresa e persista una sorta di collegamento con il precedente
esercizio.
Tra queste, due sembrano generalmente accolte, la seconda con
riguardo all’imprenditore collettivo, legata strettamente all’esistenza
della società o dell’ente che la esercita, e la terza invece in relazione
all’imprenditore individuale.
La dottrina tributaria non si allontana da queste posizioni, piuttosto
le accoglie adattandole a quella che ritiene essere la prospettiva
fondamentale delle norme impositive: la circolazione dei beni e la loro
destinazione.
Tuttavia, se con le recenti modifiche legislative la disciplina
commerciale sembra fare un passo in avanti, superando una visione
meramente obiettiva, rivalutando gli effetti ed il valore delle forme
pubblicitarie e, con esse, il ruolo del soggetto e delle sue decisioni, in
ambito tributario si è rimasti ancorati alla visione oggettiva che priva
tali elementi di qualsiasi rilievo.
In questo l’interpretazione nazionale è lontana dalla prospettiva
europea. Come si è ricordato, l’attività economica nell’Iva ha un ruolo
fondamentale e duplice; è tanto oggetto quanto soggetto della
disciplina; essa è fatta di esercizio, operazioni, beni, ma altresì di
intenzioni e di soggetti che volontariamente agiscono quali esercenti
un’attività. È una nozione ampia che non corrisponde all’impresa nel
senso nazionale e che soprattutto mai prescinde dal soggetto passivo
che la esercita. L’attività economica nel senso comunitario non può
ridursi nè a semplice effettività né a soli beni destinati.
A questa considerazione deve aggiungersi l’indifferenza dello scopo
e dei risultati, così come l’irrilevanza delle forme giuridiche tanto
degli atti che la compongono quanto dei soggetti che la esercitano. Di
conseguenza, il problema tutto nazionale del mutamento dallo scopo
commerciale a quello liquidatorio non trova spazio in ambito
260
Conclusioni
comunitario, così come ne restano estranee le differenze legate alla
natura individuale o collettiva del soggetto passivo e quelle relative al
procedimento con cui si giunge alla definitiva cessazione dell’attività.
Si è detto che il fine commerciale che va riconosciuto all’attività
perché la si possa qualificare come economica ai fini dell’imposta
consiste nella destinazione al mercato dei beni e dei servizi. Per questo
a nulla rileva che le cessioni siano motivate dall’attività tipica o dalla
necessità di monetizzare il patrimonio relativo all’attività: in un caso e
nell’altro i beni sono destinati al mercato ed al consumo, la loro
cessione è in grado di influire sugli equilibri del mercato e per questo
motivo si tratterà di operazioni imponibili, per questo motivo la fase
liquidatoria deve considerarsi comunque riconducibile all’attività
economica rilevante.
Un solo limite sembra potersi desumere dalla giurisprudenza
comunitaria: una fase liquidatoria pur in assenza di operazioni attive
dovrà considerarsi attività economica fintantoché non rappresenti un
evidente abuso della disciplina comunitaria (o nazionale).
Immediatamente il pensiero va al caso delle società non operative e
a tutte quelle ipotesi di liquidazioni prolungate fittiziamente per
continuare a fruire del diritto alla detrazione. In questi casi, il
ragionamento seguito dalla Corte è del tutto assimilabile a quello
applicabile alla fase attiva dell’esercizio: la detrazione dell’imposta
versata a monte spetta solo se collegata all’attività imponibile. Potrà
certamente trattarsi di costi generali e non unicamente di spese
specificamente collegate ad un’operazione attiva, ma è difficile che
dopo anni di inattività possa ancora riconoscersi un legame tra i costi e
la precedente attività, se non, forse, nel caso dei compensi degli stessi
liquidatori.
Da qui una considerazione che stride con certe opinioni emerse a
livello nazionale: il collegamento tra i beni e l’attività non può
ritenersi inscindibile, trascorso un certo lasso di tempo esso si
interrompe perché, in assenza di esercizio, in mancanza di un motivo
che giustifichi l’inattività o di un’intenzione oggettivamente
dimostrabile rivolta all’esercizio di un’attività economica, il
261
Conclusioni
collegamento tra beni ed operazioni viene necessariamente meno,
rendendo illegittima qualsiasi richiesta di detrazione.
Questa ricostruzione è valida per i casi di abuso; altre sono le
considerazioni che si possono ricavare in relazione alle situazioni
legittime:
- la fase liquidatoria è speculare a quella preparatoria, pertanto si
pongono le stesse esigenze di neutralità che portano ad ampliare la
nozione di impresa, sacrificandone il profilo dell’effettività;
- è impensabile, come sostiene l’Avvocato Generale Jacobs nel caso
Fini H, che l’attività rilevante cessi nel momento dell’abbandono
dell’attività tipica. L’ammontare dell’imposta dovuta dal soggetto
passivo deve infatti necessariamente includere l’imposta dovuta per le
cessioni liquidatorie e quella versata inerente ai costi necessari alla
liquidazione stessa.
Da questa ricostruzione emergono dunque due principi
fondamentali, ovvero che le operazioni di liquidazione sono
pienamente riconducibili all’attività economica nel senso indicato
dalla direttiva e che, pur in assenza di queste, i costi sostenuti devono
comunque ritenersi imputabili alla precedente attività fino a che
dimostrino un legame ancora esistente con essa.
Diventa a questo punto fondamentale un secondo interrogativo:
quando questo legame viene meno e si verifica pertanto la cessazione
dell’attività rilevante?
Un prima risposta nasce dalla visione della liquidazione come
uguale e contraria alla fase organizzativa: se in quel caso è la sola
volontà del soggetto ad integrare il presupposto, in corrispondenza
della cessazione sarà necessariamente una volontà in tal senso a porvi
fine.
In questo, pertanto, l’evento cessazione presenta le stesse funzioni e
la stessa complessità che si sono attribuite all’attività economica,
naturalmente in senso opposto. Esso è infatti al contempo necessario
alla determinazione del termine della soggettività passiva, influendo
quindi sul piano soggettivo, e all’individuazione dell’ultima
operazione imponibile (in base alla disposizione che prevede
262
Conclusioni
l’autoconsumo per il possesso dei beni residui), in rapporto al profilo
oggettivo dell’imposta.
Per la cessazione, questa duplicità di funzioni implica il crearsi di
uno stretto legame tra i due piani anche nell’individuazione stessa del
momento conclusivo dell’attività, rendendoli necessariamente
complementari.
Questo rapporto è chiaramente dimostrato dall’incapacità della
cessazione di fatto dell’esercizio a determinare la cessazione
dell’attività ai fini dell’imposta che, in assenza di un comportamento
nella stessa direzione tenuto dal soggetto passivo, non comporta altro
che un mutamento nell’attività, passata dalla fase produttiva a quella
liquidatoria, entrambe ugualmente imponibili.
Allo stesso modo, nemmeno il dato soggettivo può da solo ritenersi
sufficiente a determinare la cessazione dell’attività quando non
corrisponda, sul piano oggettivo, ad un’interruzione definitiva
dell’attività, stante l’assenza di un qualsiasi effetto costitutivo in capo
alle dichiarazioni formali imposte al contribuente.
Secondo questa impostazione diviene allora fondamentale per
individuare il momento di cessazione dell’attività non tanto compiere
una verifica della realizzazione dell’uno o dell’altro elemento,
oggettivo e soggettivo, quando piuttosto individuare il momento in cui
essi si manifestano congiuntamente.
L’unione di questi fattori, di segno opposto a quelli che determinano
la nascita dell’attività, ma ad essi omogenei quanto alla propria natura,
sarà quindi in grado di segnare la fine dell’attività rilevante ai fini
dell’imposta, elidendone al contempo sia la componente soggettiva che
quella oggettiva, permettendo di definire con certezza il regime
impositivo applicabile al soggetto, rispettando la coerenza e la
struttura del sistema dell’imposta, primo fra tutti il principio di
neutralità.
Nella prospettiva adottata a livello nazionale è questo il profilo che
viene meno.
Come già sostenuto, non si può affermare che l’adozione di un
criterio unicamente oggettivo sia scorretta, tuttavia questa scelta
263
Conclusioni
appare insufficiente, non tanto nella prospettiva di individuare una
ragione per l’imponibilità della fase liquidatoria, quanto nel tentativo
di verificarne il momento di cessazione.
Se l’impresa rilevante ai fini dell’imposta corrisponde ad un insieme
di beni destinati all’esercizio dell’attività economica, viene a mancare
un elemento cui sia riconosciuta la capacità di interrompere o mutare
tale destinazione, soprattutto laddove si neghi valore tanto
all’intervento del soggetto, che di quel vincolo è l’artefice, quanto agli
adempimenti formali richiesti dalle norme.
Influenzata inevitabilmente dal proprio patrimonio giuridico,
l’opinione nazionale sembra non cogliere appieno la natura ed il
contenuto del presupposto impositivo e per questa ragione è costretta a
trovare altrove le ragioni di certe scelte legislative.
In tal modo viene dato spazio al problema della cessazione
dell’attività tipica, che si
manifesta nelle difficoltà relative
all’individuazione di una ragione per l’imponibilità.
Allo stesso modo, si crea il problema della natura giuridica del
soggetto passivo, persona fisica o ente, che influisce inevitabilmente
sulle forme e sulla rilevanza della cessazione.
In questo la disciplina fiscale non si allontana in nulla dalle
problematiche che emergono in ambito commerciale. Lasciando
incompiuta l’asserita creazione di un modello d’impresa fiscale diversa
ed autonoma da quella civilistica.
Di fatto, però, l’opinione maggioritaria si è fermata alle posizioni
tradizionali della dottrina commercialistica, senza peraltro seguirne le
più recenti evoluzioni.
Si è visto, infatti, come anche in quel campo sia possibile ricondurre
ad unità l’analisi e le diverse valutazioni solo valorizzando, all’interno
dell’impresa, l’elemento costituito dall’attività, quale categoria
riconosciuta dall’ordinamento.
In tale prospettiva, pur restando il problema della cessazione
dell’attività tipica, legato al principio di effettività, è possibile
superare le differenza soggettive, che non riguardano direttamente
l’esistenza dell’attività, quanto piuttosto lo statuto giuridico legato
264
Conclusioni
alla tipologia del soggetto.
Queste istanze emerse nell’ambito del diritto commerciale e risolte
dal legislatore con la rivalutazione dell’elemento formale, dovrebbero
essere ancor più facilmente accolte in seno alla disciplina Iva che dalla
propria matrice comunitaria dovrebbe derivare un atteggiamento di
assoluta indifferenza nei confronti delle forme giuridiche, tanto del
soggetto quanto delle operazioni.
È invece curioso che una disciplina, che generalmente trascura il
profilo soggettivo e l’integrazione di modelli giuridici predefiniti,
appaia da questi fortemente condizionata, a livello interpretativo ed
applicativo, nel caso della cessazione.
Del resto, è lo stesso criterio utilizzato per stabilire l’imponibilità
della fase liquidatoria a creare questo condizionamento. È naturale,
infatti che laddove si ragioni in termini di beni e di loro destinazione
emergano delle differenze legate all’esistenza o meno di un patrimonio
separato ed autonomo.
Per questo motivo diviene difficile individuare un momento di
cessazione con riguardo all’imprenditore individuale, in ogni caso
titolare di quei beni senza apparenti differenze, se non volontarie, tra
quelli personali e quelli destinati all’attività.
Al contrario, è molto più semplice individuare il momento
interruttivo con riguardo ad enti che, indipendentemente dalla presenza
della personalità giuridica, sono titolari di un patrimonio distinto da
quello personale dei soggetti coinvolti e vincolato all’esercizio
dell’attività economica, patrimonio che necessariamente subisce un
processo di liquidazione o destinazione esterna e che perde la propria
integrità, in ogni caso, in corrispondenza all’estinzione dell’ente
stesso.
Diverso sarebbe, invece, se si concentrasse l’attenzione sulla
riconducibilità di quanto compiuto nella fase liquidatoria alla nozione
di attività, quale insieme di atti fra loro vincolati ad uno scopo
impresso dal soggetto agente.
In questo modo, come accade in ambito comunitario, la natura dei
beni diverrebbe uno dei possibili criteri utilizzabili per la
265
Conclusioni
determinazione di tale vincolo, senza però escluderne altri.
Ugualmente, si aprirebbe la strada ad una seria rivalutazione
dell’elemento soggettivo, indebitamente trascurato. Nel ricostruire
l’impresa come attività, infatti, si è detto che essa è un fenomeno
volontario, non negli effetti ma nei comportamenti, e che lo stesso
vincolo tra le operazioni e tra i beni è necessariamente imposto ed
indirizzato dalla volontà del soggetto.
Tali elementi trovano dunque spazio nel momento iniziale
dell’attività, non v’è motivo perché ne vengano esclusi nella fase
conclusiva.
Oltre agli indubbi vantaggi, in una prospettiva di certezza delle
situazioni giuridiche, legati alla possibilità di utilizzare molteplici
criteri per la valutazione del momento di cessazione, questa scelta
sembra obbligata laddove si voglia realmente rispettare la natura
dell’attività ed attribuire ad essa il giusto ruolo nel sistema
dell’imposta.
Inoltre, questa prospettiva permetterebbe di superare le differenze
riscontrate tra una modalità di cessazione e l’altra, immotivate tanto in
relazione al diritto commerciale quanto a quello comunitario e del
tutto infondate in una prospettiva che guardi all’attività economica e
alla sua cessazione come fenomeni unitari, indifferenti alla forma
giuridica con cui si manifestano.
Si tratterebbe, in sostanza, di riproporre anche nell’ordinamento
nazionale quel particolare legame che nella disciplina comunitaria
esiste tra profilo oggettivo e soggettivo del presupposto, legame che li
rende interdipendenti, entrambi indispensabili, ma singolarmente
insufficienti per l’applicazione dell’imposta.
In virtù di questo legame, che vede l’attività economica necessaria
per l’individuazione del soggetto di riferimento, ma al contempo
soggetta all’influenza da questi esercitata, si assiste nella
giurisprudenza comunitaria ad un costante bilanciamento dei due
elementi, l’uno in grado di sopperire alla mancanza o alla riduzione
del rilievo dell’altro, quando questo sia necessario per garantire la
ratio dell’imposta e, quindi, la sua neutralità.
266
Conclusioni
Nulla si oppone a che un tale rapporto venga valorizzato a livello
nazionale, né la struttura o il contenuto delle norme, né particolari
necessità di coordinamento con le altre branche dell’ordinamento. Gli
elementi necessari per una siffatta interpretazione sono già presenti
nella normativa nazionale, tanto tributaria quanto commerciale e non
ci sono ragioni per cui, nel tentativo di marcare le differenze tra
impresa fiscale ed impresa commerciale, si rinunci ad una corretta
considerazione di tutti gli elementi che la compongono, soprattutto in
una prospettiva di maggiore aderenza con il dato comunitario che, in
ambito Iva, costituisce irrinunciabile punto di riferimento.
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