LADOMENICA DOMENICA 24 MARZO 2013 NUMERO 420 DIREPUBBLICA CULT All’interno La copertina Parlare da soli perché questo è diventato il Paese dei monologhi STEFANO BARTEZZAGHI e GIANCARLO BOSETTI Il libro Scelte diverse stesso destino sbirri e ultrà uniti dalla rabbia CARLO BONINI Straparlando Luca Ronconi “Mi piacerebbe trovare un senso alla tristezza” C’era una volta laVia ANTONIO GNOLI Emilia DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI È talmente dritta che si vede dal satellite ma percorrerla è impresa quasi impossibile A 2200 anni dalla sua fondazione viaggio alla ricerca della strada FOTO CORBIS che dà il nome alla regione-guida d’Italia L’archivio Guy Debord e il crollo del consumismo CARLO FRECCERO, FABIO GAMBARO e DANIELA STRUMIA L’incontro Keira Knightley “Siamo tutti finti guardate me...” MARIO SERENELLINI PAOLO RUMIZ «S FRANCESCO GUCCINI RIMINI - PIACENZA cusi dov’è l’antica via Emilia?». Rimini. All’ufficio informazioni davanti alla stazione mi mostrano senza esitare il periplo delle mura. La strada millenaria che spacca la città come una mela e taglia dritta dall’arco di Augusto fino a Piacenza, è ignorata. Diavolo, non c’è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedi persino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è immobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 banche, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti. Sono i 2200 anni della grande via romana — nel 187 a. C. il console Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianura — ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggiore. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall’editore Mulino in quel di Rimini, in vista c’è poco o nulla. Così vengo a dare un’occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle antiche vie d’Italia. E capire perché gli emiliani la dimenticano. (segue nelle pagine successive) L a viaEmilia è un paradosso. È strada e frontiera. Unisce e separa. Collega Rimini a Piacenza, e divide i paesi che attraversa, li taglia in due. Per dare un’idea, quando nel ’52 ho cambiato casa a Modena e ho attraversato lo stradone per passare dal lato appenninico a quello Nord sulla pianura, da quel momento — c’è da non credere — tutte le mie amicizie sono cambiate. Le persone che hanno segnato la mia storia musicale le ho incontrate sistematicamente oltre la via: Bonvi, quelli dell’Equipe 84, Dodo l’arrangiatore dei Nomadi, eccetera. Gli altri sono scomparsi. Giuro: mai più visti. Rimasti dall’altra parte. Forse il lato musicale della via Emilia è quello di pianura. Ancora oggi. Tra Parma e Modena c’è tutta la fascia del blues. E poi c’è una quantità di gruppi rock. Una volta ho fatto un giro con Ligabue, che stava facendo un film, e li ho visti, questi “americani”. È un marchio rimasto dal Dopoguerra, dalla presenza degli Alleati. In quegli anni tutto quello che era americano era bello. (segue nelle pagine successive) L’opera Il cane di Bulgakov diventa musica più bella da vedere che da ascoltare ANGELO FOLETTO L’arte Il Museo del mondo Lazzaro secondo Giotto MELANIA MAZZUCCO Repubblica Nazionale LA DOMENICA DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 28 La copertina C’era una volta La SS9 non ha conservato nulla dell’antica strada romana Da Rimini a Piacenza tra Tir e centri commerciali VERSO NORD “Ferrovia a destra, Appennino a sinistra: almeno su questo non ti puoi sbagliare”. A destra: l’arco di Augusto a Rimini, chilometro zero della via Emilia FOTO DI ALEX SCILLITANI diario di viaggio alla ricerca della storia perduta Scusi, dov’è la Via Emilia? L PAOLO RUMIZ (segue dalla copertina) e sorprese cominciano subito. Chiedo un bus per Cesena, ma non si può, si arriva solo a Savignano, a trenta chilometri. Non c’è un Greyhound come sulla Route 66 transamericana. Per fare la strada più dritta d’Italia devo cucire coincidenze impossibili. Ho rimediato una strisciata di orari da mal di testa; me l’ha data un mago delle vie traverse di nome Paolo Merlini. Fino a Piacenza fanno quindici cambi, fra treno e bus. Dovrò armarmi di pazienza. Linea 90, autoradio con spot martellanti, tre badanti rumene, due senegalesi che gridano al cellulare. Infiniti svincoli, rotonde fatte apposta per perdersi. Poi confluisco sulla via, e subito qualcosa si rimette a posto in me, come in un arabo che trova la Mecca. Rotta a Nordovest, ferrovia a destra, Appennino a sinistra. C’è anche una casa cantoniera, rosso pompeiano d’ordinanza. Spiragli di bella Italia. A Santa Giustina con la via Emi- lia ce l’hanno a morte. È pavesata di lenzuolate ai balconi con scritto “Basta chiacchiere, circonvallazione subito”, “Traffico+smog, grazie sindaco”. La via è diventata Statale 9 fino a Milano, ma non taglia più i paesi: ci gira attorno. E laddove li taglia, diventa un inferno di Tir. Fabbriche, centri commerciali, wellness, un manifesto che invita a una cena con strip maschile. Nessuna strada antica d’Europa somiglia meno di questa a ciò che è stata. A Savignano merenda alla piadineria del ponte, con vista sulle campate romane e il Rubicone. Mi dicono che il paese pullula di cinesi negli scantinati. Il resto è anziani, e il solito gineceo romagnolo: impiegate, postine in bici, vigilesse a caccia di divieti. «Scusate, dov’è l’antica via Emilia?» chiedo alle ultime, e loro indicano perentorie la circonvallazione. Come a Rimini. Linea 95 per Cesena, vetri sporchi da non veder fuori. Ipermercati, rotonda dedicata all’imperatore del liscio Secondo Casadei. Nella turrita Cesena patria di due papi mi raccatta Angela Arcozzi, una mora che odia le autostrade e mi porta in auto a Forlì. Piove forte, immense rotonde attorno a Forum Popili, l’attuale Forlimpopoli, patria di cuochi e briganti, Pellegrino Artusi e il Passator Cortese svaligiatore di teatri. Forlì,fascistissimo vialone d’accesso con mega-statua della vittoria. Ora la tabella oraria mi consiglia un pezzo in treno, in fondo anche la ferrovia segue la via come un’ombra, mai più distante di duecento metri. Arriva un regionale per Imola, surriscaldato e chiacchierone, in ritardo di quaranta minuti. Edgardo, pensionato stazza Obelix, brontola che la CASA GUCCINI Paolo Rumiz e Francesco Guccini a Pavana, in casa dell’artista Romagna ti infligge un rompiballe al secolo. Ieri Mussolini, oggi il riminese Moretti, rottamatore di Fs. «Scusi dov’è l’antica via Emilia?», richiedo nella pulitissima Imola. Un tipo con valigia ventiquattr’ore mi indica la parallela. A confonderlo forse c’è il viale della stazione, che si chiama via Appia. L’incrocio col vero Decumano è una meraviglia in pietra e mattoni, ma tutto è sigillato in una teca pedonale con negozi alla moda. Il bus Tpr 101 per Bolognafa cinquanta fermate in 33 chilometri, roba da crisi di nervi. Al capolinea un bambino grasso, una donna con un sacchetto di pesci rossi, la solita badante e un africano ben vestito; poi si parte verso la capitale dei Boi in un balletto di saliscendi alle portiere. Donne, di tutte le età. La via è massacrata dalla sua stessa geniale funzionalità trasportistica. Imola centro commerciale, Toscanella, Dozza, Osteria Grande: nessuna fermata che ricordi le legioni. Mucchi di neve sporca, frutteti spogli e l’eterna domanda: chissà dove finisce la Romagna e comincia l’Emilia? Mah. Alle porte di Bologna già annot- ta. Rotaie, negozi, argini, fabbriche, canali, fari nelle pozzanghere. A bordo si discute di Grillo e del Mago Gargamella (Bersani) mentre la radio gracchia di Balotelli se gioca o non gioca e due ragazze in hijab digitano freneticamente sul telefonino. Nemmeno l’Emilia, terra di vie dritte, sa più dove andare. Al capolinea, fuggi-fuggi nella pioggia, poi camminata solitaria lungo il cardo di via Galliera solo per chiacchierare con la russa al bancone di “Kalinka”, posto di vodke e caviali. Afferro brandelli di mito solo con Gianni Brizzi, il prof di storia romana più annibalico che ci sia. Tra verdure padellate e un lambrusco, ecco venir fuori che fu il grande spavento punico a convincere Roma ad attrezzare quella strada per tenere buoni i Galli con una fascia-cuscinetto che non fosse solo militare. Una via capace di essere anche spazio di colonizzazione, mercato, e al tempo stesso un confine, l’antenato di tutti i Limes. La cena finisce con una panna cotta e un anatema: «Questa è la prima frontiera dell’Italia romana. E in Emilia non lo capiscono». Come è vuota Bologna la notte; Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 29 (segue dalla copertina) I n bicicletta da ragazzini noi si frenava all’americana. Funzionava così: balzavi agile dal sellino e stringevi la ruota posteriore fra le cosce. Io me li ricordo gli Americani quando passarono la Linea Gotica. Ricordo il gusto della Coca Cola e la forma di quelle bottiglie verdine. Noi ragazzi si stava sempre con loro. E loro sparavano una cannonata ogni tanto, tranquilli come se andassero in ufficio. La mia via Emilia è stata dunque soprattutto frontiera. Non era il Far West in sé, ma la linea oltre la quale c’era il Far West, specialmente sul lato appenninico. Lì per noi c’era la prateria. Si rubava l’uva, si giocava ai cowboy, si andava a morosare di nascosto. C’era, mi FRANCESCO GUCCINI ricordo, il campo di un signor Magnavacca, il quale per tenerci lontani aveva messo un cartello con la scritta “terreno avvelenato”. Sapevamo benissimo che non era vero, e la proibizione aumentava il godimento della scorribanda. Era in quei campi, a primavera, che si svegliava il profumo dell’erba, e quel profumo mi accendeva la nostalgia del mulino del nonno, a Pavana sul monte. Una volta, per dire “andiamo a Modena”, bastava abitare a un chilometro dal centro. Io potevo dirlo, perché tra casa mia e il cuore della città c’erano pezzi di campagna. La Millemiglia tagliava un mondo ancora antico: verso Castelfranco c’era un La nostra frontiera prima del Far West posto chiamato Cavazzona, e tutti andavano lì a vederli passare, i concorrenti, con la Gazzetta dello Sport in mano. Il grido era: “È passato Nuvolari alla Cavazzona”. Oggi per dire “vado a Modena” devi abitare per lo meno a Piacenza, perché tra le città e i paesi non c’è più campagna. Specialmente tra Bologna e Reggio non hai che case e capannoni, un’infinita metropoli lineare. Ogni tanto mi piace immaginare com’erano le nostre città al tempo dei Romani. Le vedo come dei Fort Apache, con intorno i Celti cattivi come puzzole. E credo che, per collegare tra loro quelle città con la via Emilia, i legionari non abbiano inventato nulla e si siano limitati a usare piste già battute dai nostri antenati. Ma hanno lasciato al mondo un grande nome: “strata”. Che è una delle pochissime parole latine passate alla lingua inglese. “Street”, stessa radice di “strada”. L’antico basolato romano l’ho visto, nella pancia di Bologna, anni fa. L’avevano trovato scavando un sottopassaggio all’altezza di via Ugo Bassi e via Rizzoli. Quando aprirono la galleria al pubblico, i resti della via Emilia furono alla portata di tutti. Divenne un posto frequentatissimo: accanto alle vecchie pietre c’era un negozio di dischi, si tenevano riunioni politiche. Poi divenne pian piano un ricettacolo di perdigiorno, e il Comune ha finito per tombare il passaggio. I monumenti, le chiese, i ponti. Erano quelle le nostre pietre miliari. E quando scrivevo con Lucio Dalla la canzone Aemilia, era a quella misura dello spazio che mi riferivo. Lo stesso per Piccola città. Fino agli anni Sessanta, la domenica vedevo passare sciami di ciclisti. Non andavano mica ad allenarsi, come oggi. Andavano a ballare, a trovar la morosa, al cinema. E tornavano di notte perché non c’era pericolo. Io ci sono andato in bici, una volta, da Modena a Bologna. Madonna, non si arrivava mai. (Testo raccolto a Pavana da Paolo Rumiz) © RIPRODUZIONE RISERVATA GLI ULTIMI FRUTTETI “Frutteti spogli e l’eterna domanda: dove finisce la Romagna e comincia l’Emilia?” LA BRUCIATA “Una volta qui c’era il West, oggi signorine, russe o africane, a prezzi popolari” IL VIDEO Su Repubblica.it Rumiz e Guccini raccontano come è cambiata la via Emilia nel video di Alex Scillitani I NEGOZI CHIUSI “Rimini è semideserta In un chilometro conto diciassette banche e nove negozi chiusi” LE PRATERIE “Fari nella pioggia, luminarie e qualche varco di prateria Ma la regione Emilia esiste davvero o è solo un’idea?” sento l’eco dei miei passi tra le Torri e il Nettuno. Tutto, mi dicono, è risucchiato dai centri commerciali. È incredibile: questa è l’unica regione al mondo che prende il nome da una strada, ma a quella strada non dedica una sola iscrizione turistica visibile. Nulla che proclami: qui sono passate le legioni, qui abita la nostra identità. Ma come fai a sapere dove vai, se non sai da dove vieni? In auto per Modena con l’amico Alex Scillitani. Insegne trasparenti: Gelateria Delirius, Più compri e più risparmi, Affittasi capannoni, Compro oro. Tra Borgo Panigale e Casalecchio densità mai vista di seminude con ombrello, tacchi alti e iPod. Il consumo di suolo è terrificante, non c’è più spazio per la campagna. L’antico è disprezzato, lasciato morire. Ogni tanto un segnale dal mondo di ieri: un grandioso rudere in mattoni, una late- rale di nome “Via del cantastorie”. Castelfranco è il primo paese senza tangenziale, la SS9 lo attraversa tra i portici come ai tempi della Millemiglia. Altrove ti deviano spietatamente, come a Modena, dove appena la strada si fa bella ti sparano sulla rotonda Maserati. L’unico modo di fare la via romana integrale sarebbe la bici, che però negli anni del Sol dell’Avvenire è stata bollata come retaggio della miseria, col risultato che oggi sull’Emilia ti arrotano se te la fai sul sellino. Alla “Bruciata”,oltre lo svincolo di Modena Nord, una volta c’era il West; oggi hai le signorine da marciapiede, russe o africane, a prezzi popolari. Puoi fartene una dopo una cena in pizzeria o un giro all’ipermercato. Poco prima, al ponte sul Panaro, c’erano i ruderi della discoteca Mac2, rugginosa base spaziale dimenticata. Poi fari nella pioggia, luminarie, e qualche varco di prateria. Ma la regione Emilia esiste davvero o è solo un’idea? A Reggio il sindaco, noto per le “panchine parlanti” (fortunatamente guaste) e una mirabile rotonda attorno a una chiesa, ha pensato di ritombare un pezzo della via I CUOCHI E I BRIGANTI “Piove, immense rotonde attorno a Forum Popili, patria di cuochi e briganti” romana originale, in nome della modernità. In città la vivono come striscio, non come asse di collegamento. E se ti ostini a usarla come tale, ti dicono che la via è sbarrata. I bus non entrano nel granducato di Parma. Si va solo fino alla frontiera, come ai tempi delle dogane pre-unitarie. La linea 2 verso il granducato è un bus urbano con posti in piedi. Coerente, in una via che è solo città lineare. E via, per rotonde megalitiche, in mezzo a cartelli di Vendesi e Affittasi. A Villa Cella c’è un venerabile cimelio, un cinema aperto, poi ti taglia la strada un funebre sovrappasso pedonale inaugurato con ascensore per disabili, e mai entrato in esercizio. Sembra Sicilia, ma è Emilia. Poi di nuovo campagna, monti innevati in lontananza, pavoni, oche, anatre. Arrivo a Sant’Ilario in un bus vuoto, in un capolinea vuoto, in un quartiere vuoto. Piove anche nel chiosco d’attesa e non c’è nessuna coincidenza. Dopo le otto del mattino più niente collega il Reggiano al Parmense. Resta solo il treno, ma per arrivare alla stazione sono due chilometri a piedi. C’è solo l’autostop per passare l’Enza, gonfio e marrone, e con il ponte una nuova parata di adescatrici automunite, e una rete di sterrati per il mestiere. Da un capo all’altro di Parma,la via di Emilio Lepido svela la sua storia ospedaliera. Lazzaretti, ricoveri per pellegrini, vecchi manicomi, la meraviglia di un ospedale rinascimentale. «Tutti segni — mi dice al bar l’assessore grillino Laura Maria Ferraris — di una rilettura non solo verdiana della città». Ma è dura risalire la china dopo anni di sfascio e ruberie. Col disastro Parmalat è scoppiata la crisi, il commercio va male anche in centro. Chiara Cabassi, bibliotecaria, mi porta sotto il ponte di mezzo, nell’antro che contiene le campate del suo predecessore romano. Oggi il sottopasso è terra di nessuno, ieri era pieno di negozi. E via di nuovo tra capannoni in disuso come balene spiaggiate. Ponte sul Taro, grandioso, con statue di donna; poi la bellissima Fidenza disertata dai suoi stessi abitanti. La gente va al “Fidenza Village”, preferisce l’antico finto all’antico vero. I Tir non danno requie. «Con la crisi, i camionisti risparmiano sulle autostrade. Rovoleto e Pontenure sono annichilite dai passaggi», lamenta Mauro Nicoli, ufficio urbanistico di Fiorenzuola. «Ma la catastrofe vera è che la via non è più sentita come tale. Solo dall’aereo la percepisci come segno del territorio». Ultimo caffè al bar Mocambo, ex balera sulla ferrovia, poi via in treno fino al paracarro finale: Piacenza, 197° miglio romano, piantata sull’ultimo guado del Po. Per fare tutta la strada dovrei continuare fino al dazio milanese di Porta Romana, ma sono sazio di badanti, Tir, belle-di-giorno, serrande abbassate e centri commerciali. Non ho trovato il mito; non so dove vada la regione-guida d’Italia. Piove troppo, Cristo santo, e ho pure le scarpe fradice. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale LA DOMENICA DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 30 L’attualità Legge e ordine Cantati dalla grande letteratura russa e ridotti da Stalin ad attrazione circense, i guerrieri del Don sono stati rimessi da Putin in prima linea Contro chiunque minacci l’integrità del suo Impero. Ma anche contro gli ubriaconi moscoviti Belli e spietati i cosacchi sono tornati NICOLA LOMBARDOZZI P MOSCA er la Fede, per la Patria e per lo Zar. Tutto rigorosamente in quest’ordine. L’antico motto dei cosacchi dice più di ogni altra cosa su queste figure leggendarie uscite improvvisamente dai libri di storia e dal folklore delle guide turistiche per attraversare con passo fiero e sguardo cattivo le strade delle città russe. I colbacchi, le fruste, le cartuccere dorate intarsiate sui lunghi cappotti rossi, vengono dopo. Giusto per dare un tocco di solennità e di mistero a un revival studiato a tavolino con l’ambizioso scopo di «riportare legge e ordine nel Paese». E fa uno strano effetto, a metà tra il minaccioso e il patetico, vederli aggirarsi nelle ore notturne, come ronde di quartiere in uniforme storica, pronti a dare una lezione a qualche ubriaco un po’ troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamente alla polizia eventuali «comportamenti immorali» sui marciapiedi di periferia. Ma sono solo distorsioni metropolitane. Come vedere un cowboy a Manhattan o un samurai tra i grattacieli di Tokyo. In altri scenari più consoni al mito, lungo le valli meridionali del Volga o sulle sponde del sempre placido Don, i cosacchi sono invece tornati davvero. Marziali e spavaldi nelle loro nuove accademie, centri di addestramento, scuole religioso-militari pro- tette, benedette, e gestite dal Patriarca ortodosso in persona. Qui le divise colorate, i pantaloni blu dalle bande rosse che un tempo indicavano l’esenzione dalle tasse, le cariche a cavallo lungo le steppe sconfinate, evocano senza equivoci le gesta di Taras Bulba e degli altri eroi cantati dal fior fiore della grande letteratura russa. Una rivincita, dopo anni di depressione e oblio, per un popolo guerriero e ribelle che ancora ripete di riconoscere solo due autorità: “Il cavallo sotto di noi e il Signore sopra di noi”. Non è proprio una garanzia di fedeltà assoluta allo Stato come constatarono nei secoli molti zar, preoccupati dalla turbolenta e intermittente obbedienza dei loro migliori cavalieri. Ma per Vladimir Putin, ansioso di “bonificare” le difficili aree del Caucaso islamico e separatista, va benissimo così. Laggiù, dove la pressione dell’Islam e il boom demografico delle popolazioni ostili al potere di Mosca minacciano l’integrità dell’Impero, una difesa organizzata e anche un po’ ottusa della Cristianità, come quella offerta dai valorosi cosacchi, serve perfettamente allo scopo. Putin ci conta. Finora li aveva usati solo nella guerra vera, durante l’invasione del territorio georgiano nel 2009, inviando battaglioni cosacchi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso gli servono a incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e, magari, anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso l’abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere. Loro lo fanno con lo stesso impegno con cui gli antenati proteggevano i confini meridionali del territorio degli zar dalle orde tartare. Con devozione totale alla Madonna del Don loro protettrice e con una lista di nemici che mette i brividi: musulmani, ebrei, atei e sobillatori dell’ordine costituito. Ed è con questo spirito e con questi motti che si formano i giovanissimi allievi delle nuove scuole di cadetti, o delle palestre cristiane che sorgono a ritmi impressionanti da Volgograd (già Stalingrado) alle città sul fiume Terek. Dove, come promette ai genitori uno slogan molto diffuso, “si forgiano i cosacchi del XXI secolo”. Che cercheranno di somigliare il più possibile ai loro progenitori comparsi intorno al Milleduecento, bellicosi e invincibili, nella steppa dell’Europa dell’Est tra Ucraina e Russia del Sud. E che i loro nemici tartari definivano kazakche vuol dire “libero avventuriero”. Cavallerizzi di abilità tuttora ineguagliata, spirito libero e lunghe sciabole usate su chiunque senza alcuna pietà. Prima alleati dei prìncipi locali, poi insubordinati servitori degli z ar, divennero celebri per il loro democratico sistema interno di potere e per le loro feroci rivolte contro ogni prevaricazione. Combattenti impulsivi e disordinati, durante la campagna napoleonica di Russia fecero impazzire gli schemi di un teorico della guerra come il generale von Clausewitz che militava sotto le inse- gne del Cremlino. Troppo prussiano per capire il selvaggio spirito russo dei cosacchi, von Clausewitz li bollò come dilettanti anarchici pur dovendo ammettere che solo loro, con le loro incursioni temerarie al limite della follia, erano riusciti a fiaccare la potenza delle armate francesi. Irascibili e imprevedibili. La leggenda vuole che la presa del Palazzo d’Inverno, che nel 1917 segnò la conquista del potere dei bolscevichi, fu facilitata da una loro impuntatura. Si rifiutarono sdegnati di cooperare con un corpo volontario femminile alla protezione della residenza degli zar, lasciandola praticamente indifesa. In ogni caso, poco dopo ritornarono dalla parte dell’imperatore schierandosi con la Guardia Bianca nella guerra civile che seguì all’avvento del comunismo. A potere stabilizzato la reazione dei nuovi padroni del Cremlino fu spietata: i cosacchi furono deportati, sterminati, e in gran parte costretti a fuggire all’estero in quella che Stalin battezzò come una “campagna di decosacchizzazionedel Paese”. E siccome la fede cristiana viene prima di ogni cosa, migliaia di guerrieri cosacchi si arruolarono nelle fila naziste nel 1941 partecipando all’invasione dell’Urss con il proposito di “restituirla a Dio”. Cavalcarono in senso contrario le proprie steppe ostentando, durante il giorno, una svastica sulla divisa e, al tramonto, le icone sacre nascoste nei loro zaini da combattimento. Il disastro e l’ulteriore massacro di uomini donne e bambini che ne seguì sembravano aver messo fine a Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 31 ACCADEMIA Giovani reclute dell’Accademia cosacca di Novocherkassk E su questa striscia fertile viveva da tempo immemorabile una popolazione di sangue russo, bella ricca e pugnace, che professava la fede dei vecchi credenti ed era conosciuta col nome di cosacchi Lev Tolstoj “I cosacchi” ARTI MARZIALI Alcuni cadetti si addestrano sui monti del Caucaso. A destra, un prete ortodosso benedice un nuovo comandante regionale Ma i cosacchi del Jaìk che dovevano salvaguardare la tranquillità e la sicurezza di quel paese da qualche tempo erano essi stessi per il governo sudditi irrequieti e pericolosi Aleksandr Pushkin “La figlia del capitano” BRINDISI FOTO LUZ PHOTO AGENCY S.R.L. Cosacchi pronti a brindare e (a destra) a ballare per festeggiare l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale un mito durato più di nove secoli. Costretti in vere e proprie riserve indiane nelle province più urbanizzate del Caucaso, i superstiti dei cosacchi sono stati per anni un richiamo per turisti cui mostravano la loro abilità, nelle celebri danze o nell’ammaestramento dei cavalli, in malinconici spettacoli organizzati dalle agenzie di viaggio statali. Non essendo una etnia vera e propria, ma solo la condivisione di un modo di essere, si sono mimetizzati con il resto della popolazione cominciando lentamente a perdere abitudini e riti di un tempo. A rivitalizzarli ci ha pensato il primo presidente del periodo post sovietico Boris Eltsin con un decreto che li riabilitava e li considerava “vittime della repressione sovietica”. Ma chi ha deciso di riportarli agli antichi fasti è stato Vladimir Putin, vedendo in loro reincarnazione di antichi valori che dovrebbero aiutarlo a difendersi da separatismi e contestazioni. Un lavoro metodico, cominciato con il reintegro nell’esercito, il finanziamento di istituzioni locali, l’intervento spirituale ed economico della Chiesa e l’autorizzazione all’esercizio delle ronde urbane. E i cosacchi sono dunque tornati. Belli, scenografici e sicuri della loro forza. Inquietanti per molti. A seconda di come si vuole leggere l’ambigua definizione del grande scrittore Isaak Babel, fucilato per ordine di Stalin: «Delle bestie con dei princìpi». © RIPRODUZIONE RISERVATA Il cosacco di Baklanov getta indietro la testa, come un buon cavallo che ode uno squillo di tromba, e battendo il pugno nodoso sul tavolo, sussurra: “Fuori le baionette! Sguainate le sciabole!” Mikhail Sholokhov “Il placido Don” UNIFORMI Un giovanissimo cadetto ritira l’uniforme invernale prima di iniziare il corso. Qui sopra, un “Terek” appena eletto dai suoi compagni d’armi Nella steppa sconfinata / a 40 sotto zero / se ne infischiano del gelo / i cosacchi dello Zar / Col colbacco e gli stivali / camminando tutti in fila / con la neve a mezza gamba / vanno verso il fiume Don “Popov” Zecchino d’oro 1967 Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 LA DOMENICA ■ 32 L’archivio Avanguardie “Sono il più famoso degli uomini oscuri” diceva di sé Ora un’affascinante mostra parigina ricca di manifesti “situazionisti”, schede, video e appunti inediti riaccende i riflettori sull’eclettico intellettuale francese Che prima del ’68 aveva già capito quale fosse il nemico da combattere. E intuito come sarebbe andata a finire dopo Debord contro tutti La spettacolare guerra alla società dello spettacolo FABIO GAMBARO «T PARIGI utta la vita delle società in cui regnano le condizioni moderne della produzione s’annuncia come un’immensa accumulazione di spettacoli». Inizia così il più celebre dei libri di Guy Debord, La società dello spettacolo, arrivato nelle librerie francesi nel novembre del 1967 e poi tradotto infinite volte in tutto il mondo. Discusso, chiosato, detestato o adulato è considerato ancora oggi uno dei testi che meglio interpretano la condizione contemporanea. Duecentoventuno tesi che si presentano come una teoria critica dell’alienazione dominante, denunciando senza mezzi termini lo spettacolo come condizione onnipresente della società capitalistica. «Lo spettacolo non è un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale tra le persone mediato dalle immagini», scrive colui che all’epoca era l’instancabile artefice dell’Internazionale Situazionista. Lo spettacolo governa le nostre esistenze, s’interpone tra noi e gli altri, recuperando oltretutto ogni forma di contestazione che tenti di rimetterlo in discussione. Di conseguenza, la sua critica — che per Debord era la condizione necessaria per provare a immaginare una vita emancipata dall’ideologia del consumo — non può che prendere le forme di una guerra fatta d’intelligenza, movimento e strategia. Esattamente come quel Jeu de la Guerre che l’atipico intellettuale francese inventò nel 1956 e poi continuò a elaborare negli anni successivi con la volontà di «riprodurre la dialettica di tutti i conflitti». Un gioco della guerra che è al contempo «sintesi strategica della sua opera e metafora della lotta contro lo spettacolo delle merci», spiega Laurence Le Bras che, insieme a Emmanuel Guy, ha curato l’ampia e affascinante mostra intitolata “Guy Debord, un art de la guerre” (alla Bibliothèque nationale de France dal 27 marzo al 13 luglio). Proprio quel gioco — che «mira innanzitutto a rompere le linee di comunicazione del nemico» — è stato scelto dai curatori come filo conduttore di un percorso che, oltre a ribadire l’attualità di Debord in tempi in cui lo spettacolo è più che mai un principio strutturante della realtà, ricostruisce in dettaglio la poliedrica personalità di un autodidatta — nato il 28 dicembre 1931 e morto suicida il 30 novembre 1994 — che fu al contempo poeta, saggista, cineasta, artista, filosofo, sociologo e militante politico. Anche se — come ricorda Bruno Racine, il presidente della BnF che per Gallimard firma la prefazione del bel catalogo della mostra — l’autore di Critique de la séparation preferiva considerasi «uno stratega, un arrabbiato e un teorico». La quasi totalità dei documenti esposti provengono dagli archivi privati di Debord, acquisiti dalla Biblioteca nazionale nel febbraio del 2011 per 2,7 milioni di euro, e impedendo così che finissero all’università di Yale. Grazie al vastissimo materiale lasciato dal teorico del situazionismo (manoscritti, lettere, appunti, schede, fotografie, ritagli, volantini), i due curatori hanno costruito un ricco percorso che propone anche diversi quadri e documenti audiovisivi, al cui centro figurano seicento delle oltre millequattrocento schede di lettura vergate dall’intellettuale francese. Per Laurence Le Bras «questo è il vero e proprio cuore pulsante della riflessione di Debord», che per tutta la vita ha incessantemente annotato pensieri e citazioni in una sorta di dialogo permanente con gli autori che prima di lui avevano cercato di comprendere il mondo. «Per saper scrivere occorre aver letto. E per saper leggere occorre saper vivere», scrive Debord, che in una delle schede annota una frase di Carl von Clausewitz che pare scritta per lui: «In qualunque modo io possa immaginare la relazione tra me e resto del mondo, la mia strada passerà sempre attraverso un campo di battaglia». Quando pubblicò il suo libro più famoso, l’autore della Società dello spettacolo aveva già una lunga carriera di agitatore alle spalle, dentro e fuori i movimenti dell’avanguardia artistico-politica degli anni ’50 e ’60. Aveva per esempio partecipato al movimento lettrista d’Isidore Isou e Gabriel Pomerand, realizzando nel 1952 un film intitolato Hurlement en faveur de Sade. In seguito, convinto che fosse necessario uscire dal semplice rituale dello scandalo artistico, crea Potlatch, un bollettino politico-culturale che per molti versi anticipa le tematiche dell’Internazionale Situazionista. Questa nascerà ufficialmente nel luglio del 1957 in un paesino dell’entroterra ligure, Cosio d’Arroscia (tra i fondatori c’erano anche gli italiani Giuseppe Pinot-Gallizio, Piero Simondo, Walter Olmo ed Elena Verrone), sulla base di un testo intitolato Rapporto sulla costruzione delle situazioni. «Noi pensiamo innanzitutto che occorra cambiare il mondo. Vogliamo il cambiamento per liberare la società e la vita in cui ci sentiamo imprigionati», si leggeva nella prima pagina del documento, che poi precisava: «La nostra idea centrale è la costruzione di situazioni, vale a dire la costruzione concreta di atmosfere momentanee della vita, e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore». Negli anni successivi, il percorso di Debord, che tra i suoi autori preferiti menziona Dante, Machiavelli e Petrarca, seguirà quello del movimento situazionista, la cui avventura s’intreccia con le lotte politiche di quegli anni, specie nel Maggio ’68 cui fornirà, oltre a spiazzanti modalità di comunicazione, alcuni delle parole d’ordine più efficaci e diffuse. Tra una battaglia e l’altra, mentre nelle riunioni dell’Internazionale Situazionista si succedono scomuniche ed espulsioni (fino alla dissoluzione ufficiale nel 1972), l’intellettuale militante continua a fare film sperimentali come La société du spectaclee In girum imus nocte et consumimur igni. E intanto pubblica alcuni testi più autobiografici, tra cui Panégyrique e Cette mauvaise réputation. Proprio in uno scritto inedito degli ultimi anni, si definisce «il più famoso degli uomini oscuri». Una definizione perfettamente illustrata dalla mostra parigina, che restituisce tutta la complessità di quel «teatro delle operazioni» immaginato da Debord. Per il quale «la miglior cosa che possa capitare a un’avanguardia è di aver fatto il proprio tempo, nel pieno senso del termine». E per l’autore della Società dello spettacolo è sicuramente vero. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 33 Il consumismo è morto benvenuti a Gomorra CARLO FRECCERO e DANIELA STRUMIA ella sua opera più famosa, La società dello spettacolo(di cui curammo la prefazione all’edizione italiana nel 1997), Debord descrive il consumismo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Per Debord lo spettacolo «è il cattivo sogno della società incatenata». Ne consegue che «svegliarsi da quest’incubo è il primo compito che si assegnano i situazionisti». Oggi che questo evento si è realizzato, che lo spettacolo è andato in frantumi e abbiamo bruscamente riacquistato il contatto con la realtà, l’impressione che ne traiamo non è di liberazione, quanto piuttosto di disperazione e rimpianto. Cypher, il traditore di Matrix, non chiede in cambio del suo tradimento dei benefici economici: vuole solamente regredire allo stato di incoscienza che caratterizzava la sua vita prima di assumere la fatale pillola rossa, che l’ha liberato dalle accoglienti illusioni di Matrix per scagliarlo brutalmente nei sotterranei della vita vera, dove si combatte in trincea contro il male, ma a costo di rinunciare a ogni piacere. Conoscere la verità non significa necessariamente schierarsi dalla parte giusta. Marx come ispiratore di rivolta ha avuto un compito tutto sommato più facile di Debord. Marx aveva come oggetto di studio la prima rivoluzione industriale, e la sua analisi era intrisa di sudore, sfruttamento e dolore. Il consumismo invece non viene percepito come sofferenza, ma come godimento condiviso, redistribuzione del benessere. Se quindi Marx ha buon gioco a connotare di significati negativi il concetto di alienazione, Debord, che è una sorta di Marx del consumismo, prova maggiori difficoltà a farci odiare la contemplazione, che è l’anello di congiunzione tra alienazione e spettacolo. Anche la contemplazione è passività, ma una passività che non nasce dall’impotenza bensì dall’ammirazione. Si contempla la Madonna, si contempla il sacro, si contempla lo spettacolo. Lo spettacolo, inteso come consumismo, ha rappresentato nel nostro recente passato una sorta di sacralità. Se dunque lo spettacolo è morto non è perché l’abbiamo combattuto, ma perché le leggi economiche hanno preso un’altra strada. Alla fine degli anni Settanta nacque il capitalismo finanziario. Il valore non scaturisce più dal lavoro, dalla produzione e dal consumo. Nasce dal mercato, dalla libera contrattazione dei valori azionari. Spazzato via il mondo della produzione reale, lavoro e consumi diventano superflui. Le luci dello spettacolo si spengono ad una ad una e il mondo sembra tornato a uno scenario da prima rivoluzione industriale. Finito il consumismo, cosa può dunque insegnarci oggi Debord? In realtà sembra che le sue risorse profetiche si rivelino inesauribili. Nel 1988 scrisse I commentari sulla società dello spettacolo che descrivono lucidamente non la società di allora, ma la realtà di oggi. Ne La società dello spettacolo Debord identificava due forme di spettacolo, legate a due diverse forme di regime politico: lo spettacolo concentrato, proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo spettacolo diffuso, proprio delle democrazie occidentali dominate dal consumismo. Nei Commentariintroduce il concetto di spettacolo integrato, che ha molte caratteristiche in comune con lo spettacolo concentrato, dove «il centro direttivo è ormai diventato occulto». Qui la Mafia non rappresenta più un residuo arcaico del passato, ma il modello economico vincente: «nell’epoca dello spettacolo integrato, essa appare di fatto come il modello di tutte le imprese commerciali avanzate». Ancora una volta Debord descrive dal passato il nostro presente. Pensiamo al concetto di spettacolo integrato, miscela di stato tollerante e autoritario, come anticipazione del capitalismo autoritario contemporaneo. E pensiamo all’idea di Mafia come modello di tutte le imprese future. Incomprensibile nel momento in cui viene scritta, quella definizione anticipa in maniera sorprendente un’opera come Gomorra: la delinquenza non è corruzione, deviazione, ma la matrice stessa della produzione capitalistica. FOTO ® BNF, DPT. MANUSCRIPTS, FONDS GUY DEBORD N © RIPRODUZIONE RISERVATA IMMAGINI FOTO ® BNF, DPT. MANUSCRITS, FONDS GUY DEBORD Qui sopra La società dello spettacolo in un’edizione francese del 1971 Dall’alto: 1954, da sinistra a destra Gil Wolman, Mohamed Dahou, Guy Debord e Ivan Chtcheglov davanti alla galleria Double Doute (Doppio Dubbio) a Parigi. Una scheda del dossier Filosofia, sociologia; un manoscritto del ’78 (In girum imus nocte et consumimur igni, uno dei suoi film); tre volantini, di cui quello arancione invita all’apertura del bar La Méthode: “Se stasera dopo le dieci non avete intenzione di rileggere Schopenhauer” DOCUMENTI Nella pagina di sinistra Guy Debord a Cannes nel 1950 e dall’alto: un numero dell’Internationale situationniste, scheda dal dossier “Marxismo” e un fotomontaggio. Qui a destra tre manifesti del Maggio ’68, mentre a sinistra uno dei cinque esemplari del “Gioco della guerra” costruito da Debord nel 1978. Qui sopra “The Naked City” (1957) Tutti materiali esposti nella mostra parigina “Guy Debord, un art de la guerre” alla Biblioteca nazionale di Francia dal 27 marzo al 13 luglio Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 LA DOMENICA ■ 34 Spettacoli Allegro con brio La Biblioteca Marciana conserva spartiti originali incisi ora per la prima volta E documenti preziosi anche per ricostruire la vita dissoluta degli artisti di corte Musicae sesso nellaVenezia del ’700 GIUSEPPE VIDETTI «Q VENEZIA uella bassa e gialla è la casa di Elton John», esclama Andrea Bacchetti scrutando la Giudecca dalla Piazzetta San Marco. Poi, brandendo gli spartiti di Baldassarre Galuppi e Benedetto Marcello: «Questi erano come lui: le pop star del Settecento veneziano». Il giovane pianista genovese è magro, nervoso, un furetto al servizio della musica; tanto comico nel suo scattante virtuosismo da finire nello show di Chiambretti. Sono cinque anni, dal 2007, che il maestro periodicamente si rintana nella rivale repubblica marinara in cerca di tesori da riproporre nella collana La Tastiera Italiana, che cura con lo storico Mario Marcarini: un progetto di recupero, restauro e prima edizione discografica di preziosissimi manoscritti in collaborazione con la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. I volumi già pubblicati — dedicati ai compositori Cherubini, Galuppi, Marcello e Scarlatti — hanno avuto risonanza internazionale. Negli spazi monumentali progettati dal Sansovino, Bacchetti si muove come a casa. È questa la struttura che custodisce i suoi “vangeli”, manoscritti originali di uno dei patrimoni musicali più importanti del mondo, riccamente decorati e rilegati in marocchino rosso. Ce ne sono di perduti, ritrovati e restaurati di fresco che stanno scatenando la curiosità di musicisti e melomani. «Erano i tempi in cui ricchezza faceva rima con bellezza», sospira Franco Rossi, vicedirettore del conservatorio Benedetto Marcello e docente di storia della musica. Le vicende della Marciana sono una favola che oggi non avrebbe lieto fine. È il 1468: il cardinale greco Bessarione fa dono dei suoi mille codici latini e greci alla Repubblica di Venezia. Per ospitare il prezioso carico, lo Stato Veneto affida a Jacopo Sansovino la costruzione davanti al Palazzo Ducale di un grandioso edificio di stile classico. La sala di lettura viene decorata da Tintoretto e Veronese; nell’antisala, ornata da un dipinto di Tiziano, trova posto il Museo Statuario della Repubblica. Uno scrigno per tutte le arti; un’allegoria del Veronese è dedicata alla RESTAURATI Un musicista inciso da Filippo Bonanni Qui accanto il Libro I (1752) di Domenico Scarlatti Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 35 Domenico Scarlatti Benedetto Marcello Baldassarre Galuppi Antonio Soler Luigi Cherubini 1685-1757 1686-1739 1706-1785 1729-1783 1760-1842 Nella Biblioteca San Marco vi erano i manoscritti di alcune sonate Resta anche la fitta corrispondenza con Farinelli Sono molte le fonti manoscritte dell’artista, cui è dedicato il Conservatorio, conservate in Biblioteca Le otto sonate per tastiera pubblicate su disco nel 2008 sono solo parte dei suoi documenti tenuti alla Marciana Conosciuto anche come Padre Soler, l’allievo di Scarlatti è ritenuto l’autore di molti manoscritti conservati nella Biblioteca La Marciana custodisce gli spartiti delle Sei sonate per cimbalo op.1 del compositore fiorentino musica (popolare e colta): donne che cantano e suonano il liuto e la lira da gamba sotto gli occhi compiaciuti del dio Pan. «Uno dei luoghi più belli del mondo della cultura dal valore simbolico enorme, in un secolo che sta perdendo l’uso della memoria», ammonisce il professor Rossi. Se oggi un ipotetico Bessarione facesse una donazione in libri dal contenuto filosofico metterebbe in imbarazzo le istituzioni che non saprebbero come e dove sistemarli. Tesori negletti che non arriverebbero ai posteri. Sorte anche peggiore toccherebbe a quegli spartiti musicali di tre secoli fa che il buon governo della Serenissima teneva in altissima considerazione. La sala di lettura della Marciana, cui si accede dalla scala allegorica del Sansovino raramente aperta al pubblico che simboleggia la musica come forma di ascensione collettiva verso il cielo, assomiglia al salone delle feste di un palazzo reale con i magnifici affacci su Piazza San Marco. In mostra anche il primo cahier de musique di cui si sia a conoscenza, codice riccamente miniato in oro zecchino appartenuto alla signora Maria Venier. Contiene le sonate autografe che i musicisti invitati a palazzo dedicarono alla nobildonna: uno scorcio inedito della Venezia di primo Settecento. Quanti anni aveva la Venier? Che rapporti intratteneva con i protagonisti della musica dell’epoca? Raccoglieva autografi dei suoi idoli come oggi le groupie quelli delle rockstar? «Non abbiamo molte informazioni su di lei», precisa il professor Rossi. «Sappiamo solo che La Fenice, alla fine del Settecento, fu edificata nel giro di un anno su un fondo di proprietà dei Venier. Una legge sul lusso sanciva che la città di Venezia dovesse avere non più di sette teatri. Lo Stato dovette fare una deroga ai nobili affinché ce ne fosse un ottavo, la Fenice appunto. I ricchi dell’epoca investivano sugli artisti. Esiste copia di un contratto tra il compositore e un nobile veneziano con delle clausole sorprendenti: 1) il maestro ha diritto al compenso anche nei giorni di malattia 2) verrà retribuito anche quando sarà chiamato a tenere concerti fuori città o in altri stati». Personaggio di spicco del teatro musicale ita- liano, nato nell’isola di Burano nel 1706, Galuppi (morì a 79 anni e fu padre di 15 figli), dal 1762 maestro di cappella nella Basilica di San Marco, fu star a livello europeo. I Pisani, una delle famiglie più facoltose di Venezia, lo adottarono. Alla Marciana è conservata una delle due copie (l’altra è a Parigi) di una cantata, Venere al Tempio, scritta per il matrimonio di un Pisani. «Sappiamo che le celebrazioni si tennero nel salone delle feste dell’attuale Conservatorio, gli eredi hanno ceduto il palazzo nei primi del Novecento», precisa Rossi. «Questo per ribadire che anche allora i ricchi spendevano in maniera dissennata, ma per le cose belle. E uno dei lussi che non si facevano mancare era avere per casa degli artisti. L’educazione musicale dei figli era seguita con attenzione, come dimostrano alcune lettere appartenute alla potente famiglia Querini». Ne sa più il professore su Galuppi di quanto noi su Michael Jackson. Prodezze sessuali che fanno impallidire Bowie e Jagger. «Intrighi con la Venier? È possibile. Attraverso Cento Anni, il ro- LA BIBLIOTECA L’interno della Biblioteca Marciana di Venezia In alto, alcuni spartiti originali lì conservati manzo storico di Giuseppe Rovani (1818-1874), uno scrittore della Scapigliatura milanese, scopriamo che Galuppi non era esattamente l’artista virtuoso che voleva sembrare. C’era del torbido nel suo ingaggio fiorentino alla corte di Gian Gastone de’ Medici». Ben noto per la sua condotta libertina ai limiti dell’hard core, il granduca si beava del virtuosismo del Galuppi. Non solo. «Aveva saputo che il suo clavicembalista preferito era superdotato, lo volle vicino per motivi palesemente sessuali», precisa Rossi. «In un documento conservato a Firenze — diciamo pure un diario a luci rosse — la sua prestanza fisica è descritta con dovizia di particolari. Che l’ultimo rampollo dei Medici fosse un sodomita era risaputo anche fuori dal Granducato di Toscana, tanto che il padre di Domenico Scarlatti si adoperò in ogni modo affinché la permanenza del figlio a Firenze non durasse più di qualche giorno. Anche Caterina II di Russia, rinomata per i suoi appetiti sessuali, era ben informata sulle dotazioni di Galuppi. Il soggiorno di Baldassarre a San Pietroburgo fu lungo e chiacchierato. Quando il figlio di Caterina venne a Venezia, poco prima della morte del compositore, gli consegnò un dono prezioso: “Da parte di mia madre, che non vi dimentica”, gli disse. Era il frutto della loro relazione? I comportamenti sessuali, anche borderline, erano molto tollerati dalla società dell’epoca. Ben oltre le prodezze di Casanova dovette spingersi Lorenzo Da Ponte, il librettista delle Nozze di Figaro, per essere bandito (il 17 dicembre 1779) dalla Repubblica di Venezia per quindici anni». È purissima e malinconica l’aria per clavicembalo del Galuppi che il maestro Bacchetti fa risuonare sotto le preziose volte della Marciana, tra i tesori musicali esposti a una generazione distratta. «Qui dentro c’è il fondo più importante appartenuto ai reali di Spagna e Portogallo dal Quattrocento fino all’Ottocento. Materiali che ci mettono in contatto con la Storia», conclude Rossi. Vuol dire che saremmo dei mostri se facessimo scempio di tanta bellezza. E non s’arrivi a dire che ogni generazione ha la Venier che si merita. © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiedi alla polvere e ti risponderà ANDREA BACCHETTI uandomi hanno parlato della riscoperta di partiture inedite di autori del Settecento, tratte da manoscritti autentici, mi sono entusiasmato. L’emozione di leggere un testo originale così come scritto dal compositore è impagabile. È bello andare dentro le note, percepire il pensiero dell’autore, interpretarlo per trovare la frase che lui avrebbe voluto scrivere e che rispecchia la sua ispirazione. In poche parole: vivere l’autenticità di quanto voleva lasciare ai posteri. È una sorta di rompicapo che ti consente di ascoltare (riscrivendo) la melodia, anche nei dettagli. Devi tornare indietro negli anni, entrare nel momento storico, nello stato emozionale e caratteriale dell’autore, nel suo modo di vivere e di concepire la musica. Una ricerca senza fine che ti pone dubbi, ma anche sensazioni incontaminate che sulle partiture stampate non troverai mai. O meglio: sono già state risolte e interpretate da altri, e ciò toglie il piacere della sco- Q perta, perché nell’esecuzione non parti da un pensiero che hai sviluppato tu, originale, ma da una scrittura già tradotta. L’inusuale decifrazione delle chiavi antiche per noi pianisti è pratica ormai dimenticata, avendo sempre le partiture in chiavi moderne. L’immergersi nella “polvere dei secoli” delle biblioteche europee, nella vita e nella storia di istituzioni centenarie che con il loro lavoro paziente e appassionato ci permettono ancora oggi di disporre di questo materiale unico al mondo, ci trasmette adesso e per sempre pagine di vita vissuta, di gioia e di dolore di uomini che hanno lasciato il segno nella storia dell’umanità. La sintesi di questo lavorare nel tempo è l’acquisire in te stesso la consapevolezza che per crescere non bisogna mai smettere di cercare, non c’è un punto di arrivo. Più cerchi, più trovi, più cercheresti: un “crescendo in continuo”. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 LA DOMENICA ■ 36 Next In fila per 3.0 IL SITO Tablet e Lim erano soltanto il primo passo Per adeguare insegnamento e apprendimento ai tempi di Internet si comincia dall’architettura delle vecchie aule. Ecco come. E dove Per conoscere come sarà la classe del futuro si può visitare il sito dell’Indire, l’Istituto di documentazione, innovazione e ricerca educativa del Miur (Ministero dell’istruzione università e ricerca) I BANCHI DEL FUTURO 5 4 LE CARATTERISTICHE COOPERATIVE LEARNING La lezione non è più frontale, per questo l’insegnante non siede in cattedra Ogni studente, dotato di computer, potrà intervenire per arricchire i temi e gli argomenti trattati di volta in volta ROSARIA AMATO a cattedra è scomparsa e la lavagna pure, anche quella in versione multimediale: sono le quattro pareti a far da schermo al proiettore del computer. Quanto all’aula, è diventata “a geometria variabile”: i banchi non sono più rettangoli allineati a due a due, bensì trapezi che si compongono e scompongono a seconda delle esigenze formando delle “isole”. Gli argomenti vengono affrontati in versione multimediale, l’insegnante suggerisce e modera, i ragazzi intervengono utilizzando il loro tablet. Il tema non è banalmente “la lezione”: quella il professore ha provveduto a postarla per tempo, e i ragazzi l’hanno ascoltata attentamente su video, a casa. Quello che si fa in classe è altro: si approfondisce, si affrontano i problemi legati a quell’argomento, si fanno collegamenti con esperienze ed esperimenti di altre classi, della stessa scuola, ma non necessariamente perché potrebbe trattarsi anche di scuole che si trovano all’altro capo della terra. L In alcuni paesi, e persino in Italia, la scuola 3.0 si sta già sperimentando Rivoluzionerà il sistema attuale di apprendimento a partire dall’aula Ci saranno: 1. debate, e non lezioni 2. didattica multidirezionale 3. isole, e non più singoli banchi 4. pareti vive, al posto delle lavagne 5. cooperative learning PARETI VIVE Su ciascuna delle quattro pareti dell’aula vengono proiettati con il pc immagini e testi utilizzati dall’insegnante mediante il suo tablet per presentare un argomento (o anche un quadro) Senza cattedra né lavagne sarà così la nuova scuola Tutto questo è la scuola 3.0: troppo presto per parlarne, visto che in Italia la 2.0 è ancora in fase di sperimentazione e quella tradizionale cade a pezzi? Può darsi. Però, anche se suona sarcastica fantascienza alle orecchie dei tanti genitori che oggi devono provvedere di tasca propria alla carta igienica per i bagni, esistono già scuole italiane che stanno avviando la sperimentazione dell’aula a geometria variabile. Mentre le classi 2.0 sono ormai in una fase matura, e l’esperienza si va allargando. «Non si tratta solo di introdurre nuove tecnologie nelle scuole — dice Giovanni Biondi, capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali del ministero dell’Istruzione e presidente dell’European Schoolnet — dobbiamo creare una situazione di attrattività della scuola per le nuove generazioni. Abbiamo una generazione digitale che apprende a casa attraverso la multimedialità e le tecnologie interattive: quando questi ragazzi arrivano a scuola, trovano un ambiente dove sono soggetti passivi, sono invitati solo ad ascoltare, a prendere appunti, e gli unici linguaggi che possono utilizzare sono quello scritto e quello orale. Mentre la scuola ha l’obiettivo di coinvolgere e far appassionare gli studenti: l’ha sempre avuto, e adesso ancora di più, ora che le nuove tecnologie offrono l’opportunità di superare lo schema sto- rico-narrativo tradizionale». La rivoluzione è già cominciata nelle scuole ed è partita quando i computer sono usciti dal “laboratorio informatico” per entrare in classe, e diventare protagonisti delle lezioni. Fino ad allora, certo, professori particolarmente avveduti erano riusciti già a far apprezzare materie magari meno digeribili: «Entrare in un quadro di Tiziano e poterne apprezzare i particolari in 3D non è come vedere la foto sul vecchio manuale», dice Biondi. L’arrivo del computer nelle classi, e meglio ancora della Lim, la lavagna multimediale interattiva, ha dato poi inizio alla rivoluzione vera e propria. Una rivoluzione che adesso sta arrivando a mettere in discussione persino la tradizionale architettura scolastica, che non si presta più alle esigenze di quella che sarà la scuola di domani. «Io utilizzo la Lim per la geometria ormai da cinque anni — dice Tiziana Napolitano, insegnante di matematica e scienze alla scuola media di via dei Consoli a Roma — perché mi permette di spaziare: la lezione diventa aperta, ognuno interagisce, dà il proprio contributo». «Gli insegnanti — spiega Daniele Checchi, pro- I PROGETTI ITEC Montelupo fiorentino Book in progress Uno per uno Innovative Technologies for an Engaging Classroom: progetto europeo di “classe del futuro” avviato in mille classi di dodici paesi All’istituto comprensivo Baccio da Montelupo (Firenze) gli studenti delle medie usano regolarmente computer, tablet, Lim e libri digitali Il liceo Majorana di Brindisi è capofila di un progetto che affianca i libri di testo a una “sintesi vocale”. I docenti usano la Lim e le videolezioni All’istituto tecnico Pacioli di Crema c’è un computer per ogni studente e si sperimenta anche l’aula 3.0 a geometria variabile Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 37 1 DEBATE Tra l’ardesia e il web Non più interventi disorganici: tutto si svolgerà secondo regole precise apprese mediante il “debate”, una sorta di ars oratoria ai tempi del computer, già conosciuta e codificata nel mondo anglosassone MARCO LODOLI ome sarà la nuova scuola ormai sembra abbastanza chiaro, almeno nelle intenzioni, nelle aspettative, nelle speranze: un luogo dinamico dove lo studente partecipa e interagisce con l’insegnante presente in classe e con le mille sollecitazione che gli arrivano tramite il tablet, la lavagna multimediale, l’infinito oceano di Internet. Sta per finire la vecchia lezione frontale, quella con il prof in cattedra che per un’ora spiega Leopardi o l’ablativo, che si volta solo per tracciare con il gessetto parole sghembe sulla lavagna d’ardesia, la lezione che soddisfa l’insegnante ma a volte deprime gli alunni, che stanno lì, immobili, inerti, spesso distratti. In Europa questo tipo di insegnamento è superato, e chi ancora si attarda nei suoi comizi culturali viene visto male, come un rottame vanitoso di un tempo tramontato. Insomma, la nuova pedagogia detta regole precise: bisogna che la scuola sia un luogo di dibattito e partecipazione, non banchi da scaldare. Le nuove tecnologie sono pronte per trasformare una vecchia aula in un centro di C raccolta ed elaborazione di dati. Ma c’è ancora un problema da superare, almeno qui in Italia. I nostri ragazzi intendono la Rete come uno spazio ludico: scaricano giochetti, accoppano zombie, chattano con gli amici, guardano filmetti dell’orrore, qualche porno, si fanno matte risate navigando tra le follie catalogate su YouTube, ascoltano e scambiano musica, se la spassano. Internet è una giostra infinita che allarga il suo cerchio e i suoi cavallini virtuali fino agli orizzonti più lontani, dove c’è sempre qualcosa che farà divertire. Ora bisogna cambiare atteggiamento, far capire ai ragazzi che la Rete offre occasioni di approfondimento, biblioteche e pinacoteche smisurate, un incredibile allargamento della conoscenza: non si tratta di scaricare la ricerca premendo un tasto e stampando quattro fogli da consegnare a quel babbeo del professore. Ma di trasformare il Paese dei Balocchi in una scuola diversa, più vicina ai ragazzi ma non per questo meno complessa. Insomma: si tratta pur sempre di studiare. ‘‘ Entrare in un quadro di Tiziano e poterne apprezzare i particolari in 3D non è come vederne la foto sul vecchio Argan Giovanni Biondi capo dipartimento Miur © RIPRODUZIONE RISERVATA 3 LE ISOLE Via cattedra e banchi singoli o a coppia Gli studenti si siedono in banchi a forma di trapezio, che uniti formano “isole” smontabili a seconda delle esigenze 2 DIDATTICA Diventa multidirezionale: gli input non vengono sempre e solo dagli insegnanti La classe riceve stimoli esterni, che poi però ciascuno restituisce agli altri rielaborati sotto altre forme fessore di economia politica all’Università di Milano, tra i coordinatori del rapporto “Progetto Cl@ssi 2.0” — dicono che le nuove tecnologie livellano il terreno di partenza degli studenti, agendo come un elemento di innovazione che ridisegna i rapporti all’insegna della classe, permettendo di superare la tradizionale distinzione tra “bravi” e “scarsi”. Molti fanno notare come sia più facile diversificare l’insegnamento e le richieste, e che la varietà delle risorse permette di arrivare a tutte le intelligenze. La seconda osservazione è che l’insegnante perde di centralità come unica fonte di autorità, diventando piuttosto un “facilitatore”, una guida esperta». Ecco perché gli esperimenti che già fanno intravedere la scuola dei prossimi anni non prevedono più aule con la cattedra: «Stiamo progettando l’aula 3.0, a geometria variabile — annuncia Giuseppe Strada, preside dell’Itc Pacioli di Crema — con le pareti “vive”, le postazioni mobili per gli studenti, l’insegnante che gira con il suo tablet, sedendosi in qualunque posto ritenga opportuno. Prevediamo che verrà utilizzata a turno da tutti gli insegnanti, School of one A New York, offre programmi differenti per ogni studente Alcuni lavorano in gruppi, altri da soli, altri col tutor. Non esiste l’aula, solo grandi isole che avranno modo così di sviluppare la didattica multidirezionale: non è detto che gli stimoli debbano arrivare necessariamente dal professore, lo studente diventa protagonista della lezione, ma al tempo stesso viene molto valorizzato il lavoro di gruppo. È un sistema che migliora molto i livelli di apprendimento, fino al 25 per cento in più, come emerge dagli studi del Mit». Il Massachusetts Institute of Technology di Boston sta infatti collaborando con l’Itc Pacioli e con un gruppo di altre scuole italiane per valorizzare nuovi modelli di didattica: «Abbiamo mandato una trentina di nostri studenti in alcune scuole — illustra Serenella Sferza, milanese, docente del Mit — per sperimentare corsi di materie scientifiche cosiddetti custom-tailored, tagliati su misura. Si trat- IL DISEGNO Ecco come sarà l’aula 3.0 Aboliti cattedra e banchi Per l’insegnante un posto al centro della stanza; gli studenti si sistemano a gruppi in banchi che creano delle “isole” Alle pareti sono proiettati testi e immagini con il computer ta di un metodo applicativo che mira al problem solving, la ricerca di una soluzione, piuttosto che allo sviluppo di un programma attraverso delle lezioni. Quelle ci sono ancora, ma costituiscono un momento preliminare: si guardano sul computer, a casa, prima di arrivare a scuola, ogni studente lo fa con i tempi che ritiene più appropriati». Tuttavia le sperimentazioni permetteranno di arrivare a una scuola nuova, innovativa, solo se saranno il più possibile estese, diffuse e condivise: la raccomandazione per l’Italia arriva dall’Ocse. All’inizio di marzo due esperti dell’organizzazione, Stéphan Vincent-Lancrin e Francesco Avvisati, hanno presentato al Miur uno studio sul piano nazionale per la scuola digitale. In sintesi, l’indicazione è una sola: uscire dalle riserve indiane della sperimentazione, rendere tutte le scuole 2.0 (dotandole di banda larga) eventualmente anche adottando strumentazioni più economiche della lavagna multimediale («basta un computer con un proiettore»), mettere in Rete i risultati e infine condividere. © RIPRODUZIONE RISERVATA Modello rovesciato Alla Clintondale High School del Michigan i ragazzi a casa o mentre sono in giro guardano sullo smartphone i video delle lezioni; in classe fanno i compiti Repubblica Nazionale LA DOMENICA DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 38 I sapori Di moda Tra qualità accertate e leggende metropolitane per la primavera 2013 va molto l’antico Egitto Il marchio Kamut è un marchio registrato e non il nome del grano, che si chiama khorasan e può essere coltivato ovunque (ma non si può chiamare Kamut, nome utilizzabile solo dai produttori americani) Sotto, Kamut e verdure saltate in padella LICIA GRANELLO l potere della parola. Kamut, per esempio. Odore di spezie e paesi lontani, civiltà antiche e saperi ritrovati, la Mezzaluna Fertile, culla della civiltà agricola, e i primissimi semi trasformati in cibo. Non potevano scegliere nome migliore, i membri della famiglia Quinn, quando nel 1990 depositarono il marchio di un cereale, il khorasan — Triticum Turgidum sottospecie Turanicum, in linguaggio botanico — coltivato nell’America del nord. Quasi un quarto di secolo più tardi, il vero nome del grano khorasan è sconosciuto ai più, sostituito dal marchio (registrato con tanto di ®), che identifica il cereale più acclamato e modaiolo di inizio millennio, d’obbligo nei menù piegati alle esigenze della remise en forme primaverile. La storia dell’alimentazione è una successione ondivaga di improvvise accelerazioni e frenate repentine, innamoramenti fulminanti e oblii inspiegabili. Nel corso dei secoli, patate e carni arrosto, zucchero e tartufi, vino e caffè sono passati dalla polvere all’altare e viceversa a seconda di luoghi, costi, ceti sociali. Il grano khorosan non si è sottratto alla maledizione dei cibi misconosciuti, se è vero che dopo essere arrivato in America nel dopoguerra grazie al regalo di un viaggiatore di ritorno dall’Egitto, il progetto della sua coltivazione è fallito miseramente per ben due volte. Solo alla fine degli anni Ottanta la diffidenza nei confronti dei chicchi rustici e giganti arrivati dall’antico Egitto — in realtà il Khorasan è una regione dell’Iran — ha lasciato posto al primo serio tentativo di produzione. Le rese si sono rivelate buone, la pianta robusta, il gusto — una volta ottenuta la farina e impastati i primi pani — piacevole. Da quel momento, la popolarità del khorasan ribattezzato Kamut ha avuto un incremento esponenziale, tra qualità accertate e leggende metropolitane, dal ritrovamento all’interno delle piramidi all’assenza di glutine (che invece è ben presente). In compenso, l’analisi nutrizionale evidenzia ricchezza in minerali — magnesio, zinco e selenio su tutti — e un’eccellente quota di proteine, lipidi e acidi grassi insaturi (buoni). In più, il khorasan Kamut è in tutto simile a quello di migliaia di anni fa: nessun miglioramento genetico, nessuna manipolazione, nessuna coltivazione intensiva a indebolirne la tempra. Uno status di rustico incontaminato che facilita la coltivazione organica (obbligatoria, nel disciplinare di produzione), senza pesticidi né forzature. Alcuni virtuosi mulini piemontesi lo impreziosiscono ulteriormente, macinandolo a pietra. Il guaio è che il Kamut sembra amare solo i campi di Alberta e Montana. In più solo quello nordamericano può essere chiamato Kamut, fattori che stridono pesantemente con il concetto di chilometri zero ipotizzato per il domani dell’agricoltura a basso impatto economico (costo del trasporto) ed ecologico. Comunque, se la fascinazione del grano dei Faraoni ha colpito anche voi, il libro di Antonella Scialdone — Kamut, 60 ricette per conoscerlo e utilizzarlo al meglio, Calderini Edizioni — soddisferà tutti i vostri quesiti cerealicoli. Altrimenti, comprate un pacco di farina integrale made in Italy macinata a pietra e dedicatevi alla panificazione d’antàn. Con buona pace dei Faraoni. I Kamut ® Il grano dei Faraoni © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 39 Gli indirizzi DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE CORTE GONDINA Via Roma 100 La Morra Tel. 0173-509781 Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa OSTERIA DA GEMMA Via Marconi 6 Roddino Tel. 0173-794252 Chiuso lunedì e martedì, menù da 25 euro MULINO MARINO Via Caduti per la Patria 43 Cossano Belbo Tel. 0141-88129 AGRITURISMO IL CORTILE Via S. Croce 17, Diano d’Alba Tel. 0173-69595 camera doppia da 75 euro, colazione inclusa L’OSTERIA DEL VIGNAIOLO Regione Santa Maria 12, La Morra Tel. 0173-50335 Chiuso mercoledì e giovedì, menù da 32 euro MULINO SOBRINO (con camere) Via Roma 108 La Morra Tel. 0173-50118 AMALIA CASCINA IN LANGA Località Sant’Anna 85 Monforte d’Alba Tel. 0173-789013 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa LA TORRE Via dell’Ospedale 2 Cherasco Tel. 0172-488458 Chiuso lunedì, menù da 30 euro IL FORNO DEL BUON PANE Borgo Corini 3 Roddino Tel. 0173-794088 I PIATTI Spaghetti Ciambella Drink Zuppa Pane Pastifici artigiani e grandi marchi propongono la pasta dal lieve gusto nocciolato che ben si accorda con sughi di verdure e condimenti freschi Fragrante e burrosa, la farina si declina in cento lievitati differenti — croissant compresi — regalando allo stesso tempo consistenza e sofficità Acqua, olio di semi di girasole e cartamo, più un pizzico di sale marino (che esalta la nota dolce) per la ricetta della bevanda alternativa al latte Chicchi ammollati per tutta la notte (integrali) o lavorati per accelerarne i tempi di cottura (perlati) Si preparano in brodo di verdure, o con legumi Struttura consistente, morbidezza, profumo, sapore caratteristico e lunga durata sono frutto di impasti che rendono al meglio con il lievito naturale A tavola In principio fu la rucola MARINO NIOLA puntano improvvisamente come dei pop up da mangiare e si installano di prepotenza nel nostro immaginario gastronomico. La moda è così anche per i cibi. Capricciosa e mutevole. Fatta di innamoramenti virali che spesso durano una stagione. O diventano un tormentone. Come la rucola. Esplosa negli anni Ottanta è finita dappertutto, dalle tagliate alle orecchiette. Anche quella del ciliegino è stata un’ubriacatura collettiva. Piccolo e tondo come un pacman ha cannibalizzato uno a uno gli altri pomodori. Impazzando in tutte le salse, quasi sempre a sproposito. Come i gamberetti con il mais d’ordinanza. Che negli anni dei Duran Duran e degli Spandau non facevano prigionieri. E adesso tocca al Kamut, un cereale pseudo-egizio che sembra inventato da Ken Follet. E non è finita perché l’America Precolombiana, dopo averci angustiato ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA S con la profezia Maya, ci infesta anche con la Quinoa. Un cereale gluten free. Che si è già guadagnato la fama di salvavita per i celiaci. E di talismano per quelli che celiaci non sono, ma si comportano come se lo fossero. E il farro che in Italia si era quasi estinto — e qualche ragione ci sarà pure stata — oggi diventa il simbolo dell’abbondanza frugale, di un’idea di cucina che sta tra il pauperismo francescano e l’agriturismo dello spirito. Insomma la moda è sempre moda, ma se una volta i cibi cult erano indicatori di ricchezza, simboli di abbondanza, surplus di golosità (come tartufi, caviale, petto d’oca, fois gras) oggi va alla grande il toccasana vegetale, il parafarmaco da mangiare. Un po’ esotico, un po’ choosy. L’ideale per la tavola nutriceutica. Che fa cortocircuitare etica e dietetica, ascetismo e salutismo. È la conversione savonaroliana di una società che trasforma il sovrappeso in una colpa, l’invecchiamento in reato. E lo sfizio in vizio. © RIPRODUZIONE RISERVATA GLI ALTRI CEREALI Segale Farro Mais Grano saraceno Quinoa Gusto intenso, poche proteine e glutine per la farina nera che ama il freddo Grazie all’ottima capacità di assorbire acqua, i pani riescono umidi e duraturi Tre tipologie — spelta, dicocco e monococco (a basso contenuto di glutine) — per il grano rustico e dolce, antesignano del moderno grano tenero Il giallo re dei cereali latinoamericani — detto anche granoturco o meliga — si usa a 360 gradi, dai biscotti ai biocarburanti È privo di glutine Crêpes, pizzoccheri — tipica pasta valtellinese — e polenta taragna (con formaggi) per il simil-cereale proteico e senza glutine, di colore grigiastro Tre colori — giallo, rosso e nero — per il non-cereale senza glutine coltivato sulle Ande, ricco di proteine, grassi insaturi, vitamine e oligoelementi LA RICETTA Ingredienti per 6 persone Mattia Spadone e il gemello Alessio, in sala, sono figli d’arte: i genitori Marcello e Bruna sono i loro tutori a “La Bandiera” di Civitella Casanova, Pescara, dove trionfa l’impronta del territorio, come nella ricetta per i lettori di Repubblica 100 g. di zucca gialla 100 g. di fagioli 100 g. di carote 50 g. di sedano 50 g. di porri 50 g. di scalogni 100 g. di pomodorini tipo pendolino 100 g. di funghi 100 g. di farina di Kamut 200 g. di farina di grano tenero pecorino stagionato, rosmarino, erba cipollina, pepe, peperoncino, aglio, qualche foglia di basilico Mescolare le farine sul tavolo, facendo cadere delle goccioline d’acqua con le dita e setacciare (i piccoli grumi d’acqua e farina che si formano resteranno sul setaccio) Ripetere l’operazione più volte, per raggiungere la quantità di granetti voluta Tagliare a dadini le verdure, unire i fagioli ammollati e cuocere un’ora a partire da acqua fredda, schiumando a bollitura Fare un soffritto con porro e scalogno, aggiungere pomodori, peperoncino, basilico e pepe, poi unire ai fagioli e continuare la cottura della zuppa almeno venti minuti In ultimo, far scendere nella pentola i granetti e cucinare per cinque minuti. Servire con un’abbondante grattugiata di pecorino, erba cipollina tritata e un filo d’extravergine ✃ Granetti di Kamut con fagioli tondino e finferli Repubblica Nazionale LA DOMENICA DOMENICA 24 MARZO 2013 ■ 40 L’incontro Smascherate Figlia d’arte, a tre anni voleva un agente. Lo ha avuto a sei, e a sedici ha smesso di studiare: “La mia scuola è stata il cinema”. Da “Sognando Beckham” a “Pirati dei Caraibi”, ora nei panni di Anna Karenina, la star inglese si guarda allo specchio: “Noi attori non siamo che ombre, solo finzione e trucco. Per esempio prendete me: nella realtà sono piatta come un’asse e ho anche l’acne Delusione terribile, vero?” Keira Knightley na risata, per cominciare. Ridere, spiega, è la sua prima autodifesa, un’arma preventiva contro le domande insidiose: «Ho imparato a sorridere quando devo riflettere e a ridere per salvarmi dal confronto diretto: funziona altrettanto bene al cinema che negli incontri». Via, allora, a risate e sorrisi: su uno dei volti più incantevoli del cinema d’oggi, faccia di languida scolaretta sempre all’erta, adusa all’affabile ma discreta distanza del tè delle cinque da brava inglese di buona famiglia. Keira Knightley, ventotto anni tra due giorni: si sentirà più matura? «Sono cresciuta molto in fretta, mi pare d’essere adulta già da tempo: è da tanto che affronto da sola le mie responsabilità e, da sola, decido. La mia fortuna è stata di avere genitori formidabili, che hanno saputo consigliarmi senza mai impormi nulla. Mio padre, Will Knightley, è un veterano del teatro. Mia madre, Sharman Macdonald, attrice, ora scrive commedie. All’inizio hanno fatto di tutto per scoraggiarmi, poi hanno capito che ero troppo determinata. Mi hanno entrambi aiutata, fin da piccola, ma hanno sempre aspettato che fossi io a volere. Il mio primo provino, il mio primo spettacolo, il mio primo film, sono io ad averli decisi: fin da ‘‘ Anna Karenina di Joe Wright o, adesso, Jack Ryan, spy-story di Kenneth Branagh, li ho presi come una sfida al mio intelletto: non è troppo arduo sfidarmi intellettualmente... Se fossi più femminile, lavorerei di più con il cuore. Ma la ricerca mi ha sempre incantata. Prima di A Dangerous Method di David Cronenberg ho trascorso sei mesi a leggermi l’impossibile su psicoanalisi e Sabina Spielrein. Certo, non dico di aver capito tutto. Sa, ho lasciato la scuola a sedici anni e non ho goduto d’altra formazione didattica che dell’approfondimento, dovuto a questo o quel film, delle materie più diverse. Questa è stata la mia scuola». Mai una ricreazione? Matrimonio, figli? «Io sposata, mamma? Neanche per sogno. Mia madre m’ha fatto promettere di rifletterci su: niente colpi di testa. L’arte della seduzione non è il mio forte Del resto voi uomini vi sentite disarmati se una ragazza vi ride in faccia quando cominciate a prendervi sul serio FOTO DI MATT SAYLES/INVISION/AP U PARIGI quando avevo dieci anni». Davanti a un kir royal sul Boulevard Saint Germain, nello storico Café Flore, naturalmente il suo preferito a Parigi, rivestita di Chanel (di cui è da sette anni l’intrigante testimonial), trucco e profumo inclusi, l’attrice britannica esibisce la spumeggiante sicurezza d’una manager in erba: «Da una quindicina d’anni giro film e da una decina ne assicuro la promozione. Potrei considerarmi una vecchia professionista dello show business». Anche perché ci si è messa fin da piccina: «Già a tre anni avevo deciso di diventare attrice. Una banalità devastante, vero?». Leggenda vuole che proprio così piccina avesse preteso un agente: «Mi pareva naturale, dato che sia mio padre che mia madre ne avevano uno. Sono riusciti a convincermi ad aspettare un po’: ho firmato il primo contratto con un agente a sei anni. Ecco che tipo di moccioso si trovavano tra i piedi». Come mai questa vocazione divorante? «Tutta colpa dell’ambiente casalingo, che si popolava a ciclo continuo di attori, autori, registi: in gran parte politicamente engagés. Non capivo nulla delle loro discussioni, ma bevevo una a una le loro parole. Sono cresciuta con l’idea che l’arte può cambiare il mondo. Quegli ospiti sono stati i miei eroi d’infanzia, Superman e Batman che razzolavano per casa. Ho scelto la loro professione perché, semplicemente, volevo emularli». Con film come Sognando Beckham, che l’ha lanciata, o i primi tre Pirati dei Caraibi? «Sono stata presa in giro dagli amici prima delle riprese di Beckham («che ci fai in un film sul calcio?») e prima e dopo i tre Pirati («sei diventata una nuova attrazione di Disneyland?»). Ma mi sono divertita un mondo. Con I pirati dei Caraibi ho cominciato a diciassette anni e ho smesso a ventuno, non avevo mai visto tante persone e tanta effervescenza su un set. E poi girare scene d’azione così fisiche è stato un regalo per me che sono un maschiaccio mancato». Maschiaccio? «Anche nel modo di vestire, à la garçonne, d’accordo, magari un po’ chic. Fino ai quattordici anni non ho indossato gonne: le odiavo. Al contrario delle camicie da uomo. Insopportabilmente snob, vero? In più, sono molto analitica. I film più recenti, da Seta di François Girard (dal vostro Baricco) a Non lasciarmi di Mark Romanek, ad Alla mia età voglio prima di tutto approfittare delle opportunità del lavoro. Non mi vedo attrice tutta la vita. Forse ancora una decina d’anni, e stop. Verrà il momento della famiglia». Da un po’ è però assediata da un certo James Righton, musicista dei Klaxons e suo tenace fidanzato: «Ma come suona romantica questa insinuazione, espressa in un inglese con accento italiano», scoppia a ridere. «Ci sentiamo più che appagati come semplici fidanzati: al punto che potremmo rimanerlo per sempre — altra risata — chi lo sa?». Le sfugge che oggi è l’agognata fidanzata d’infiniti spasimanti in coda, dai diciotto ai sessantotto anni? «L’arte della seduzione non è mai stata il mio forte: potrei farmi corteggiare per un’ora senza rendermene conto. Un disastro. Mi attraggono gli incontri, gli scambi d’idee. Mi annoiano solo i tipi pesanti, ma li liquido alla svelta con una sonora risata. Voi uomini vi sentite disarmati se una ragazza vi ride in faccia quando vi prendete sul serio». La seduzione per finzione è per lei un giochetto più semplice? Come in The Hole, con il nudo integrale a quindici anni o nello spot Chanel, ora censurato, perché — questo il goffo verdetto — «sotto il vestito fa intuire la nudità»? «Le scene erotiche sono sempre le più facili per me. Sono europea e non ho problemi con la nudità, se è funzionale o se mi fa ridere. Trovo anzi che sia liberatorio spogliarsi. Una donna può usare il corpo come arma per accrescere il suo potere davanti a un uomo». Può bastare il décolleté, uno di quelli abissali di Anna Karenina: «Merce contraffatta: sono piatta come un’asse! E così distruggo di colpo il fantasma di molti ragazzi», ride di cuore. «È per me una delizia guardarmi su grande schermo con un seno rigoglioso, e senza nemmeno lo sforzo d’un intervento di chirurgia estetica: solo un paio di sfumature. Ogni mattina, un’amica truccatrice disegnava ombre tra i miei seni per dare l’illusione d’un petto generoso. Provi a immaginare: una mezz’ora al giorno intenta a farmi disegnare i seni da una donna... Un bell’incentivo ai fantasmi erotici maschili, no?». E truccarsi, le piace? «Oggi ho quintali di trucco in faccia, per via dell’acne… ormai so come neutralizzare i foruncoli. Ma le proibisco di guardarmi troppo da vicino». Il successo la stuzzica? «Sì e no. Avere un’intera équipe sul set ogni giorno agli ordini del tuo look è quasi un sogno di ragazzina: come essere una perenne principessa, con tutti quei boccoli finti d’eroina ottocentesca appiccicati in testa. Ma il mio mestiere non è di farmi riconoscere dall’immagine o dal cognome. Desidero essere un’attrice e spero, un giorno, d’arrivare al livello di Judi Dench, la mia partner in Orgoglio e pregiudizio. Il solo osservarla durante le riprese è stato per me un corso di recitazione». Come vive gli obblighi dello star system? «Ho raggiunto la celebrità giovanissima. A lungo mi ha creato confusione e anche un bel po’ di spavento. Non mi sentivo all’altezza. Ne traevo conferma dalle cattiverie che periodicamente ho subìto dai cosiddetti fan, accaniti sul “difetto” d’una supposta anoressia: il che faceva imbestialire mia madre, mentre a me, ogni volta che sentivo la parola dieta, veniva una gran voglia di cioccolata. La gente diventa crudele se ti vede occupare un posto dove è convinta che tu non debba stare: quasi fossi una pubblicità e non una persona. Shakespeare lo diceva del genere umano: per me gli attori sono ombre. Non esistono. Interpretano personaggi immaginari. Il trucco è la loro identità, gli abiti sono di qualcun altro. Finzioni, talora immortali, ma finzioni. Perciò quando la gente ci vede come siamo, nella realtà, rimane terribilmente delusa». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ MARIO SERENELLINI Repubblica Nazionale