ALL’OMBRA DEL PATIBOLO: ECHI DELLA RIVOLUZIONE DEL 1799 IN BASILICATA “Lei chiese ancora invano di avere le mutande, oppure un laccio con cui legarsi le gonne”. Questo il solo rovello della pudica Eleonora de Fonseca Pimentel, l’eroina, che, nelle ultime notti di prigionia, per il terrore che l’attanagliava si era incanutita anche se intimamente si era ripromessa di “non cedere alla paura che afferra i condannati alle viscere davanti alla morte”. Poi, dopo aver bevuto l’ultimo caffè, si avviò verso il patibolo e, mentre saliva i dieci fatidici scalini, sussurrò al Padre confortatore: “Forsan et haec olim meminisse jubavit”. Raccogliendo questa ultima drammatica invocazione, la Biblioteca nazionale di Potenza, per commemorare la ricorrenza del bicentenario della rivoluzione, ha organizzato una mostra-convegno dal titolo emblematico “All’ombra del patibolo: echi della rivoluzione del 1799 in Basilicata”. La manifestazione inserita fra i programmi culturali varati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali in occasione della I° Settimana per la Cultura, si è svolta dal 12 al 19 aprile 1999 e si è avvalsa del contributo di intellettuali del livello di Piero Lacaita, Francesco D’Episcopo, Antonino De Francesco e Giampaolo D’Andrea. Per l’occasione è stata esposta una gigantografia di 48 mq del quadro di Giacomo Di Chirico da Venosa “La lettura della sentenza di condanna a morte di Mario Pagano” e la ghigliottina, cioè, lo strumento di morte che, meglio di ogni altra cosa, può illustrare l’orrore e il disdegno per la repressione e la violenza che da sempre è stata usata dal tiranno per soffocare ogni anelito di libertà. Dalle ricerche finora effettuate non risulta che la ghigliottina esposta, di proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Potenza, sia stata usata alla fine della proclamata Repubblica Partenopea per l’eliminazione degli oppositori al regime borbonico. Per tale bisogna si scelsero due diversi strumenti, così per continuare la tradizione inaugurata durante la rivoluzione francese: la ghigliottina per l’esecuzione dei nobili e la forca per la punizione degli altri rei. Quest’ultima fu eretta nella capitale del Regno fuori Porta Capuana mentre la ghigliottina, che funzionò dal 3 agosto 1799 all’11 settembre 1800 per ben 17 volte, fu montata nella piazza del mercato. L’11 settembre 1800 segna la data della morte orribile subita da Luisa Molines Sanfelice. Si legge, infatti, nei diurnali compilati dal medico sannita Diomede Marinelli la seguente lapidaria annotazione: “Quest’oggi è stata decollata Donna Luisa Molines Sanfelice. V’è stato rumore nel Mercato. Donna Luisa era stata altre due volte in cappella; ma n’era uscita. Questa volta non l’ha scappata. Nel subire la morte se gli è aperto l’utero. La mannaia nel calare gli ha pigliato una spalla, per cui il boja l’ha finita di tagliar la testa con il coltello”. L’esecuzione della Sanfelice induce ad una riflessione, e cioè che lo strumento di morte usato a Napoli per la decollazione sia molto simile a quello presente in Basilicata, esposto nello spiazzale della Biblioteca Nazionale di Potenza, ma sostanzialmente diverso da quello usato in Francia e noto come ghigliottina o Louisette. Innanzitutto, si rileva la mancanza assoluta di un sia pur minimo sentimento di compassione da parte dei carnefici perché veniva- — 143 — di Maurizio Restivo no negati gli elementari principi umanitari che avevano ispirato, durante la rivoluzione francese, i legislatori che avevano caldeggiato l’adozione di questa terribile macchina di morte per evitare che la decapitazione divenisse una tortura tremenda. Per questo motivo la macchina del dottor Guillottin fu perfezionata da un medico, il dott. Antoine Louis, segretario dell’Académie Chirurgical,e costruita da un fabbricante di clavicembali, tale Tobias Schmidt, il quale, come si legge nell’opera di Archille Cherau, Guillottin et la Guillottine, “a volte abbandona quest’arte per dedicarsi a scoperte benefiche per l’umanità”. La scoperta benefica, in buona sostanza, era costituita da una lama obliqua, che consentiva di spiccare la testa di un sol colpo vincendo la resistenza delle ossa della colonna spinale del condannato, e da un capestro, che, fissandosi con un cavicchio, immobilizzava la vittima in modo che non vi fosse “incertezza nella esecuzione” perché altrimenti la decapitazione avrebbe assunto il carattere di una tremenda tortura. Questa premurosa attenzione per lenire le sofferenze delle vittime non era però di casa nel regno di Napoli, tant’è che la macchina decollatrice usata fu più vicina alla mannaia che non alla ghigliottina vera e propria. La mannaia, infatti, aveva la lama con il margine tagliente diritto e quindi come si rileva dalla lettura dell’Avis motivé sur la mode de la Décolation, del dott. Louis- con scarso o con nessun effetto quando Gigantografia del quadro di Giacomo Di Chirico da Venosa, Lettura della sentenza di condanna a morte di Mario Pagano. (Fototeca Biblioteca Nazionale di Potenza) colpisce perpendicolarmente perché, anziché tagliare, sega l’oggetto da colpire. Essa era, comunque, una derivazione del diele, la primitiva ghigliottina teu- tonica che funzionsava con il mazzapicchio, cioè battendo lo spaccatesta con una mazza. Questo barbaro strumento, che venne usato per decollare Corrado di La “mannaia”, di proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Potenza (Fototeca Biblioteca Nazionale di Potenza) — 144 — Svevia, fu modificato dagli irlandesi che costruirono il cosiddetto gibetto di Halifax e, successivamente, dagli scozzesi che allungando la corsa della lama, appesantita con il mouton, volgarmente chiamato sacco da viaggio, costruirono la zitella, prototipo dell’attuale ghigliottina conservato presso il Museo Nazionale di Antichità di Edimburgo. L’esemplare esposto in mostra, utilizzato in Basilicata già nel 1792 per l’esecuzione di Domenico Scarano, promotore della rivolta cui presero parte 37 popolani di Matera, è una forma ibrida che assomma le caratteristiche della mannaia con quelle della zitella. Manca la bascule e il tavolo dove si legava la vittima e al loro posto vi era probabilmente un inginocchiatoio a un gradino, -come quello spesso usato a Santa Maria di Capua Vetere per le esecuzioni in Terra di lavoro- o a due gradini, come si riscontra nell’esemplare conservato al Museo Pepoli di Trapani. Questo terribile strumento di giustizia compì le sue tristi funzioni fino alla fine del 1875, anno in cui in tutto il Regno ne fu vietato l’uso. In tale anno, e precisamente il 14 agosto, fu eseguita nel Monte Reale di Potenza la decapitazione di Federico Aliano, e tale esecuzione costituisce l’ultima condanna alla pena capitale eseguita in Basilicata al termine del grande brigantaggio.