SETTIMANA n. 4/03

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cultura
PROPOSTI DALL’ASSOCIAZIONE CATTOLICA ESERCENTI CINEMA
Tre documentari
come opportunità pastorale
L’
Acec (Associazione cattolica
esercenti cinema) coglie l’occasione di nuove sfide e frontiere a
supporto delle sue sale e delle parrocchie che desiderano utilizzare il
cinema come opportunità pastorale. Con cuore puro, Fedele alla linea e L’ultima cima – da ottobre distribuiti da Acec – sono tre prodotti in bilico tra documentario e
finzione che hanno la capacità di
partire dalla realtà per estenderla
ad altre “vette”. L’Acec ha scelto di
rendere più semplice e raggiungibile la loro programmazione e fruizione perché i loro significati – a
volte da partenze più laiche, altre
volte da punti di vista credenti –
possono diventare delle piattaforme di senso e di confronto su
temi di straordinaria attualità per
un pubblico disponibile a nuove
proposte. Disponibili in dvd come
in digitale per proiezioni pubbliche con costi contenuti, le tre
opere sono una sperimentazione
per percorsi dove i linguaggi s’impastano producendo appuntamenti tematici inediti.1
settimana 3 novembre 2013 | n° 39
L’ultima cima
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Sacerdote, teologo, filosofo? È
un quesito che potremmo porre a
molti preti che in sé racchiudono
ugualmente diverse “anime” le
quali tendono – talvolta con difficoltà – ad integrarsi in una fondamentale unità di vita. A questa domanda che gli chiedeva di indicare
l’ordine di priorità della sua vita,
don Pablo rispose senza tentennamenti: «sacerdote, sacerdote, sacerdote». L’interrogazione che ben
racchiude il senso de L’ultima
cima, l’opera di Juan Manuel Cotelo su un prete spagnolo morto in
montagna nel 2009, è il cuore di
ogni vocazione – anche dei non
consacrati – che sempre rappresenta e contiene in sé diverse dimensioni. Il regista le racconta
tutte e tre cercando di comprenderne il legame e l’attendibilità che
ciascuna di esse sapeva generare
nelle altre. Il suo esercizio di ricerca diventa un’apprezzabile provocazione metodologica per chiunque desideri esplorare la propria
complessità esistenziale e in essa
ritrovare il bandolo della matassa.
«Perché, dov’è il tuo tesoro –
rassicura l’evangelista Matteo
(6,21-23) – là sarà anche il tuo
cuore. La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo,
tutto il tuo corpo sarà tenebroso.
Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!».
Don Pablo sapeva bene dov’era
il suo cuore e, in questa sapienza,
egli diventava un monito sano e
leggero anche per gli altri. In questa prospettiva la sua straordinarietà assume la fisionomia della
piena aderenza al vangelo, ai passi
di Cristo che invita a godere dei tesori del mondo ma per farne occasioni di relazione, di fraternità e di
dignità per l’altro.
Le interviste raccolte dal regista
dimostrano che Pablo accumulava
speranza, coraggio e compagnia
per trafficarli come beni preziosi.
In essi egli trovava anche la luce
della ragione – quella che lui chiamava la “ragionevolezza della
fede” – che aveva sperimentato
nello studio e nell’applicazione
della filosofia e della teologia. L’invito di don Pablo, e di questo film,
è diretto senza scorciatoie: dove
sei? per cosa batte il tuo cuore? per
cosa trovi il tempo? dove vorresti
morire?
Fedele alla linea
«Sono stato allevato cattolico e
felice. Poi con l’adolescenza ho scoperto il mondo moderno e la vita.
Poi non ne potevo più». Sono queste le prime parole del documentario Fedele alla linea dedicato al graduale attraversamento e ricostruzione della vita di Giovanni Lindo
Ferretti (frontman di gruppi punkrock di riferimento per più generazioni) e delle scelte che l’hanno accompagnata. In realtà, la fotografia meno nitida e la giovinezza del
protagonista ci svelano che questa
affermazione appartiene a molto
tempo prima. È parte di un materiale d’archivio molto ampio con
cui viene puntellata l’odierna narrazione del protagonista creando
contrasti e collegamenti che esplicitano il presente già evocato nel
prologo dedicato alla ferratura del
cavallo da parte di un moderno
maniscalco. In quel cavallo scopriremo un alter ego del protagonista:
Giovanni Lindo Ferretti, un’anima
ancora difficile da domare ma, al
contempo, ormai forgiata dall’esistenza che, come uno zoccolo
duro, impone delle priorità, delle
decisioni, delle aderenze.
Raccontare come i fili di un personaggio così poliedrico nelle competenze e nelle provocazioni si
siano annodati, snodati e poi di
nuovo riallacciati in tanti ambiti
(politica, fede, famiglia e natura) è
l’idea che sottende l’opera di Germano Maccioni. Tante volte
esploso alla notorietà, altre volte
sofferta e altre ancora abbandonata per ritrovare nuovi silenzi e
parole più adeguati alla sua sete
spirituale, Giovanni Lindo Ferretti
narra con onestà, senza idealizzazioni o banalizzazioni, le epoche
della sua vita. Evidenziandone lui
stesso anche i limiti e le insidie che
ha comunque cercato di allontanare con senso di fedeltà alla (sua)
linea di pensiero, l’ex cantante –
oggi in felice esilio sulla terra di
mezzo dell’Appennino tosco-emiliano – mostra anche le contraddizioni e le tensioni vissute da un
paese molto più grande di lui.
Le sue parole sembrano ricalcare uno “schema”, quasi un meccanismo, che ha coinvolto una
fetta molto più ampia della sua
persona: l’educazione cattolica dell’infanzia, così naturalmente parte
della famiglia italiana, spesso si
sgretolava con il sopraggiungere
delle nuove esperienze studentesche e della contestazione. A questo proposito si può, ad esempio,
ricordare la breve biografia che Eugenio Scalfari traccia della sua giovinezza nella conversazione con
papa Francesco avvenuta lo scorso
29 settembre a Santa Marta. «Santità, mi permette di dirle anch’io –
propone il giornalista – qualche
cosa sulla mia formazione culturale? Sono stato educato da una
madre molto cattolica. A 12 anni
vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di
Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma
tutto cambiò quando entrai al liceo…».
Con cuore puro
Lo studente «pensò che nulla è
meno pratico dell’amore. In un
mondo in cui la praticità è tutto,
pensò fosse assai più utile lo studio
della scienza e della filosofia». Se
la prima edizione inglese de L’usignolo e la rosa (The Nightingale
and the Rose di Oscar Wilde illustrato e decantato nel prologo di
Con cuore puro) è del 1888, a distanza di più di un secolo chissà
cosa è più utile in un mondo in cui
tutto si mostra afferrabile, visitabile, intuitivo e acquisibile ma
dove, al contempo, la maggior
parte delle persone compie, invece, lavori ormai privi di ogni
praticità.
«Non è più tempo di nasconderselo: le nuove tecnologie –
scrive il prof. Jean-Michel Besnier
(Vita e Pensiero n. 1/2012) – non ci
semplificano più la vita, semplificano fino alla caricatura i nostri
comportamenti e i nostri pensieri,
tanto da ridurci a semplice destinatario di un server vocale, semplice utilizzatore di un’automobile
diventata scatola nera che risponde a comandi automatici,
semplice digitatore di programmi
di elaborazione di testi che assumono sempre più iniziativa nella
redazione delle nostre corrispondenze. Siamo invitati a spogliarci
degli elementi di complessità e di
interiorità che ci inducevano a credere di essere qualcosa di diverso
da una macchina».
Una lunga premessa, come accade nel documentario di Lucrezia
Moli, per dire la fondamentalità
del discorso amoroso prescelto da
Con cuore puro, ma anche la progressiva lontananza che l’epoca
contemporanea determina con le
sue caratteristiche rispetto ad una
già difficile intrinseca familiarità
con l’argomento. Eppure, anche se
parlare dell’amore supportati dalla
filosofia e dalla letteratura – gli intellettuali di Con cuore puro hanno
risposte illuminanti – è un’esperienza intrigante che rivela sapientemente i passaggi e le insidie
assolute e odierne dei sentimenti,
viverlo però – le persone comuni
sono titubanti di fronte ad alcune
domande apparentemente banali
– trova gli uomini e le donne comunque impreparati.
Si tratta di una tematica a tutti
gli effetti spinosa, che non si è più
abituati a frequentare e che ci lascia attoniti nella sua semplicità.
«Perché vuoi che lui ti ami?» è la
domanda di base che, ad ogni
buon conto, rimane senza risposta,
sebbene le persone abbiano esperienza di tutto ma non più, a
quanto pare, di se stessi. Consola
però, in questo senso, che l’amore,
essendo avventura – una delle parole fondamentali –, chiederà comunque conto perché ogni «storia
d’amore è il tributo che l’innamorato deve pagare al mondo per riconciliarsi con se stesso».
Arianna Prevedello
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Per informazioni [email protected].
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