Emanuele Coccia e Sylvain Piron Poesia, scienza e politica. Una generazione di intellettuali italiani (1290-1330) Traduzione di lavoro di Stefano Vilardi, Daphne Grieco e Pietro Sorace, con la revisione di Giuliano Milani ATTENZIONE: la traduzione non comprende le note che sono presenti nella versione originale francese pubblicata nella Revue de Synthèse 129 (2008), pp. 549-586, disponibile online ai seguenti indirizzi: https://www.academia.edu/2423131/Po%C3%A9sie_sciences_et_politique._Une_g%C3%A9n%C3 %A9rations_dintellectuels_italiens_12901330_POETRY_SCIENCE_AND_POLITICS_A_generation_of_italian_intellectuals_1290-1330_ Oppure https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00380558 Come si può definire Dante durante gli ultimi anni della sua vita (1320-1321)? Egli è certamente l'autore di una straordinaria opera che fornisce lezioni di teologia in volgare. Ma, rispondendo alla sollecitazione di Giovanni del Virgilio, professore di retorica a Bologna, termina le prime ecloghe latine scritte dall’antichità. È anche il sapiente che, passando a Verona, tiene un dibattito pubblico in cui determina la questione della rispettiva posizione della terra e delle acque. Teorico dell’impero universale nella Monarchia, agisce contemporaneamente come inviato del principe di Ravenna presso la Repubblica veneziana. E quando il tiranno milanese Matteo Visconti cerca un mago in grado di stregare Papa Giovanni XXII, il nome dell’ Alighieri è menzionato come uno dei pochi capaci di farlo. Non vi è alcuna necessità di scegliere tra queste diverse sfaccettature; la questione è piuttosto come articolarle. E per questo, non è inutile ricordare che in quegli anni, Dante non era il solo personaggio impegnato nella vita politica del Nord Italia ad aspirare alla conoscenza universale e alla gloria letteraria. Mentre l’Inferno e il Purgatorio venivano pubblicati a Verona nel 1317-1318, Albertino Mussato (1261-1329) era stato appena incoronato poeta laureato a Padova, ricompensato per la sua tragedia storica ripresa da Seneca che celebrava la libertà comunale. La Commedia ha stimolato rapidamente l’attività di critici, come il poeta ebreo Immanuel Romano che ne ha prodotto un adattamento in ebraico, ma ha anche provocato una forte replica da parte dell’ astronomo e filosofo Cecco d'Ascoli (ca. 1270-1327) docente a Bologna nei primi anni Venti del 1300, che espose in un lungo poema in volgare la sua interpretazione delle dottrine naturali prima di essere condannato al rogo dall'Inquisizione. Altri profili insoliti si stagliano assieme a questi personaggi, come il padovano Pietro D’Abano (ca. 1253-ca. 1316), medico e filosofo, che si dedica alla produzione di nuove conoscenze dominate dall’astrologia, o Cino da Pistoia (ca. 1270-1336), poeta e giurista di alto valore, anche lui legato sia a Dante sia a Cecco. La lista non è affatto esaurita. Tra gli italiani nati tra il 1250 e il 1280 si contano un numero sorprendente di individui eccellenti in più campi di studio, spesso coinvolti nell’attività politica, autori di opere innovative, e con in più una forte consapevolezza dell’unicità del loro approccio. Chiaramente, la spiegazione del genio non è sufficiente; per comprendere il fenomeno, bisogna considerare condizioni sociologiche e un contesto storico particolari; ma per farlo correttamente, bisogna prima di tutto modificare nel profondo la percezione abituale di ciò che costituisce l’oggetto della storia intellettuale del Medioevo centrale. Se si vuole inserire Dante interamente nel quadro, bisogna allora allargarne la cornice. Questo articolo vorrebbe esortare a modificare la concezione di ciò che, nella lingua di questi autori, si definirebbe una “stagione” della cultura italiana. A causa degli effetti di [552] lunga durata di cui questo momento è stato portatore, potrebbe essere allettante localizzarlo nella genealogia di forme culturali successive, vedendoci la prefigurazione di modelli che si svilupperanno nel corso del Rinascimento. Ma riservargli questo trattamento farebbe tornare ancora una volta a considerarlo come un'anomalia del suo tempo. Una pubblicazione recente ha sottolineato l'esistenza di un’ “eccezione italiana” in seno a una cultura medievale europea di cui le espressioni si esprimono in differenti campi . Il nostro approccio è sensibilmente diverso poiché mira ad afferrare un ambiente intellettuale e culturale, non in modo spezzettato, ma simultaneamente in tutte le sue dimensioni, studiandolo insieme ad altre manifestazioni contemporanee. La nostra rivendicazione più forte consiste così a cogliere nella sua globalità questo momento, che l'uso italiano definisce significativamente come «l’età di Dante», e a farne un contrappeso alla predominanza abitualmente accordata ai saperi universitari prodotti nell'Europa del Nord nello stesso periodo. La storiografia del pensiero medievale coltiva da molto tempo un gusto per le opposizioni forti: filosofi in rivolta o contro i teologi oppure oppressi da loro, accettazione o rifiuto di Aristotele, conflitto tra gli spiriti laici nascenti ed il conservatorismo della Chiesa o lotta tra fede e ragione. Qualunque siano le varianti di questo grande racconto, le regioni e i saperi più periferici sono giudicati abitualmente in base a una drammaturgia che mette al primo posto le scuole e l'università parigina del XII e del XIII secolo. Già all'epoca un luogo comune presentava la Francia come terra del sapere, il sacerdozio associato all'Italia e l'impero alla Germania. Lungi dall’essere neutra, questa formula è stata inventata in modo polemico da Alexander von Roes, un tedesco residente a Roma, contrario all'elezione di un papa francese negli anni Ottanta del Duecento. Gli storici hanno tuttavia ampiamente approvato questa comoda divisione di competenze, riproducendo una sorta di gerarchia dei saperi che attribuisce il primato alla teologia parigina. Un’altra configurazione, parallela ma altrettanto importante, è rimasta nell’ombra. Basta invertire l'ordine delle priorità per coglierla. Dal punto di vista di Ronald Witt che cerca di identificare, seguendo il lavoro di Paul Oskar Kristeller, le origini medievali dell'umanesimo, è l'infatuazione per la logica che avvolge l'Europa del Nord all'inizio del XII secolo e rende obsoleta la pratica poetica sapiente per il XIII secolo l'anomalia storica che fa del momento scolastico una stranezza in seno alla cultura occidentale. Se si ridimensiona il prestigio del sapere universitario parigino e il taglio canonico delle discipline che è stato stabilito e che dura fino ai giorni nostri, si può vedere emergere un mondo multipolare dai contorni molto meno definiti. La lezione di Carlo Dionisotti che proponeva di rileggere la storia della letteratura italiana a partire da «distinzioni e definizioni di tempi e di luoghi» può valere a una scala ancora più vasta. Se infatti esistono innegabilmente dei fattori che unificano il mondo latino, non si devono trascurare tuttavia i particolarismi locali e gli effetti della frammentazione. Ciò che è vero da un punto di vista linguistico e politico è [553] anche accettabile per quanto riguarda le pratiche intellettuali. Nel pieno dell’Europa medievale, all'apogeo della grande scolastica, l'Italia del Centro e del Nord presenta una fisionomia particolare di cui il tratto più rilevante è un'organizzazione dei saperi che rende possibile dei fenomeni di incrocio e di ibridazione difficilmente realizzabili a Parigi. In modo relativamente sommario, cercheremo qui di delineare i tratti generali di questo modello, prima di illustrare con degli esempi più dettagliati i suoi tre punti essenziali: la pratica poetica dei sapienti, la comunicazione tra discipline universitarie e il coinvolgimento nella vita politica, che va generalmente di pari passo con le attività scientifiche e letterarie. I luoghi ed i tempi di questa esposizione riprodurranno ciò che fu il raggio d’azione di Dante: dalla Firenze degli anni 90 del ‘200 alla Venezia dei primi decenni del XIV secolo. Tuttavia, come si vedrà, Bologna dove probabilmente non soggiornò che per un breve periodo, sarà il centro di gravità di questa costellazione. E se le personalità che prenderemo in considerazione appartengono in particolare alla sua generazione, bisognerà tenere anche conto dei padri della generazione precedente che, a differenti titoli, hanno giocato il ruolo di introduttori o di iniziatori, come il medico Taddeo Alderotti (1295) a Bologna, l’umanista Lovato Lovati (1241 -1309) a Padova, o Brunetto Latini ( ca. 1225-1293), a Firenze. Le cause generali di questo momento intellettuale e culturale possono essere presentate in funzione di condizioni sociologiche proprie dell'Italia centrale e settentrionale e lo si vedrà più avanti. Ma è anche possibile coglierle a partire da un contrasto con la situazione francese, per riuscire a trovare un punto di incontro tra questa “stagione” italiana e la storia della filosofia come è tradizionalmente delineata. Mentre il vescovo di Parigi Étienne Tempier censurava pesantemente l'insegnamento dei docenti nelle arti (1270 -1277), la filosofia naturale e morale di Aristotele era stata accolta dagli ambienti colti italiani fuori dal controllo dei teologi, diffondendosi così sotto forme e luoghi inattesi. Questo stimolo filosofico è stato un fattore determinante dell’espansione intellettuale di questo periodo e, sotto questo aspetto, la diversità delle prospettive aperte in Italia è solidale e complementare al lavoro compiuto dagli universitari parigini ed inglesi negli stessi periodi. Essa ha ha prodotto tuttavia i suoi effetti proprio come una scintilla che incontra un terreno facilmente infiammabile. Il fuoco non si sarebbe propagato in assenza di strutture sociali e di condizioni politiche favorevoli, in primo luogo a causa del posto già occupato dal sapere e dalla letteratura nelle città italiane. Si può dunque introdurre questo panorama con un richiamo delle condizioni particolari create dalle discipline universitarie in Italia. L’organizzazione dei saperi Per cominciare, può essere utile rileggere, in negativo, uno dei testi fondanti dell'università parigina. Per assicurare lo sviluppo di un'istituzione ancora fragile, con la bolla Super speculam del 22 novembre 1219, Onorio III permetteva agli studenti di teologia di ricevere integralmente i benefici delle loro prebende durante i loro anni di studi; nello stesso tempo bandiva l'insegnamento del diritto romano dalla capitale; inoltre, il suo prologo mirava a scoraggiare i chierici a dedicarsi [554] allo studio delle “scienze lucrative”, ovvero la medicina e il diritto civile, ricordando interdizioni precedenti pronunciate nel XII secolo nei soli confronti del clero regolare. Questa bolla può ricevere una spiegazione contestuale semplice: in una situazione di lotta contro l'eresia le energie dovevano essere mobilitate al servizio della teologia. In una prospettiva di più lunga durata si può vedere qui la conclusione di un processo di separazione della Chiesa e della società cominciato da più di un secolo, e destinato a produrre effetti paradossali poiché avrebbe portato a lasciare le scienze mondane nelle mani dei laici. Chiamando i chierici a concentrarsi sulle sulle discipline “consacrate”, questo decreto ha contribuito ad irrigidire una distinzione che aveva fino ad allora una pertinenza epistemologica relativamente debole. In un saggio stimolante che tuttavia non convince interamente, Andrea Padovani ha avuto il merito di sottolineare i legami stretti che sono esistiti tra gli sviluppi degli insegnamenti giuridici, filosofici e teologici poco prima dell’anno 1100 e la persistenza di scambi tra questi campi nel secolo successivo. Per afferrare il fenomeno nella sua ampiezza, bisogna tuttavia comprenderlo più largamente, in funzione del movimento storico di fondo da cui è stato generato. La riforma della Chiesa verificatasi nella seconda metà dell’XI secolo e prolungatasi in modo conflittuale durante lunghi decenni è stata portatrice di conseguenze intellettuali molteplici, che hanno definito altrettanto bene i contenuti quanto gli stili dell'insegnamento e della scrittura scientifica, secondo un avanzamento che non ha niente di lineare e in cui occorre ben guardarsi dall'identificare troppo velocemente posizioni politiche con particolari orientamenti speculativi o interpretativi. Per esprimere questa causalità globale con una formula semplice, possiamo dire che il progetto di rifondazione della Chiesa non ha potuto risparmiare un’indagine completa dei suoi fondamenti. I requisiti intellettuali scaturiti da questo cantiere non potevano entrare in una delle cornici definite precedentemente e dunque hanno preso in prestito delle forme nuove e talvolta inedite. Il modello della meditazione metafisica praticata da Anselmo (di Aosta, di Bec o di Canterbury, a seconda del momento della sua carriera su cui si vuole insistere) ha dato vita a capolavori senza discendenza immediata. Altre grandi figure di riformatori, insegnando la teologia nelle scuole delle cattedrali, come Yves di Chartres, hanno contribuito ad inventare l'idea stessa di un diritto sistematico della Chiesa. È in questa stessa filiazione che bisogna localizzare Irnerio, il più celebre dei rinnovatori dell'insegnamento del diritto romano a Bologna nei primi decenni del XII secolo, che i racconti prodotti dai romanisti delle generazioni ulteriori presentano come il primo «illuminatore», capace di spiegare i testi delle compilazioni giustinianee, ma di cui nessuno scritto propriamente giuridico è conservato. Dei lavori recenti hanno permesso di attribuirgli una raccolta di sentenze teologiche, comparabile a quella che poteva essere stata prodotta in Francia, dalla stessa generazione di Pietro Abelardo e dei suoi discepoli e che si distingue per un'eccellente [555]conoscenza di Agostino. Se si traggono tutte le conseguenze da questa grande scoperta, si comprende come il lorenese Guarnerius/Irnerius, formatosi in Francia, insegnava le arti liberali e la teologia nel cuore della scuola bolognese. Sono le sue qualità di latinista e la sua curiosità teorica per le questioni di giustizia che hanno condotto alla rinascita dello studio del diritto romano classico. Per quanto riguarda Graziano, probabile autore del famoso Decretum che servì di base all'insegnamento del diritto canonico, un articolo di John Noonan ha spazzato via il poco che si credeva di sapere di lui, mentre i lavori di Anders Winroth hanno messo in evidenza l'esistenza di due versioni differenti del Decretum; la prima è di nuovo una raccolta di autorità patristiche, comparabile alle Sentenze di Irnerius e che peraltro da esse dipende. Solo la seconda versione porta delle tracce di una conoscenza del diritto di Giustiniano. Quest’ultimo indizio suggerisce una redazione di questa seconda versione nell’ambiente bolognese, senza che si possa con certezza attribuirlo a Graziano stesso, cosa che importa poco, visto che in fin dei conti non si sa niente di lui, e neanche se è mai stato attivo a Bologna. Con ogni probabilità, la produzione in due momenti successivi di una raccolta di citazioni dei padri della Chiesa deriva ancora una volta da un insegnamento teologico, rilasciato nelle scuole monastiche o cattedrali. La moltiplicazione delle scuole private di diritto, sia civili che canoniche, avrebbe preso così piede a Bologna favorendo una cultura giuridica inizialmente divulgata dai teologi. Questa rilettura delle origini dell'insegnamento del diritto colto mostra che occorre guardarsi bene dal proiettare distinzioni preconcette su una pratica intellettuale multiforme e una realtà istituzionale che sono rimaste per molto tempo fluide; al contrario importa seguire attentamente dei processi, spesso lunghi e complessi, di differenziazione tra discipline. La teologia ha continuato ad essere insegnata a Bologna nella seconda metà del secolo, dove esercitava ad esempio Guglielmo di Lucca, autore di commenti sullo pseudo-Dionigi. L’impoverimento di questo insegnamento bolognese è contemporaneo con la fondazione dell'università parigina, dopo il 1210, come se le due istituzioni si fossero divise in modo informale i ruoli. Tuttavia, la fluidità degli interessi intellettuali non ha smesso di esistere per molto: fin dalla fine del XII secolo, si nota una curiosità per le questioni di filosofia naturale dovuta probabilmente alla prossimità della scuola di medicina di Salerno, così come a altri vicini luoghi del sapere, come l'università di Napoli, attiva durante il regno di Federico II. Bisogna anche fare i conti, a partire dall’anno 1260, con la cerchia dei medici ed astronomi riuniti a Viterbo, intorno alla curia papale. Lungi dal frenare l'interesse per le scienze della natura, la presenza dei papi e dei cardinali, particolarmente preoccupati dal loro stato di salute ed pronti a incoraggiare le ricerche sul prolungamento della vita, ha favorito al contrario il dinamismo di un’area del sapere in cui sono potute sbocciare e circolare talvolta delle posizioni eterodosse. Il punto essenziale per il nostro proposito riguarda la cornice istituzionale in cui si è sviluppata la fioritura filosofica della seconda metà del XIII secolo. La lettura ed i commenti delle opere di filosofia naturale di Aristotele nelle facoltà delle arti e di medicina di Bologna e Padova non si sono effettuati sotto il dominio della teologia e sotto il controllo a priori degli insegnamenti cosi come era stato tentato, con più o meno successo, i vescovi parigini. La teologia ha fatto rapidamente ritorno a Bologna, con gli studi degli ordini medicanti, ma in strutture separate dall'università. Mentre a Parigi l'insegnamento della medicina prendeva posto in una facoltà distinta, a Padova come a Bologna, negli anni 1260, si è integrato con la facoltà delle arti e per tutto il mezzo secolo seguente, era abituale studiare e insegnare nei due campi. Questa situazione ha permesso un incrocio fertile tra ricerca medica e speculazioni filosofiche che non conosce confronti con Parigi o Montpellier. Il personaggio centrale di questo movimento è il fiorentino Taddeo Alderotti, morto nel 1295, all'età di 80 anni secondo una cronaca ulteriore che esagera forse la sua età avanzata; il fulcro della sua attività si inserisce nei tre ultimi decenni del XIII secolo. I suoi studenti costituiscono una delle principali coorti della generazione che ci interessa. Cultura civica Un effetto maggiore delle decisioni pontificie culminate nella Super speculam è stato quella di rinforzare la predominanza dei laici nei centri di studio italiani. Carlo Dionisotti ha mostrato che questa distinzione tra chierici e laici è una chiave per comprendere la storia della letteratura italiana. Ruedi Imbach ha fatto riferimento allo stesso criterio nella storia della filosofia, proprio per localizzare Dante nel suo ambiente. Questa distinzione di stato, spesso trascurata, è difatti cruciale per il nostro proposito. Ma piuttosto che calcare il tratto, conviene sfumarlo. Uno dei caratteri più notevoli dell'Italia del Medioevo centrale è di avere prodotto una cultura civica nella quale potevano prendere posto dei chierici, ma senza esercitare un monopolio sulla distribuzione del sapere, e nemmeno pretendere di occuparne il primo piano. Di fatto, la distinzione tra chierici e laici non costituisce in nessun modo un’opposizione ideologica irriducibile. Riguarda innanzitutto una serie di privilegi economici, politici e sociali. Per uno studente l'accesso agli ordini minori è un mezzo per finanziare i suoi studi con l'aiuto di prebende; non implica necessariamente una vocazione religiosa forte e non conduce sempre a una carriera ecclesiastica. Questa scelta che fa Marsilio di Padova per esempio non l'ha affatto isolato culturalmente dai suoi vicini, rimasti [557] laici, Albertino Mussato e Pietro d’Abano. Il caso della scuola medica di Salerno è ancora più sorprendente: mentre nel XI secolo era stata animata principalmente dai benedettini di Monte Cassino, l'interdizione ai monaci di studiare la medicina non ha interrotto la continuità di una scuola che si è mantenuta, inseguendo la produzione collettiva di un corpus di commenti e di questioni, fino ai primi decenni del XIII secolo. L'opposizione più forte, nelle scuole parigine del XII secolo, era piuttosto tra i monaci e gli studenti che, per la maggior parte, non avevano superato gli ordini minori. La stessa distinzione è ancora viva nell'università del XIII secolo e sopiega in larga misura i conflitti che oppongono i religiosi mendicanti ai maestri e agli studenti nel corso dei secoli. Nella cornice italiana l’ingresso in un ordine religioso implica anche, generalmente un'adesione più stretta ad un programma intellettuale specifico. In pratica, si osserva tuttavia una certa latitudine, in particolare presso i domenicani; così; il polacco Witelo insegna scienze a Padova negli anni 1260 come lo farebbe un laico. Teodorico Borgognoni, figlio di un chirurgo bolognese, prosegue la stessa attività a dispetto della sua entrata nell'ordine domenicano negli anni 1220. Nel gruppo dei medici bolognesi allievi di Taddeo Alderotti, Guglielmo de’ Corvi sceglie la carriera religiosa nel momento in cui diventa medico dei papi, accumulando in alcuni anni dei benefici considerevoli che gli permettono occupare un posto di primo piano nel capitolo cattedrale di Bologna. Torrigiani, altro alunno di Taddeo, sembra avere raggiunto un’ambiente religioso al termine della sua vita , secondo un tragitto che aveva seguito prima di lui il poeta Guittone d’Arezzo (ca. 1230 - ca. 1294, entrato in un ordine militare urbano, la Milizia della Vergine (conosciuto anche sotto il nome di “frati gaudenti”). Queste traiettorie spirituali individuali si inseriscono in un campo culturale civico che è innegabilmente in parte dominato da valori laici. Un altro spunto prezioso è offerto dal domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami (ca. 1250-1319); i suoi sermoni e trattati politici esprimono teologicamente un ideale di pace civile che si inserisce nella continuità delle opere del notaio laico Albertano di Brescia (ca. 1200-ca. 1270), autore di trattati morali e religiosi che ebbero un successo considerevole. Lo sfondo sociale di questa cultura laica è molto conosciuto e può essere ricordato brevemente. La pratica del diritto scritto si era mantenuta durante l’alto Medioevo, così che il notariato non era sparito totalmente mai dalle città italiane, ma la sua importanza era aumentata considerevolmente con la crescita urbana del XII secolo. L'autonomia politica ottenuta dai comuni ai danni dell’imperatore Federico I all'epoca della pace di Costanza, nel 1183, ha permesso la formazione di élites politiche e la [558] formazione di una classe di amministratori che avasva la possibilità di accedere alle cariche pubbliche. Nel XIII secolo le principali città italiane contano centinaia di letterati formati nel diritto e nella retorica che esercitano privatamente come giudici, cancellieri e notai, o come funzionari comunali, e che sono frequentemente allo stesso tempo insegnanti di grammatica. Lo sviluppo commerciale dà adito ad altra forma di acculturazione, indirizzandosi verso l'uso della lingua volgare e l'apprendistato di rudimenti di matematica, come nel caso di Firenze dove l'istruzione di massa rilasciata ai bambini produce un livello eccezionale di alfabetizzazione. I poteri pubblici locali, direttamente interessati alla formazione di questi ambienti di letterati, finanziano loro stessi le scuole di grammatica; alla fine del XIII secolo, gli insegnanti delle facoltà di diritto, delle arti e di medicina sono direttamente retribuiti dai comuni. L'università di Bologna è essa stessa all'origine di fondazioni rivali di esistenza più o meno duratura, creata grazie all’esilio di uno o parecchi padri, fin dai primi, decenni del XIII secolo a Padova o Arezzo e più tardivamente a Siena o Perugia. Riservati di fatto ai laici, il diritto civile e la medicina offrono due carriere che permettono a persone di origini talvolta modeste di accumulare prestigio e ricchezza, conducendo a carriere universitarie e a una pratica della loro arte venduta a caro prezzo: la riuscita di Taddeo Alderotti ci offre un esempio notevole; gli è valsa la reputazione di avaro che si traduce solamente in un arricchimento stupefacente acquisito per mezzo dello scienza. Laici, questi intellettuali sono spesso sposati e padri di famiglia e questa particolarità induce essa stessa effetti notevoli; a Bologna, dal XIII secolo, esistono stirpi di medici o di giuristi, universitari e medici che trasmettono le loro conoscenze e la loro clientela di padre in figlio. Quando la riflessione verte sulla vita privata dei letterati, il problema non è allora quello di sapere se occorre sposarsi o no; i poeti padovani Lovato, Mussato e i loro prossimi spostano un dibattito classico interrogandosi su una “quaestio de prole”, per sapere se, una volta sposati, conviene o no avere una discendenza. Sulla stessa domanda, Geri di Arezzo scambia delle lettere con Cambio da Poggibonsi. Uno dei più grandi canonici della generazione che include anche Giovanni di Andrea (ca. 1270). La sua situazione di famiglia non gli impedisce in nessun modo di essere specialista del diritto della Chiesa. I racconti concernenti il ruolo che avrebbe giocato vicino a lui la sua donna e le sue ragazze parzialmente delle leggende che partono da elementi autentici. Questo esempio segnala che il modello di trasmissione familiare del sapere poteva ammettere una timida presenza delle donne totalmente escluse dall'università. I pochi esempi documentati con un po’ di certezza mostrano l'attività a Firenze, ai principi del XIV secolo, di una grammatica chiamata Clementia e di una poetessa conosciuta sotto il nome di Compiuta [559] Donzella di cui sono conservati tre sonetti che fa così eco alla tradizione provenzale delle trobadritz. È una tale combinazione di fattori che ha reso possibile, alcune generazioni più tardi, l’apparizione di una Christine di Pizan, figlia di un astronomo italiano installato in Francia diventata donna letterata. La tipologia che proproniamo potrà sembrare alquanto spigolosa. La maggior parte degli individui che entrano in questa cornice sono dei laici, ma non tutti. Quasi tutti sono universitari, ma certi, a cominciare da Dante, non hanno seguito di studi regolari. Una cospicua parte pratica la poesia, per la maggior parte in vernacolare ma anche in versi latini. In quanto ai loro interessi scientifici, è precisamente la diversità delle configurazioni particolari a costituire il marchio di fabbrica di questo momento. Parimenti, la loro implicazione nella vita politica prende forme varie. Il loro modello di “comunità del sapere” può servire a descrivere questa abbondanza di attività sapienti e letterate, a patto di adoperarlo in modo rapido, identificando cerchi di dimensioni differenti, più o meno aperti, incastrati o intrecciati tra loro. Se si segue questa prospettiva, si noterà che queste comunità parziali non sono ancorate necessariamente alle istituzioni. Quando lo sono, si tratta alternativamente di luoghi di sapere universitari o politici, comunali o di corte. L'iscrizione molteplice di queste attività è sicuramente il tratto più netto di questa generazione italiana che si trova così ad incrociare parecchi modelli sociologici del sapere. Da parte sua, Nancy Siraisi descrive i medici, attivi in Italia del Nord e del Centro in questo periodo come un ambiente sociale e professionale formato da individui che circolano tra differenti città dove esercitano uno dopo l'altro o simultaneamente come universitari e come praticanti. Lo stesso modello può essere allargato per descrivere più generalmente gli intellettuali italiani di questa generazione. Che siano o no universitari, si dividono tra pratica e speculazione. La loro ricerca scientifica riguarda parecchi oggetti e può esprimersi bene sia sotto le forme scolastiche sia per l'espressione poetica. Nella maggior parte dei casi, come i “medici cittadini” di cui parla la Siraisi, una parte più o meno importante della loro attività è dedicata ad un impegno civico o politico. Se il modello della rete è certamente il più adatto a descrivere nel suo insieme il fenomeno studiato, è perché è caratterizzato dalla pratica del dialogo e dalla circolazione degli uomini in differenti città e ambienti. Ritrovando usi più antichi che avevano perso il loro smalto nel modello del sapere scolastico, una forte proporzione dei personaggi considerati pratica assiduamente lo scambio epistolare, qui compreso ai fini di una ricerca intellettuale. A differenza della situazione parigina, il dibattito colto ha luogo non in un confronto orale nell’aula universitaria, ma in una distanza mediatizzata dallo scritto epistolare. Queste forme di dialogo sono anche preponderanti nell'attività poetica. La circolazione delle persone tra Toscana, Emilia, Veneto e Lombardia, [560] si potrebbe presentare senza esagerazione come l’ effetto di un mercato del lavoro intellettuale e politico. Gli esperti sono assunti come insegnanti o medici per le università o per i comuni, o sono invitati dai signori locali, come Dante a Verona o a Ravenna. La circolazione è accelerata, nel caso dei padovani, dall'interdizione del reclutamento locale alla facoltà delle arti, destinato ad evitare le pratiche di nepotismo. Capita anche che i giuristi letterati siano chiamati come podestà, per esercitare durante un periodo breve la magistratura suprema in una città che non è la loro. Ma bisogna tenere anche conto della frequenza di una circolazione involontaria, causata dall'esilio. Il bando, temporaneo o a vita, è allora la sanzione dell'impegno politico in un sistema partigiano bipolare (che oppone Guelfi e Ghibellini o differenti fazioni guelfe che tollerano male la presenza di minoranze vinte tra loro). Questo fattore di dispersione provoca incontri tra esiliati. È intorno a questo punto comune che Cino da Pistoia e Cecco di Ascoli si sono per un periodo avvicinati a Bologna. L'esilio riunisce anche nei destini esseri che non si sono incrociati mai. La morte coglie così Albertino Mussato a Chioggia, al bordo della laguna veneziana, non troppo distante dalla sua Padova natale, mentre Guido Cavalcanti ritorna da Sarzana, ai confini della Toscana per morire a Firenze della febbre contratta durante l'esilio. Dal canto suo, Dante ha vissuto esule della sua città natale la seconda metà della sua esistenza. Le sue molteplici peregrinazioni hanno contribuito a fornirgli il sentimento molto vivo di una diversità linguistica e di una possibile unità culturale italiana di cui ha fatto il ritratto nel De vulgari eloquentia. Questo punto conduce ad abbordare un ultimo aspetto che caratterizza questa generazione. Gli attori di cui parliamo hanno avuto spesso la forte consapevolezza, personale e collettiva, di compiere opere originali e di partecipare ad un movimento portatore di novità. Sotto l’aspetto collettivo, differenti indizi autorizzano a parlare di una coscienza storica condivisa. Nella costruzione della loro identità, le città italiane avevano accordato una grande attenzione alla produzione di cronache locali che sono state spesso tra le opere vernacolari più rilevanti prodotte durante il XIII secolo. La tradizione ha proseguito nel periodo interessato ed oltre, senza discontinuità. Il fenomeno più sorprendente degli ultimi anni del XIII secolo, che ha avuto anche un’eco duratura, è stata la valorizzazione degli ideali della Roma repubblicana. Nella prima metà del secolo, Federico II aveva fatto rivivere l’idea e le rappresentazioni dell’impero antico, ma la riscoperta delle origini romane che si intraprende alla fine del secolo non riguarda più i soli simboli del potere imperiale. Come ha messo in evidenza Charles Davis, il domenicano Tolomeo da Lucca, continuatore del De Regno di Tommaso d’Aquino, è testimone di primo piano di questo rovesciamento di valori. Allo stesso modo si può prendere come esempio l’intervento di Lovato Lovati, il primo grande letterato padovano, che in occasione alcuni lavori urbanistici tra il 1283 e il 1284, riconobbe in un sarcofago paleocristiano la tomba di Antenore, mitico fondatore della città di Padova, contribuendo all’erezione di un monumento in sua gloria in prossimità del quale fu in seguito egli stesso inumato. Come fa notare Bernard Guenée, la sistematica introduzione di riferimenti storici all’interno di scritti politici è una novità degli anni ’90 del Duecento. Nel caso italiano, non potendo essere questa energia mobilitata per una causa politica maggiore, l’esempio fornito dall’Antichità tende a convogliare i suoi effetti nella produzione culturale. Questo fattore deve essere messo in relazione con l’altra faccia del fenomeno, ovvero la consapevolezza che un certo numero di personalità di primo piano hanno avuto della propria genialità. L’orgoglio di Dante non è solamente un tratto del carattere; dapprima infatti esprime la certezza che il poeta ha della grandezza della sua opera. Ma non è un caso isolato. Cecco d’Ascoli, nella sferzante replica che indirizza alla Commedia, si mostra ugualmente sicuro del suo genio e dell’immortalità che la sua fama gli conferirà. La preoccupazione per l’unicità dell’opera si traduce, a un livello più concreto, con una volontà di controllare la diffusione dei propri scritti, rivelatrice dell’acquisizione di uno statuto autoriale nel senso più moderno del termine. La Vita nova è il primo testo letterario della storia europea che presenta se stesso come «libro», raggruppando un insieme organizzato di poesie e i loro commenti in seno ad una narrazione autobiografica. Senza minimizzare l’importanza di questa innovazione, bisogna però situarla in un movimento più vasto. A partire dagli anni ’70 del Duecento, si vedono alcuni autori raccogliere il proprio corpus poetico in unità di testo organizzate, come fa Guittone d’Arezzo in Toscana o il trovatore Guiraut Riquier (ca. 1230-1295) alla corte di Alfonso X di Castiglia, il quale aveva egli stesso riunito le sue poesie in quello che descrive come vero e proprio «libro». Le stesse tendenze si manifestano altrettanto bene nella produzione artistica coeva. Come è noto, Giotto fu il primo artista al quale i contemporanei riconobbero un’individualità pittorica, cosa che gli vale il posizionarsi, alla pari di Dante ed altri, al di sopra dei pittori del suo tempo; una copiosa storiografia ne ha fatto molto presto il primo possessore di un tratto che è divenuto la firma dell’artista del Rinascimento. Tuttavia, il primo artista che espresse in termini sorprendenti la coscienza della propria individualità artistica non fu un pittore ma uno scultore. Questo precedente si comprende meglio se si tiene presente l’esistenza di una lunga tradizione, almeno della metà del XII secolo, di epigrafia d’elogio di scultori inserita sui loro manufatti. Una dimensione supplementare e inedita si aggiunge nel caso di Giovanni Pisano, che un conoscitore qualifica come l’artista «più personale» della sua generazione, come testimoniano le sculture estremamente espressive realizzate per la facciata della cattedrale di Siena. In un testo inciso su una delle sue opere, egli rivendica il suo talento davanti ai detrattori affermando che i doni ricevuti gli impediscono di produrre alcunché di difforme. Parimenti, per quanto riguarda la scultura, è in questa stessa epoca che la produzione di ritratti realistici fa ritorno in Occidente dopo un oblio millenario. I primi esempi sono maschere mortuarie ornanti le tombe, tra le quali le più antiche sono quelle di Isabella d’Aragona e di papa Clemente IV. La statua personale di Bonifacio VIII, realizzata con lui ancora in vita, fece scandalo; tuttavia già nei primi decenni del XIV secolo la produzione di ritratti scultorei di persone viventi si moltiplicò, con uno scarto decennale rispetto all’emergere di una forma pittorica comparabile. Bisogna però ricordare che la pala commissionata a Giotto dal cardinale Giacomo Stefaneschi per ornare la basilica vaticana, senza dubbio in occasione del giubileo del 1300, contiene una rappresentazione del committente mirante alla rassomiglianza con il modello. Questa nuova insistenza sulla singolarità delle opere e dei progetti è un tratto tipico dell’epoca in questione e, allo stesso tempo, una chiave per accedere a questo momento della storia culturale nella sua totalità. Al fine di offrire una visione d’insieme che non sia debitrice di ritocchi effettuati in nome di canoni disciplinari cristallizzatisi dopo poco, il passo più sicuro da compiere è seguire dei percorsi individuali che, come si vedrà, non si lasciano facilmente ingabbiare all’interno di categorie statiche. Una versione più sviluppata di questo lavoro potrà strutturarsi attorno a biografie parallele di questa generazione di intellettuali ed artisti italiani. Ci proporremo qui qualche overview dei principali tratti del modello che viene delineandosi, con l’aiuto di affidabili testimoni, cercando il modo di riannodare i fili delle narrazione che, generalmente, vengono presentati in maniera separata. La poetica degli intellettuali Uno degli elementi più significativi che lega tra loro gli attori di questa generazione è la pratica della poesia, principalmente in volgare. Attraverso questa attività si rivela una rete trasversale che connette individui di provenienza sociale, educazione e professione diversa. Fortemente influenzati dall’immagine della letteratura costituitasi a partire dal XVI secolo, gli storici non hanno ben colto la ricchezza e la complessità del campo letterario italiano delle origini. A partire dal celebre lavoro di Luigi Valli che descrive i poeti dello stilnovo come un circolo esoterico, si è più volte sottolineato il carattere collettivo della pratica poetica nel Duecento, evidenziando che «una parte considerevole della poesia italiana del Medioevo è poesia epistolare». Ma se si è arrivati a trovare dell’esoterismo nello stilnovo, la tendenza a presentare la pratica poetica come «scritta da poeti e indirizzata soltanto a poeti» continua a dominare tra le presentazioni storiche. L’errore di prospettiva sociologica nei riguardi della letteratura consiste nell’accostarvisi come ad un campo del sapere completamente separato dagli altri. In realtà è grazie a Petrarca, e non prima di lui, che si è imposta la figura del poeta svincolato da ogni altro legame sociale. Al contrario, la quasi totalità dei suoi predecessori esercitava una professione e contemporaneamente spesso svolgeva attività politica. Così i «siciliani», che classicamente sono identificati come prima «scuola poetica» della letteratura italiana, formatasi alla corte di Federico II tra gli anni 1230-1240, sono per lo più notai e membri dell’amministrazione. Uno dei più importanti tra loro, Giacomo da Lentini, che si crede essere l’inventore del sonetto, è soprannominato «Il notaro» per antonomasia. I poeti toscani che prendono il testimone di questo gruppo nella seconda metà del XIII secolo si trovano in genere nella stessa situazione. Ma la classe notarile non forma semplicemente il milieu da dove provengono questi poeti; costituisce soprattutto il pubblico letterato al quale le composizioni sono rivolte. Tra il 1279 e il 1333, a Bologna, più di una cinquantina di notai ebbero dunque a scrivere, sulle pagine dei registri comunali pubblici che avevano l’incarico di produrre, oltre un centinaio di composizioni poetiche in volgare di vario genere; una gran parte può essere attribuita ad autori specifici, più spesso Toscani, ma alcune poesie possono essere state prodotte all’interno dello stesso ambiente bolognese. Fino agli ultimi anni, i commentatori hanno spesso preso alla lettera le discussioni poetiche che Dante ci ha consegnato nel De vulgari eloquentia – che per certi aspetti costituisce la prima trattazione della storia della letteratura italiana – e nella Commedia, dimenticandosi che questi giudizi furono espressi da un autore coinvolto proprio nel campo che descrive. L’idea di un «dolce stil novo» che si dovrebbe identificare con una scuola poetica consacrata alla celebrazione dell’amor profano, rivela un caso di questo genere ma, in un saggio ancora poco considerato, Robert Hollander ha definitivamente distrutto questo mito. La definizione di stilnovo appare per la prima volta in un celebre passaggio del Purgatorio messa in bocca a Bonagiunta Orbicciani, rappresentante della generazione precedente; tuttavia l’espressione va riferita a un progetto letterario portato avanti da Dante dalla Vita Nova alla Commedia, e non ad un’estetica condivisa da una piccola cerchia di poeti d’avanguardia. Se esistono delle affinità stilistiche tra i toscani di questa generazione accomunati dall’ammirazione per Guido Guinizelli e il rifiuto di Guittone d’Arezzo, le relazioni che li legano tra di loro sono più complesse, tessute tanto attraverso l’amicizia quanto attraverso conflitti e disaccordi dottrinali; la «dolcezza» non è inoltre un tratto costante della loro produzione. Per avvicinarsi a questi autori è bene anche abbandonare altri pregiudizi provenienti da una concezione moderna della poesia. La lirica amorosa medievale non è luogo di mera espressione di sentimenti; essa offre altresì, e soprattutto, un veicolo per trasmettere riflessioni morali e filosofiche più o meno sofisticate. Da questo punto di vista, una figura di rilievo è Guido Cavalcanti (ca. 1255-1300), proveniente da un’importante famiglia fiorentina, «primo amico» di Dante al quale la Vita Nova (1292) fu indirizzata con una dedica che si connotò però allo stesso tempo come una presa di distanze, prima che i due poeti non si elogiassero ancora negli anni successivi. Per la storiografia fiorentina, Cavalcanti ha rapidamente goduto della reputazione di grande intellettuale, «uno dei migliori logici che il mondo abbia conosciuto ed eccellente filosofo naturale» secondo la descrizione donataci da Boccaccio nel Decameron (VI, 9). Più precisamente, il suo tratto distintivo attiene all’arte con la quale ha incarnato l’alta cultura filosofica nella materia poetica. I motteggi rivolti alla bruttezza dei sillogismi guittoniani sono testimoni della superiorità che attraverso il suo punto di vista Cavalcanti credeva di godere. La gloria filosofica di Guido è riposta essenzialmente in una canzone, Donna me prega, che si può prendere come archetipo della poesia intellettuale di quest’epoca. Manifesto filosofico, essa descrive l’amore come un avvenimento che trova alloggio nell’anima sensitiva, proveniente dalla visione di forme intellegibili nell’intelletto possibile (Vèn da veduta forma che s’intende / che prende nel possibile intelletto / come in subietto loco e dimoranza, vv. 21-23). Vissuto come una necessità e produttore di manifestazioni corporali, l’amore è presentato come un fenomeno naturale e non come oggetto di scelta morale. La canzone delinea così un ritratto veritiero dell’uomo averroista, per il quale l’affettività è un ostacolo alla contemplazione intellettuale. Destinata a guadagnarsi gli elogi solo di persone dotate di intelligenza, ad esclusione degli altri (assai laudata sarà la tua ragione / de le persone c’hanno intendimento / di star con l’altre tu non hai talento, vv. 73-75), ha prodotto molte reazioni sia tra i poeti che tra filosofi e medici. Soprattutto c’è bisogno di dire che poiché questi termini non si riferiscono a gruppi rigidamente chiusi, il dibattito sulla natura dell’amore e sui suoi rapporti con la razionalità ha prodotto nello stesso ambiente delle reazioni sia sotto forme poetiche che scolastiche. In questo modo Giacomo da Pistoia, maestro di filosofia dello Studium bolognese a partire dal 1290 e certamente anche medico, dedicò a Guido Cavalcanti una Quaestio de felicitate, imparentata con il trattato De summo bono di Boezio di Dacia, attraverso la quale l’universitario ha voluto indicare la sua connivenza con le posizioni suggerite dalla canzone. Dino del Garbo, medico morto il 30 settembre 1327, autore tra le altre cose di un commento al Canone di Avicenna ristampato più volte nel XVI secolo, ha lasciato un commento della canzone di Cavalcanti conservato nella trascrizione autografa di Boccaccio all’interno del codice Chigiano L. V. 176 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Per spiegare la poesia Dino mette in gioco tutta la sua erudizione filosofica e medica (Aristotele, Averroè, Avicenna), mentre in un altro commentario, posteriore al 1325 ed erroneamente attribuito ad Egidio Romano, cerca di riportare il testo su di una linea ispirata a Dante riconciliando amore e contemplazione intellettuale. La tradizione delle discussioni attorno a Donna me prega prosegue fino a Marsilio Ficino, il quale vi ha consacrato un discorso del suo commentario al Simposio platonico. Gli stretti rapporti tra filosofia e letteratura non si limitano al solo caso di Cavalcanti e della sua canzone Donna me prega; essi sono tipici della poesia italiana del XIII secolo e comprendono composizioni minori e meno conosciute che non presentano apertamente una forma didattica. Sonia Gentili ha recentemente dimostrato che il sonetto anonimo 386 del celebre Canzoniere vaticano (Vat. Lat. 3793) si riferisce precisamente ai problemi discussi nell’Etica nicomachea e nel De anima di Aristotele; ha inoltre provato la grande influenza sui poeti esercitata dalla traduzione in toscano ad opera di Taddeo Alderotti della Summa Alexandrinorum, compendio dell’Etica aristotelica. Questo codice vaticano, descritto a ragione come «il più ricco manoscritto della letteratura italiana», composto a Firenze intorno al 1300, raggruppa quasi mille poesie classificate per autore o forma poetica; Dante doveva avere tra le mani un volume simile, sebbene di dimensioni più modeste, al momento della redazione del De vulgari eloquentia. Questa straordinaria antologia trasmette anche composizioni poetiche di un altro livello rispetto a Taddeo Alderotti, Torrigiano dei Torrigiani. Autore dell’opera medica più filosofica che la scuola bolognese abbia prodotto, ovvero il Plusquam commentum in eum quod microtegni alieni vocatur, insegnò medicina e arti a Parigi; sembra che Dino del Garbo, allora maestro a Bologna, abbia provato ad impedire la circolazione delle sue opere o quantomeno di essersi assicurato l’esclusività della loro diffusione a Bologna. Le sue composizioni poetiche, tra le quali una è indirizzata a Compiuta Donzella, si inseriscono direttamente nel dibattito sulla natura dell’amore nel quale erano stati coinvolti Dante e Cavalcanti; essi difendono le proprie posizioni teoriche in maniera molto polemica agli occhi di quest’ultimo. In un registro differente Cecco d’Ascoli offre un altro esempio di figura capace di riunire nella sua persona immaginazione poetica e sapere scientifico ma la carriera del filosofo marchigiano è mal documentata. Presente almeno dal 1318 a Bologna, il suo insegnamento è attestato a partire dal 1322 ma senza dubbio il suo debutto era avvenuto prima. A dispetto della condanna da parte dell’inquisizione, la sua opera scientifica non è mai andata completamente perduta; ci sono pervenuti in particolare dei commentari ad Alcabizio (De principiis astrologiae) e alla Sphaera di Sacrobosco, in più un trattato sulla questione degli epicicli (De eccentricis et epyciclis). Ma l’opera che lo ha reso celebre è un lungo poema didattico incompiuto che Gianfranco Contini ha definito come una «anti-Commedia». Studi recenti hanno mostrato che la composizione de L’Acerba si è poggiata su delle enciclopedie e summae di grande diffusione. Il poema è in effetti progettato per offrire, all’interno di una narrazione molto personale, una visione enciclopedica del sapere sull’universo e l’essere umano presentato apertamente in opposizione a Dante. Le ultime strofe del quarto libro contengono in particolare un’accusa contro le fantasie del poeta che immagina cose vane e racconta di notizie inutili (Qui non se canta al modo del poeta / che finge imaginando cose vane… Qui non se gira per la selva oscura…, vv. 4469-4674); lasciando da parte queste chiacchiere, Cecco preferisce ritornare all’esposizione della verità (Lasso le ciance e torno sul vero / le fabule me fur sempre nimiche). Nonostante queste invettive, ripetute nel corso de L’Acerba, Cecco trae dal poema del suo rivale dei prestiti considerevoli. Creando l’illusione di un dialogo che senza dubbio non ha mai avuto luogo, finge di rispondere ad una domanda avente come soggetto la nascita di due gemelli aventi gradi di nobiltà differenti, fattagli da Dante prima di morire. Ciascuno a suo modo, Guido e Cecco riflettono la raccomandazione fatta poco più tardi dal giudice padovano Antonio da Tempo nella sua magnifica Summa artis rithmici (1332), secondo la quale non si può essere un buon poeta volgare senza aver studiato le arti e le scienze. Nei suoi Dialogi ad Petrum, Leonardo Bruni prende come modello di questa concezione Dante in persona, capace di riunire le tre virtù indispensabili che concorrono a formare un grande poeta: l’arte di immaginare (fingendi ars), l’eleganza dell’espressione (oris elegantia) e l’erudizione in più ambiti del sapere (multarum rerum scientia). Nell’elaborazione di questo modello del poeta sapiente, laico e volgare, l’acculturazione di stampo aristotelico della seconda metà del XIII secolo ha avuto un ruolo preponderante; tuttavia le modalità restano ancora oscure in quanto non si sa sempre a quale ambiente assegnare la formazione filosofica di Guido Cavalcanti e di Dante, un po’ prima del 1290 per l’uno e dopo questa data per l’altro. La precisione della loro conoscenza dei testi implica una frequentazione diretta che non si limitò ai volgarizzamenti prodotti da Brunetto Latini o Taddeo Alderotti. Per Dante il principale indizio è fornito da una frase del Convivio II, XII, nel quale dice di aver cercato la donna gentile consolatrice «ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti». Questa celebre formula, qualche volta mal compresa, designa i luoghi del sapere segnati da orientamenti fortemente diversi. Senza essere mai stato studente in modo regolare nelle scuole ecclesiastiche all’epoca della sua prima formazione intellettuale (1292-1295), egli ha potuto assistere alle dispute quodlibetali degli studia francescani e domenicani (rispettivamente di Santa Croce e Santa Maria Novella), e può darsi perfino che abbia preso parte alla formazione teologica erogata durante quegli anni. L’insegnamento preparatorio in filosofia offerto da queste scuole era riservato ai soli frati, ad esclusione del clero secolare e dei laici, al fine di non trasformarsi in centri di studi profani. Non è quindi lì che egli ha potuto assistere alle «disputazioni de li filosofanti». Un soggiorno, forse breve, a Bologna dell’uno e dell’altro poeta nel corso di questi anni non è da escludersi. Allo stesso modo, l’ipotesi di un passaggio di Dante a Parigi attorno al 1308-1310 non sembra impossibile, a condizione di non vederci propriamente un soggiorno da studente ma piuttosto di intenderlo come un viaggio destinato ad osservare la fonte delle discussioni intellettuali. Comunque, come mostrano numerosi strofe con indirizzo e dediche, i legami tra i giovani letterati fiorentini e bolognesi erano stati numerosi nei decenni che inquadrano il contesto del 1300; alcune discussioni nate a Bologna sono potute proseguire a Firenze in una cornice informale. Al contrario, bisogna ricordarsi che questo tipo di circolazione delle idee «in luoghi privati» o «cenacoli occulti» fu infine proscritta dagli statuti dell’università di Parigi nel 1276, prima che un controllo più severo si imponesse sull’insegnamento fornito alla facoltà delle arti. La scelta di studiare simultaneamente filosofia e teologia e di tradurre questa duplice educazione all’interno della forma poetica è la grande originalità di Dante, che si distingue su questo punto da tutti i suoi contemporanei. Questa decisione, effettuata al momento della sua prima formazione intellettuale, dopo la morte di Beatrice, ha fissato il disegno di un paesaggio intellettuale che a grandi linee è rimasto stabile anche in seguito. Non vi è modo, all’interno della successione delle sue opere, di vedere un’oscillazione tra l’aspirazione filosofica e quella teologica, ma piuttosto una conciliazione originale di questi due ordini di conoscenza. Il suo progetto di inglobare tutti i saperi fuori da un quadro universitario non ha pari, anche se Cecco tentò ancora una volta di eguagliare il suo rivale. Il quinto libro, incompiuto, de L’Acerba, avrebbe dovuto trattare di teologia ma si tratta visibilmente di un pezzo legato al progetto iniziale, forse destinato ad allontanare il sospetto di ateismo che pesava sull’astronomo. D’altro canto, per quanto riguarda l’uso della poesia in volgare intellettuale ampliata da commentari in prosa, Dante non fa affatto eccezione. Cecco stesso redasse una glossa latina de L’Acerba, per scrivere la quale mobilitò i suoi scritti universitari; allo stesso modo Francesco da Barberino glossò in latino i suoi Documenti d’amore, in particolare al fine di premunire il testo volgare da futuri errori di copia che l’avrebbero snaturato. È ancora così che procede per il suo trattato di morale in volgare Graziolo de’ Bambagliuoli, cancelliere del Comune di Bologna, che peraltro redasse il primo commento latino dell’Inferno nel 1324. Questa pratica di autocommento si può situare alla convergenza di più tradizioni. Se si prende come riferimento il modello fornito dagli accessus per gli autori classici, rispetto a questi si implica un duplice passaggio: allo stesso tempo ciò consiste sia nell’accordare una dignità comparabile a testi volgari recenti che a farsi commentatori di sé stessi. Una strada è offerta dai trovatori, i quali hanno esercitato lo stimolo maggiore sull’emergere della poesia nei vari volgari italiani durante il XIII secolo, e di cui un gran numero si stabilì in Italia, per lo più in Piemonte e Veneto. La loro influenza culturale rimarrà forte verso il 1300, come dimostra il De vulgari eloquentia che pone costantemente la poesia italiana in relazione con la sua antenata provenzale. Essa servì da modello estetico, ma anche per quanto riguarda determinate forme testuali. Durante il suo lungo soggiorno a Treviso Uc de Saint-Circ, un trovatore del Quercy, produsse la prima vasta antologia di poesia trobadorica, accompagnata da vidas e razos che esponevano il contenuto delle poesie e la carriera dei loro autori. Questa associazione di poesie accompagnate da spiegazioni in prosa ha potuto fornire l’ispirazione formale alla Vita nova. Per il Convivio, il modello è da ricercare nella Consolatio philosophiae di Boezio, che lega delle poesie a contenuto filosofico con il loro commento in prosa. Se Dante non ha scritto un commento alla Commedia, certamente lo aveva previsto e lui stesso ce ne consegna qualche anticipazione di principi ermeneutici all’interno della sua famosa lettera a Cangrande della Scala. Ma lo statuto della propria parola in questo testo è molto più complesso di quello che egli stesso afferma. La figura del poeta teologo, ricevente un’ispirazione divina, può essere ricondotta ad una tradizione che passa per l’Anticlaudianus di Alain de Lille, primo grande poema intellettuale prodotto da un teologo francese prima dell’epoca scolastica; prosegue poi per tutto il Rinascimento, partendo da Mussato e Boccaccio. Come ha mostrato Hollander, la posizione che Dante occupa nel suo poema sacro è sensibilmente differente, poiché si tratta per lui di annunciare sotto una veste poetica una conoscenza teologica veritiera, di parlare come theologus poeta. Sia quel che sia di questo distinguo, tali ambizioni sono rapidamente state fatte oggetto di critica da parte di teologi professionisti, principalmente domenicani che difendevano con fermezza la posizione di Tommaso d’Aquino riguardo al rango minore della poesia nell’esposizione del sapere scientifico. Appena quattro anni dopo la morte di Dante, il domenicano Guido Vernani produsse a Rimini una refutazione del De monarchia, dapprima condotta per motivi politici in un momento di grande tensione tra il papa e i sostenitori dell’impero. La sua prefazione è indirizzata a Graziolo de’ Bambagiuoli, allo stesso tempo sia commentatore di Dante che responsabile politico guelfo, per metterlo in guardia contro l’uso delle favole in teologia. Questa diffidenza si è prolungata con l’interdizione fatta ai Domenicani di commentare la Commedia promulgata dal capitolo generale del 1335. Dalla sua, Albertino Mussato aveva ricevuto delle critiche comparabili da parte di un altro domenicano, Giovannino da Mantova, al quale replica in maniera dettagliata. L’ibridazione dei saperi Cino da Pistoia, giurista e poeta, celebre per ciascuno di questi titoli, è raramente studiato tenendo in considerazione entrambi questi aspetti; tuttavia egli è al centro della costellazione intellettuale che noi cerchiamo di descrivere e la sua biografia è esemplare a tal proposito. I suoi numerosi spostamenti, che lo condussero in Francia e presso numerose regioni italiane, gli permisero di allacciare dei rapporti d’amicizia e di scambiare opinioni con i personaggi più importanti della scena culturale europea in uno spettro che va dal diritto civile al diritto canonico, dall’astrologia alla letteratura. Uno studio della rete dei suoi corrispondenti permetterebbe di ottenere un’immagine rivelatrice dell’ambiente intellettuale italiano degli anni 1290-1330, nel quale a personaggi eminenti si affiancano oscuri notai bolognesi. Nato verso il 1270, Cino ha potuto iniziare, molto giovane, lo studio del diritto civile presso lo studium di Pistoia dove Dino del Mugello era stato invitato ad insegnare per cinque anni il diritto romano nel 1279 dal comune. Arrivato a Bologna, studiò con Francesco d’Accorso (il figlio del celebre Accursio), Lambertino de’ Ramponi e il medesimo Dino, e seguì probabilmente anche i corsi del canonista Giovanni d’Andrea. In questi anni bolognesi si collocano le relazioni con Francesco da Barberino e Cecco d’Ascoli così come le sue prime composizioni poetiche che lo mettono in rapporto con Dante. Fra il 1292 e il 1294 i suoi studi lo condussero a Orléans dove seguì i corsi di Pietro di Belleperche; rientrato in Italia, insegnò diritto civile all’università di Bologna a partire dal 1297. Esiliato da Pistoia nel 1303 per ragioni politiche, egli cominciò a frequentare Firenze ed è in questo periodo che le sue relazioni con Dante arrivano al culmine. Nel De vulgari eloquentia, terminato nel 13041305, Dante lo cita più volte a modello di composizione poetica e si autodesigna come “l’amico di Cino”. Di ritorno da Pistoia, Cino diventò, a partire dal 1310, consigliere di Ludovico di Savoia, difensore della causa di Enrico VII, recandosi con lui a Roma per preparare l’incoronazione dell’imperatore e facendosi, in questa occasione, eleggere consigliere del tribunale imperiale. Rimase a Roma fino al 1312, poi seguì l’imperatore a Pisa dove risiedette fino alla morte di quest’ultimo nel marzo 1313, data che segna la fine del suo impegno nella vita pubblica. Cino redasse allora la Lectura in Codicem (completato l’11 giugno 1314), fece ritorno a Bologna sostenendovi l’esame da dottore, e in seguito si dedicò all’insegnamento presso le Università di Siena e Perugia. Chiamato a Napoli da Roberto d’Angiò nel 1330, non restò molto ma tornò rapidamente a Perugia dove morì nel dicembre 1336. Questa vita attiva, divisa tra diritto, poesia e azione politica, oltre a che alle numerose relazioni intellettuali e amicali, si riflette nel suo pensiero e nelle sue opere. All’interno di un codice di XV secolo della Biblioteca Marucelliana di Firenze si trova una lettera del medico Gentile da Foligno, riguardo ad un caso che Cino gli aveva sottoposto. Hermann Kantorowicz, che ha scoperto e pubblicato questa lettera in un articolo che ha fatto epoca, vi ha visto la nascita della medicina legale, o almeno il primo esempio di una situazione dove un problema giuridico è stato separato dall’osservazione medica, alla maniera di una richiesta per un parere scientifico. Il caso sul quale Cino doveva esprimere la sua opinione è il seguente: un marito contesta la legittimità di un figlio poiché sua moglie l’aveva partorito sette mesi dopo il matrimonio; egli accusa suo fratello di essere il vero padre e di aver concepito il neonato prima delle nozze. Insoddisfatto della risposta classica al problema fornita dalla Lex septimo mense (Digesto 1, 5, 12) affermante che un bambino, nato al settimo mese, ha tutto il diritto di essere dichiarato legittimo, senza dare altra spiegazione all’infuori di un riferimento ad Ippocrate, Cino si rivolge a Gentile che era al tempo suo collega a Perugia (la lettera è datata, grazie a questo dettaglio, agli anni di insegnamento di Cino a Perugia). Lui aveva esposto il caso e la soluzione data dalla legge romana, ma domanda al medico di comunicargli l’opinione della scienza. Indirizzandosi a Cino con espressioni piene di elogi, Gentile gli presenta i pareri dei più grandi filosofi greci, arabi, spagnoli e cristiani sulle possibili differenze di durata delle gravidanze, dichiarando di aver finito con l’abbracciare quello che aveva esposto più dettagliatamente in un trattato precedente. Nella sua esposizione, Gentile non si accontenta di citare le maggiori autorità mediche (Ippocrate, Avicenna) e filosofiche (i Problemata di Aristotele, Algazel); allo stesso modo egli menziona i suoi contemporanei, tra cui Egidio Romano e Pietro d’Abano, il quale sostiene contro Ippocrate la possibilità di una nascita all’undicesimo mese. La lettera contiene inoltre una lunga parte astrologica, che spiega in quale modo per ciascun mese di gestazione il feto è soggetto all’influenza di uno dei cieli. Questo responso aveva per il giurista, che frequentemente si doveva confrontare con interrogativi sulla legittimità delle nascite, un interesse travalicante il solo caso in esame. La lettera che è stata conservata tra gli scritti di Gentile, fu altresì integrata da Cino nel suo commentario alla Lex septimo mense. Seppure non figurante nell’edizione della Lectura super Codicem, essa fu tuttavia citata a più riprese da alcuni giuristi successivi, tra i quali bisogna ricordare Bartolo da Sassoferrato, che fu in questo periodo allievo di Cino a Perugia, o anche Angelo degli Ubaldi. Per concludere, il consiglio dato da Cino fece analizzare a dei medici competenti se lo sviluppo del neonato fosse conforme alla durata del matrimonio, preferendo l’osservazione empirica alla rigida applicazione del dogma giuridico. È raro imbattersi in un caso così evidente di incontro fecondo tra due scienze, sotto forma di un dialogo intellettuale tra colleghi. Per eccezionale che sia, questa situazione dà l’opportunità di far risaltare l’unità di uno stesso milieu intellettuale. Il fatto che degli universitari, giuristi o medici, abbiano inizialmente frequentato le stesse facoltà delle arti costituisce un fattore determinante. A Padova, ad un livello meno elevato, dei maestri delle arti tali Geremia da Montagnone o Zambonino da Gazzo, intervennero in più campi producendo dei manuali sia di retorica che di medicina. Le cerchie rispettivamente dei giuristi e dei medici erano tutto sommato separate, tanto dal punto di vista dei saperi che delle alleanze familiari. A questo tipo di scambi si sovrappongono altri riscontri al di fuori dalle istituzioni scolastiche, legati a comunità che si consideravano abitualmente come chiuse le une alle altre. Come ha scritto Moshe Idel, «tanto nel Medioevo che nel Rinascimento, la cooperazione tra intellettuali ebrei e cristiani fu molto più intensa in Italia che in tutto il resto d’Europa». Cino può nuovamente servire come punto di transizione. Il poeta Bosone da Gubbio, che era stato tra i suoi corrispondenti, scambia delle poesie in volgare con Immanuel Romano, adattatore in ebraico della Commedia, nel periodo in cui entrambi soggiornarono a Verona intorno al 1328; tuttavia, il sonetto «Messer Bosone, lo vostro Manoello», composto da un terzo che interviene nel loro scambio, appare troppo critico nei confronti di Dante per essere attribuito a Cino. Immanuel offre un esempio notevole di poeta ed intellettuale ebreo, in grado di comporre anche opere di esegesi biblica e attivo in varie regioni italiane alla ricerca di protettori o mecenati. Egli si inscrive all’interno di una rete di intellettuali ebrei che possiedono molteplici punti di contatto con la cultura cristiana. Suo cugino (o forse suo fratello) Yehudah Romano, attivo a Roma e Napoli tra 1310 e 1330, tradusse in ebraico numerosi testi scolastici di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano. Se anche ha commentato la De substantia orbis di Averroè, l’influenza di Tommaso è preponderante, al punto che si può parlare a questo proposito di un «tomismo ebraico». La funzione di traduttore, spesso assunta dagli studiosi ebrei, ha ugualmente favorito la divulgazione latina dei testi della tradizione neoplatonica negli anni che ci interessano. In alcuni casi, si può parlare di dialoghi eruditi: Mosè da Salerno nel suo commento della Guida dei perplessi di Maimonide, composto verso il 1270, parla di una collaborazione ristretta con gli scolastici cristiani Nicola da Giovinazzo e Pietro d’Irlanda, attivi a Napoli. Allo stesso modo è da ricordare il nome del grande Hillel ben Shemuel di Verona che cita letteralmente il De unitate intellectus di Tommaso nel suo Sefer tagmuley ha-nefesh composto tra il 1287 e il 1291, per richiamare l’importanza si questo centro come punto di contatto tra intellettuali ebrei e cristiani. È in effetti l’epoca del suo primo soggiorno a Verona, nel 13031304, quando Dante scriveva, o quanto meno aveva iniziato a scrivere il De vulgari eloquentia. Adesso, come ha recentemente proposto Moshe Idel, questo testo fa uso di un concetto inusuale: forma prima cum anima concreata, un hapax della produzione dantesca, in cui si potrebbe vedere un ricordo del concetto abulafiano di “forma della parola” (tzurat ha-dibbur) che è “naturalmente, aderisce alla bocca ed è incisa nel cuore (haququim ba-lev) al momento della nascita”. Abulafia era venuto a Roma verso il 1260 per studiare la Guida dei perplessi con Hillel da Verona; E ritornò in Sicilia nel 1285, dopo un lungo soggiorno a Barcellona dove fondò una corrente cabalista estatica. Se gli uomini non si sono incrociati, l’ipotesi di una circolazione, scritta o orale, a Verona, verso il 1304, è perfettamente plausibile. I viaggi dei personaggi che abbiamo appena presentato delineano una geografia sensibilmente differente di quella in cui si muovono gli intellettuali cristiani, più verso il sud della penisola, e legati in modo molto stretto alla Catalogna. Lettere e conoscenza politica Nel suo Rerum memorandarum libri, Petrarca, per lo più avaro di elogi per i suoi predecessori, fa un’eccezione per il padovano Lovato Lovati, ma la sua lode si tinge subito di disprezzo: quest’ultimo avrebbe «confuso le nove muse e le dodici tavole». Il giudizio non è di natura estetica. Agli occhi di Petrarca, Lovato avrebbe potuto rivendicare il primato tra i poeti «della nostra epoca o di quella dei nostri padri». Gli dobbiamo anche la riscoperta di antichi testi rari, come le tragedie di Seneca, e il ritorno all’uso della minuscola carolina che fu il marchio di fabbrica grafico degli umanisti. Sotto tutti gli aspetti Lovato merita di essere considerato come il primo tra questi. La critica è in realtà di natura sociale e mira alla professione giuridica che il padovano ha continuato a esercitare invece di impegnarsi a tempo pieno nella letteratura. Di fatto Lovato è stato, a partire dal 1267, membro del collegio dei giudici di palazzo e ha coperto un ruolo importante nella vita politica comunale, esercitando inoltre la carica di podestà a Vicenza nel 1292. La sua nobiltà e la sua reputazione gli fecero ottenere il primo posto nei documenti notarili, nei quali figura subito dopo i dottori di diritto. A titolo dei suoi molti interventi pubblici egli fu, per esempio, nel 1306, membro di una commissione di saggi che autorizzò il comune a versare a Pietro d’Abano un salario cinque volte superiore alla tariffa abituale. Questo ruolo può essere paragonato a quello giocato da Brunetto Latini (ca. 1225-1293) a Firenze, come introduttore di nuovi saperi e guida della generazione di Dante. Notaio di professione e fortemente impegnato nella politica della sua città, Brunetto è principalmente conosciuto per il suo Tresor, enclopedia scritta in francese durante il suo esilio a Parigi, durante il 1260, che contiene, al suo interno, una traduzione della Summa alexandrinorum prodotta con l’aiuto della versione toscana di Taddeo Alderotti. La sua prima idea era stata, tuttavia, di comporre una Rettorica, adattando in toscano il De inventione di Cicerone, che fu successivamente completata. La scelta di scrivere questa parola con una doppia T, che lo collega alla etimologia del rector piuttosto che a quella di rhetor indica la funzione intrinsecamente politica da lui assegnata alla retorica. I due progetti (quello del Tresor e quello della Rettorica), avviati nel medesimo decennio, conducono in direzioni apparentemente opposte. È proprio mentre si forma a Padova un circolo d’élite, dedito alla riscoperta, lo studio e l’imitazione della letteratura antica, che si assiste, a Firenze, all'inizio di un movimento di traduzione di massa, in toscano, di opere classiche. Ronald Witt rapporta, a giusto titolo, questa divergenza a una differenza di carattere sociale: le élites fiorentine si sono aperte a delle famiglie arricchitesi grazie al commercio e alla finanza, l’antica nobiltà qui fu esclusa dai gruppi dirigenti, mentre in Veneto, il potere comunale era rimasto concentrato nelle mani di una nobiltà che traeva il suo reddito dalla proprietà fondiaria ed era poco incline all’attività commerciale; o, come abbiamo già visto, la cultura mercantesca privilegiava la lingua volgare, mentre gli ambienti giuridici sono più rivolti verso l’uso del latino. Nonostante questa differenza, in entrambi i casi, l'attività letteraria rimane inseparabile dall’impegno civico. Albertino Mussato, scelto da Lovato come suo discepolo prediletto, può servire qui da esempio paradigmatico. Figlio illegittimo di un nobile nei dintorni di Padova, Mussato non ha potuto portare avanti gli studi. Diventato notaio, è tuttavia passato rapidamente a ricoprire dei ruoli politici di prima importanza, in città e fuori, poiché fu per due volte podestà di una piccola città di campagna (Lendinara), esecutore degli Ordinamenti di Giustizia a Firenze e ambasciatore del comune di Padova inviato presso Bonifacio VIII nel 1302. Nel primo decennio del XIV secolo, Padova e Bologna erano tra gli ultimi bastioni dei regimi comunali, mentre la maggior parte delle città italiane, una dopo l’altra, si erano poste sotto il dominio dei signori. La presenza di università e di molte comunità colte, al loro interno (di Padova e Bologna) non sono potute essere del tutto estranee a questa situazione. A differenza di Bologna, Padova si trovò sotto la minaccia di un potere aggressivo incarnato nella persona di Cangrande della Scala (1291-1329). Incarnazione della gloria militare, godendo del titolo di vicario imperiale in Lombardia dopo il 1311, il giovane signore di Verona condusse incessanti campagne contro i suoi vicini fino alla sua morte nel 1329 a Treviso, che finalmente aveva conquistato. Mussato, ferito in combattimento nel 1314, davanti a Vicenza, rimase qualche mese prigioniero di Cangrande. Una volta rilasciato, compose una tragedia ispirata da Seneca che, sotto la veste di una denuncia della lunga tirannide esercitata su Padova da Ezzelino III da Romano (1237-1262), mostrava la minaccia rappresentata dal tiranno veronese. L’idea di un’incoronazione poetica, a seguito di tale virtuosismo, torna a Rolando da Piazzola, nipote di Lovato e anche giurista e letterato. Destinata a celebrare tanto la gloria di poeta, quanto la libertà comunale, il 3 dicembre 1315, giorno del compleanno di Mussato, una processione guidata dal collegio dei giuristi, gli insegnanti e gli studenti della Facoltà delle Arti, giunse a salutarlo presso la sua dimora per accompagnarlo in trionfo al palazzo della città, dove ricevette la corona d’alloro. La processione fu ripetuta due volte, negli anni che costituiscono una vera e propria apoteosi del regime comunale, caratterizzato dall’istituzione di un defensor populi, magistrato destinato a ricoprire l’incarico di rappresentante del popolo. L’apoteosi padovana è inseparabilmente politica e culturale, in quanto, nelle stesse date, Giotto, che aveva già dipinto la cappella degli Scrovegni nel 1304-1305, realizzò gli affreschi del palazzo della Ragione. Oltre agli aspetti riguardanti la celebrazione politica e letteraria, con il coinvolgimento dell’università, la glorificazione di un individuo vivente e il recupero di antichi simboli, si sintetizza, nell’incoronazione, la maggior parte delle caratteristiche del modello che abbiamo cercato di costruire. Lungi dall'essere un evento isolato, è al crocevia di importanti tendenze del momento culturale italiano. Si comprende così meglio la sorte di secondo piano della proposta di Giovanni Del Virgilio, letterato padovano, che insegna a Bologna, che aveva promesso a Dante un trionfo simile se avesse composto un’opera dello stesso livello per celebrare le vittorie di Cangrande (la gloria poetica si ottiene solo con un titolo politico), e allo stesso modo si comprende la risposta del toscano, che lascia intendere che il sogno dell’incoronazione per lui non potrebbe avere luogo altrove se non a Firenze (la gloria poetica e politica è inseparabile dall’identità comunale). Questo dialogo permette di comprendere il triplice significato politico della Commedia, in cui Dante parla e giudica, con gradi variabili d’intensità e di precisione, del destino della sua terra natale, del territorio italiano e infine dell’insieme della cristianità. La cerimonia ebbe luogo solo tre volte. Dal 1318, quando il comune aveva chiesto la sua testa, con Giacomo da Carrara che aveva immediatamente firmato la pace con Cangrande della Scala, Mussato era caduto in disgrazia ed era stato condannato all’esilio. Per altro, queste opposizioni e rivolgimenti politici su scala locale si inscrivono sul fondo di un modo di pensare largamente condiviso. Anche in seno a questa lotta contra il tiranno, la cui legittimità proviene dal suo titolo di vicario imperiale, Mussato si definisce lui stesso come imperatore. Come pure per la maggior parte degli intellettuali cittadini di questa epoca, che siano favorevoli o ostili alla fazione ghibellina guidata da Cangrande, l’orizzonte politico insuperabile è quello dell’impero che deve garantire la pace delle città italiane. Questo non è un azzardo se, tanto Lovato Lovati che Geri d’Arezzo hanno scritto dei trattati, tutti e due perduti, in cui invitano a superare le divisioni tra guelfi e ghibellini. Se c’è un avvenimento che li poté riunire, questo fu sicuramente la venuta in Italia di Enrico di Lussemburgo, eletto imperatore nel novembre 1308, incoronato a Roma nel 1312, e sconfitto a Buonconvento, a sud di Siena, nel marzo 1313. In soli tre anni, quest’ultimo raccolse intorno a sé, alternativamente o contemporaneamente, un gran numero di studiosi che ci interessano. L’epistola V di Dante, scritta nell’ottobre o nel novembre 1310, gli servì come presentazione a Enrico che era arrivato a Milano, mentre tre lettere, indirizzate all’Imperatrice nella primavera successiva, celebrarono la campagna militare condotta in Lombardia. Cino, come abbiamo visto, partecipò attivamente all’incoronazione romana (di Enrico di Lussemburgo). Mussato si unì qualche tempo dopo al nuovo imperatore e compose un’epopea che narrava la sua gloria. Si può ugualmente menzionare nei dintorni un altro scrittore toscano della medesima generazione, Francesco da Barberino (1267-1348), la cui carriera letteraria fu molto precoce. Studente a Bologna nel 1290, notaio a Firenze, poi condannato all’esilio, insegnò presso le più grandi città del Veneto (Padova, Venezia, Treviso), prima di soggiornare in Provenza e Francia. Così anche questo inviò una lettera entusiasta al nuovo imperatore, e ritornò, per questa occasione, in Italia, dove ottenne finalmente la licenza universitaria nel 1313. Le energie intellettuali e letterarie che la causa imperiale mise in moto erano senza dubbio superiori alle sue capacità militari. Tuttavia, essi dimostrano chiaramente che la Monarchia di Dante non è soltanto un pensiero nostalgico separato dalla realtà: è al contrario una testimonianza delle espressioni più sofisticate dell’ideale politico dominante presso l’ambiente e il tempo dove essa fu composta. Questo quadro ci permette di comprendere meglio, dal punto di vista di questo contesto italiano, l’opera e l’azione di Marsilio Mainardini di Padova, la cui biografia è ancora coperta da larghe zone d’ombra. Studente di Pietro d’Abano a Padova, dove quest’ultimo aveva ripreso il suo insegnamento a partire dal 1305, fa parte dei testimoni della professione di fede pronunciata, prima della sua morte, dal medico, sospettato dall’Inquisizione ma difeso dal suo comune. Nel tempo, la sua carriera continuò presso la facoltà delle arti di Parigi, dove venne eletto, onore raramente riservato a un italiano, rettore dell’Università nel dicembre 1312. Qualche anno più tardi , cercò di ritornare a Padova, dove ottenne la rendita di un canonicato nel 1316. Nel primo periodo dei suoi studi padovani, stringe amicizia con Albertino Mussato che gli dedicò i suoi Evidentia tragediarum Senece. Nella sua prefazione, il poeta impiega una formula che ritroviamo uguale nella prima frase del De gestis Italicorum, dedicato a Rolando da Piazzola, parlando di discussioni frequenti che avvengono tra amici in una taverna (dum sepe in diversoriis cum sodalibus...) su argomenti politici e morali. L'altra indicazione di strette relazioni tra i due si nota da una lettera di rimprovero di Mussato indirizzata al suo amico. La datazione di questo testo è incerta e la sua interpretazione varia molto secondo il momento in cui si decide di collocarlo. Albertino comincia facendo l’elogio del giovane sapiente, che aveva inizialmente esitato nel diritto e nella medicina. Poi Mussato dice di aver incoraggiato Marsilio a immergersi nello studio della fisica; e lo incoraggia, allo stesso modo, con questa lettera, a ritrovare la via della scienza che si era allontanata, accusandolo, in termini metaforici, di essersi avvicinato a Matteo Visconti e a Cangrande della Scala. Di fatto, si sa che nel 1319, Marsilio fu l’ambasciatore dei signori lombardi presso Carlo della Marche (Il futuro re di Francia Carlo IV), per a cui chiese di assumere la guida della loro parte, nel momento in cui Cangrande e Matteo erano tutti e due già stati scomunicati da Giovanni XXII. La soluzione più verosimile è che dopo la pace siglata tra Padova e Cangrande nel 1318, Marsilio si riunì a quest’ultimo, mentre Mussato ebbe tutte le ragioni di prendere questo atto come un tradimento. Dieci anni più tardi, nel suo ultimo esilio a Chioggia, in un’altra lettera di Mussato a Marsilio, lo conforta molto sapere che il suo amico abbia scelto il partito di Ludovico il Bavaro; e gli chiede informazioni per scrivere la sua ultima epopea politica: Ludovicus bavarus. I legami tra i due uomini sono stati dunque duraturi e profondi. I modi d’espressione molto diversi dei poeti umanisti e del pensiero scolastico-universitario non condussero a opposizioni, ma al contrario evidenziarono la loro complementarietà. Per merito di questa educazione universitaria, che gli donò, insieme, una cultura logica, medica, giuridica, filosofica e teologica; Marsilio ha tutto quello che manca a Mussato. Dimostra anche che egli ha frequentato i migliori umanisti padovani, inserendo citazioni classiche prese in prestito da Geremia da Montagnone. Sebbene i generi letterari in cui si esprimono siano senza rapporti apparenti, l’uno e l’altro mirano allo stesso programma politico: la pace civile nel comune, inscritta nel quadro di una visione di un impero universale Antonio da Parma, un averroista ghibellino Per concludere questo percorso, un ultimo personaggio appartenente a questa generazione permette di unire i differenti pezzi del quadro. La vita di Antonio da Parma, medico e filosofo, è mal documentata. Probabilmente allievo di Taddeo Alderotti, magister a Bologna prima del 1306, la sua carriera continuò a Padova (senza dubbio tra gli anni 1306-1309, quando lo Studium di Bologna era stato sospeso da papa Clemente V) e a Verona. L’ipotesi di un insegnamento a Parigi non può appoggiarsi a nessun elemento di conferma, ma la sua conoscenza delle discussioni parigine è troppo profonda per essere di seconda mano. Interviene nel dibattito degli averroisti parigini sulla virtus dei e cita le posizioni e le opinioni professate dai suoi contemporanei nella rue de Garlande (vico Garlandie), sede della facoltà delle arti, ma anche luogo di eccellenza dei sectatores Averooys, e inizia un dialogo con Giovanni di Jandun e Thomas Wilton. In un’altra questione, egli menziona e commenta due articoli condannati da Etienne Tempier nel 1277. Come altri, anche per questo allievo di Taddeo Alderotti, l’ampiezza della sua erudizione e la sua curiosità intellettuale proibiscono di collocarlo solamente all’interno della storia della medicina. Autore di un commentario sulla prima tesi del canone di Avicenna (Bruno Nardi ha dimostrato che Dante lo ha letto e ampiamente utilizzato nella sua Questio de aqua et terra), ha scritto anche numerose quaestiones di pratica medica. La sua produzione filosofica è rimarcabile per la sua precisione, la sua ampiezza e incisività. Antonio è in effetti il primo averroista che legge e cita Sigieri di Brabante dopo la condanna del 1277. È lui che introduce la concezione sigieriana alla facoltà delle Arti di Padova dove, un secolo più tardi, Nicoletto Vernia e Agostino Nifo si proclameranno suoi eredi. È ugualmente molto probabile che Dante sia giunto alla conoscenza delle dottrine di Sigieri attraverso Antonio, che ha composto due trattati sull’unità dell’intelletto possibile. Il primo è una Questio de unitate intellectus recentemente scoperto in un manoscritto della biblioteca universitaria di Budapest. L’altro, i Dubia et remotiones circa intellectum possibilem et agentem, più radicali sulle loro posizioni, si trovano in un manoscritto della Biblioteca Vaticana. La notorietà di queste sue posizioni è simile ad una questione anonima del XIV secolo, che presenta le opinioni espresse nei Dubia come se fossero la posizione filosofica di riferimento in favore all’unicità dell’intelletto, opposte alla posizione dei teologi. Antonio non ha affrontato in filosofia solo questioni di psicologia e di teoria degli intelletti. Ha composto anche quaestiones sulla logica e dei commenti sul De generatione et corruptione e sulle Meteore di Aristotele. Come la maggior parte dei medici di quel tempo, la sua partecipazione e l'impegno nella vita politica sono forti. Tra gli anni 1319-1320, risiede a Milano, come consigliere e medico di Matteo Visconti. Un documento lo prova coinvolto in un affare politico della massima importanza. In seguito, interrogato dopo poco ad Avignone, un sacerdote milanese, Bartolomeo Cagnolati, riferì di aver partecipato ad una riunione nel mese di ottobre 1319, durante la quale, in presenza di Antonio da Parma, Matteo Visconti gli avrebbe chiesto di provocare la morte del Papa attraverso incantesimi e fumigazioni applicati ad una statuetta che raffigurava Giovanni XXII. Essendosi rifiutato di eseguire questa operazione, Matteo avrebbe allora suggerito ad Antonio di recarsi lui a Verona, presso la corte di Cangrande della Scala, per eseguire l'operazione richiesta. Tuttavia, dopo una breve prigionia, Bartolomeo era stato nuovamente chiamato per realizzare l’operazione stavolta da Galeazzo Visconti, figlio di Matteo, che avrebbe minacciato di chiamare “Dante Aliguero”, migliore mago di lui. Quali che siano state le reali qualifiche, dei differenti protagonisti, nelle scienze occulte, l’episodio mostra il ruolo d’intermediario che aveva Antonio tra i leader della alleanza tra i ghibellini di Lombardia e i suoi probabili rapporti con Dante. Di fatto, alla morte di Matteo Visconti, Antonio si rifugiò a Verona per chiedere la protezione di Cangrande. Morto nel 1327, fu sepolto con la moglie, la marchesa Mabilia Pallavicini, a Verona, nella chiesa di San Fermo Maggiore. La sua tomba, sfarzosa e realizzata secondo la moda bolognese, dimostra l'importanza di questo personaggio, che sarebbe stato stato citato per due secoli come uno dei più grandi medici della sua generazione. Cangrande non sopravisse che due anni a Antonio da Parma. Nello stesso anno (1327), l'esecuzione di Cecco d'Ascoli a Firenze il 16 settembre, venne eseguita due settimane dopo la morte naturale di Dino del Garbo. Questi decessi, che sono anche accidentali e contingenti, tuttavia, segnano la fine di un’epoca. Astronomo rinominato, maestro attivo a Bologna almeno dal 1318, Cecco era stato per la prima volta denunciato dall'Inquisizione nel 1324. I termini di questa condanna non sono noti con precisione ma la sentenza si è probabilmente convertita in una sospensione temporanea dall’insegnamento e nell’interdizione permanente d’insegnare o sostenere certe tesi. Questa supervisione dell’Inquisizione poté indurlo a lasciare Bologna, nel 1326, per raggiungere a Firenze l’entourage di Carlo di Calabria, figlio di Roberto d’Angiò, che era stato appena nominato protettore della città Toscana. Può essere che Cecco cercasse tanto un reddito sostanziale quanto una protezione politica. La sua caduta fu quasi istantanea. Le ricerche successive hanno certamente forzato i fatti. Esse sottolineano e mostrano sia una denuncia di Dino del Garbo che sarebbe stato geloso dell’arrivo di un concorrente, sia l’attitudine di Cecco stesso, che avrebbe fatto delle previsioni astrologiche nefaste per i figli del principe. Consegnato all’inquisitore e giudicato di nuovo per essere ritornato alle credenze per le quali era stato condannato a Bologna, egli fu arso vivo sul campo. Nell’entourage di Carlo di Calabria figuravano anche tre laici — i primi provenienti dal sud Italia che menzioniamo in queste pagine — che sarebbero stato in seguito corrispondenti di Petrarca. Come ha mostrato Samantha Kelly, non c’è tuttavia bisogno di sopravvalutare l’importanza di questi personaggi di secondo piano. Questo incontro tra gli uomini del sud e del centro Italia potrebbe avere avuto degli effetti, ma solamente in modo più generale. Nell’immediato, è molto importante notare, nello stesso 1327, l’arrivo a Firenze dell’umanista Geri d’Arezzo, che portò con sé una tradizione di studio dei classici latini sviluppata qualche decennio prima nella città aretina, che era il solo centro di studi capace di competere con Padova in questa materia. Ma la svolta più determinante è di altra natura. Politicamente e militarmente, al termine di un decennio di lotte, questi anni vedono la definitiva sconfitta ghibellina di fronte al papato e ai suoi alleati. La nuova impresa imperiale di Ludovico il Bavaro, arrivando finalmente a Roma per essere incoronato nell’aprile 1328 dopo anni di tergiversazioni, si concluse in un fiasco. Tranne Marsilio da Padova, i suoi principali sostenitori erano francescani, tutti italiani tranne Guglielmo da Ockham che venne coinvolto accidentalmente nell’avventura. La dimensione religiosa scismatica di questa impresa (Ludovico fece eleggere un anti-papa prima della sua incoronazione) ha, senza alcun dubbio, contribuito a impedire l’adesione degli intellettuali laici che, al contrario, aveva avuto Enrico VII di Lussemburgo. La conseguenza immediata di questo fallimento è stato una destabilizzazione degli equilibri politici della penisola, ormai polarizzati attorno alle corti di Avignone e Napoli. Questa nuova situazione politica ebbe un impatto significativo sulle forme e gli aspetti culturali; gli intellettuali italiani della nuova generazione, in generale, abbracciarono la carriera ecclesiastica. Nel suo manifesto per il rinnovamento della storia della filosofia medievale, Alain de Libera metteva in discussione il primato accordato all’intellettuale parigino, affermando che la «comunità dei saperi» nel Medioevo è «trasversale, animata, e impossibile da identificare con un luogo di residenza». Dante era tuttavia molto solo, al pari di Meister Eckhart, nel dare corpo a questa definizione programmatica. La formula è giusta, forse ancor più di quanto non lo immaginasse il suo autore quando la scriveva. Nel tentativo di illuminare tra loro una serie di opere intellettuali principali, prodotte da uomini appartenenti alla stessa generazione, senza cadere nella trappola di divisioni disciplinari, abbiamo mostrato un panorama «trasversale e animato» del pensiero medievale, cogliendolo nelle sue espressioni accademiche e letterarie. In conclusione, l’Alighieri è tutt’altro che un attore isolato e un genio solitario. Il quadro è lontano dall’essere completo, dal momento che abbiamo volutamente evitato di trattare l’Italia religiosa di questo stesso periodo. Ci troveremmo dei personaggi molto attivi e versatili come gli studiosi laici che abbiamo seguito, come Ubertino da Casale, o altri usi colti della poesia volgare, come nelle Laudi di Iacopone da Todi. La componente femminile avrebbe potuto essere più presente, se avessimo incluso una serie di grandi mistiche. Questo quadro storico non ha mirato che a far risaltare il ruolo preponderante che giocarono gli intellettuali laici, un ruolo che non si ritrova da nessun’altra parte d’Europa prima del XVI secolo. Ciò non implica nessuna estraneità degli studiosi nei confronti della religione. Per convincersene, è sufficiente ricordarsi che Pietro d’Abano, seppure sospettato di eresia ed ateismo, si fece inumare presso i francescani di Padova, all’interno della basilica di Sant’Antonio, in un convento dove allora risiedeva un altro parente di Lovato, Bernardo de Piazzola. Per finire, bisogna infine sottolineare che le conclusioni di questa inchiesta sull’Italia valgono ugualmente per altre regioni d’Europa. Una volta messo in luce il fenomeno nel suo complesso, ciò ci permette di scoprire altrove forme analoghe in circostanze meno fertili. Così in Catalogna si ritrovano, per le stesse date, altri intellettuali laici come Arnaldo di Villanova e Raimondo Lullo che intervennero con fragore nel dibattito teologico, nonostante fossero stati entrambi rigettati sistematicamente dalla facoltà parigina. Non è d’altronde sorprendente scoprire che Lullo e Pietro d’Abano avevano legato durante il loro soggiorno a Parigi. Lo studio degli incontri tra medici, astronomi e filosofi nella facoltà delle Arti parigina in un dato periodo meriterebbe senza dubbio di essere condotto nel dettaglio, all’interno di un’ottica che non si focalizzi sul problema degli effetti delle condanne del 1277. Ugualmente, l’interazione tra saperi scolastici e la letteratura volgare avrebbe bisogno di essere esaminata seriamente. In Inghilterra, è interessante che il rinnovato interesse per gli autori classici cominci negli stessi anni di Padova o di Arezzo, grazie al francescano Giovanni di Galles, seguito dal domenicano Nicola Trevet, sebbene in una forma molto meno erudita. Nondimeno, il movimento è proseguito e ha dato vita, nei primi decenni del XIV secolo, ad una produzione degna d’interesse. Sebbene i risultati di questo studio possono quindi valere a una scala maggiore, resta comunque il fatto che questa stagione italiana presenta un carattere distintivo innegabile.