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La Redazione ha sede presso il DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA dell’Università di Ferrara, Corso Ercole I d’Este, 37 - 44100 Ferrara Tel. e Fax 0532.455.957 - E-mail: [email protected].
Curatori:
G. CIAN - A. MAFFEI ALBERTI - P. SCHLESINGER
Direzione:
G. BALENA - M. CAMPOBASSO - M. CIAN - G. DE CRISTOFARO - M. DE CRISTOFARO - F. DELFINI - G. GUERRIERI - M. MELI - S. MENCHINI - E. MINERVINI - S.
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Comitato scientifico:
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N. 4
ANNO XXXIX
LUGLIO-AGOSTO 2016
LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
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Referaggio - Norme di autodisciplina
1. I contributi inviati alla Rivista per la pubblicazione vengono vagliati dalla
Direzione e successivamente sottoposti alla valutazione della stessa Direzione
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per volta dalla Direzione in considerazione delle sue competenze settoriali.
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LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
ANNO XXXIX
2016
RIVISTA BIMESTRALE
a cura di
Giorgio CIAN
Alberto MAFFEI ALBERTI
Piero SCHLESINGER
Università di Padova
Università di Bologna
Università Cattolica di Milano
Direzione
Giampiero BALENA
Mario CAMPOBASSO
Marco CIAN
Giovanni DE CRISTOFARO
Marco DE CRISTOFARO
Francesco DELFINI
Gianluca GUERRIERI
Marisa MELI
Sergio MENCHINI
Enrico MINERVINI
Stefano PAGLIANTINI
Davide SARTI
Ord. dell’Università di Bari
Ord. della Seconda Univ. di Napoli
Ord. dell’Università di Padova
Ord. dell’Università di Ferrara
Ord. dell’Università di Padova
Ord. dell’Università di Milano
Ord. dell’Università di Bologna
Ord. dell’Università di Catania
Ord. dell’Università di Pisa
Ord. della Seconda Univ. di Napoli
Ord. dell’Università di Siena
Ord. dell’Università di Ferrara
Redazione
Arianna Finessi (Redattore capo)
Sara Bellettato, Marcello Farneti, Cristiana Fioravanti,
Francesco Oliviero, Silvia Schiavo, Omar Vanin
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INDICE-SOMMARIO
ANNO XXXIX - N. 4 – Luglio-Agosto 2016
LE NUOVE LEGGI
Dal diritto vivente al diritto vigente: la nuova disciplina delle convivenze. Prime
riflessioni a margine della l. 20 maggio 2016, n. 76 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di FILIPPO ROMEO
665
I contratti di convivenza (art. 1, commi 50º ss., l. 20 maggio 2016, n. 76) . . . . . .
di GIOVANNI DI ROSA
694
Il prestito vitalizio ipotecario nel nuovo ‘‘sistema’’ delle garanzie reali . . . . . . . . .
di ANTONELLO IULIANI
717
Delibera AGCOM 519/15/Cons e Regolamento UE n. 2120/2015: due occasioni
mancate per la tutela degli utenti nei contratti aventi ad oggetto servizi di
comunicazione elettronica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di GIULIA GABASSI
746
SAGGI E APPROFONDIMENTI
Registro delle imprese ed altri strumenti pubblicitari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di MARCO CIAN
793
Ancora sulla ‘‘saga’’ dei derivati (note minime sul principio di effettività e sui c.d.
vizi del XXI secolo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di STEFANO PAGLIANTINI
808
Concorrenza e level playing field europeo nella gestione collettiva dei diritti d’autore e connessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di DAVIDE SARTI
841
I poteri di vigilanza della Banca d’Italia alla luce delle nuove norme sulla crisi
bancaria. Riflessioni sulla disciplina con particolare riferimento al caso della
Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.a. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di TANIA TOMASI
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LE NUOVE LEGGI
FILIPPO ROMEO (*)
Professore nell’Università “Kore” di Enna
DAL DIRITTO VIVENTE AL DIRITTO VIGENTE: LA NUOVA
DISCIPLINA DELLE CONVIVENZE. PRIME RIFLESSIONI A
MARGINE DELLA L. 20 MAGGIO 2016, N. 76
SOMMARIO: 1. Le relazioni affettive non matrimoniali alla luce della l. 20 maggio 2016, n. 76:
caleidoscopio sempre più ricco di immagini. – 2. Regolamentazione delle unioni civili e
disciplina delle convivenze: mappe ricostruttive. – 3. I «conviventi di fatto» tra stabilità
del rapporto e legami affettivi di coppia. – 3.1 Segue: la reciproca «assistenza morale e
materiale» e l’irrilevanza dei doveri di contribuzione, fedeltà e coabitazione. – 3.2
Segue: l’assenza di «vincoli familiari» (rectius «impedimenti matrimoniali»). – 4. L’attribuzione di specifici diritti reciproci di natura non patrimoniale: luci e ombre. – 5.
Convivente di fatto e amministrazione di sostegno (brevi cenni). – 6. I diritti di contenuto patrimoniale. – 7. Riflessioni conclusive.
1. Le relazioni affettive non matrimoniali alla luce della l. 20 maggio
2016, n. 76: caleidoscopio sempre più ricco di immagini.
Il fenomeno delle «relazioni affettive non matrimoniali» – strettamente
correlato alla crisi del modello familiare istituzionalizzato dall’art. 29 della
Costituzione – raggiunge oggi il suo apice (1). A tal riguardo, non è dato
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) Molteplici appaiono le ragioni che possono indurre una coppia a non formalizzare
la propria unione nel vincolo del matrimonio: motivazioni ideologiche di carattere religioso
o di segno libertario, interessi patrimoniali o, più semplicemente, la situazione di crisi
economica che sta spingendo verso la proletarizzazione il ceto medio. Su tali profili P.
PERLINGIERI, Aspetti dei rapporti familiari personali e patrimoniali, in Il diritto civile nella
legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, p. 933.
Sul punto v. anche S. PATTI, Il diritto di famiglia nei paesi dell’unione europea: prospettive di
armonizzazione, in AULETTA (a cura di), Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, Milano, 2007, p. 21 s. Spunti di sicuro interesse si rinvengono in
SCHLESINGER, Quarant’anni di riforme del diritto di famiglia, in Fam. e dir., 2015, p. 970 s.
Sul complesso intreccio «famiglia-società-diritto» v. le riflessioni di PALMERI, La famiglia
omosessuale. Linee di tendenza e prospettive, in F. ROMEO (a cura di), Le relazioni affettive
non matrimoniali, Torino, 2014, p. 45, ove si sottolinea come le dinamiche familiari siano
«particolarmente sensibili ai mutamenti determinati dalla pratica quotidiana delle relazioni
umane, dall’espansione dei confini degli ordinamenti oltre il rigido (e formale) spazio della
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
dubitare che l’approvazione del d.d.l. Cirinnà sulla «Regolamentazione
delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»
segna una sorta di «point de non retour»: si materializza la definitiva presa
d’atto della rilevanza assunta, anche sul piano del diritto vigente, da taluni
vincoli affettivi non fondati sul matrimonio (2).
A distanza di ventotto anni dalla presentazione alla Camera dei Deputati della prima Proposta di Legge sulla «Disciplina della famiglia di
fatto» (c.d. Proposta di Legge Cappiello, dal nome della deputata prima
firmataria) (3), l’Italia si allinea oggi alla maggior parte dei Paesi europei
firmatari della «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle Libertà fondamentali» che, già da molto tempo, hanno attribuito
piena rilevanza giuridica alle unioni omosessuali ed alle convivenze non
matrimoniali (4). La promulgazione della legge 20 maggio 2016, n. 76 sulla
cittadinanza, dal moltiplicarsi del sistema delle fonti del diritto». Conseguentemente, ogni
riflessione sulla «famiglia» non può prescindere dal confronto «con il concetto che di tale
realtà hanno gli uomini e le donne presenti in un determinato àmbito culturale e ordinamentale, al fine di verificare se vi sia una corrispondenza tra coscienza sociale e regola
giuridica, se esista un soddisfacente punto di equilibrio fra spazi di libertà e interventi
prescrittivi, ancora se possano considerarsi attualmente compatibili scelte normative assunte
in epoche e contesti storici profondamente differenti da quello attuale». Su tali profili, da
ultimo, v. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte
della famiglia?, in questa Rivista , 2016, p. 371, ove si sottolinea come, allo stato attuale, il
moltiplicarsi di modelli di unioni affettive a carattere familiare sia «un dato di fatto indiscutibile ed anche socialmente accettato».
(2) Sull’affermazione di nuovi modelli familiari non coniugali sia consentito rinviare a
F. ROMEO, Famiglia: sostantivo plurale?, in Diritto delle successioni e della famiglia, 2015, p.
67 ss.
(3) Ci si riferisce alla Proposta di Legge n. 2340 del 12 febbraio 1988 presentata alla
Camera dei Deputati nel corso della X Legislatura. La Proposta di Legge prendeva le mosse,
come precisato nel preambolo, dall’emersione di «un nuovo modello di famiglia, non più
fondato esclusivamente sul vincolo formale del matrimonio, ma piuttosto sul consenso e
sulla solidarietà, liberamente posti in essere con l’intento di attuare una piena comunione di
vita materiale e spirituale». Affievolita, pertanto, risultava «la distinzione tra famiglia quale
istituzione fondata sul matrimonio e funzione familiare, che non viene più attribuita soltanto
alla famiglia legittima ma viene ormai assolta anche dalla famiglia di fatto».
(4) Occorre ricordare che l’Italia era uno dei pochi Paesi europei a non prevedere
alcun tipo di riconoscimento delle unioni same-sex. Allo stato attuale diversi Stati – da
ultimo l’Irlanda – riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. In alternativa,
ormai da tempo, si prevedono forme di riconoscimento diverse dal matrimonio. Su tali
profili v. FERRANDO, Matrimonio same-sex: Corte di cassazione e giudici a confronto, nota a
Cass. 9 febbraio 2015, n. 2400 e Trib. Grosseto 26 febbraio 2015, in Corr. giur., 2015, p.
915 s. In questa direzione spunti interessanti si rinvengono in PALMERI, op. cit., p. 50 s., ove
si osserva come «la tenuta di un sistema in origine ispirato a una tendenziale omogeneità
sociale è, dunque, attualmente messa in crisi dall’affacciarsi sulla scena di famiglie che
presentano elementi di profonda differenziazione rispetto al modello classico uomo-donna
e che insistentemente rivendicano dall’ordinamento risposte puntuali ed esplicite in termini
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le nuove leggi
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«regolamentazione delle unioni civili» e «disciplina delle convivenze» –
almeno da questo punto di vista – rappresenta un approdo di grande
importanza (5). Peraltro, il dato assume una peculiare valenza alla luce
degli insuccessi degli ultimi dieci anni. Tutti i tentativi di regolamentazione
delle convivenze sono rimasti, infatti, lettera morta (6).
di attuazione, riconoscimento e protezione dei loro diritti e libertà fondamentali (il diritto di
creare una famiglia, di sposarsi, di dare vita a un rapporto di filiazione, di dare visibilità alla
relazione di fatto con i minori quotidianamente accuditi in ragione del legame affettivo e di
convivenza instaurato con il genitore legale)». Muovendosi in tale direzione, autorevole
dottrina (cfr. SCALISI, ‘Famiglia’ e ‘famiglie’ in Europa, in Riv. dir. civ., 2013, p. 7 ss.)
sottolinea come il termine famiglia in Europa sia oggi sinonimo di istituzione plurale. Si
osserva che per quanto il modello più diffuso resti quello della famiglia eterosessuale
monogamica fondata sul matrimonio, non sono pochi gli stati membri che ammettono anche
le convivenze non matrimoniali, sia registrate che di fatto, sia etero che omosessuali, come
pure lo stesso matrimonio same sex, con discipline variamente diversificate, sebbene assai
spesso similari a quelle della famiglia tradizionale, il più delle volte ottenute con la tecnica
del rinvio, oppure rimesse alla libera determinazione pattizia. Sia pure con significative
diversità di accenti, v. anche S. PATTI, Modelli di famiglia e di convivenza, in PATTI e
CUBEDDU, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, p. 111 ss.; DI ROSA,
Forme familiari e modello matrimoniale tra discipline interne e normativa comunitaria, in Eur.
e dir. priv., 2009, p. 755 ss.
(5) La legge 20 maggio 2016, n. 76 recante «Regolamentazione delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» (in G.U. n. 118 del 21 maggio
2016), introduce una disciplina organica (ma non sempre coerente) che segna, inevitabilmente, un momento di svolta nel quadro dell’articolato, lungo e tormentato dibattito relativo alla opportunità di disciplinare le unioni non fondate sul matrimonio mediante un
regolamento normativo ovvero di affidarsi all’opera della giurisprudenza e dell’autonomia
della parti. Su tali profili v. le riflessioni di AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, cit., p. 367, il quale sottolinea come guardando alla legge in esame occorrerà chiedersi se la stessa sia innanzitutto compatibile con i
principi costituzionali e, nell’ipotesi affermativa verificare se vada accolta positivamente o
meno o addirittura se possa configurare un attentato alla stabilità e integrità della famiglia
tradizionale fondata sul matrimonio. Invero, secondo parte della dottrina la novella legislativa fa la sua apparizione «in un contesto in cui si è già compitamente consumato lo
sgretolamento biunivoco del rapporto tra famiglia e matrimonio, il quale già aveva tratto
impulso dall’entrata in vigore della legge sul divorzio, era passato attraverso la riforma del
diritto di famiglia e aveva ricevuto ulteriore implementazione in virtù della legge sull’affidamento condiviso, nonché della riforma della filiazione» (cfr. CAMPIONE, L’unione civile tra
disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, in AA.VV., La nuova
regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, p. 1 s. Sul punto v. le
puntuali osservazioni di SESTA, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. e dir., 2013, p. 231). Per una puntuale ed efficace sintesi dei momenti
più significativi che hanno preceduto l’approvazione della legge in esame v. GORGONI, Le
convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, in GORGONI (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto. L. 20 maggio
2016, n. 76, Santarcangelo di Romagna, 2016, p. 167 ss.
(6) Può essere utile ricordare che durante la XV legislatura il Governo mise a punto un
disegno di legge sui «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi – Di.co», che
presenta molti punti di contatto con la l. n. 76/16. Il provvedimento – varato dal Consiglio
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Peraltro, non si può fare a meno di ricordare che la mancata regolamentazione delle unioni «same sex» ha esposto il nostro Paese a non pochi
rilievi critici da parte delle più alte magistrature sia a livello europeo sia a
livello nazionale. Paradigmatico, da ultimo, risulta l’intervento della Corte
di Strasburgo che con la nota «sentenza Oliari» del 21 luglio 2015 ha
rimproverato al nostro Paese il mancato assolvimento, in violazione dell’art. 8 CEDU, dell’obbligo di assicurare, per il tramite di apposita normativa, riconoscimento e tutela alle coppie dello stesso sesso (7). Non
dei Ministri in data 8 febbraio 2007 – aveva l’obiettivo di tutelare i soggetti più deboli nella
convivenza, superando cosı̀ ogni disparità e disuguaglianza tra i cittadini. Nel pieno rispetto
dell’art. 29 Cost., il disegno di legge non prevedeva nuovi istituti giuridici para-matrimoniali;
viceversa, poneva l’attenzione sui diritti dei conviventi. In particolare, a seguito di una
semplice registrazione anagrafica, si prevedeva il sorgere in capo ai conviventi di un complesso di diritti, doveri e facoltà. Il progetto era indirizzato a persone maggiorenni e capaci,
anche dello stesso sesso, stabilmente conviventi e legate da vincoli affettivi di solidarietà e
reciproca assistenza. In particolare, si stabiliva che in caso di malattia o ricovero le strutture
sanitarie regolassero l’esercizio del diritto di accesso del convivente per fini di visita e di
assistenza; che ciascun convivente potesse rappresentare l’altro come suo rappresentante in
caso di malattia o di morte, per concorrere alle decisioni in materia di salute ovvero per
decidere in merito alla donazione di organi. Con riferimento alle previsioni dedicate ai
trattamenti previdenziali e pensionistici si stabiliva, tra l’altro, l’attribuzione di una prestazione al convivente commisurata alla durata della convivenza e alle condizioni economiche e
patrimoniali del convivente superstite. Il disegno di legge, inoltre, prevedeva che trascorsi
nove anni dall’inizio della convivenza, il partner potesse concorrere in misura variabile in
base alla presenza di altri legittimari, alla successione legittima dell’altro. Infine, in una
logica solidaristica, si prevedeva l’obbligo di prestare assistenza in favore del convivente
in stato di bisogno.
Il disegno di legge venne ben presto accantonato per far posto ad un successivo
progetto di legge elaborato dal Presidente della Commissione Giustizia del Senato Cesare
Salvi. La proposta, non discussa dal Parlamento a causa del suo scioglimento, prevedeva –
attraverso una sostanziale riforma del libro primo del codice civile – la possibilità di concludere un contratto tra due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, per l’organizzazione della vita in comune. In base a tale «contratto di unione solidale» (c.d. C.U.S.), da
registrarsi presso l’archivio notarile competente, le persone maggiorenni conviventi potevano organizzare la vita in comune e gestire la fase successiva all’eventuale scioglimento del
rapporto. Occorre sottolineare che, pur non scaturendo dal contratto l’attribuzione di alcun
status familiare, venivano riconosciuti ai soggetti firmatari molteplici diritti e doveri. In
particolare, il testo prevedeva una serie di agevolazioni in materia di lavoro, il diritto a
subentrare nel contratto di locazione nonché il diritto – in base alla durata della convivenza
– di ricevere un quarto, la metà o tutta l’eredità nonché di ricevere la pensione di reversibilità. Nessun seguito, inoltre, ebbero le diverse proposte di legge presentate durante la XVI
Legislatura, tra le quali si segnala la proposta di legge Barani relativa alla «Disciplina dei
diritti e doveri reciproci dei conviventi» (c.d. DI.DO.RE) presentata nel 2008 e la proposta
di legge Perduca relativa alla «Disciplina dell’unione civile» presentata nel 2010.
(7) La sentenza, alla luce dei precedenti della Corte EDU, ha rappresentato una tappa
molto importante nell’accidentato percorso di riconoscimento delle unioni same-sex in Italia.
Per un primo commento a Corte EDU 21 luglio 2015 v. SCAFFIDI RUNCHELLA, Ultreya coppie
same-sex! La Corte europea sul caso Oliari e altri v. Italia, in www.articolo29.it.; BRUNO,
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le nuove leggi
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meno rilevante, inoltre, appare la valenza della pronuncia della Corte
costituzionale 15 aprile 2010, n. 138, la quale ha rilevato che tra le formazioni sociali tutelate dall’ordinamento è da ricomprendere anche l’unione
omosessuale intesa come «stabile convivenza tra due persone dello stesso
sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi e nei modi stabiliti dalla legge –
il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» (8). Significativa,
infine, risulta la pronuncia della Corte costituzionale 11 giugno 2014, n.
170, laddove – in modo perentorio – si afferma la necessità di introdurre
una tutela normativa dell’unione tra persone già sposate, una delle quali
abbia ottenuto il riconoscimento del mutamento di sesso e rispetto alle
quali il vincolo matrimoniale si è conseguentemente sciolto (9).
Ciò premesso, la legge appena varata si innerva in una peculiare fase
evolutiva del nostro diritto di famiglia che vede la contrapposizione tra
«unicità dello stato di filiazione» e «pluralità dei modelli familiari» (10). In
Oliari contro Italia: la dottrina degli “obblighi positivi impliciti” al banco di prova delle unioni
tra persone dello stesso sesso, in Fam. e dir., 2015, p. 1069; LENTI, Prime note in margine al
caso Oliari c. Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 575, il quale non si stupisce più di
tanto della condanna a carico del nostro Paese.
(8) Cfr. Corte cost. 14 aprile 2010, n. 138, in Fam. e dir., 2010, p. 653 ss., con nota di
GATTUSO. Sul tema v. anche PEZZINI, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione
della discrezionalità del legislatore nella sent. n. 138 del 2010 della Corte costituzionale, in
Giur. cost., 2010, p. 3.
(9) Cfr. Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170, in Corr. giur., 2014, p. 1041, con nota di
AULETTA, Mutamento di genere e disciplina del rapporto di coppia; in Foro it., 2014, c. 2680
con nota di ROMBOLI, La legittimità costituzionale del “divorzio imposto”: quando la corte
dialoga con il legislatore, ma dimentica il giudice; in Foro it., 2014, c. 2685 con nota di S.
PATTI, Il divorzio della persona transessuale: una sentenza di accoglimento che non risolve il
problema. Sulla richiamata pronuncia v. anche PALMERI, VENUTI, L’inedita categoria delle
unioni affettive con vissuto giuridico matrimoniale. Riflessioni critiche a margine della sentenza della corte costituzionale 11 giugno 2014, n. 170 in materia di divorzio del transessuale,
in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, p. 553 ss.
(10) La l. n. 76/16, come già sottolineato, costituisce la definitiva presa d’atto della
rilevanza assunta da talune «relazioni affettive non matrimoniali». A tal riguardo, tuttavia,
non si può sottacere che il nostro legislatore attraverso la legge 10 dicembre 2012, n. 219
recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio» – sia
pur indirettamente – avesse finito con il depotenziare il ruolo della famiglia fondata sul
matrimonio, favorendo cosı̀ l’approvazione di una disciplina sulle unioni non matrimoniali.
Da ultimo, v. la puntuale e suggestiva analisi di PARADISO, Filiazione, stato di figlio e gruppi
familiari tra innovazioni normative e riforme annunciate, in Diritto delle successioni e della
famiglia, 2016, p. 104 s., il quale sottolinea come nel breve volgere di pochi anni si è passati
dalla preconizzata morte della famiglia ad un’inedita proliferazione di modelli familiari. Non
privo di conseguenze appare lo scenario che si è venuto a materializzare nel corso degli anni:
autorevole dottrina, a tal riguardo, ha sottolineato come un tale assetto abbia finito con il
mettere in crisi l’idea stessa di famiglia giuridicamente riconoscibile in quanto fondata sul
matrimonio (SCHLESINGER, Quarant’anni di riforme del diritto di famiglia, cit., p. 971).
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
particolare alla luce della legge 20 maggio 2016, n. 76 si materializza un
caleidoscopio sempre più ricco di immagini da inventariare: accanto alla
famiglia fondata sul matrimonio si affermano le «unioni civili»; le convivenze «registrate»; le convivenze «contrattualizzate»; le convivenze «same
sex». A tali modelli normativi si affiancano altri fenomeni familiari socialmente diffusi: la convivenza di «mero fatto», cioè non dichiarata all’anagrafe; la c.d. famiglia «monogenitoriale»; la c.d. famiglia «ricomposta» (11).
Inoltre, come rilevato da autorevole dottrina, prende forma un’altra inedita relazione affettiva non matrimoniale con coniugi-genitori dello stesso
sesso: da oggi, infatti, sarà possibile la trasformazione del matrimonio in
unione civile quando uno dei coniugi ottenga la rettificazione di sesso (12).
Si affermano, a ben vedere, «schemi familiari plurali» ricomponibili a
piacere. Ciascun coniuge, ad esempio, è titolare del diritto soggettivo di
separarsi, di divorziare e di costituire una nuova famiglia fondata sul
matrimonio ovvero di dare luogo ad una «relazione affettiva non matrimoniale» socialmente diffusa o regolata dalla legge. Peraltro, non si può fare a
meno di rilevare come, in questo variegato e articolato «arcipelago familiare» (13) il figlio divenga oggi il vero protagonista del diritto di famiglia (14). In quest’ottica, significative conferme si ritrovano in quello che
può definirsi l’asse portante della Riforma (i.e. artt. 315, 315 bis e 316
c.c.) (15).
(11) Con l’espressione «famiglia ricomposta» si suole fare riferimento all’unione, formata da conviventi, di cui almeno uno proveniente da una precedente esperienza familiare e
dalla presenza di figli dell’uno e/o dell’altro partner. Tale peculiare modello familiare si
connota per i suoi confini incerti in cui si mettono in discussione i concetti di parentela e di
genitorialità biologica e le relative attribuzioni di diritti e doveri. Come osservato in dottrina,
infatti, scaturiscono «reti di relazioni complesse, posto che tra adulti e bambini si instaurano
rapporti di genitorialità non omogenei, con possibilità di sovrapposizioni tra i diversi tipi di
genitorialità, quella biologica e quella acquisita» (cfr. TOMMASINI, La famiglia di fatto, in
AULETTA (a cura di), Famiglia e matrimonio, in Tratt. Bessone, IV, Torino, 2010, p. 397). Sul
tema specifico delle famiglie ricomposte v. AULETTA, La famiglia rinnovata: problemi e
prospettive, in AA.VV., Scritti in onore di C.M. Bianca, II, Milano, 2006, p. 25 ss.; FERRANDO,
Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in AULETTA (a cura di), Bilanci e prospettive del diritto
di famiglia a trent’anni dalla riforma, Milano, 2007, p. 284 ss.
(12) Sul punto v. PARADISO, op. cit., p. 105.
(13) Parla di «arcipelago familiare» BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv.
dir. civ., 2002, I, p. 509.
(14) Ampiamente condivisibili, a tal proposito, appaiono le puntuali considerazioni di
PARADISO, op. cit., p. 113 ss.
(15) Si pensi, all’art. 315 c.c. che, riconoscendo l’unicità dello stato di figlio, traccia il
«filo rosso» dell’intera Riforma ovvero all’art. 315 bis c.c. che – nel sancire il diritto del figlio
ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori – chiede il «rispetto» e non la mera considerazione delle «capacità, inclinazioni e aspirazioni del figlio». Il
medesimo articolo, inoltre, sancisce il diritto del figlio «di crescere in famiglia» e il diritto di
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2. Regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze:
mappe ricostruttive.
Ovviamente, non è questa la sede per commentare i controversi passaggi politici degli ultimi mesi ovvero il dibattito politico – aspro e astioso
– che ha preceduto la votazione della legge alla Camera dei Deputati (16).
Invero, appare utile tracciare delle prime «mappe ricostruttive». A tal
riguardo, occorre subito segnalare criticamente che la l. n. 76/16 si compone di un solo articolo e di un’infinità di commi (17). In particolare, la
legge in esame disciplina dapprima le «unioni civili» tra persone dello
stesso sesso e, ricorrendo allo schema delle unioni registrate, prevede
effetti – come rilevato già dai primi commentatori – sostanzialmente equivalenti al matrimonio (commi dal 1˚ al 35˚) (18). Con riferimento alle «convivenze», viceversa, si limita a prevedere alcuni effetti per la coppia ete-
«ascolto del minore (…) in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano». Non meno
rilevante, inoltre, appare la riconfigurazione – operata dall’art. 316 c.c. – della potestà in
termini di «responsabilità genitoriale», con ciò mettendosi in evidenza che tratto specifico di
essa è l’assunzione di responsabilità verso la prole che si estende ben oltre la minore età dei
figli.
(16) Non si può fare a meno di evidenziare che il dibattito, molto spesso sbilanciato
verso i profili ideologici, ha marginalizzato una riflessione seria sulle scelte di tecnica legislativa poste in essere dal legislatore. Il testo definitivamente approvato – frutto dell’inevitabile compromesso parlamentare – sembra poi ispirarsi alla logica del “meglio piuttosto che
niente” (cfr. GORGONI, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra
imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, cit., p. 186).
(17) Viene utilizzata, in buona sostanza, la tecnica usata per la c.d. legge di stabilità.
(18) Cfr. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o
morte della famiglia?, in questa Rivista , 2016, p. 378; ID., Modelli familiari, disciplina
applicabile e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2015, p. 616; BALESTRA, Unioni civili
e convivenze di fatto: brevi osservazioni in ordine sparso, in www.Giustiziacivile.com, 2016, p.
3 ove si sottolinea come «l’unione civile viene disciplinata attraverso l’applicazione diretta di
norme contemplate in ambito matrimoniale ovvero mediante la predisposizione di regole
che, di fatto, riproducono, salva qualche variante, il contenuto di disposizioni concernenti il
matrimonio». Sul tema delle unioni civili utili spunti di riflessione si rinvengono in alcuni
contributi pubblicati prima dell’entrata in vigore della l. n. 76/16. A tal riguardo, v. QUADRI,
Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze:
osservazioni (solo) a futura memoria?, in www.Giustiziacivile.com , 2016, p. 1 ss.; TRIMARCHI,
Il disegno di legge sulle unioni civili e sulle convivenze: luci e ombre, in www.juscivile.it, 2016,
1, p. 1 ss.; FERRANDO, Le unioni civili: la situazione in Italia alla vigilia della riforma, in
www.juscivile.it, 2016, 3, p. 38 ss.; IORIO, Il disegno di legge sulle «unioni civili» e sulle
«convivenze di fatto»: appunti e proposte sui lavori in corso, in questa Rivista, 2015, p. 1014
ss.
Sull’opportunità di evitare una sostanziale assimilazione ed equiparazione di trattamento tra i coniugi e i membri di una coppia same-sex v. DI ROSA, Forme familiari e modello
matrimoniale tra discipline interne e normativa comunitaria, cit., p. 769 ss. In questa direzione v. anche GIACOBBE, Famiglia, molteplicità di modelli o unità categoriale, in Dir. fam. e
pers., 2006, p. 1322 ss.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
rosessuale che convive stabilmente al di fuori dal matrimonio e per la
coppia omosessuale che non intenda accedere alla registrazione (commi
dal 36˚ al 49˚). I conviventi di fatto, inoltre, possono disciplinare i loro
rapporti patrimoniali con la sottoscrizione di un contratto di convivenza
redatto in forma scritta a pena di nullità (commi dal 50˚ al 65˚).
Come meglio vedremo – dopo circa tre decenni di dibattito – si
materializza una disciplina «leggera» che, salvaguardando la «scelta di
libertà» effettuata dai conviventi (etero ed omosessuali), finisce con l’ampliare (almeno in taluni casi) la tutela del convivente debole rispetto a
quella già prevista a livello normativo e giurisprudenziale. Tuttavia, come
avremo modo di chiarire, già ad una prima lettura, il nuovo «statuto» delle
convivenze si connota per essere poco organico e poco innovativo.
Sempre nella prospettiva di tracciare delle «mappe ricostruttive» appare utile segnalare che:
a) con riferimento alle coppie «same sex» si introduce un modello di
«unione registrata» (19). La legge, pertanto, seguendo il prototipo tedesco
della partnership, esclude la possibilità di celebrazione di un matrimonio (20). Quest’ultimo rimane ad appannaggio delle sole coppie eterosessuali (21).
b) con riferimento alle coppie «same sex» che non intendono registrare
la loro unione si prevede la possibilità di accedere alle tutele previste per le
(19) In base all’art. 1, comma 1˚, l. n. 76/16 due persone maggiorenni dello stesso sesso
possono dare luogo ad un’unione civile quale specifica formazione sociale ai sensi degli artt.
2 e 3 della Costituzione. L’unione civile si costituisce – in base a quanto previsto dall’art. 1,
comma 2˚ – mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale dello stato civile ed alla presenza di
due testimoni. L’introduzione di una normativa fra persone del medesimo sesso oltre a
colmare un vuoto legislativo, cancella – almeno in parte – la rilevante diversità di trattamento tra etero e omosessuali: oggi è concesso anche alle coppie same-sex di costituire un
modello familiare riconosciuto in modo certo dall’ordinamento. Sul tema si rinvia all’approfondita analisi di PALMERI, La famiglia omosessuale. Linee di tendenza e prospettive, cit.,
p. 45 ss.
(20) In Germania l’istituto della “convivenza registrata” è regolato dalla l. 16 febbraio
2001 denominata atto di partnership civile (lebenspartnerschaftsgesetz). Il legislatore – in
questo modo – ha previsto a favore dei conviventi registrati diritti simili a quelli dei coniugi
senza giungere ad equiparare la convivenza al matrimonio. Per un primo puntuale commento alla legge sulla partnership civile v. CARICATO, La legge tedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss. Per una ricognizione sulle soluzioni adottate, nel corso di
questi anni, negli altri ordinamenti v. FERRANDO, Il matrimonio, in Tratt. Cicu-Messineo,
Milano, 2015, p. 295 ss.; PALMERI, La famiglia omosessuale. Linee di tendenza e prospettive,
cit., p. 55 ss. Sul punto spunti di sicuro interesse si rinvengono in D. MESSINETTI, Diritti della
famiglia e identità della persona, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 137 ss.
(21) La portata di questo dato appare di non secondaria importanza. Sul punto si
tornerà nel prosieguo del discorso (v. infra, § 7).
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coppie stabilmente conviventi eterosessuali. Viene meno, pertanto, ogni
discriminazione legata all’orientamento sessuale: la regolamentazione dei
profili personali e patrimoniali del rapporto appare «gender neutral» (22).
c) sempre con riferimento alle coppie «same sex» viene esclusa la
possibilità di ricorrere alla c.d. «stepchild adoption».
d) con riferimento alle coppie stabilmente conviventi occorre subito
segnalare l’abbandono dell’espressione «famiglia di fatto» che – a ben
vedere – ha rappresentato, sotto il profilo dell’evoluzione terminologica,
un significativo traguardo nell’ottica di un mutato giudizio di valore (23).
Viceversa si utilizza il termine «convivenza» per le coppie (etero ed omosessuali) che intendono vivere la loro relazione affettiva fuori da vincoli
rigorosamente formalizzati (24).
e) le coppie (etero ed omosessuali) stabilmente conviventi possono
regolamentare puntualmente il loro rapporto tramite un contratto di convivenza.
Ciò premesso, occorre prendere atto che la questione relativa alla
«stepchild adoption» ha monopolizzato l’intero dibattito politico nelle settimane antecedenti all’approdo in aula del d.d.l. Cirinnà. Conseguentemente, si è persa l’occasione per operare una seria riflessione su altri profili
(22) Sul punto v. le condivisibili riflessioni di VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel d.d.l. Cirinnà, in ROMEO e VENUTI, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle
convivenze, in questa Rivista, 2015, p. 992 ss., laddove si osserva che la regolamentazione dei
profili personali e patrimoniali del rapporto è gender neutral, «non trovando una declinazione differente in funzione dell’orientamento sessuale della coppia convivente di fatto».
(23) Probante, in tal senso, risulta l’abbandono del termine concubinato – in voga fino
agli anni settanta – e l’utilizzo del termine più neutro di convivenza more uxorio e successivamente all’espressione famiglia di fatto che, a ben vedere, racchiude in sé l’intenzione di
rimarcare come la convivenza possa assumere la valenza di elemento sufficiente a fondare
una famiglia, sia pure solo di fatto. Su tali profili v. le puntuali riflessioni di BONILINI,
Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2014, p. 38 ss. In dottrina, tuttavia, si è avanzata
qualche riserva critica sulla presunta contraddittorietà che la famiglia possa trarre origine dal
fatto (v., a tal riguardo, A. RUGGERI, «Strane» idee sulla famiglia, loro ascendenze teoriche e
implicazioni di ordine istituzionale, in La famiglia davanti ai suoi giudici, Napoli, 2014,
p. 334).
(24) Sul senso dell’utilizzo del termine «convivenza» in luogo di «famiglia» v. le riflessioni di CAGGIA, La convivenza, in PATTI e CUBEDDU, Diritto della famiglia, Milano, 2011, p.
688. In questa prospettiva spunti di sicuro interesse si rinvengono in un più recente saggio
del medesimo autore laddove si sottolinea come il tema del linguaggio e delle formule
utilizzate dal legislatore si presenta come una prospettiva di analisi che dischiude numerose
suggestioni. In particolare, si osserva come «analizzando il linguaggio è possibile ricavare
una serie d’indicazioni rispetto all’approccio manifestato dal legislatore nella regolamentazione dei fenomeni familiari» (cfr. CAGGIA, Il linguaggio del «nuovo» diritto di filiazione, in
Riv. crit. dir. priv., 2015, p. 236).
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di sicuro rilievo. In particolare, si segnala la scarsa attenzione rivolta alla
«disciplina delle convivenze»: quest’ultima è passata quasi sotto silenzio
rispetto al clamore mediatico che ha contraddistinto il dibattito sul tema
della «regolamentazione delle unioni civili».
Peraltro, non si può fare a meno di sottolineare l’inopportunità di
regolamentare unitariamente le due discipline (25). Basti pensare, al riguardo, al diverso (rectius opposto) fondamento che sta alla base della richiesta
di intervento da parte del legislatore:
– nel caso delle unioni «same sex» – in nome del principio di uguaglianza – si chiede di abbattere ogni distinzione basata sull’orientamento
sessuale e di introdurre una disciplina legale ampia e organica della vita di
coppia che preveda diritti e obblighi analoghi a quelli derivanti dal matrimonio (26);
– nel caso delle coppie stabilmente conviventi – alla luce di una progressiva fuga dal matrimonio – si richiede, viceversa, una disciplina volta a
regolare, con modalità non troppo pervasive, soprattutto i rapporti tra la
coppia e i terzi.
Invero, la scelta compiuta dal legislatore – a mio avviso – muove
dall’idea di ancorare il concetto di «famiglia» al modello tradizionale,
collocando i «nuovi modelli familiari» regolamentati sul piano del diritto
positivo in una posizione di subalternità rispetto alla famiglia fondata sul
matrimonio. È questo un punto di centrale importanza. Nel momento in
cui la «famiglia tradizionale» sembra stretta d’assedio da una molteplicità
di modelli familiari alternativi, proprio quando la famiglia fondata sul
matrimonio sembra soccombere di fronte all’esigenza (non più rinviabile)
di regolamentare le unioni same-sex e le convivenze di fatto etero e omosessuali si assiste ad una sorta di «risurrezione» della famiglia istituzionalizzata dall’art. 29 della Costituzione (27).
(25) Su tale profilo si esprimono criticamente: LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in www.juscivile.it, 2016, 4, p. 92 s.; RIZZUTI,
Prospettive di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto, in www.Giustizia civile.com,
2016, 5, p. 3 ove si evidenzia come la soluzione di regolamentare all’interno di un unico
provvedimento tre diversi istituti (i.e. quasi matrimonio per le coppie omosessuali, il contratto di convivenza e la disciplina della convivenza come mero fatto) non poteva non
generare un certa disarmonia.
(26) Da più parti si era chiesto di porre fine discriminazione matrimoniale nei confronti
della minoranza omosessuale (appare molto critico rispetto al risultato finale cui perviene la
nuova legge: GATTUSO, Cosa c’è nella legge sulle unioni civili: una prima guida, in www.articolo29.it).
(27) La questione è particolarmente delicata ed attiene all’impatto che la legge avrà
sulla famiglia fondata sul matrimonio.
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Questi rilievi non cambiano il giudizio di fondo sull’inopportunità di
regolamentare unitariamente le due discipline: occorre prendere atto, infatti, che la scelta compiuta dal legislatore ha trasformato la disciplina sulle
«convivenze di fatto» in una sorta di appendice secondaria rispetto al
dettato normativo sulle «unioni civili» (28).
Alla luce di questo scenario intendo soffermare la mia attenzione e,
riportare al centro del dibattito, il tema relativo alla «disciplina delle convivenze»; del resto è facile prevedere che queste norme saranno quelle
maggiormente applicate nella pratica quotidiana.
Nel condurre questa operazione di «riallineamento» proverò a ricostruire i tratti peculiari della nuova disciplina operando un raffronto con
la già evocata Proposta di Legge Cappiello, la quale – ormai trent’anni
or sono – muoveva dalla considerazione che la «funzione familiare» non
fosse più prerogativa esclusiva attribuita alla sola famiglia legittima. In
questa prospettiva si coglie subito una prima significativa differenza che,
sia pur sotto il profilo terminologico, segna – come già evidenziato – un
diverso giudizio di valore rispetto al rapporto di coppia. Ma vi è di più:
la scelta di parlare di «convivenze» anziché di «famiglia di fatto» conferma – a mio avviso – la volontà del legislatore di collocare i nuovi
modelli familiari portati ad emersione sul piano del diritto positivo in
una posizione di subalternità rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio (29).
3. I «conviventi di fatto» tra stabilità del rapporto e legami affettivi di
coppia.
In base al dettato normativo si intendono «conviventi di fatto due
persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di
reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile» (art. 1,
comma 36˚).
Tale definizione conferma il condivisibile e consolidato orientamento
in base al quale l’unione di fatto, per assumere rilevanza giuridica, non può
tradursi in mera «coabitazione». Analogamente, rimangono prive di qualsivoglia tutela tutte quelle coppie che optano per un impegno di convi-
(28) Tutto il dibattito – come già sottolineato – si è incentrato sulle unioni «same sex» e
in particolare sulla questione dell’adozione dei figli del compagno/a.
(29) Come già sottolineato il tema del linguaggio e delle formule utilizzate dal legislatore segna una prospettiva ricostruttiva molto importante: ricca di significati risulta la
sequenza «concubinato», «convivenza more uxorio», «famiglia di fatto».
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
venza sporadica (30). Discorso diverso si pone per le c.d. convivenze di
prova. Tali unioni, quantunque attuate nella prospettiva di contrarre matrimonio, restano labili e precarie (31).
Non è dato dubitare che la legge si rivolge ad una «coppia» di conviventi maggiorenni tra i quali si è instaurato un vincolo stabile e di «reciproca assistenza morale e materiale». Peraltro, il riferimento alla «coppia»
– oltre a riconfermare il principio monogamico (32) – esclude la possibilità
di estendere la disciplina a quelle convivenze non connotate dal profilo
della sessualità (33).
Un profilo estremamente rilevante è quello relativo all’accertamento
della stabile convivenza (34). A tal riguardo, occorre rilevare che il legisla-
(30) In dottrina (cfr. RIZZUTI, Prospettive di una disciplina delle convivenze, cit., p. 9), si
è evidenziata una certa incoerenza da parte della giurisprudenza: mentre in taluni casi
esclude categoricamente che una frequentazione occasionale possa dare luogo ad una famiglia di fatto, in altre circostanze giunge a riconoscere la risarcibilità del danno da morte, in
seguito al decesso del fidanzato, con cui si fosse intrecciato un rapporto sentimentale che
non implicava ancora nessuna coabitazione (cfr. Trib. Firenze 26 marzo 2015, n. 1011, in
www.personaedanno.it). Invero, non si può fare a meno di notare che nel caso da ultimo
richiamato la fidanzata della vittima aveva dato ampio riscontro probatorio di un rapporto
sentimentale risalente nel tempo e che, in mancanza del fatto illecito altrui, sarebbe approdato con ragionevole certezza al matrimonio: i due fidanzati, infatti, avevano già acquistato
una casa in ragione del 50% cadauno e, successivamente, vi avevano trasferito la residenza;
inoltre avevano formalizzato le reciproche promesse con la richiesta di pubblicazione del
matrimonio, che si sarebbe celebrato di lı̀ a breve se non si fosse verificato il tragico evento.
Conseguentemente appare condivisibile la decisione del giudice fiorentino di riconoscere
alla fidanzata del de cuius il danno da c.d. perdita parentale.
(31) Solo una successiva stabilizzazione consentirà a tali unioni di essere annoverate tra
le convivenze stabili (su tali profili v. PARADISO, Fatto e diritto nella convivenza fuori dal
matrimonio. La giuridicità intrinseca delle relazioni familiari tra vecchie e nuove formalizzazioni dei rapporti, in AA. VV. Scritti in onore di Antonio Pavone La Rosa, II, Milano, 1999, p.
1970; DEL PRATO, Patti di convivenza, in PARADISO (a cura di), I mobili confini dell’autonomia
privata, Milano, 2005, p. 160).
(32) Per quanto il comma 36˚ faccia riferimento alla «coppia» non si può trascurare il
fenomeno delle famiglie degli immigrati che provengono da Paesi in cui la poligamia è
legale. Su tale delicata questione v. PACIA, Unioni civili e convivenze, in www.juscivile.it,
2016, 6, p. 204.
(33) Si pensi, in questa prospettiva, alle convivenze tra parenti e amici e alle convivenze
tra anziani e persone che li assistono. Le c.d. unioni di mutuo aiuto, infatti, si sono affermate
solo in virtù di mere esigenze di compagnia o di convenienza economica. Sul punto v.
PARADISO, I rapporti personali tra i coniugi, in Comm. Schlesinger, II ed., Milano, 2012, p.
139. In questa direzione v. anche BARBIERA, Le convivenze. Tipi e statuti, Milano, 2011, p. 6
ss., il quale sostiene l’improduttività di effetti giuridici delle convivenze amicali che, in realtà,
sono riconducibili più al concetto di coabitazione che di convivenza. Sulle diverse tipologie
di coabitazione v. anche MARELLA, Il diritto di famiglia tra status e contratto, in MOSCATI e
ZOPPINI (a cura di) I contratti di convivenza, Torino, 2002, p. 82.
(34) La questione è molto delicata atteso che legge non specifica dopo quanto tempo
una convivenza possa considerarsi stabile.
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tore – in base al disposto del comma 37 – sancisce che «per l’accertamento
della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica» di
cui all’art. 4 e dell’art. 13, comma 1˚, lett. b, d.p.r. n. 223/89 (35). Tale
previsione pone molteplici questioni interpretative. Ci si è interrogati, in
particolare, in ordine alla valenza di tale dichiarazione. Parte della dottrina
sostiene che la mancata dichiarazione anagrafica non sia ostativa alla configurabilità della fattispecie e, quindi, all’applicazione della relativa disciplina (36). Tuttavia – ferma restando la sussistenza degli altri presupposti
richiamati dal comma 36˚ – deve ritenersi che mancando tale dichiarazione
anagrafica la legge non dovrebbe trovare applicazione venendo meno un
coelemento costitutivo della fattispecie (37). Peraltro l’indicazione contenuta nel comma 37˚, pur riferendosi esplicitamente al solo «accertamento»,
induce a ritenere che la convivenza possa avere inizio solo con la dichiarazione fatta all’ufficiale dell’anagrafe, visto che è da quel momento che
può dirsi accertata (38). Paradossale, tuttavia, appare la conseguenza: la
convivenza – come rilevato in dottrina – dovrebbe considerarsi stabile
anche se iniziata da un solo giorno (39).
(35) Appare utile ricordare che l’art. 4 sancisce che «Agli effetti anagrafici per famiglia
si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune».
In base alla lett. b dell’art. 13, le dichiarazioni anagrafiche concernono anche la costituzione
di nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione
della famiglia o della convivenza. Per alcuni utili spunti di riflessione sul d.p.r. n. 223/89
(«Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente») si rinvia a
CAMPIONE, Commento a D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, in SESTA (a cura di), Codice della
famiglia, Milano, 2015, p. 2308 ss.
(36) Cfr. BALESTRA, Unioni civili e convivenze di fatto: brevi osservazioni in ordine
sparso, cit., p. 5. La richiamata dottrina, tuttavia, è ben consapevole che l’assenza dell’anzidetta dichiarazione potrebbe creare non pochi problemi ai fini dell’esercizio da parte dei
conviventi delle prerogative che la legge riconosce loro.
(37) In questa direzione v. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla
recente legge, in www.personaedanno.it, 2016, p. 1.
(38) In buona sostanza, la registrazione anagrafica segna il momento, a partire dal quale
la convivenza travalica la zona del fatto e accede al mondo del diritto. In questa direzione v.
GORGONI, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili
ritardi e persistenti perplessità, cit., p. 195. La richiamata dottrina considera la legge n. 76/
2016 la disciplina generale delle convivenze di fatto. Le preesistenti discipline attributive di
diritti e di prerogative ulteriori, viceversa, sarebbero da considerarsi discipline speciali: cosı̀
– ad esempio – la coppia di conviventi per poter adottare dovrà possedere i requisiti della
legge generale e della legge speciale; conseguentemente solo una coppia che possieda i
requisiti di cui al comma 36˚ e che vanti una “stabilità” di almeno tre anni potrà aspirare
ad adottare un minore di età.
(39) Cfr. LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima
lettura, cit., p. 96. Autorevole dottrina (cfr. GAZZONI, op. cit., p. 1), inoltre, sottolinea
criticamente come la dichiarazione anagrafica potrebbe provenire – ad insaputa dell’altro
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La questione è alquanto delicata. A tal riguardo, non si può fare a
meno di sottolineare il limite di una previsione legislativa che attribuisce
rilievo giuridico alla convivenza solo in virtù della dichiarazione anagrafica.
Cosı̀ facendo, non si riconosce rilevanza alla prospettiva «storiografica»:
nessun valore viene attribuito alla continuità del comportamento della
coppia.
Invero, occorre rilevare che la dichiarazione anagrafica deve essere pur
sempre accompagnata dall’effettiva realizzazione di una comunione di vita,
di una convivenza affettiva stabile e consolidata caratterizzata dalla coabitazione e dall’assistenza morale e materiale. Pertanto, occorre guardare alle
modalità di estrinsecazione del rapporto che – a ben vedere – non può
appiattirsi sulla mera fattispecie costitutiva della «dichiarazione anagrafica» (40).
Diversamente, la Proposta di Legge Cappiello – valorizzando l’elemento temporale – stabiliva che la convivenza, per assumere rilevanza giuridica, doveva perdurare da almeno tre anni e risultare da iscrizione anagrafica
o da atto pubblico.
Del resto, anche la giurisprudenza – in questo lungo arco temporale –
si è mossa in modo più cauto, riconoscendo al requisito della «stabilità»
conseguenze di non poco momento. Si pensi, ad esempio, alla nota pronuncia della Cassazione n. 6855 del 3 aprile 2015 che ha ravvisato nella
sussistenza di una convivenza connotata da «stabilità» e «continuità» una
valida ragione per fare cessare definitivamente gli obblighi assistenziali
compendiati nell’assegno di divorzio in caso di scioglimento del matrimonio (41).
– anche da uno solo dei conviventi. Paradossale, anche in questo caso, sarebbe la conseguenza: in caso di interruzione del rapporto il convivente non dichiarante sarebbe costretto,
se del caso, a corrispondere gli alimenti in base alla previsione contenuta nell’art. 1, comma 65˚.
(40) Sottolinea criticamente l’inadeguatezza della sola «dichiarazione anagrafica» AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?,
cit., p. 387 s. In questa prospettiva non si può escludere che la giurisprudenza continuerà ad
applicare anche alle convivenze non dichiarate quelle regole che – nel corso degli anni – si
sono affermate e consolidate (in questa direzione PACIA, Unioni civili e convivenze, cit., p.
204; QUADRI, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina
delle convivenze , cit., p. 8).
(41) Cfr. Cass. 3 aprile 2015, n. 6855, in Fam. e dir., 2015, p. 553. Gli Ermellini, per la
prima volta, affermano che la formazione di una «famiglia di fatto» – costituzionalmente
tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la
personalità dell’individuo – fa venir meno definitivamente il diritto all’assegno divorzile. In
precedenza (cfr. Cass. 11 agosto 2011, n. 17195, in Fam. e dir., 2012, p. 25 con nota di
FIGONE), la Corte di cassazione collocava il diritto di mantenimento dell’ex coniuge in uno
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3.1. Segue: la reciproca «assistenza morale e materiale» e l’irrilevanza dei doveri di contribuzione, fedeltà e coabitazione.
Con riferimento al profilo dei legami di «reciproca assistenza morale e
materiale» occorre ricordare che, negli anni, il dibattito in ordine alla
regolamentazione dei rapporti personali dei conviventi si è incentrato sulla
possibilità di applicare, in via analogica, alla «famiglia di fatto» le disposizioni dettate per il rapporto coniugale. In particolare ci si è chiesti se i
conviventi debbano soggiacere ai reciproci diritti e doveri che scaturiscono
dall’art. 143 c.c.
stato di «quiescenza», potendosene riproporre l’attualità nel caso di rottura della convivenza.
In questa sede appare utile rimarcare che la convivenza «occasionale» – essendo priva
dell’elemento della «stabilità» – non lascia presumere il miglioramento delle condizioni
economiche del convivente e, conseguentemente, non giustifica l’esonero del coniuge dall’assegno di mantenimento. Per un primo commento a Cass. 3 aprile 2015, n. 6855 si rinvia
a FERRANDO, «Famiglia di fatto» e assegno di divorzio. Il nuovo indirizzo della Corte di
cassazione, in Fam. e dir., 2015. p. 554 ss.; BILOTTI, Convivenza more uxorio e solidarietà
post-coniugale, in www.dirittocivilecontemporaneo.com, 2015, ove si sottolineano le difficoltà che si incontrano nell’individuare il limite temporale idoneo a distinguere una convivenza «precaria» da una long-term relationship.
Più in generale, occorre dare atto che i nostri giudici – rimediando all’inerzia del
legislatore – hanno enucleato, nel corso degli anni, un sistema di regole e principi idoneo
a risolvere le molteplici questioni relative ai rapporti personali e patrimoniali tra conviventi
ovvero ai rapporti tra un membro della coppia ed i terzi. Presupposto essenziale rimane
sempre quello della «stabilità» e non «occasionalità» della convivenza. Si pensi, ad esempio,
a Cass. 21 marzo 2013, n. 7214, che riconosce una tutela possessoria all’ex convivente non
proprietario, estromesso dal godimento della casa familiare senza la concessione di un
termine congruo per reperire altra adeguata sistemazione (cfr. Cass. 21 marzo 2013, n.
7214, in Corr. giur., 2013, p. 1532 con nota adesiva di CARRATO, ove si afferma che «la
convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio
familiare, determina sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita
comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da
quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una
detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue
che l’estromissione violenta o clandestina dell’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio»). Per una lettura critica della richiamata pronuncia GUZZARDI, Convivenza more uxorio e tutela possessoria dell’immobile adibito
a casa familiare, in Fam. e dir., 2013, p. 1059, ove si sottolinea che il riconoscimento di una
tutela possessoria all’ex convivente non proprietario, estromesso dal godimento della casa
familiare senza concessione di un termine congruo per reperire un’altra sistemazione, determini un’imposizione, iussu iudicis, del prosieguo della convivenza. Invero, spingendosi
ben oltre, gli Ermellini – richiamando espressamente Cass. 21 marzo 2013, n. 7214 – hanno
ritenuto che vada riconosciuta una tutela possessoria anche quando lo spoglio sia compito
da un terzo nei confronti del convivente del detentore qualificato del bene (cfr. Cass. 2
gennaio 2014, n. 7, in www.dirittocivilecontemporaneo.com con nota critica di OMODEI
SALÈ). Per una rassegna sulle principali questioni affrontate dalla giurisprudenza sia consentito rinviare a F. ROMEO, Famiglia legittima e unioni non coniugali, cit., p. 25 ss.
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Personalmente non condivido la prospettiva che si nutre del ricorso
all’analogia. Al riguardo, occorre tenere presente che la coppia – non
legalizzando la propria unione – esercita una scelta di libertà che non
può essere ingabbiata all’interno di regole rigide, cosı̀ come avviene per
la disciplina dei rapporti personali tra i coniugi. Non convince l’idea di
creare meccanismi di eteroimposizione di diritti e doveri di natura personale: solo i conviventi possono autoimporsi regole idonee a dare piena
attuazione al loro rapporto. Tuttavia, occorre rilevare l’inadeguatezza dello
strumento negoziale ad intervenire nelle relazioni personali. La regolamentazione pattizia, viceversa, assume una più pregnante valenza con riferimento ai rapporti di natura patrimoniale: in questa direzione la legge
appena approvata prevede – a favore delle coppie eterosessuali non coniugate e delle coppie «same-sex» – la possibilità di concludere un «contratto di convivenza» (42).
Peraltro, il ricorso all’analogia evidenzia i suoi limiti in relazione all’operatività dei rimedi apprestati dal diritto di famiglia per la violazione
da parte dei coniugi dei doveri scaturenti dall’art. 143 c.c. Ipotizzare di
sanzionare l’infedeltà di uno dei conviventi, ad esempio, appare una sicura
forzatura; peraltro, dietro l’infedeltà spesso si cela la volontà, anche unilaterale, di porre fine al rapporto. Del resto, anche in tema di famiglia
fondata sul matrimonio, la fedeltà viene oggi sganciata da una restrittiva
formulazione in chiave di esclusività sessuale per essere riferita ad un
impegno globale di devozione, estendibile a tutti gli aspetti della vita di
relazione (43).
(42) Per una puntuale analisi sul contratto di convivenza si rinvia a DI ROSA, I contratti
di convivenza, in questa Rivista, 2016, p. 694 ss.; GRECO, Il contratto di convivenza, in
GORGONI (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto. L. 20 maggio 2016, n. 76, Santarcangelo di Romagna, 2016, p. 263 ss. In argomento v. anche AULETTA, Disciplina delle
unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, cit., p. 395 ss. Sul
tema del contratto di convivenza utili spunti di riflessione si rinvengono in alcuni contributi
pubblicati prima dell’entrata in vigore della legge n. 76/16. A tal riguardo, in particolare v.
VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel d.d.l. Cirinnà, cit., p. 1006 ss.
(43) Negli ultimi anni la giurisprudenza, sia pur escludendo ogni automatismo risarcitorio, ha riconosciuto che l’infedeltà coniugale può essere fonte di responsabilità civile
(significativa al riguardo risulta Cass. 15 settembre 2011, n. 18853, in Danno e resp.,
2012, p. 382 con note di AMRAM e OLIARI ove si stabilisce che la violazione dei doveri
coniugali non trova sanzione soltanto nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia,
ma può anche integrare gli estremi dell’illecito civile, dando luogo al risarcimento dei danni
non patrimoniali, senza che la mancanza di una pronuncia di addebito in sede di separazione possa risultare preclusiva dell’azione in responsabilità. V. anche Cass. 17 gennaio
2012, n. 610, in Fam. e dir., 2012, p. 254 con nota di FACCI; Cass. 1˚ giugno 2012, n.
8862, in Danno e resp., 2012, p. 899 ove ben si sottolinea che il risarcimento del danno non
patrimoniale ex art. 2059 c.c. è ammissibile qualora l’adulterio – per le modalità con cui è
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Tutto ciò premesso, appare condivisibile la scelta di non menzionare
all’interno della legge i doveri di «contribuzione», di «fedeltà» e di «coabitazione». Quest’ultimo – cosı̀ come avvenuto per il dovere di fedeltà –
viene oggi interpretato in modo più elastico. Si è sostenuto, in particolare,
che la separazione dei tetti non è necessariamente indice della fine del
rapporto (44). Peraltro, tale soluzione si pone in linea con quanto previsto
– ormai tre decenni addietro - dalla Proposta di legge Cappiello che non
menzionava il dovere di «fedeltà» e di «coabitazione» (45).
Invero, a destare qualche dubbio è la mancata previsione nella l. n. 76/
16 del dovere di «collaborazione nell’interesse della famiglia» che, sostanzialmente, non si lascia ben distinguere dall’assistenza morale e materiale.
Una spiegazione plausibile di tale lacuna si potrebbe rinvenire – cosı̀ come
puntualmente sostenuto da attenta dottrina – in una sorta di retro-pensiero del legislatore: senza matrimonio, quindi senza doveri personali stabiliti
dalla legge, non c’è famiglia (46).
Per quanto concerne, nello specifico, la reciproca «assistenza morale e
materiale» occorre ritenere che i conviventi sono pur sempre tenuti ad
alimentare il rapporto con comportamenti rispettosi degli obblighi reci-
stato posto in essere – risulta lesivo di diritti fondamentali costituzionalmente protetti quali
la dignità e l’onore). Occorre prendere atto che il c.d. illecito endofamiliare ha assunto un
ruolo di grande importanza sia nell’ambito della responsabilità civile sia in quello del diritto
di famiglia. La casistica giurisprudenziale è lo specchio dell’abbandono dell’orientamento
tradizionale che, nell’ambito delle relazioni familiari, configurava una sorta di immunità,
circa le conseguenze della violazione dei doveri coniugali. Per una puntuale trattazione sul
tema v. MORMILE, Vincoli familiari e obblighi di protezione, Torino, 2013, p. 5 ss.
(44) La questione è particolarmente delicata. Non si può fare a meno di notare, infatti,
che una tale soluzione rischia di intaccare il profilo della “stabilità” che rappresenta il vero
limite all’autonomia dei conviventi per accertare l’esistenza e l’effettivo svolgimento del
rapporto. Appare pericoloso, in questa prospettiva, parametrare la stabilità della convivenza
al solo elemento della durata temporale del rapporto. La stabilità, viceversa, deve essere
valutata dando prevalente rilevanza al profilo dell’affectio, e cioè a quella effettiva, seria e
meditata intenzione di dare vita ad una comunità familiare di fatto. Ben si comprende,
pertanto, che la violazione del dovere di coabitazione – ancorché non sanzionabile in caso
di interruzione – potrebbe avere conseguenze ben più gravi all’interno della famiglia di fatto
rispetto a quanto avviene nella famiglia legittima.
(45) La Proposta di Legge Cappiello, viceversa, menzionava il dovere reciproco di
«contribuzione» ai bisogni della famiglia di fatto.
(46) Cfr. LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima
lettura, cit., p. 97, ove si evidenzia che per quanto tale lettura possa aiutare a comprendere
il senso della scelta operata dal legislatore si pone in netto contrasto con la giurisprudenza –
e in primo luogo con quella della CEDU – che propende per la sussistenza di una famiglia
tutte le volte in cui «vi siano relazioni interpersonali caratterizzate da quell’intimità che
secondo il comune sentire è detta appunto familiare, indipendentemente dall’esistenza o
meno di vincoli giuridici».
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proci previsti per i coniugi. Pertanto, i membri della coppia – fin quando
dura la convivenza – devono dare luogo ad un progetto di vita comune che
presuppone assistenza e protezione reciproca. Si materializza all’orizzonte
un dovere di assistenza morale e materiale sul piano della giuridicità formalizzata che dovrebbe fare venire meno l’esigenza di ricorrere allo strumento dell’obbligazione naturale come fonte giustificativa del consolidarsi
nel patrimonio del beneficiario di attribuzioni patrimoniali effettuate spontaneamente dall’altro convivente (47).
3.2. Segue: l’assenza di «vincoli familiari» (rectius «impedimenti
matrimoniali»).
La previsione contenuta nella parte finale dell’art. 1, comma 36˚, ricalca le norme del codice civile che fissano gli impedimenti al matrimonio.
Si pensi, in primo luogo, all’impedimento di matrimonio – inteso come
vincolo formale – che permane fino al suo scioglimento. Conseguentemente, la disciplina in esame non potrà trovare applicazione in tutte quelle
convivenze nelle quali almeno una delle parti sia separata e ciò nonostante
la coppia risulti all’anagrafe come famiglia (48).
Si palesa all’orizzonte una situazione paradossale in base alla quale –
nonostante l’intento dichiarato di voler accrescere le tutele dei conviventi –
tantissime coppie, che pur convivono stabilmente da molti anni, dovreb-
(47) In passato la reciproca assistenza tra i conviventi, in quanto espressione di quei
doveri morali e patrimoniali di solidarietà, posti a fondamento di ogni comunità di tipo
familiare poteva dare luogo – secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale – ad
una obbligazione naturale (al riguardo v. Cass. 22 gennaio 2014, n. 1277, in www.personaedanno.it. Sulla medesima linea si collocano, tra le altre, Cass. 15 maggio 2009, n. 11330,
in Corr. giur., 2010, p. 72, con nota di RUVOLO; Cass. 13 marzo 2003, n. 3713, in Giur. it.,
2004, c. 530, con nota di DI GREGORIO. Sul punto vedi anche la più risalente Cass. 20
gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ., 1989, p. 498. In questa direzione v. anche App. Genova
4 maggio 2005, in Banca dati Pluris (caso molto particolare in cui vengono considerate
irripetibili le spese funerarie per le esequie del defunto convivente more uxorio, essendo
state sostenute in adempimento di doveri morali e sociali); App. Napoli 5 novembre 1999,
in Giurisprudenza napoletana, 2000, p. 232, ha ricondotto al paradigma dell’obbligazione
naturale la dazione di titoli alla compagna di una lunga e consolidata relazione, pretermessa
nel testamento del partner, il quale aveva in vita cosı̀ voluto attribuirle un sostegno economico anche per il futuro, in considerazione del fatto che la stessa si era dedicata interamente
alla famiglia «di fatto» e non si era potuta procurare autonome ed idonee fonti di reddito.
Per tali questioni si rinvia a VENUTI, I rapporti patrimoniali tra i conviventi, in F. ROMEO (a
cura di), Le relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, p. 318 ss.; ID., La disciplina
dei rapporti patrimoniali nel d.d.l. Cirinnà, cit., p. 1002.
(48) Cfr. art. 4, d.p.r. n. 223/89 che definisce la famiglia, ai fini anagrafici, come
«insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione ovvero
da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune».
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bero rimanere prive dei diritti che la legge oggi riconosce. Si delinea,
pertanto, una limitazione che appare fortemente in contrasto con la realtà
sociale e – per certi versi – anche giuridica (49). Peraltro, in questa prospettiva la legge pone in essere una dicotomia: ci saranno coppie «stabilmente conviventi» che potranno accedere alle tutele previste dalla legge e
coppie «stabilmente conviventi» che – attesa la presenza di uno o entrambi
i partner separati – rimarranno in balia del diritto vivente.
Peraltro, tale incoerente situazione discriminatoria è solo in parte attenuata dalle riforme che hanno degiurisdizionalizzato separazioni e divorzi ed abbreviato sensibilmente il tempo intercorrente tra la separazione e
divorzio. È di tutta evidenza, infatti, che nelle ipotesi di situazioni conflittuali – attesi i tempi della nostra giustizia civile – prima di ottenere la
libertà di stato potrebbe passare molto tempo (50).
Per quanto riguarda gli impedimenti scaturenti da «parentela» e «affinità» non si può fare a meno di evidenziare come il legislatore – a differenza di quanto previsto nell’art. 87 c.c. – non precisa se vi siano limiti di
grado. Anche in questo caso emergono alcune incoerenze di fondo che
comporterebbero l’emersione di una dicotomia di disciplina: se si propendesse per l’applicazione letterale della norma, gli impedimenti riguardanti
la convivenza risulterebbero più ampi rispetto a quelli previsti per il matrimonio (51).
4. L’attribuzione di specifici diritti reciproci di natura non patrimoniale:
luci e ombre.
Il graduale processo di giuridificazione delle unioni di fatto è passato,
nel corso degli anni, attraverso alcune previsioni normative che testimoniano l’importanza e l’operatività, anche all’interno del nucleo familiare
non coniugale, dei valori di solidarietà, i quali appaiono sganciati dalla
(49) A tal proposito v. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla
recente legge, cit., p. 1, il quale sottolinea come la condizione di separato non osti alla stabile
convivenza con altra persona, posto che quella con il coniuge è ormai cessata. Sulle incoerenze determinate da tale «impedimento» v. le puntuali e condivisibili osservazioni di LENTI,
La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, cit., p. 97.
(50) In questa direzione RIZZUTI, Prospettive di una disciplina delle convivenze, cit., p. 10
s. ove si sottolinea come tale situazione discriminatoria si attenuerebbe realmente solo
attraverso il c.d. «divorzio immediato», eliminando cosı̀ uno dei due procedimenti attraverso
cui ancora oggi deve passare la crisi coniugale.
(51) A tal riguardo in dottrina si sottolinea come in assenza di ulteriori indicazioni
appaia preferibile la soluzione interpretativa che faccia riferimento a linee e gradi previsti
per il matrimonio. In questa direzione AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, cit., p. 388 s.
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struttura della fonte delle relazioni familiari (52). In ogni caso, appare utile
rammentare che la regolamentazione di taluni profili personali del rapporto è cosa ben diversa dall’assimilazione dei due modelli familiari. Occorre
tenere sempre presente, infatti, che l’assimilazione tra i due modelli familiari e la conseguente regolamentazione dei profili personali del rapporto
potrebbe comportare una indebita ingerenza da parte dell’ordinamento
giuridico rispetto a quella che – in linea di principio – rimane una «scelta
di liberà» dei conviventi (53).
In questa direzione, interessanti spunti di riflessione si rinvengono
nella nuova legge laddove si prevede che:
a) «i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei
casi previsti dall’ordinamento penitenziario» (art. 1, comma 38˚);
b) «in caso di malattia o ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto
reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di
assistenza, previste per i coniugi ed i familiari» (art. 1, comma 39˚).
Prende forma una disciplina non troppo invasiva che – salvaguardando la già richiamata «scelta di libertà» dei conviventi – si connota per
l’attribuzione di taluni diritti di natura non patrimoniale, soprattutto nell’ambito dei rapporti esterni.
Invero, le disposizioni sopra richiamate, per quanto astrattamente meritevoli di apprezzamento, hanno una portata pratica modesta. A tal riguardo basti pensare che:
- la previsione contenuta nell’art. 1, comma 38˚ riproduce, in buona
sostanza, quanto già previsto all’interno del d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230
recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e
limitative della libertà» (54).
(52) Si pensi, ad esempio, all’art. 93, comma 2˚, d.p.r. n. 285/90 che, nel disciplinare il
c.d. diritto al sepolcro familiare, consente al concessionario dell’area comunale da destinare
a sepolcro di chiedere l’autorizzazione alla tumulazione in dette aree, non solo delle salme
dei familiari, ma anche quelle di eventuali conviventi (cfr. d.p.r. 10 settembre 1990, n. 285
«Approvazione del regolamento di polizia mortuaria». Alla luce del richiamato art. 93, comma 2˚, in capo al convivente sorge un vero e proprio ius inferendi mortuum in sepulchrum,
che si giustifica in virtù di un comprovato trascorso rapporto connotato dall’affectio e dalla
solidarietà familiare). Si pensi, altresı̀, all’ormai risalente art. 2, d.p.r. n. 136/58 che, sia pur
ai limitati effetti anagrafici, qualifica come famiglia anche un insieme di persone conviventi
legate da vincoli affettivi.
(53) In dottrina, tra gli altri, POLIDORI, I rapporti personali. Impossibilità di imporre ai
conviventi i doveri personali previsti per i coniugi, in FERRANDO, FORTINO e RUSCELLO (a cura
di), Famiglia e matrimonio, in Tratt. Zatti, I, Milano, 2011, p. 1111.
(54) In argomento si rinvia alla puntuale ricostruzione operata da CIAVOLA, Aspetti di
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- la previsione contenuta nell’art. 1, comma 39˚, regola al suo interno
due aspetti diversi: le visite al familiare ricoverato e l’accesso alle informazioni personali sul malato. Con riferimento al diritto di visita, invero, come
sottolineato da attenta dottrina, occorre rilevare come in caso di ricovero
le strutture sanitarie regolano solo gli orari di visita e il numero dei visitatori, senza preoccuparsi del loro stato civile (55).
Per quanto concerne l’accesso alle informazioni sanitarie sul malato
occorre ricordare che non sono i regolamenti interni delle strutture sanitarie a disciplinare l’accesso alle informazioni. Ciò sarebbe – come puntualmente rilevato in dottrina – in palese contrasto con le regole sul trattamento dei dati sanitari (56).
Problemi interpretativi, infine, si pongono con riferimento alla possibilità concessa al convivente di designare l’altro – attraverso un documento
redatto in forma scritta e autografa ovvero tramite una dichiarazione orale
in presenza di un testimone – come suo rappresentante con poteri pieni o
limitati per prendere decisioni sui trattamenti sanitari, sulla donazione
degli organi, sulle modalità di trattamento del corpo e sulle celebrazioni
funerarie (art. 1, comma 40˚). Non risulta assolutamente chiaro, infatti,
cosa debba intendersi con l’espressione «poteri pieni o limitati» (57).
diritto processuale e penitenziario in tema di unioni non coniugali, in F. ROMEO (a cura di), Le
relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, p. 679 ss. ed ivi in particolare p. 721 ss.
(55) Cfr. LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima
lettura, cit., p. 99, il quale evidenzia come la previsione possa assumere una certa rilevanza
nei casi in cui vi siano ospedali che permettono ai soli congiunti legati con il ricoverato da un
rapporto giuridico familiare l’accesso a quei reparti, quali ad esempio quelli di rianimazione,
che impongono limitazioni ai visitatori esterni.
(56) Cfr. LENTI, op. cit., p. 100, ove si sottolinea come le informazioni, in base a quanto
previsto dal Codice della privacy, possono essere comunicate solo al paziente ovvero alle
persone cui questi autorizza la comunicazione. In via d’eccezione però, dopo la eseguita
prestazione sanitaria senza il consenso del paziente per motivi di emergenza, le informazioni
possono essere comunicate ai «prossimi congiunti» ed ai «familiari», compreso il convivente
cosı̀ come espressamente previsto dall’art. 82, comma 2˚, lett. a, codice della privacy.
(57) Peraltro, non si può fare a meno di notare come tale potere sia pacificamente
riconosciuto nel nostro ordinamento: chiunque, infatti, può designare qualsiasi altra persona
come proprio rappresentante senza necessità di una specifica previsione normativa. Autorevole dottrina, invero, propone una diversa lettura: si è affermato, al riguardo, che la
previsione normativa – sia pur in modo surrettizio – istituisce la figura del «fiduciario per
i trattamenti sanitari», figura questa della quale si discute da tempo nel mondo politico (cfr.
LENTI, op. cit., p. 101 s.). Su tale profilo v. le riflessioni di GORGONI, Le convivenze “di fatto”
meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, cit., p.
220 ss., la quale ritiene poco probabile che il legislatore abbia voluto in una legge cosı̀
«eccentrica» rispetto alla questione delle direttive anticipate introdurre la figura del fiduciario: è solo nel ruolo di soggetto legato da vicinanza emotiva, che conosce le aspirazioni del
compagno di vita che il convivente può avvertire il dovere, morale prima che giuridico, di
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5. Convivente di fatto e amministrazione di sostegno (brevi cenni).
Il graduale processo di giuridificazione delle convivenze di fatto è
passato attraverso alcune previsioni normative che – pur in assenza di
qualsiasi forma di coordinamento – testimoniano l’importanza e l’operatività, anche all’interno del nucleo familiare non coniugale, dei valori di
solidarietà, i quali appaiono sganciati dalla struttura della fonte delle relazioni familiari e si fondano, viceversa, sull’idoneità a realizzare le precipue funzioni di affermazione e crescita della personalità dei suoi membri.
Nell’ambito dei rapporti, latu sensu, personali tra conviventi si innesta
l’importante previsione contenuta nell’art. 5 della l. n. 40/04 che ammette
l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche a favore «delle coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi» (58). La legge, pertanto, limita il ricorso alla fecondazione artificiale
soltanto alle coppie, garantendo cosı̀ il rispetto della doppia figura genitoriale di sesso diverso (vengono esclusi, dunque, i single e gli omosessuali).
Non meno rilevante, inoltre, risulta la previsione contenuta nell’art.
408 c.c. che riconosce la possibilità di nominare la persona «stabilmente
convivente» quale amministratore di sostegno (59). La duttilità e la flessibilità dello strumento, che consente all’amministratore di prendersi cura
del beneficiario non solo sotto i profili patrimoniali ma anche sotto i profili
personali, rende particolarmente apprezzabile la scelta operata dal legislatore. Tale disposizione rappresenta – almeno astrattamente – un perfetto
punto di equilibrio tra eterodeterminazione (sia pur in una logica di tutela)
ed autodeterminazione dei rapporti personali tra i conviventi (60).
avvisare il medico – e, se del caso, il giudice – dei «desideri» preventivamente espressi dal
paziente.
(58) Per l’accertamento della convivenza l’art. 12, n. 3, l. n. 40/04 prevede semplicemente che il medico si avvalga di una dichiarazione sottoscritta dai soggetti richiedenti.
(59) La l. n. 6/04, introducendo nel nostro ordinamento l’istituto dell’amministrazione
di sostegno, ha riscritto il sistema dell’incapacità attribuendo oggi valenza residuale agli
istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione, trovando gli stessi applicazione solo in caso
di fallimento di ogni diversa modalità di protezione della persona priva in tutto o in parte
di autonomia. La legge, in particolare, cerca di coniugare esigenze di assistenza ed esigenze
di libertà della persona attraverso provvedimenti di sostegno tesi a valorizzare – per quanto
possibile – la residua autonomia del beneficiario.
(60) Due persone che vivono insieme come famiglia, pur non formalizzando tale unione
nel vincolo matrimoniale, non siano penalizzati sotto questo delicatissimo profilo che attiene, lato sensu, ai rapporti personali tra i partners. L’istituto dell’amministrazione di sostegno,
del resto, pone in primo piano i diritti di natura personale, ed i vincoli di solidarietà e fiducia
che legano il beneficiario alle persone che ne hanno la cura, anche personale.
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Ciò premesso, occorre rilevare che anche la l. n. 76/16 riconosce
espressamente la possibilità di nominare il convivente quale amministratore di sostegno (61). Tuttavia, a mio sommesso avviso, sarebbe stato più
opportuno che la nuova legge avesse ignorato la posizione del convivente
riguardo all’amministrazione di sostegno. Una simile opzione, infatti,
avrebbe eliminato, in re ipsa, qualsiasi problema di coordinamento con
la vigente disciplina codicistica.
6. I diritti di contenuto patrimoniale.
Per quanto concerne i diritti di contenuto patrimoniale occorre rilevare come essi siano essenzialmente rimessi all’autonomia dei conviventi i
quali possono sottoscrivere – come già accennato – un contratto di convivenza redatto in forma scritta a pena di nullità (commi 50˚ e 51˚).
Ciò premesso, ritengo utile svolgere qualche riflessione su alcuni specifici diritti di contenuto patrimoniale riconosciuti dalla legge. Si dettano,
ad esempio, alcune regole riguardanti il diritto del convivente superstite ad
abitare nella casa familiare dopo la morte dell’altro. Si concretizza un
diritto ispirato al modello del diritto di abitazione del coniuge superstite
previsto dal codice civile. Tuttavia, a differenza della previsione contenuta
nell’art. 540, comma 2˚, c.c. si inserisce un termine finale preciso: da un
minimo garantito di due anni ovvero per un periodo pari alla convivenza
se superiore a due anni convivenza ed, in ogni caso, entro il limite massimo
di cinque anni (art. 1, comma 42˚). Prende forma, pertanto, un diritto di
abitazione a «durata variabile» sulla casa familiare. La legge, inoltre, in una
chiara prospettiva di tutela dei figli minori, sancisce che:
- se la coppia si era separata e la casa era stata assegnata al convivente
su persiste, prevalgono le regole dettate dall’art. 337 sexies c.c.
- qualora il convivente superstite coabita con figli minori o disabili, il
tempo minimo garantito è aumentato ad almeno tre anni.
La soluzione di prevedere un diritto a «durata variabile» sulla casa
familiare appare – ad una prima riflessione – abbastanza convincente: si
raggiunge un buon compromesso tra gli interessi degli altri eredi e l’esigenza del convivente di disporre di un lasso di tempo adeguato per riorganizzare la propria esistenza (62).
(61) L’art. 1, comma 48˚, in particolare, sancisce che il convivente può essere nominato
amministratore di sostegno «qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai
sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all’art. 404 del codice civile».
(62) In questa direzione AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio:
evoluzione o morte della famiglia?, cit., p. 392.
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In base alla previsione contenuta nel comma 44˚, si sancisce il diritto –
già da tempo vigente – dell’altro convivente di succedere nel contratto di
locazione. Il comma richiamato, inoltre, prevede che qualora il convivente
conduttore receda dal contratto di locazione, l’altro «ha facoltà di succedergli nel contratto». La norma, invero, come rilevato da attenta dottrina,
andava formulata diversamente: in caso di rottura della convivenza, il
convivente ha diritto di succedere nel contratto di locazione al conduttore,
benché questi ne abbia comunicato al locatore la risoluzione anticipata (63).
Il legislatore non prende in considerazione il caso in cui il diritto di
godimento sulla casa facente capo al convivente defunto derivasse da un
contratto di comodato. Il tema – di stretta attualità – si inserisce nel
quadro di un discorso di portata più ampia: dottrina e giurisprudenza,
infatti, soprattutto negli ultimi anni, hanno dibattuto a lungo sul tema del
comodato di casa familiare (64). Opportuna, al riguardo, sarebbe stata una
(63) Sul punto v. LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a
prima lettura, cit., p. 106. Su tali profili v. anche le riflessioni di GORGONI, Le convivenze “di
fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità,
cit., p. 228 s.
(64) In passato, il comodato di immobile concesso al solo fine di costituire un nucleo
familiare e al tempo stesso privo della costituzione di un termine per la sua restituzione,
veniva ricostruito a norma dell’art. 1810 c.c., quale comodato precario, senza termine di
durata e con conseguente riconoscimento in capo al comodante di un diritto di recesso ad
nutum. Solo nel 2004 le Sezioni Unite della Cassazione – disattendendo il precedente
orientamento giurisprudenziale – sanciscono che il termine finale di godimento della casa
familiare debba essere determinato per relationem, cosı̀ condizionando il rilascio dell’immobile al momento in cui le parti se ne siano servite in conformità a quanto previsto dalle
disposizioni contrattuali. In questa direzione, si afferma il principio per il quale in tutti i casi
in cui oggetto di comodato sia un immobile adibito a casa familiare, quella specifica destinazione andrà a rivestire un connotato di “marcata specificità” in grado di garantire al
nucleo familiare un proprio habitat quale stabile punto di riferimento e centro di comuni
interessi (Cass., sez. un., 21 luglio 2004, n. 13603, in Fam. e dir., 2005, p. 599 s. con nota di
AL MUREDEN e in Corr. giur., 2004, p. 1439 s. con nota di QUADRI). Peraltro, le Sezioni
Unite hanno sancito nel 2004 e ribadito nel 2014 che neppure un’eventuale crisi coniugale
accompagnata da un provvedimento di assegnazione giudiziale può incidere sull’esecuzione
del contratto di comodato, il quale continua cosı̀ a produrre i suoi effetti nei confronti
dell’assegnatario, non venendo meno la destinazione a casa familiare dell’immobile. Comincia, allora, a farsi strada la tesi per la quale il provvedimento di assegnazione emesso a
conclusione di un giudizio di separazione o di divorzio in favore del coniuge affidatario di
figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti (senza loro colpa) non
modifica né la natura né il contenuto del contratto di comodato, determinando piuttosto
una “concentrazione” nella persona dell’assegnatario del titolo di godimento che resterà
regolato dalla disciplina del comodato. Da ciò ne consegue che il comodante sarà tenuto a
consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, non potendo
chiedere il recesso ad nutum dell’immobile, se non nella specifica ipotesi di un urgente e
sopravvenuto bisogno (Cass., sez. un., 24 settembre 2014, n. 20448, in Corr. giur., 2015, p.
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previsione espressa del legislatore volta a tutelare espressamente il convivente (65).
Un profilo delicato viene disciplinato dal comma 45˚: quest’ultimo,
infatti, parifica la convivenza al matrimonio al fine della formazione delle
graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia economica e popolare. La previsione, in linea di principio apprezzabile, tuttavia, risulta
problematica: la materia, infatti, appartiene alla competenza delle regioni
e potrebbe dare luogo a un conflitto di competenza.
Importante, inoltre, risulta la possibilità concessa al convivente di
partecipare all’impresa familiare: viene inserito nel codice civile il nuovo
art. 230 ter che riproduce – sia pur in modo semplificato – l’art. 230 bis,
comma 1˚, c.c. La norma, espressione della volontà del legislatore di superare la (controversa) presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative
rese a favore dell’altro, merita apprezzamento. Tuttavia, non si può fare a
meno di notare che – cosı̀ come previsto dalla Proposta di Legge Cappiello
– sarebbe stato più semplice (e coerente) aggiungere il convivente nell’elenco dei familiari contenuto nel comma 3˚ dell’art. 230 bis. Invero, il
legislatore sceglie una strada più tortuosa e, soprattutto, discriminatoria:
la tutela riservata al convivente, infatti, risulta più limitata rispetto a quella
prevista a favore degli altri familiari. A tal riguardo, basti ricordare che
non si considera titolo di partecipazione all’impresa l’aver svolto attività di
lavoro all’interno della famiglia del titolare; non sono riconosciuti, inoltre,
il diritto al mantenimento, il diritto di prelazione sull’azienda, il diritto di
partecipare agli utili ed alle decisioni di straordinaria amministrazione,
riconosciuti agli altri familiari (66). Invero, l’unica spiegazione plausibile a
14 ss.). In questa direzione, una recente pronuncia della Cassazione sottolinea come accanto
all’ipotesi di urgente e sopravvenuto bisogno esista l’ulteriore importante eccezione del
preventivo accordo, anche tacito, tra le parti del contratto, in grado di derogare alla regola
del comodato di casa familiare quale comodato per relationem consentendo, cosı̀, al comodante di ottenere il rilascio del bene a fronte di una sua semplice richiesta (Cass., 24
novembre 2015, n. 23978, in Fam. e dir., 2016, p. 755, con nota di D. RUSSO).
(65) A fronte dei numerosi e continui interventi giurisprudenziali in materia di comodato di casa familiare, il legislatore avrebbe potuto cogliere l’occasione dell’approvazione
della l. n. 76/16 per risolvere i problemi interpretativi di tale figura contrattuale, almeno con
riferimento alla convivenza di fatto. Ciò premesso, appare inverosimile un intervento legislativo volto a puntellare la disciplina codicistica con riferimento al comodato di casa
familiare. Sul punto utili spunti di riflessione si rinvengono in D. RUSSO, Comodato di casa
familiare, divieto di recesso ad nutum e rilevanza dell’elemento volitivo, nota a Cass. 24
novembre 2015, n. 23978, in Fam. e dir., 2016, p. 768.
(66) Appare critico verso le discriminazioni introdotte dall’art. 230-ter c.c. AULETTA,
Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, cit., p.
395, ove si sottolinea che «se la ratio della tutela riservata ai familiari partecipanti è quella di
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tale trattamento differenziato può trovare una coerente – ma non condivisibile – spiegazione nella volontà (a questo punto neanche tanto nascosta) del legislatore di porre le convivenze di fatto in una posizione di
subalternità rispetto al modello familiare fondato sul matrimonio.
La legge, inoltre, in linea con un consolidato orientamento giurisprudenziale, parifica il convivente al coniuge al fine del risarcimento del
danno per il caso di morte dell’altro convivente, dovuta al fatto illecito
di un terzo. Anche in questo caso – come sottolineato da attenta dottrina –
si poteva fare di meglio. La norma, infatti, nulla dice con riferimento al
caso di lesioni gravi, magari invalidanti ed idonee a turbare la vita del
nucleo familiare, tanto sul piano esistenziale, quanto sul piano economico.
Inoltre si parla genericamente di risarcimento danno, senza preoccuparsi
di distinguere tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (67).
La legge, infine, in caso di cessazione della convivenza attribuisce al
convivente che si trovi nella condizione di bisogno di cui all’art. 438,
comma 1˚, il diritto agli alimenti nei confronti dell’altro, per un periodo
proporzionale alla durata della convivenza. Il loro ammontare è determinato secondo le regole di cui all’art. 438, comma 2˚, c.c. Inoltre, occorre
rimarcare – non potendo fare a meno di esprimere qualche riserva critica –
che ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi dell’art.
433 c.c., l’obbligo alimentare del convivente viene collocato in una posizione molto remota (68). Diversamente la Proposta di Legge Cappiello –
che già prevedeva un’obbligazione alimentare a favore del partner più
debole – collocava il convivente in una posizione meno remota e precisamente dopo i figli e i discendenti più prossimi.
Al convivente economicamente più debole, pertanto, non viene riconosciuto il diritto a mantenere il tenore di vita più elevato – rispetto a
quello alimentare – eventualmente goduto durante la convivenza: una
simile soluzione trova coerente spiegazione nella mancata previsione da
parte del legislatore di un dovere di contribuzione. Il diritto agli alimenti –
quantunque imposto – rinviene il suo fondamento nell’esigenza di garantire al partner meno abbiente di poter contare su un periodo di tempo
assicurare un adeguato riconoscimento economico per il lavoro prestato anche quando, per
ragioni affettive, il rapporto non viene espressamente regolamentato, non si giustifica un
trattamento diverso per il convivente».
(67) A tal proposito v. LENTI, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a
prima lettura, cit., p. 108.
(68) Il comma 65˚, infatti, prevede che ai fini della determinazione dell’ordine degli
obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c., l’obbligo alimentare del convivente è adempiuto con
precedenza sui fratelli e sorelle.
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ragionevole per poter riprogettare la propria esistenza, potendo fare affidamento su un sostegno economico – pur limitato per entità e durata –
dell’altro convivente. In questa prospettiva, appare condivisibile – nel
contemperamento dei contrapposti interessi – la scelta di fare prevalere
il valore della solidarietà rispetto a quello della libertà.
Da ultimo, occorre notare che la collocazione di tale previsione dopo
la disciplina degli accordi di convivenza sta a indicare che gli alimenti sono
dovuti in ogni caso, anche in presenza di un accordo contrattuale tra le
parti sulle regole patrimoniali della loro convivenza (69).
7. Riflessioni conclusive.
È tempo di primi bilanci. Non è dato dubitare che la l. n. 76/16 sulla
disciplina delle convivenze si traduce in un’operazione di «restatement» di
molti orientamenti giurisprudenziali già da tempo consolidati (70). Conseguentemente, regole ordinanti affermatesi come diritto vivente si trasformano in diritto vigente; vengono tradotte in norme di legge regole giurisprudenziali – come si è già avuto modo di evidenziare – in materia di
successione del convivente nel rapporto di locazione ovvero di risarcibilità
del danno cagionato dalla morte del convivente stesso. In altri casi il
legislatore inserisce nel testo di legge previsioni già presenti in ambiti
normativi più specifici (i.e. penitenziario, sanitario, edilizia popolare) ovvero nello stesso Codice civile (i.e. amministrazione di sostegno).
Ciò premesso, occorre rilevare come la legge in esame dia vita ad una
disciplina «leggera» che – salvaguardando la «scelta di libertà» effettuata
dai conviventi (etero ed omosessuali) – si indirizza verso l’attribuzione di
taluni diritti, soprattutto nell’ambito dei rapporti con i terzi. Inoltre, in
(69) Ovviamente i conviventi potrebbero aver previsto – e la circostanza non appare
inverosimile – forme di tutela più estese a favore del partner più debole all’interno del
contratto di convivenza. In questa direzione AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, cit., p. 394.
(70) A non difformi conclusioni – sia pur con diversi accenti – giungono i primi
commentatori; del resto è di tutta evidenza che nel regolamentare la disciplina delle convivenze il legislatore abbia finito con il riproporre, sotto mentite spoglie, molti degli ormai
sedimentati approdi giurisprudenziali emersi nell’arco di oltre un trentennio. Non si può
fare a meno di ricordare, infatti, che per lungo tempo il diritto vivente ha rappresentato lo
strumento privilegiato per consentire alla regola giuridica di interagire con i bisogni effettivi
dei consociati, rimediando cosı̀ all’inerzia del legislatore. In questa prospettiva – a mio
avviso – la nostra giurisprudenza ha svolto un ruolo encomiabile; del resto, la riaffermazione
nella legge in commento di ampie parti di quel sistema di regole e principi di creazione
giurisprudenziale è la chiara conferma di come quello delineatosi fosse un apparato condiviso e ampiamente condivisibile.
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talune circostanze – in modo tendenzialmente apprezzabile (si pensi al
comma 65˚ sul diritto agli alimenti in caso di rottura della convivenza) –
si sceglie di fare prevalere il valore della solidarietà rispetto a quello della
libertà.
In realtà, le nuove norme sulla «disciplina della convivenza» – pur
colmando una lacuna del nostro ordinamento – non convincono fino in
fondo. Si materializza un coacervo di norme in alcuni casi incoerenti. Si
pensi, ad esempio, a quanto già evidenziato con riferimento alla situazione
delle coppie stabilmente conviventi che, non avendo ancora acquisito la
libertà di stato, non possono accedere alle tutele previste dalla legge: ne
scaturisce una dicotomia che alimenta situazioni incoerenti e accresce la
complessità. A ciò si aggiunga la circostanza – a cui ormai, purtroppo,
siamo abituati – che in molti casi il legislatore risulta superficiale e impreciso (71). In quest’ottica – occorre ribadirlo – l’aver legiferato in una materia cosı̀ delicata con la tecnica utilizzata per la c.d. legge di stabilità non
ha certamente aiutato.
Le nuova normativa, inoltre, appare frammentaria: si introducono
spezzoni di disciplina non curandosi di coordinare le nuove disposizioni
con le regole già operanti ovvero con discipline legislative ancora in itinere (i.e. testamento biologico) (72).
Resta in sospeso ancora una questione alquanto delicata. Ci si è chiesti
se la l. n. 76/16 possa rappresentare un pericolo reale per la stabilità e
l’integrità della famiglia fondata sul matrimonio. Invero, come già più volte
sottolineato, la nuova legge sulla «regolamentazione delle unioni civili» e
«disciplina delle convivenze» colloca i nuovi modelli familiari in posizione
di evidente subalternità rispetto alla famiglia tradizionale. Molte apparenti
sviste o incongruenze rispondono ad un chiaro disegno strategico volto a
salvaguardare la famiglia istituzionalizzata dall’art. 29 della Costituzione.
Palese è la volontà del legislatore di ribadire che taluni diritti e talune
tutele sono solo ad appannaggio dei coniugi. Solo questi ultimi – a diffe-
(71) Si pensi agli impedimenti derivanti da parentela e affinità laddove non si precisa se
vi siano limiti di grado: una simile previsione – a meno che non si voglia ritenere che gli
impedimenti relativi alla convivenza siano più ampi di quelli previsti per il matrimonio –
impongono all’interprete di forzare il dato letterale per giungere alla più ragionevole conclusione per cui anche per i conviventi dovrebbero valere i limiti di grado previsti per il
matrimonio.
(72) La questione è molto delicata potendosi profilare uno scenario di dubbia costituzionalità: in una materia estremamente delicata come quella del fine vita, alcuni profili
attinenti alla dignità personale – ovviamente estranei alla dimensione dei rapporti di coppia
– finirebbero con l’essere soggetti a due contrapposte discipline.
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renza dei conviventi – hanno posto in essere la scelta di impegnarsi a
realizzare una comunione di vita che si connota peculiarmente per la
sua «esclusività», per la sua «stabilità» e per la sua «vincolatività».
Inoltre, ad ulteriore conferma della volontà di dare nuova linfa alla
famiglia tradizionale – come già si è avuto modo di evidenziare – non si
può sottovalutare lo stesso dato terminologico: con riferimento alle unioni
non matrimoniali si abbandona la locuzione famiglia preferendo parlare di
convivenze.
Si apre, pertanto, una fase nuova del diritto di famiglia: l’emersione e
l’affermazione di «plurali modelli familiari» non comporta – come da più
parti preconizzato – la morte della famiglia fondata sul matrimonio. Il
legislatore, invero, abbandonando quell’inutile e controproducente ostracismo verso ogni forma di regolamentazione delle «relazioni affettive non
matrimoniali» etero e omosessuali prova oggi a cambiare strategia ben
comprendendo che la salvaguardia della famiglia può passare anche attraverso la tutela di alcune legittime istanze dei conviventi.
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GIOVANNI DI ROSA (*)
Professore nell’Università di Catania
I CONTRATTI DI CONVIVENZA
(art. 1, commi 50˚ ss., l. 20 maggio 2016, n. 76)
SOMMARIO: 1. La convivenza di fatto e il contratto di convivenza. – 2. L’intervenuta tipizzazione legale. – 3. Forma e opponibilità dell’accordo. – 4. L’aspetto contenutistico. – 5.
L’invalidità dell’atto. – 6. Le vicende del rapporto. – 7. Cenni di diritto internazionale
privato. – 8. Rilievi conclusivi.
1. La convivenza di fatto e il contratto di convivenza.
L’approccio del legislatore della riforma al tema della convivenza (sia
etero sia omosessuale) appare caratterizzato da una duplicità di piani di
disciplina. Al riguardo, infatti, premesso che la qualificazione giuridica
(della convivenza) risulta contraddistinta dalla assunta specificità della
rilevanza del relativo rapporto relazionale in ragione di un fatto, ossia della
dimensione fattuale della convivenza medesima (per l’appunto indicata
dalla dizione normativa “conviventi di fatto” di cui all’art. 1, comma
36˚, l. 20 maggio 2016, n. 76) (1), l’attribuzione delle relative conseguenze
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) In tal senso la prima decisione in materia, ossia Trib. Milano, ord. 31 maggio 2016,
in www.ilcaso.it, che, assunta la natura fattuale della convivenza, traducendosi quest’ultima
in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale
(dunque un fatto giuridicamente rilevante), ha ritenuto la dichiarazione anagrafica quale
strumento privilegiato di prova e non elemento costitutivo del rapporto, considerato altresı̀
che la stessa dichiarazione in esame è normativamente richiesta per la verifica di uno dei
requisiti costitutivi della stabile convivenza ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza.
Può al riguardo rilevarsi che la “fattualità” della convivenza non può più oggi contrapporsi
alla “giuridicità” della stessa, rispetto dunque a ciò che è avvenuto in passato allorché la
dimensione fattuale ha assunto rilevanza per differenziare dalla famiglia fondata sul matrimonio la c.d. famiglia di fatto, in cui cioè risultava assente la formalizzazione dell’unione
coniugale ma sussisteva una comunione di vita; già attenta dottrina, ossia PARADISO, sub art.
143, in I rapporti personali tra coniugi (Artt. 143-148), in Comm. Schlesinger, Milano, 2012,
p. 132, aveva rilevato, a proposito dei rapporti tra convivenza e matrimonio, che «un
eventuale riconoscimento legislativo non potrebbe che condurre, almeno tendenzialmente,
a una equiparazione, dove l’unica novità consisterebbe nella sostituzione di un fatto – la
convivenza con un minimo di caratteri di stabilità e serietà – all’atto formale di celebrazione
NLCC 4/2016
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(con la connessa regolamentazione) avviene attraverso un duplice meccanismo (2). Per un verso, infatti, ai conviventi di fatto, intesi, secondo
quanto disposto dall’art. 1, comma 36˚, l. n. 76/16, come «due persone
maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca
assistenza morale e materiale non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», sono riconosciute,
per il fatto stesso cioè della convivenza, posizioni giuridiche soggettive
riconducibili alle previsioni contenute nell’art. 1, commi dal 38˚ al 49˚, l.
n. 76/16 (3); per altro verso, poi, è assicurata ai conviventi di fatto la
del matrimonio»; similmente, nella ricostruzione del tratti caratterizzanti la famiglia di fatto,
F. ROMEO, Famiglia legittima e unioni non coniugali, in Le relazioni affettive non matrimoniali, a cura di F. Romeo, Torino, 2014, p. 18 ss., il quale peraltro rilevava, alla stregua delle
posizioni della dottrina e della giurisprudenza sul punto e in ordine al dibattito in corso sulla
necessità o meno di un intervento legislativo, che «l’assenza di regole eteronome rigidamente
predefinite potrebbe garantire uno spazio di autonomia maggiore cui rimettere la modulazione della relazione affettiva non matrimoniale» (p. 39); ID., Famiglia: sostantivo plurale?, in
Dir. delle successioni e della famiglia, 2015, p. 66 ss. e, sul punto, p. 88.
(2) Per una puntuale disamina dell’introdotto doppio livello di disciplina, a cui corrisponde un doppio livello di tutela, VENUTI, La regolamentazione delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso e delle convivenze in Italia, in Politica del diritto, 2016, p. 113 ss.
(3) Giova peraltro al riguardo rilevare che si tratta di diritti già riconosciuti per buona
parte da interventi giudiziali (questo è, ad esempio, il caso della successione nel contratto di
locazione di cui all’art. 6, l. n. 392/78, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte
cost. 7 aprile 1988, n. 404, in Foro it., 1988, I, c. 2515, nella parte in cui non prevede(va) la
successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a
favore del già convivente quando vi sia prole naturale oppure per morte del primo, posizione oggi generalizzata dall’art. 1, comma 44˚, l. n. 76/16); oppure già presenti nella
legislazione di settore (questa è, ad esempio, l’ipotesi, oggi prospettata nell’art. 1, comma
40˚, lett. b, l. n. 76/16, in ordine alla nomina del convivente di fatto da parte dell’altro quale
rappresentante, pieno o limitato, per quanto riguarda la donazione di organi, secondo
quanto già previsto dall’art. 23, comma 2˚, l. n. 91/99, che riconosce al convivente more
uxorio la possibilità di opporsi per iscritto al prelievo di organi e tessuti da soggetto di cui sia
stata accertata la morte e che non abbia esplicitamente negato il proprio assenso). Questa è
la ragione per la quale correttamente si ritiene da T. AULETTA, Disciplina delle unioni non
fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, in questa Rivista, 2016, p. 390,
che la riforma svolge in proposito una (sostanziale) funzione ricognitiva. In altri casi, invece,
si è provveduto ad un riconoscimento ex novo per estensione (sia pure non sempre completa) di tutele originariamente assicurate in via esclusiva ai coniugi, come nell’ipotesi
contemplata dall’introdotto art. 230 ter c.c. con riguardo ai diritti del convivente di fatto
che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa familiare; per l’analisi della
specifica disciplina rispetto all’ambito soggettivo di operatività dell’impresa familiare di cui
all’art. 230 bis c.c., con particolare riferimento ai rapporti con la convivenza more uxorio, mi
permetto di rinviare a DI ROSA, Dell’impresa familiare (art. 230 bis), in Della famiglia (artt.
177-342 ter), a cura di Balestra, in Comm. UTET, Torino, 2010, p. 381 ss.; sul punto
interessanti le specialistiche riflessioni, ante riforma, di GABRIELE, Lavoro e famiglia non
coniugale, in Le relazioni affettive non matrimoniali, cit., p. 425 ss. e spec. p. 457 ss., la
quale giustamente esclude la condivisione dell’idealità da parte del convivente lavoratore
rispetto all’attività produttiva (e lucrativa) del convivente.
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possibilità di «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in
comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza» (art. 1, comma 50˚, l. n. 76/16) (4).
Duplice, correlativamente, appare il piano dell’indagine. Da un lato,
infatti, muovendo dal fatto della convivenza, rileva e può allora analizzarsi
lo svolgimento del rapporto (secondo cioè lo schema fatto-rapporto) al cui
interno si innestano (derivando per l’appunto dal fatto e trovando nello
stesso compiuto riconoscimento) le situazioni giuridiche soggettive attribuite ex lege ai conviventi in quanto tali; dall’altro, una volta normativamente riconosciuta la possibilità di esplicarsi dell’autonomia privata negoziale, viene in considerazione e costituisce oggetto di approfondimento la
fattispecie dell’accordo (sulla cui natura contrattuale o meno si avrà modo
di ritornare), deputato ad assicurare specifica disciplina all’assetto patrimoniale con funzione di governo, sotto il profilo squisitamente economico,
della convivenza, presupposto, peraltro, dell’accordo medesimo (secondo
cioè lo schema fatto-contratto). Non è dunque il contratto (o, se si preferisce, l’accordo negoziale) ad essere costitutivo del rapporto ma è sul
contratto che, presupposto il rapporto (fondato a sua volta sul fatto della
convivenza), si fonda la (possibile) regolamentazione dell’àmbito patrimoniale.
(4) Già con riguardo allo schema originario, che su questa prospettata duplicità di piani
è rimasto immutato, si era ritenuta da VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel
D.D.L. Cirinnà, in F. ROMEO e VENUTI, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a
margine del D.D.L. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in questa Rivista, 2015, p. 1006, la insussistenza di un rapporto di gradualità successiva tra la (precedente) convivenza di fatto in quanto tale (secondo cioè la rappresentazione oggi fornita dall’art. 1, comma 36˚, l. n. 76/16) e la (consequenziale) stipulazione del
contratto di convivenza (a norma dell’attuale art. 1, comma 50˚, l. n. 76/16). Non è certamente dubbio che le due ipotesi possano rimanere sganciate, quantunque non sembra
contestabile che l’alternativa in questione, pur potendo sciogliersi a favore, per cosı̀ dire,
della primigenia iniziativa contrattuale postuli comunque (dunque in via logicamente, e
cronologicamente, prioritaria) la sussistenza di una relazione fattuale la cui stessa evidenza
convenzionale (per come risulta cioè dal, e per il tramite del, contratto di convivenza) non
ne appare costitutiva. Ciò emerge altresı̀, sotto questo profilo, dalla circostanza che il
prescritto obbligo di trasmissione del contratto cosı̀ intervenuto al comune di residenza
dei conviventi è funzionale, almeno cosı̀ sembra, ai fini della opponibilità ai terzi ai sensi
dell’art. 1, comma 52˚, l. n. 76/16, potendosi altresı̀ prospettare la complessa fattispecie
costituita da un contratto che potrebbe anche non contenere (trattandosi di dato eventuale)
l’indicazione della residenza delle parti contraenti ex art. 1, comma 53˚, l. n. 76/16, quantunque non debba sottacersi l’esplicito riferimento normativo alla trasmissione in esame
(anche) «per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223» (art. 1, comma 52˚, l. n.
76/16).
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Il sistema cosı̀ delineato dal legislatore della novella risulta pertanto
articolato sul doppio livello di disciplina ora indicato, che assicura altresı̀
un doppio livello di rilevanza giuridica: l’uno ex lege (in ragione cioè del
fatto della convivenza), l’altro ex partibus (in ragione cioè della scelta
negoziale espressamente formalizzata). Proprio rispetto a questo introdotto doppio binario potrebbe ancora adesso ritenersi valida, nonostante
l’utilizzata formula “contratto di convivenza”, la proposta ricostruttiva di
recente avanzata ad avviso della quale «i c.d. contratti di convivenza potrebbero essere riguardati come accordi che disciplinano nei suoi aspetti
economici un rapporto che, nel suo nucleo, non è però un rapporto
patrimoniale» (5) e che sarà sottoposta ad attento vaglio ricostruttivo alla
luce del complessivo impianto normativo. Va comunque sin d’ora sottolineato che il tema della qualificazione giuridica dell’atto negoziale costituisce presupposto per l’applicazione della relativa disciplina codicistica, dovendosi scrutinare la possibilità di una sostanziale estraneità alla logica
contrattuale (imperniata sullo scambio) dell’accordo in esame, che pure
non sembra potersi sottrarre, ad esempio, alle regole (di parte generale del
contratto) destinate a tutelare la libera e consapevole manifestazione del
consenso (è questo il tema dei vizi del volere) nonché la relativa effettività
(è questo il tema della simulazione).
La riconosciuta stipulazione del contratto di convivenza rimane, ovviamente, una mera possibilità (lasciata dunque all’autonomia dei privati),
senza per ciò potersi escludere che eventuali divergenze al riguardo tra i
conviventi risultino ostative alla scelta convenzionale, che pure appare
deputata allo svolgimento fisiologico del rapporto (6).
2. L’intervenuta tipizzazione legale.
Tralasciato il profilo (non oggetto di questa disamina) della convivenza
in quanto tale e tenute ferme le precedenti considerazioni di ordine rico-
(5) DELLE MONACHE, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale (Alle soglie
della regolamentazione normativa delle unioni di fatto), in Riv. dir. civ., 2015, p. 948 ss. e
spec. p. 950 ss., il quale, escludendo altresı̀ la corrispettività del rapporto, ritiene coerentemente inapplicabili strumenti quali la risoluzione per inadempimento e l’eccezione di inadempimento; similmente VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà,
cit., p. 1006 s., che indica la figura del patto civile di solidarietà, ossia «un negozio destinato
a regolare la vita in comune della coppia in senso ampio» (p. 1007).
(6) Per la disamina dell’originario modello di disciplina patrimoniale, quello cioè che
poi, attraverso i necessari passaggi parlamentari e le relative modifiche apportate, sarebbe
divenuto l’attuale dato normativo, VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L.
Cirinnà, cit., p. 991 ss.
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struttivo-sistematico in ordine alla instaurata correlazione da parte del
legislatore tra il fatto della convivenza e il (possibile) contratto di convivenza, di quest’ultimo possono essere tratteggiate le caratteristiche per
come delineate dalla novella in ragione della individuata connotazione
(quantunque, come si vedrà, non esclusivamente) patrimoniale.
Il tema delle attribuzioni patrimoniali tra i conviventi è questione non
nuova, avendo formato oggetto di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Deve in merito evidenziarsi che l’ordine di problemi sotteso
può essere preso in esame (e cosı̀ infatti è stato in precedenza affrontato)
sia sotto il profilo della giustificazione dei connessi trasferimenti di ricchezza (rispetto dunque alla valutazione dei presupposti attributivi con
consequenziali riflessi in caso di cessazione della convivenza) sia sotto il
profilo della organizzazione per via negoziale dello svolgimento della vita
in comune (rispetto cioè alla dimensione dell’accordo come modello programmatico).
In ordine al primo aspetto (che qui non sarà oggetto di specifico
approfondimento ma del quale va comunque dato conto) va segnalato il
percorso che ha condotto al superamento della originaria qualificazione
dell’attribuzione patrimoniale da parte dell’uomo a favore della donna in
termini di donazione rimuneratoria ex art. 770 c.c. (7); per giungere poi,
per il tramite della successiva configurazione quale adempimento di obbligazione naturale di natura indennitaria (8), alla più consona ricostruzione che ne riconosce il carattere contributivo (9), di contenuto sostanzialmente corrispondente a quanto previsto per i coniugi dall’art. 143 c.c. (10)
(7) Indicativa al riguardo la statuizione di Cass. 7 ottobre 1954, n. 3389, in Giur. it.,
1955, I, 1, c. 872, che ravvisa il modello della donazione rimuneratoria nell’attribuzione
patrimoniale fatta dal seduttore alla sedotta, divenuta poi concubina del primo; a tal proposito v. anche SPADAFORA, L’obbligazione naturale tra conviventi e il problema della sua
trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale, in I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 162 ss.
(8) Sul punto Cass. 17 gennaio 1958, n. 389, in Foro it., 1959, I, c. 470; Cass. 25
gennaio 1960, n. 68, ivi, 1961, I, c. 2017. Sui rapporti tra donazione rimuneratoria e
adempimento dell’obbligazione naturale v., per tutti, OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 224 ss.
(9) In questi termini già Cass. 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, p. 2031;
successivamente Trib. Torino 24 novembre 1990, in Giur. it., 1992, I, 2, c. 428, con nota di
CALVO, Un precedente in tema di «animus mutuandi» e operazioni su conto corrente bancario
cointestato ai conviventi «more uxorio»; App. Napoli 5 novembre 1999, in Giurisprudenza
napoletana, 2000, p. 232; Cass. 13 marzo 2003, n. 3713, in Gius, 2003, p. 1604; più di
recente Cass. 22 gennaio 2014, n. 1277, in Fam. e dir., 2014, p. 888.
(10) Possono in merito segnalarsi GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto,
Milano, 1983, p. 135; nonché OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Torino,
1991, p. 88; più di recente si è opportunamente rilevato da G. STELLA RICHTER, La donazione
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e la cui connotazione solidaristica viene, appropriatamente, ancorata ai
criteri (a mo’ di endiadi) della adeguatezza e della proporzionalità (11).
Quanto, invece, al secondo aspetto, relativo cioè alla stipula di accordi
di convivenza, non vi è dubbio che il maggiore interesse sia stato per
l’appunto rivolto alla relativa configurabilità in chiave contrattuale proprio
in ragione della necessità di addivenire, per questa via, alla soluzione del
problema della (giustificazione causale) delle attribuzioni patrimoniali tra i
conviventi, anzi per assicurare cosı̀ la stabilità delle stesse a fronte della
giuridica doverosità (negozialmente convenuta) rispetto anche alla eventuale cessazione del rapporto. Al riguardo, a fronte dell’originario tradizionale orientamento che escludeva la rilevanza di qualsiasi accordo avente
ad oggetto l’unione non fondata sul matrimonio (12), si era già da tempo
riscontrata una significativa apertura in tal senso, con particolare riferimento all’àmbito patrimoniale; era stata cioè predicata la sussistenza del
c.d. contratto atipico di convivenza (13), rientrante pertanto nell’autonomia
nella famiglia di fatto, in Riv. dir. civ., 2003, p. 151 s., la non appropriatezza di una
generalizzazione (sotto il profilo della qualificazione della fattispecie), in termini di adempimento di obbligazione naturale, rispetto a qualsiasi prestazione patrimoniale tra i conviventi.
Merita infine di essere segnalata la peculiare posizione di BALESTRA, Le obbligazioni naturali,
in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2004, p. 233 ss., ad avviso del quale, esclusa la doverosità
giuridica analoga a quella prevista dall’art. 143 c.c., la «giusta causa dello spostamento
patrimoniale va ravvisata non già nell’adempimento di un dovere morale ma nel fatto che
esso di pone come elemento costitutivo della famiglia di fatto» (p. 239); diversamente, sul
punto, Trib. Savona 10 giugno 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 905, con nota di
MAURA, La validità dei c.d. “contratti di convivenza” e l’applicabilità ai conviventi more uxorio
in via analogica delle disposizioni codicistiche concernenti i diritti e doveri reciproci dei coniugi,
che ha ritenuto applicabile in via analogica anche alla convivenza l’art. 143, comma 3˚, c.c.,
in considerazione della rilevanza e assolutezza del principio generale ivi contenuto.
(11) Diffusamente sul punto DELLE MONACHE, Convivenza more uxorio, cit., p. 958 ss.,
il quale, al termine della attenta analisi distintiva tra adempimento dell’obbligazione naturale
e donazione, precisa (facendo altresı̀ riferimento alle esaustive indicazioni bibliografiche e
giurisprudenziali ivi riportate) che «non basta la convivenza a giustificare (e rendere valida)
qualunque attribuzione tra conviventi, quale che ne sia la natura e l’entità» (p. 960), con la
conseguenza che la riconduzione al dettato dell’art. 2034 c.c. «richiede un accertamento
rigoroso in ordine al concreto modo di svolgersi della relazione inter partes, cosı̀ che sia dato
valutare se l’atto attributivo, in ragione della sua congruità e adeguatezza rispetto a tale
relazione, possa davvero qualificarsi come adempimento di obbligazione naturale o non una
mera donazione motivata dalla convivenza, da considerare eventualmente nulla per difetto
di forma» (p. 963); similmente, riprendendo posizioni già espresse in dottrina e in giurisprudenza, ivi peraltro puntualmente riportate, SENIGAGLIA, Convivenza more uxorio e
contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 674 s.
(12) Il riferimento è a Cass. 24 gennaio 1958, n. 169, in Riv. giur. circ. e trasp., 1958,
p. 436.
(13) In tal senso Trib. Savona 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di
DOGLIOTTI, La forza della famiglia di fatto e la forza del contratto. Convivenza more uxorio e
presupposizione; Trib. Palermo 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, p. 1506; Trib. Savona 10
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contrattuale delle parti con positiva verifica del giudizio di meritevolezza
degli interessi perseguiti ai sensi dell’art. 1322, comma 2˚, c.c. riconducibile alla ravvisata causa (atipica) di convivenza (14). In altri termini, alla
riconosciuta liceità della convivenza more uxorio (per come via via considerata in plurimi interventi normativi, sia pure meramente settoriali), è
sostanzialmente corrisposta la ritenuta liceità dell’accordo finalizzato a
disciplinarne i rapporti patrimoniali (15). Peraltro, la richiamata definizione
normativa dei contratti di convivenza ex art. 1, comma 50˚, l. n. 76/16
evidenzia, a fronte della riconosciuta possibilità di accedere allo strumento
contrattuale, anche la predeterminazione normativa del relativo contenuto,
ossia la definizione (quale disciplina) dei rapporti patrimoniali con una
scelta di ordine programmatico, volta cioè a regolamentare prospetticamente il profilo economico della relazione instaurata (16).
In buona sostanza, l’intervenuta tipizzazione del contratto di convivenza fornisce adeguata soluzione al tema della causa delle attribuzioni
patrimoniali tra i contraenti, lasciando tuttavia all’interprete la soluzione
dei problemi che la stessa novella ha determinato, proprio in ragione della
non sempre chiara disciplina approntata con riguardo alla fattispecie contrattuale, sia per quanto riguarda il profilo genetico (ossia l’insorgere del
contratto con la connessa, relativa, dimensione contenutistica), sia per
quanto attiene il profilo dinamico (inerente cioè lo sviluppo del contratto),
sia, infine, per quanto concerne il profilo estintivo (attinente pertanto alla
cessazione dell’instaurato rapporto contrattuale).
3. Forma e opponibilità dell’accordo.
In maniera appropriata rispetto all’originario disegno di legge n. 2081,
presentato il 6 ottobre 2015 al Senato della Repubblica, è stato risolto il
problema della forma del contratto di convivenza (la cui relativa disciplina
giugno 2002, cit.; Trib. Savona 24 giugno 2008, in Fam. e dir., 2009, p. 385, con nota di
ASTIGGIANO, La possibilità di contrattualizzazione dei rapporti patrimoniali tra i partners che
compongono la famiglia di fatto.
(14) L’espressione è di VENUTI, I rapporti patrimoniali tra i conviventi, in Le relazioni
affettive non matrimoniali, cit., p. 286 e p. 290; similmente T. AULETTA, Diritto di famiglia,
Torino, 2014, p. 161.
(15) Trattasi peraltro di rilievo comune in dottrina, su cui già GAZZONI, Dal concubinato
alla famiglia di fatto, cit., p. 159; nonché BERNARDINI, La convivenza fuori dal matrimonio tra
contratto e relazione sentimentale, Padova, 1992, p. 212 ss.
(16) In merito già FRANZONI, I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1994, p. 744, ravvisava l’idoneità di simile fattispecie contrattuale ad assumere «un
valore programmatico del rapporto».
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viene poi estesa alle successive modifiche o alla eventuale risoluzione). Più
specificamente, infatti, mentre l’art. 19, comma 2˚ del citato disegno di
legge disponeva che «Il contratto di convivenza, le sue successive modifiche e il suo scioglimento sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, e
ricevuti da un notaio in forma pubblica», sembrando cosı̀ indicare la
esclusività della stipulazione per atto pubblico a pena di nullità, il successivo comma 3˚ sconfessava apertamente la soluzione prospettata, consentendo comunque al notaio la (mera) autentica delle sottoscrizioni apposte
dalle parti, con consequenziali (immaginabili) incertezze interpretative e
sicure (irresolubili) problematiche applicative. In maniera più avvertita,
invece, nel testo definitivo si è, per un verso, equiparato, quanto alla forma
richiesta, l’atto pubblico alla scrittura privata autenticata (dal notaio o
dall’avvocato) ai sensi dell’art. 1, comma 51˚, l. n. 76/16 (17), quantunque
ad entrambe le formalità scritte venga riconnessa (a carico del professionista) la (singolare) attestazione di conformità alle norme imperative e
all’ordine pubblico (18); per altro verso, poi, si è assicurata la relativa
opponibilità ai terzi prevedendo che «il professionista che ha ricevuto
l’atto in forma pubblica o che ne ha autentica la sottoscrizione (…) deve
provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune
di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli
5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30
maggio 1989, n. 223» (art. 1, comma 52˚, l. n. 76/16) (19).
(17) Il Consiglio nazionale forense con un comunicato stampa del 13 maggio 2016 ha
subito espresso «apprezzamento per la scelta del Parlamento di affidare anche agli avvocati
il compito di stipulare i contratti di convivenza di disciplina dei rapporti patrimoniali tra i
conviventi».
(18) Pur non presente il riferimento al buon costume il richiamo a norme imperative e
ordine pubblico sembra evocare la (complessiva) previsione dell’art. 1343 c.c., ossia il
contratto con causa illecita con consequenziale nullità ex art. 1418, comma 2˚, c.c. Non è
tuttavia ben chiaro quale sia il senso della richiesta attestazione da parte del professionista,
se non ai fini della relativa responsabilità per eventuale difforme (o mancata) attestazione,
non sembrando comunque qui venire in gioco, almeno per il profilo in considerazione, le
previsioni di cui agli artt. 2699 ss. c.c. (per l’atto pubblico) e degli artt. 2702 e 2703 c.c. (per
la scrittura privata autenticata); cosı̀ come pure non appaiono individuate le conseguenze
sull’atto della eventuale relativa mancata attestazione, risultando peraltro indubbio che
l’attestazione (vera o falsa) o la mancata attestazione non rendono l’atto diverso da quello
che lo stesso effettivamente è rispetto all’ordinamento, ossia valido o invalido. Sulla singolarità della nuova previsione di legge v., altresı̀, VENUTI, La regolamentazione delle unioni
civili, cit., p. 122 s.
(19) Anche con riferimento alle testuali indicazioni normative di rinvio deve rilevarsi il
carattere approssimativo (ed errato) del legislatore della novella, atteso che, come giustamente evidenziato rispetto allo schema originario da VENUTI, La disciplina dei rapporti
patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p. 1008, nt. 107, «il riferimento all’art. 5 pare frutto
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Dal punto di vista delle modalità di esteriorizzazione della volontà
negoziale si è cosı̀ allineato il sistema, sia per quanto riguarda la tipologia
della richiesta forma scritta (atto pubblico o scrittura privata autenticata)
sia per quanto concerne l’affermata nullità in termini di sanzione per
l’inosservanza della formalità prescritta. Quanto, invece, all’introdotto
meccanismo di opponibilità non sembra che il legislatore abbia fatto tesoro del sistema esistente, attraverso un appropriato coordinamento delle
relative regole, forse immemore del modus operandi degli strumenti pubblicitari, diversamente organizzati laddove l’oggetto della conoscenza sia
rappresentato da vicende personali piuttosto che patrimoniali; al riguardo,
infatti, appare indubbio che i registri anagrafici presso i quali è oggi
disposta l’iscrizione del contratto di convivenza costituiscono dei meri
registri della popolazione residente secondo quanto previsto dal decreto
del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, con limitata
funzione probatoria e prevalenti funzioni statistiche e amministrative (a
differenza, ad esempio, dei registri dello stato civile) (20). In altri termini,
l’organizzata pubblicità dei c.dd. contratti di convivenza, se appare coerente (in astratto) nel suo impianto complessivo, sostanzialmente ancorato
alla dichiarazione anagrafica dei conviventi, rispetto a cui l’eventuale contratto (come del resto, tuttavia, la stessa dichiarazione) non ha alcuna
efficacia costitutiva della convivenza medesima (ma ne replica la conoscibilità attraverso le risultanze anagrafiche della avvenuta iscrizione), non
sembra tuttavia garantire (in concreto) reale affidabilità al sistema e, soprattutto, non sembra in grado di assicurare ai terzi un adeguato meccanismo, nemmeno lontanamente paragonabile a quelli (già noti al legislatore) che viceversa sono deputati a svolgere tale (importante) funzione (21).
Il rilievo risulta più facilmente avvertibile alla luce del possibile contenuto contrattuale, destinato a dare vita a situazioni e vicende che richiedono risultanze estranee al sistema dell’anagrafe della popolazione residente, ossia non limitabili ad un generico dare notizia di un certo accadi-
di una svista (…), giacché esso disciplina la «convivenza anagrafica», fattispecie diversa da
quella della «famiglia anagrafica» di cui all’art. 4».
(20) Si tratta di rilievi critici già peraltro presenti in VENUTI, La disciplina dei rapporti
patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p. 1008 e T. AULETTA, Disciplina delle unioni non
fondate sul matrimonio, cit., p. 397.
(21) Sul punto sono sempre attuali, sia per la consueta lucidità espositiva (con innegabile valenza sistematica) sia per la puntuale incidenza pratica (con immediati riflessi
operativi), le pagine di PUGLIATTI, La pubblicità nel diritto privato. Parte generale, Messina,
1944, passim; ID., La trascrizione. La pubblicità in generale, in Tratt. Cicu-Messineo, XIV, 1,
Milano, 1957, passim.
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mento; con ogni probabilità proprio la sovrapposizione di profili personali
e profili patrimoniali (compresenti, come si vedrà, nella tipizzata fattispecie negoziale, a dispetto del nomen iuris utilizzato) ha indotto a predisporre un meccanismo non realmente in grado di soddisfare né le esigenze di
opponibilità dei primi (quanto alla assicurata mera conoscenza) né le
esigenze di opponibilità dei secondi (quanto al necessario coordinamento
con il più generale sistema della circolazione giuridica). Per contro, tuttavia, occorre evidenziare che la necessaria formalizzazione pubblica (in
conformità contenutistica, tra l’altro, al dato codicistico di cui all’art.
162 c.c.) e la connessa approntata opponibilità dell’accordo in esame
appaiono in linea con il sistema predisposto al fine di assicurare, tra fatto,
patto e rapporto, la conoscibilità legale della complessiva vicenda e dei
relativi sviluppi (22).
Deve, infine, rilevarsi che, a differenza della scrittura privata (sia pure
autenticata), la forma dell’atto pubblico (laddove prevista in via esclusiva)
avrebbe probabilmente assicurato la migliore realizzazione degli interessi
in gioco anche in ragione di un (non casuale) parallelismo con il disposto
dell’art. 162, comma 1˚, c.c., che per l’appunto prescrive esclusivamente la
forma dell’atto pubblico per le convenzioni matrimoniali, mentre oggi per
il contratto di convivenza (che pure può avere un contenuto determinativo
di un regime patrimoniale) questo è possibile anche nella forma (alternativa) della scrittura privata (sia pure autenticata) (23). Alla stessa stregua
peraltro deve ritenersi in ordine al correlato tema dell’opponibilità dello
stesso regime patrimoniale eventualmente successivamente modificato rispetto a quanto adottato nella convenzione di convivenza (cfr. art. 1,
(22) Non è dubbio che la fonte convenzionale si inserisca (per parte sua) nell’introdotto
sistema di predisposizione di uno statuto delle convivenze, presente o meno la attribuzione
di uno specifico status, secondo cioè il modello del matrimonio e, oggi, anche dell’unione
civile, in capo ai conviventi, considerata altresı̀ la qualifica ad essi riconosciuta dal punto di
vista della prova anagrafica. È pur vero, tuttavia, che a ben analizzare il nuovo dato normativo, la posizione del convivente (a maggior ragione se contraente) è in una certa misura
conformata ad un modello di status, quantunque forse non in linea con la scelta del convivere rispetto alla cosı̀ introdotta formalizzazione statuale (sia pure, quanto al patto, di
peculiare fonte convenzionale).
(23) Sulla diversità in punto di prescrizione formale tra l’atto pubblico e la scrittura
privata, efficacemente, C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, p. 278. In
ordine al rapporto tra forma vincolata (rispetto agli interessi protetti) e libertà delle forme
(rispetto all’attuale svuotamento di simile principio) diffusamente BRECCIA, La forma, in
ROPPO, Trattato del contratto, I, Formazione, a cura di Granelli, Milano, 2006, p. 504 ss.;
in precedenza, sulla relazione tra vincoli formali e finalità tutelate, autorevolmente, G. CIAN,
Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, passim.
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comma 54˚, l. n. 76/16), sostanzialmente speculare a quanto previsto dall’art. 162, comma 4˚, c.c.
4. L’aspetto contenutistico.
Per quanto attiene, poi, al profilo contenutistico (che indubbie correlazioni presenta con il tema, precedentemente analizzato, della forma e
della statuita opponibilità del contratto di convivenza), a fronte di un
pregresso e consolidato orientamento che ha sostanzialmente sempre
escluso che, al di là dell’aspetto patrimoniale, la regolamentazione convenzionale tra i conviventi potesse avere ad oggetto anche obblighi di natura
personale (24) deve registrarsi, per un verso, la recente apertura di una
parte della dottrina ad una simile possibilità (25) e, per altro verso, la
sostanziale neutralità (almeno cosı̀ sembra) dell’attuale novellato dato normativo.
Quanto a quest’ultimo deve infatti rilevarsi una scelta (per certi versi)
minimalista, nel senso che, da un lato, il legislatore ha tenuto ferma la
dizione, affermatasi nella prassi, di contratto di convivenza, che, proprio a
fronte del dibattito pregresso sul rapporto, in questo specifico àmbito, tra
accordo e contratto, non dovrebbe essere interpretata come meramente
casuale (non potendo certamente risultare ignota la relativa questione); a
meno di non doversi ritenere (alla luce delle regole di disciplina introdotte)
la non appropriatezza del termine formale prescelto a fronte di una ben
diversa sostanza dell’atto. In altri termini, ci si potrebbe (almeno a prima
vista) ragionevolmente indirizzare, anche in considerazione della diversità
(comunque legislativamente ricavabile) tra modello della convivenza e
modello matrimoniale (ma anche quanto all’introdotta unione civile), verso
una dizione propriamente tecnica del termine “contratto” (26). Tale inter-
(24) Il riferimento è, tra i tanti, a GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p.
164; BALESTRA, La famiglia di fatto, in Il nuovo diritto di famiglia, II, diretto da Ferrando,
Bologna, 2008, p. 1079; T. AULETTA, Diritto di famiglia, cit., p. 161.
(25) Si richiama la posizione di DELLE MONACHE, Convivenza more uxorio, cit., p. 949
ss., che prospetta, in buona sostanza, una possibile regolamentazione del rapporto di convivenza secondo il modello matrimoniale (con la deducibilità dunque di obblighi personali
quali la fedeltà e la coabitazione), quantunque lo stesso A. abbia a rilevare che simile
discorso «ha un valore solo teorico poiché difficilmente coloro che scelgono di convivere
saranno disponibili a disciplinare anche gli aspetti personali del loro rapporto» (p. 952).
(26) Diversamente, prima però della riforma, DELLE MONACHE, Convivenza more uxorio, cit., p. 946 ss. e spec. p. 948 ss., quantunque possano ritenersi valide anche adesso le
argomentazioni al riguardo acutamente prospettate, in relazione altresı̀ alla individuata
(eventuale) responsabilità extracontrattuale in ipotesi di violazione degli impegni (diretti a
ispessire il rapporto di convivenza) cosı̀ assunti per regolare la condotta di vita personale.
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pretazione, invero, non sembrerebbe essere inficiata dalla circostanza che
lo stesso legislatore della novella ha previsto che il contratto in questione, il
quale reca peraltro «l’indicazione dell’indirizzo indicato (sic) da ciascuna
parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo» (art. 1, comma 53˚, l. n. 76/16), può contenere, tra l’altro, l’indicazione della residenza ex art. 1, comma 53˚, l. n. 76/16, risultando preminenti ed esclusive le esigenze patrimoniali al cui soddisfacimento è
funzionale la stipulazione convenzionale proprio in ragione del relativo
contenuto che peraltro la stessa disciplina espressamente menziona (27).
Dall’altro lato, poi, quanto allo specifico contenuto patrimoniale, non
risulta del tutto chiaro se quanto disposto debba interpretarsi come indicazione meramente esemplificativa (28) oppure, al contrario, quale formulazione esaustiva e non suscettibile di ulteriori previsioni pattizie, tuttavia
non riferibili ovviamente, una volta tenute ferme le superiori precisazioni,
a profili di carattere personale (29).
Al fine di sciogliere il dubbio interpretativo relativo all’àmbito patrimoniale può risultare conducente l’indagine diretta ad analizzare proprio
le indicazioni provenienti dal testo di legge che prospetta, quale possibile
contenuto del contratto, «b) le modalità di contribuzione alle necessità
della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di
lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione
dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del
(27) Non può infine sottacersi che, laddove si aderisca alla dottrina che ritiene in
contrasto con l’ordine pubblico l’eventuale pattuizione con contenuto di natura personale,
il contratto cosı̀ stipulato non potrebbe recare l’attestazione richiesta dall’art. 1, comma 51˚,
l. n. 76/16, ossia la conformità (dichiarata dal notaio o dall’avvocato) all’ordine pubblico (o,
comunque, alle norme imperative); anzi, forse più precisamente, un atto di tal fatta dovrebbe preliminarmente ritenersi, proprio a tutela del professionista (che altrimenti sarebbe
certamente responsabile), da questi non rogabile o autenticabile.
(28) In tal senso T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., p.
396, che richiama, a mo’ di esempio, l’attribuzione della casa familiare, il riconoscimento di
diritti conseguenti allo scioglimento della convivenza, come l’assegno di mantenimento, e via
dicendo; similmente, in precedenza, VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel
D.D.L. Cirinnà, cit., p. 1009.
(29) Non apparirebbe cioè conforme (e, prima ancora, coerente) una soluzione che,
mantenuta la prevalenza del dato patrimoniale e, dunque la (tecnica) dizione contrattuale
del possibile accordo, consentisse poi pattuizioni estranee a tale dato contenutistico (il cui
oggetto, quanto all’effetto, è propriamente dato dalla tradizionale definizione di cui all’art.
1321 c.c.). Del resto, potrebbe aggiungersi, i rilevanti profili di natura strettamente personale sono stati già dal legislatore tenuti presenti allorché quest’ultimo ha delineato le situazioni giuridiche soggettive riconnesse al fatto, in sé, della convivenza (cfr. art. 1, commi dal
38˚ al 49˚, l. n. 76/16), rimanendo pertanto di esclusiva competenza normativa l’aspetto non
patrimoniale della relazione cosı̀ instaurata.
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codice civile» (art. 1, comma 53˚, l. n. 76/16). In merito, l’indicata possibilità determinativa con l’espresso riferimento ad oggetti (comunque) specificati, per quanto riguarda la contribuzione di natura solidaristica e
preordinata al menàge dei conviventi, in qualche modo speculare a quanto
previsto al riguardo, rispetto ai coniugi, dall’art. 143, comma 3˚, c.c., può
ragionevolmente intendersi non essenziale ed esaustiva, pur, come autorevolmente evidenziato, nel rispetto dei diritti indisponibili (come nel caso
del diritto agli alimenti, per l’ipotesi di cessazione della convivenza, ex art.
1, comma 65˚, l. n. 76/16) e dei principi inderogabili dell’ordinamento (30).
Diversamente, invece, deve ritenersi per ciò che attiene al richiamato
regime della comunione legale dei beni tra coniugi ai sensi degli artt.
159 e 177 ss. c.c., in ordine al quale va predicata l’esclusività del riferimento (rispetto ai modelli legali), avendo in questo caso l’espresso richiamo normativo, anche in relazione ai connessi profili di appartenenza, di
gestione, di scioglimento e di pubblicità in materia, valenza di unicità
proprio in mancanza di (ulteriore) esplicita previsione di legge (31); del
resto, la stessa residua possibilità della pur consentita modifica dell’originario regime di comunione legale ai sensi dell’art. 1, comma 54˚, l. n. 76/
16 (nel rispetto delle formalità richieste per rinvio) può, al più, indirizzarsi
verso un’ordinaria situazione di appartenenza individuale dei beni (ripristinando, pertanto, la presumibile situazione anteriore al contratto di convivenza), determinando cosı̀ lo scioglimento della comunione legale (32).
Con specifico riguardo al primo dei profili richiamati, ossia la determinazione in contratto delle modalità di contribuzione alle necessità della
vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di
lavoro professionale o casalingo dei conviventi, può evidenziarsi che, mentre è il vincolo costitutivo del matrimonio a implicare il sorgere ex lege dell’obbligo contributivo a cui si richiama la previsione dell’art. 143, comma
3˚, c.c., nel caso della convivenza è il contratto a porsi come fonte (pur
sempre eventuale ma) costitutiva dell’obbligo relativo che, peraltro, si
(30) Il riferimento è a T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio,
cit., p. 396, il quale, a tal ultimo proposito, richiama il divieto di patti successori quale
impedimento alla rinuncia del diritto all’abitazione che abbia formato oggetto di una previsione contrattuale.
(31) Si è, ad esempio, in merito rilevato da T. AULETTA, Disciplina delle unioni non
fondate sul matrimonio, cit., p. 396, la non ammissibilità della costituzione di un fondo
patrimoniale a beneficio della famiglia di fatto; per l’interpretazione restrittiva anche VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p. 1011.
(32) In tema VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p.
1010 s., che correttamente esclude la possibilità (sia originaria sia successiva) di un regime di
separazione dei beni secondo il modello di cui agli artt. 215 ss. c.c.
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articola in ragione delle modalità convenzionalmente pattuite; la parificazione tra i due modelli (quello matrimoniale dei coniugi e quello contrattuale dei conviventi) avviene invece in ordine al parametro di definizione
della contribuzione, ancorato, rispetto alle necessità della vita in comune,
ai medesimi criteri di ripartizione del dovuto, ossia la proporzionalità
rispetto a beni e/o redditi e il raccordo con l’attività (lavorativa) professionale o casalinga (33).
Quanto invece alla possibile scelta del regime patrimoniale della comunione legale dei beni tra i conviventi, ad instar di quello automaticamente instaurato tra i coniugi (salvo diversa manifestazione di volontà di
questi ultimi), la soluzione prospettata dal legislatore della novella che ne
consente espressamente l’adozione si coordina, anche qui in maniera speculare con quanto accaduto nel sistema del codice civile del 1942 per la
famiglia matrimoniale, con il regime contributivo in precedenza evidenziato per sovvenire alle necessità della vita in comune (dei conviventi cosı̀
come dei coniugi). In altri termini, è stato riproposto, tra i possibili, il
duplice modello patrimoniale, indipendentemente dal rilievo se tra profilo
contributivo e regime patrimoniale (entrambi rilevanti sotto l’aspetto patrimoniale) sia stata normativamente instaurata (già a suo tempo) una
relazione contraddistinta dal tratto della (condivisa) generalità oppure di
una differenziata caratterizzazione (in ragione dei diversi tratti di connotazione) (34). Resta in ogni caso indubbio, per quanto qui di interesse, che
la qualificazione in termini di regime serve a richiamare un complesso di
regole di disciplina degli atti che vi fanno riferimento, rispetto a cui, in
merito alle tematiche di ordine patrimoniale familiare (oggi speculari al
contratto di convivenza), è stato autorevolmente rilevato che «secondo
l’intenzione del legislatore il riferimento al regime patrimoniale della famiglia vale a indicare riassuntivamente l’insieme di norme – legali, o, in
deroga, pattizie – che determinano una speciale condizione giuridica dei
diritti patrimoniali acquistati da persone fisiche, in dipendenza del vincolo
matrimoniale da cui queste sono legate» (35).
(33) Il profilo della solidarietà economica matrimoniale, che oggi costituisce il punto di
riferimento (rispetto a talune questioni già al riguardo affrontate) anche rispetto alle possibili
relative determinazioni oggetto del contratto di convivenza, è accuratamente indagato da
PARADISO, sub art. 143, in I rapporti personali tra coniugi, cit., p. 105 ss.
(34) Il tema, relativamente al rapporto coniugale, è approfonditamente analizzato da E.
RUSSO, sub art. 177, in L’oggetto della comunione legale e i beni personali (Artt. 177-179), in
Comm. Schlesinger, Milano, 1999, p. 29 ss.
(35) G. GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez.
civ., XVI, Torino, 1997, p. 334.
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Pertanto, il regime patrimoniale dei conviventi, indicando (per l’appunto quale regime) il tema della funzione programmatica del contratto di
convivenza al cui interno venga adottata la comunione legale dei beni (con
il particolare risultato, tra gli altri, del cosı̀ determinato regime di contitolarità degli acquisti effettuati durante la convivenza), è stato dalla novella
legislativa parametrato a quanto già sembrava consentito in precedenza,
attraverso cioè una regolamentazione pattizia modellata secondo le disposizioni di cui agli artt. 177 ss. c.c. Rispetto al pregresso, tuttavia, risulta di
tutta evidenza la profonda diversità del sistema attuale, che contempla un
(peculiare) regime pubblicitario; infatti, a fronte della comune fonte convenzionale, essendone stata oggi prevista, ai fini della relativa opponibilità
(come già in precedenza evidenziato), l’iscrizione all’anagrafe ai sensi dell’art. 1, comma 52˚, l. n. 76/16, viene superato il problema della mera
efficacia inter partes dell’intervenuto accordo, anche con riguardo al regime patrimoniale adottato (36).
Da evidenziare, infine, la preclusa possibilità, di sottoporre il contratto
a termini o condizioni, che, laddove inseriti, «si hanno per non apposti»
(art. 1, comma 56˚, l. n. 76/16). In merito, unitamente ai rilievi decisamente critici già espressi (37), deve altresı̀ evidenziarsi che la disposta non
apponibilità accomuna la fattispecie in esame ai c.dd. actus legitimi, che,
tuttavia, appartengono o all’àmbito decisamente non patrimoniale (questo
è il caso del matrimonio ai sensi dell’art. 108, comma 1˚, c.c. e, in genere,
(36) Tale soluzione, tuttavia, non esime dall’ordine di problemi efficacemente rappresentato da VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p. 1010, a
proposito dei predisposti meccanismi pubblicitari, in considerazione della rilevata non
sovrapponibilità della «pubblicità realizzata tramite l’iscrizione all’anagrafe (…) a quella
prevista per la comunione legale e, più in generale, per le convenzioni patrimoniali tra i
coniugi». Peraltro, proprio con riguardo al regime patrimoniale della famiglia (che rappresenta il termine di riferimento normativo rispetto alla disciplina di quanto adottato in merito
con il contratto di convivenza) è ben nota la problematicità dell’introdotto rapporto tra
annotazione e trascrizione dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, su cui GAZZONI, sub
art. 2647, in La trascrizione immobiliare (Artt. 2646-2651), II, in Comm. Schlesinger, Milano,
1993, p. 39 ss., che richiama, tra le altre, l’autorevole (critica) posizione di G. CIAN, Sulla
pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 33 ss.
(37) Sul punto, efficacemente, T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio, cit., p. 397, a cui avviso, addentrandosi nelle possibili soluzioni rimesse all’autonomia privata, «non si comprende la ragione per la quale non dovrebbe essere meritevole
di tutela, ad esempio, un contratto con il quale si assicura al convivente, dopo la rottura
dell’unione, un diritto al mantenimento per un periodo determinato o subordinatamente al
fatto che la crisi non sia riconducibile al suo comportamento»; in termini similari, in
precedenza, VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit., p.
1009, proprio con riferimento a pattuizioni di natura squisitamente patrimoniale relativamente ad oggetti differenti da quelli espressamente menzionati nel testo di legge.
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dei negozi di diritto familiare); oppure all’àmbito patrimoniale non contrattuale (questo è il caso dell’accettazione dell’eredità ex art. 475, comma
2˚, c.c.); oppure ancora all’àmbito patrimoniale rispetto al quale può non
rilevare (anche se fosse sottesa) la fattispecie contrattuale (questo è il caso
della cambiale secondo la previsione dell’art. 1, n. 2 e art. 2, comma 1˚, r.d.
n. 1669/1933 e con riferimento, altresı̀, alla relativa girata e all’accettazione
cambiaria, rispettivamente, ex artt. 16 e 31, r.d. n. 1669/1933). Cosı̀ come,
d’altro canto, gli effetti scaturenti dalla eventuale apposizione (in violazione della regola di legge) non appaiono uniformi, disponendosi talora (al
pari del contratto di convivenza) che termine e condizione si hanno per
non apposti (cfr., quanto al matrimonio, art. 108, comma 2˚, c.c.); oppure
sancendosi la nullità della dichiarazione negoziale (cfr., quanto all’accettazione dell’eredità, art. 475, comma 2˚, c.c.); oppure ancora (rispetto alla
condizione) prospettandosi l’incidenza sulla configurabilità giuridica dell’atto (cfr., quanto al titolo cambiario, art. 2, comma 1˚, r.d. n. 1669/1933);
oppure, infine, statuendosi la non rilevanza (cfr., quanto alla girata e
all’accettazione della cambiale, rispettivamente artt. 16, comma 1˚ e 31,
comma 2˚, r.d. n. 1669/1933).
A fronte della molteplicità (ed eterogeneità) dei riferimenti ora richiamati, la soluzione più congrua e, in qualche misura, maggiormente in linea
con il senso della novella legislativa, potrebbe essere quella di limitare la
previsione legislativa (in considerazione della disposta elisione del termine
o della condizione eventualmente apposti in contratto) alla fattispecie
negoziale nel suo complesso, senza però escludere che singole clausole
convenzionali possano essere sottoposte agli elementi accidentali in questione. Si tratta di interpretazione già autorevolmente prospettata (38) e che
avrebbe il vantaggio di non inutilmente mortificare l’autonomia privata
rispetto a congrue formulazioni convenzionali di gestione della relazione
di convivenza, dovendosi piuttosto ritenere che il limite normativo vada
assunto come garanzia della permanenza del rapporto cosı̀ scaturente e
dunque solo a quest’ultimo da riferire.
Tale soluzione, peraltro, non sembra provare troppo, in disparte ogni
considerazione sul senso della cosı̀ rafforzata strutturazione del vincolo,
dovendo comunque essere ricondotta ad una complessiva ricostruzione
orientata a condividere l’assunzione di una direttrice indirizzata a spostare
il baricentro della complessiva valutazione dell’atto in termini prettamente
(38) Il riferimento è a T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio,
cit., p. 397.
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simil-matrimoniali e, correlativamente, più consapevolmente rivolta verso
una configurazione sostanzialmente non contrattuale dell’accordo tra i
conviventi, evidenziandone piuttosto il carattere di negozio parafamiliare (39). Al contempo, altresı̀, potrebbe ravvisarsi, nello specifico, un parallelismo con le cause di scioglimento del contratto di convivenza, le quali,
una volta tipizzate, non consentirebbero una diversa articolazione riferibile a
distinti meccanismi (che non possono essere) affidati alle scelte delle parti.
In buona sostanza, allora, proprio talune esplicite soluzioni adottate dalla
novella legislativa risultano maggiormente in linea con la qualificazione negoziale (ma non contrattuale) della scelta compiuta dai conviventi (contraenti); ciò è infatti attestato da una serie di previsioni che (più o meno chiaramente) tendono a parificare (non soltanto sotto l’aspetto contenutistico) le
risultanze della scelta convenzionale dei conviventi ad un modello conformativo della relativa posizione nei confronti dell’ordinamento (replicando,
più o meno avvertitamente, lo schema di un negozio parafamiliare).
5. L’invalidità dell’atto.
In maniera similare a quanto disposto in materia matrimoniale con
riferimento alle condizioni necessarie per (validamente) istituire il relativo
vincolo (40) il legislatore della novella ha introdotto una disciplina che, a
fronte della eterogeneità dei presupposti richiesti (in ordine cioè alla correlativa, astratta, incidenza sull’atto), sancisce la nullità (insanabile) del contratto di convivenza in presenza di vizi attinenti ai soggetti, quali, ai sensi
dell’art. 1, comma 57˚, l. n. 76/16, la presenza del matrimonio, dell’unione
civile o di un altro contratto di convivenza, a cui si aggiunge la sussistenza di
(39) Si tratta, in altri termini, di ragioni che hanno (entrambe) a che fare con la
soluzione adottata al riguardo dal legislatore all’art. 108 c.c. rispetto al matrimonio, essendosi appropriatamente in merito rilevato da RENDA, Della celebrazione del matrimonio (artt.
106-114), in Della famiglia (artt. 74-116), a cura di Balestra, in Comm. UTET, Torino, 2010,
p. 181 s., che il relativo divieto di apposizione di termini e condizioni (che comunque si
hanno per non apposti) è «esemplificazione paradigmatica della sottrazione degli effetti del
matrimonio all’autonomia privata, la quale, nella fase costitutiva, si arresta alla libertà di
contrarre o meno matrimonio». Risulta del tutto evidente che un simile ragionamento non
può ritenersi sotteso all’àmbito del contratto di convivenza, proprio con riferimento agli
effetti dallo stesso determinati e, ancora più a monte, estraneo al senso della scelta compiuta
dai conviventi; al contempo, tuttavia, proprio alla luce di quanto esposto in testo e di quanto
si avrà modo di evidenziare nel prosieguo, appare più verosimile (quantunque non sempre
appropriatamente esteriorizzata dal legislatore della riforma) la prospettiva dell’accordo non
contrattuale.
(40) In merito mi permetto di rinviare a DI ROSA, Delle condizioni necessarie per
contrarre matrimonio (artt. 84-90), in Della famiglia (artt. 74-116), a cura di Balestra, in
Comm. UTET, Torino, 2010, p. 73 ss.
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rapporti di parentela, affinità o adozione, oltre che la minore età, l’interdizione giudiziale e l’intervenuta condanna di una parte per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra ex art. 88 c.c. (41). Non è in questa sede
il caso di insistere sulla farraginosa tecnica descrittiva adottata, considerato
che, soltanto per fare un esempio, sarebbe stato sufficiente unificare (richiamando semplicemente la violazione dell’art. 1, comma 36˚, l. n. 76/16) tutte
le ipotesi di relazioni e/o condizioni impeditive, piuttosto che (parzialmente)
duplicare le singole voci richiamate (42). Con ogni probabilità, volendo dare
un senso alla scelta operata, si è preferito evidenziare a parte (ossia con la
specifica dizione contenuta nell’art. 1, comma 57˚, l. n. 76/16) quelle ipotesi
(ossia preesistente vincolo matrimoniale, unione civile, contratto di convivenza) la cui sussistenza avrebbe determinato (da qui l’introdotta nullità del
successivo contratto di convivenza stipulato) un conflitto derivante dai diversi rapporti concorrenti.
Ciò che invero desta più di qualche perplessità, già peraltro avanzata in
sede progettuale (43), è, per un verso, l’identico trattamento giuridico (la
nullità) di ipotesi tra di loro cosı̀ differenti, alcune delle quali relative alla
legittimazione e produttive pertanto a stretto rigore di inefficacia (44); per
altro verso, un trattamento giuridico addirittura più grave (nullità insanabile) in ipotesi che, con riferimento al matrimonio, prevedono una sanatoria (è
questo il caso dell’interdizione rispetto alla quale l’art. 119, comma 2˚, c.c.
esclude la relativa azione di impugnazione se, una volta revocata l’interdizione, vi è stata coabitazione per un anno) (45). In ogni caso la prevista
(41) Con riferimento al richiamato art. 88 c.c. occorre altresı̀ evidenziare la disposta
sospensione degli effetti del contratto di convivenza «in pendenza del procedimento di
interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il
delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di
proscioglimento» (art. 1, comma 58˚, l. n. 76/16), anch’essa costituente una (singolare)
novità. Critico sulla prevista nullità del contratto di convivenza in presenza dell’impedimentum criminis T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., p. 397 s.,
ad avviso del quale «o si considera la convivenza contra legem, e dunque, improduttiva di
effetti o, altrimenti, non sussiste ragione per impedire la regolamentazione convenzionale del
rapporto».
(42) L’unica da menzionare in aggiunta, nel rapporto tra il comma 36˚ e il comma 57˚
dell’art. 1, l. n. 76/16, sarebbe stata l’ipotesi della preesistenza di altro contratto di convivenza.
(43) Al riguardo VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit.,
p. 1007, nt. 105.
(44) Lo evidenzia T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit.,
p. 397.
(45) Con riguardo al disposto divieto per l’interdetto giudiziale mi permetto di rinviare
a DI ROSA, sub art. 85, in Delle condizioni necessarie per contrarre matrimonio, cit., p. 84 ss.,
ove, pure in presenza di voci contrarie, il rilievo della possibile relativa disapplicazione in
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nullità appare di richiamo all’operato del professionista rispetto alla redazione dell’atto pubblico (da parte del notaio) o alla autenticazione della
sottoscrizione della scrittura privata (da parte del notaio o dell’avvocato),
in considerazione altresı̀ della richiesta attestazione di conformità alle norme
imperative e all’ordine pubblico ex art. 1, comma 51˚, l. n. 76/16.
6. Le vicende del rapporto.
Con riguardo alle vicende del validamente stipulato contratto di convivenza la previsione di specifiche cause di scioglimento, pur assunte sotto
il comune (improvvido) istituto della risoluzione, va di pari passo con gli
effetti scaturenti, incidenti (in buona sostanza) con l’assetto patrimoniale
dato alla relazione dai paciscenti, secondo quanto risulta dall’articolato
disposto dell’art. 1, commi dal 59˚ al 63˚, l. n. 76/16. In tal senso, peraltro,
nel caso in cui i conviventi avessero convenzionalmente scelto il regime
patrimoniale della comunione legale dei beni, l’intervenuto scioglimento
del contratto determina il venir meno «della comunione medesima e si
applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del
capo IV del titolo VI del libro primo del codice civile» (art. 1, comma 60˚,
l. n. 76/16), ossia le previsioni ex artt. 191 ss. c.c. (46).
Il richiamato giudizio di compatibilità quale presupposto di applicabilità delle regole codicistiche deve, tra l’altro, tenere in debito conto che
talune delle disposizioni dettate in tema di scioglimento della comunione
legale appaiono funzionali, permanendo il vincolo coniugale, alla gestione
del sussistente rapporto, risultando pertanto inconferenti in ipotesi di
scioglimento della comunione legale derivante dalla risoluzione del contratto di convivenza, laddove ciò implichi il venir meno della stessa situazione di convivenza. Non del tutto chiara appare, poi, la disposta ferma
«competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immo-
considerazione della introduzione della figura dell’amministratore di sostegno di cui ai
novellati artt. 404 ss. c.c.
(46) Occorre al riguardo rilevare che lo stesso richiamo alle disposizioni codicistiche di
rinvio non è scevro da difficoltà operative, essendo ben presenti, come appropriatamente
evidenziato da AMAGLIANI, Scioglimento della comunione (artt. 191-192), in Della famiglia
(artt. 177-342 ter), a cura di Balestra, in Comm. UTET, Torino, 2010, p. 152 ss., oltre
all’infelice lessico normativo (rispetto alla dicotomia scioglimento della comunione/divisione
dei beni), anche le relative divergenze interpretative quanto alle possibili soluzioni applicative, con particolare riferimento alle singole cause che hanno dato luogo allo scioglimento
del regime legale; altresı̀ PALADINI, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei
beni, in Il diritto di famiglia, III, I rapporti patrimoniali fra coniugi, a cura di T. Auletta, in
Tratt. Bessone, Torino, 2011, p. 597 ss.
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biliari comunque discendenti dal contratto di convivenza» (art. 1, comma
60˚, l. n. 76/16), probabilmente diretta, in ragione della collocazione, a
confermare la regola della necessità dell’atto pubblico (e, di più, della
espressa esclusiva redazione notarile, senza alcun richiamo ad altre categorie professionali) rispetto agli atti traslativi (o comunque costitutivi) di
diritti reali di natura immobiliare correlati, più che al contratto di convivenza, al relativo scioglimento a cui accede il venir meno dell’eventualmente prescelto regime della comunione legale dei beni.
La prevista risoluzione contrattuale è individuata, come già evidenziato,
rispetto a fattispecie assai differenti tra di loro, considerato che l’accordo
delle parti ex art. 1, comma 59, lett. a, l. n. 76/16 costituisce ipotesi di
mutuo consenso (o dissenso), replicando la formula contenuta nell’art. 1372
c.c.; il recesso unilaterale ex art. 1, comma 59, lett. b, l. n. 76/2016 traduce la
riconosciuta iniziativa unilaterale rispetto all’efficacia vincolante dell’accordo, possibile (anche secondo il modello di cui all’art. 1372 c.c.) in quanto
specifica ipotesi normativamente prevista; l’intervenuto matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente e altra persona ex art. 1, comma
59˚, lett. c, l. n. 76/16 rappresenta una condizione di incompatibilità successiva che incide sul rapporto (determinandone lo scioglimento legale),
speculare alla originaria prevista nullità che opera sull’atto (ai sensi cioè
del già esaminato art. 1, comma 57˚, l. n. 76/16); la morte di uno dei
contraenti ex art. 1, comma 59˚, lett. d, l. n. 76/16 non introduce, invero,
alcuna regola particolare né, tanto meno, di necessaria esplicazione, considerato la sua corrispondenza a principi di carattere generale.
Ovviamente, in ipotesi di provenienza negoziale (sia l’accordo delle parti
sia l’iniziativa unilaterale) la risoluzione deve avvenire nel rispetto delle
formalità previste per la stipula del contratto di convivenza; pertanto, nonostante (anche qui) la non felice indicazione normativa, secondo cui la risoluzione «del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso
unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51» (art. 1,
comma 60˚, l. n. 76/16), è l’accordo delle parti o il recesso unilaterale a
dovere assumere, ai fini della relativa validità, la forma dell’atto pubblico o
della scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un
pubblico ufficiale. Cosı̀ come pure, nonostante il legislatore abbia previsto
che solo in caso di recesso unilaterale «il professionista che riceve o autentica l’atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a
notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto»,
non sembrano sussistere ragioni valide per non estendere al professionista il
rispetto degli adempimenti richiesti ai fini della opponibilità ai terzi dall’art.
1, comma 52˚, l. n. 76/16 anche in ipotesi di risoluzione consensuale del
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contratto di convivenza. Questa soluzione, del resto, appare anche in linea
(attraverso una ragionevole interpretazione) con quanto disposto riguardo
alle altre due ipotesi di scioglimento del rapporto derivante dal contratto di
convivenza, ossia l’intervenuto matrimonio o unione civile tra i conviventi o
tra un convivente e altra persona, rispetto a cui è previsto che il contraente a
cui si riferiscono le su indicate ipotesi «deve notificare all’altro contraente,
nonché al professionista che ha ricevuto o autentica il contratto di convivenza l’estratto di matrimonio o di unione civile» (art. 1, comma 62˚, l. n.
76/16), evidentemente sottendendo l’esigenza di soddisfare, per questa via e
attraverso l’ausilio del professionista, il meccanismo pubblicitario anagrafico;
nonché, ancora più chiaramente, la morte di uno dei contraenti, rispetto a
cui espressamente si dispone che «il contraente superstite o gli eredi del
contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o
autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché
provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta
risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza» (art. 1, comma 63˚, l. n. 76/16).
Con riferimento, infine, alla specifica ipotesi del recesso unilaterale,
laddove il recedente abbia la disponibilità esclusiva della casa familiare, la
dichiarazione di recesso deve contenere, a pena di nullità, «il termine, non
inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione»
(art. 1, comma 61˚, l. n. 76/16). Ora, al di là dell’incrementato lasso temporale rispetto al progetto originario (che lo fissava in soli trenta giorni), e
condivisa la ratio della previsione normativa, certamente individuabile nella
tutela del diritto fondamentale all’abitazione (47) di chi, come il convivente
non titolare, non può comunque considerarsi mero ospite (48), deve aderirsi
al prospettato sganciamento di simile regola dalla sussistenza di un contratto
di convivenza; anche, cioè, in mancanza di quest’ultimo, e proprio in considerazione della ormai copiosa giurisprudenza in materia, non può sicuramente ritenersi che il convivente non titolare possa essere cacciato immediatamente di casa al cessare della relazione di convivenza (49). Pertanto, il
(47) In tal senso VENUTI, La disciplina dei rapporti patrimoniali nel D.D.L. Cirinnà, cit.,
p. 1012.
(48) Sul punto, chiaramente, T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., p. 392, ai cui riferimenti giurisprudenziali (di legittimità e di merito) in ordine
alla tutela possessoria del convivente (sia verso l’altro convivente sia verso i terzi) può
aggiungersi il recente (parzialmente critico) contributo di GUZZARDI, Convivenza more uxorio e tutela possessoria dell’immobile adibito a casa familiare, in Fam. e dir., 2013, p. 1051 ss.
(49) Si tratta della posizione di T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio, cit., p. 392 s.
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le nuove leggi
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termine fissato dal legislatore della novella potrebbe analogicamente applicarsi anche alla convivenza a cui non acceda un relativo contratto di disciplina dell’assetto patrimoniale, richiamando cioè una identità di ratio difficilmente contestabile. Quanto, poi, al rapporto tra necessaria previsione del
termine, stabilita a pena di nullità, e durata minima del termine in questione,
fissata in (almeno) novanta giorni, può forse rilevarsi la eccessiva ossessione
normativa per l’utilizzata categoria della nullità-sanzione, considerato che lo
stesso risultato (in termini cioè di tutela del convivente non titolare) si
sarebbe potuto raggiungere consentendo comunque di invocare (attraverso
l’integrazione ex lege dell’eventuale dichiarazione di recesso mancante del
termine o con la nullità parziale del recesso medesimo con sostituzione
automatica di clausola in caso di termine minore) la disposta previsione
normativa caratterizzata dal tratto della non derogabilità (sia in ordine all’an sia in ordine al quantum del termine) (50).
7. Cenni di diritto internazionale privato.
La regola contenuta nell’art. 1, comma 64˚, l. n. 76/16, che introduce
all’interno della legge 31 maggio 1995, n. 218, contenente le disposizioni
del diritto internazionale privato, l’art. 30 bis, rubricato per l’appunto
“Contratti di convivenza”, prevede l’adozione di una disciplina che replica
(in buona sostanza) la regolamentazione prevista dall’art. 29, l. n. 218/
1995 in tema di rapporti personali tra coniugi, atteso che rimanda all’applicazione della «legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di
diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è
prevalentemente localizzata» (art. 30 bis, comma 1˚, l. n. 218/1995); sono
comunque fatte salve «le norme nazionali, internazionali ed europee che
regolano il caso di cittadinanza plurima» (art. 30 bis, comma 2˚, l. n. 218/
1995). Si tratta, indubbiamente, di un altro dato che, conformemente a
quanto richiamato in altri punti di questo contributo, milita nel senso di
assegnare ai c.dd. contratti di convivenza una natura differente da quella
meramente contrattuale (al di là del nomen iuris utilizzato e mutuato dalla
prassi), considerato che anche la disciplina delle questioni attinenti ai
profili internazional-privatistici della fattispecie in esame ricalca le medesime regole a suo tempo introdotte per la regolamentazione dei profili
personali del negozio matrimoniale.
(50) La disposta nullità risponde probabilmente all’avvertita necessità di costringere il
recedente a nuovamente esercitare un valido recesso, obbligandolo cosı̀ ad un’ulteriore
iniziativa con dispendio di tempo e quant’altro richiesto.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
8. Rilievi conclusivi.
L’indagine condotta, che sconta ovviamente la assoluta novità del
dettato legislativo, pur nella sussistenza di un ben noto e articolato pregresso dibattito, ha mostrato la difficoltà di un’analisi interpretativa lineare
e sistematica. Sulle (reiterate) imprecisioni e/o approssimazioni del dato
normativo non è necessario ritornare (51), se non per rimarcare la non più
procrastinabile rimeditazione dell’attuale modo di legiferare. Quanto, poi,
alla categoria negoziale cosı̀ introdotta, ossia i c.dd. contratti di convivenza, dal complessivo impianto normativo sembra emergere una scelta che,
mutuata l’adottata terminologia classificatoria dalla prassi, evidenzia una
organizzazione, non solo contenutistica ma altresı̀ di posizione, della relazione convenzionale di convivenza, modellata in maniera simil-matrimoniale. In altri termini, il c.d. contratto di convivenza appare strutturato, sia
dal punto di vista della genesi dell’accordo, cosı̀ come pure dello svolgimento e della eventuale cessazione, in maniera tale da configurarsi in
termini alternativi al matrimonio o all’unione civile. In questo contesto,
dunque, l’accordo raggiunto, che dà vita a una specifica regolamentazione,
fornisce una rappresentazione non squisitamente contrattuale, nel senso
che la certa compresenza di aspetti patrimoniali, cosı̀ come per il matrimonio (e, oggi, per l’unione civile), non assume un rilievo decisivo e
determinante ai fini di una connotazione tipicamente contrattuale (52).
(51) Non ultimo l’incomprensibile utilizzo, quanto ai soggetti che hanno stipulato un
accordo di convivenza, dell’espressione «appartenenti al contratto di convivenza» (art. 1,
comma 55˚, l. n. 76/16), il rispetto della cui dignità deve essere garantito nel trattamento dei
dati personali contenuti nelle relative certificazioni anagrafiche; a meno di non volere ritenere che l’improvvida formula legislativa alluda alle parti di una formazione sociale, singolarmente tradotta attraverso l’adozione di un (non ricorrente) contratto, essendo piuttosto la
convivenza a tradurre (e a costituirsi per il tramite di) un dato fattuale, riservando all’accordo negoziale il contenuto (prevalentemente) patrimoniale.
(52) In senso diverso, precedentemente la riforma, ROPPO, Il contratto, in Tratt. IudicaZatti, Milano, 2011, p. 6, a cui avviso è l’oggetto della pattuizione ad assumere rilevanza,
ritenendo che «sono contratti gli stessi accordi di convivenza, nella misura in cui – oltre che
gli aspetti esistenziali – riguardino anche gli aspetti economici dell’unione di fatto», mentre
laddove l’accordo verta su aspetti (esclusivamente) esistenziali esso certamente non è da
considerarsi contratto. L’attuale situazione è, tuttavia, differente, considerato che, quanto
alle questioni qui richiamate, l’unico regime patrimoniale consentito all’interno del contratto
di convivenza è la comunione legale dei beni (automaticamente afferente al matrimonio che,
certamente, non è contratto); altresı̀, l’eventuale definizione, oltre agli aspetti esistenziali, di
profili patrimoniali della vita in comune non è ex se necessariamente identificativa della
fattispecie contrattuale (senza peraltro trascurare altri dati, già in precedenza evidenziati,
che, in disparte il contenuto patrimoniale, militano in direzione non tecnicamente contrattuale).
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ANTONELLO IULIANI (*)
Assegnista di ricerca nell’Università Roma Tre
IL PRESTITO VITALIZIO IPOTECARIO NEL NUOVO
“SISTEMA” DELLE GARANZIE REALI
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il ruolo dell’ipoteca. – 2. La struttura della fattispecie: gli
elementi soggettivi. – 3. Segue: gli elementi oggettivi. – 4. Le finalità del prestito
vitalizio ipotecario. – 5. La produzione di interessi anatocistici mediante capitalizzazione annuale di interessi e spese. – 6. La deroga alla procedura di escussione della
garanzia ipotecaria: il comma 12˚ quater e la tipizzazione del patto marciano.
1. Introduzione. Il ruolo dell’ipoteca.
Il decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 22 dicembre
2015, n. 226, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 38 del 16 febbraio
2016, nel dare attuazione all’articolo 1 della l. 2 aprile 2015, n. 44, ha
completato l’intervento di parziale modifica della disciplina del prestito
vitalizio ipotecario. L’intenzione del legislatore è quella di rivitalizzare
anche mediante una politica di incentivi fiscali (1) un istituto sinora poco
sfruttato a distanza ormai di dieci anni dalla sua introduzione ad opera
dell’articolo 11 quaterdecies del d.l. 30 aprile 2005, n. 203. Si tratta di
un’esigenza giustificata dall’ampia diffusione dell’istituto non solo negli
ordinamenti di common law ma anche in alcuni ordinamenti europei,
come quello francese (2), dove è stato introdotto a partire dal 2006. La
dottrina (3), di fronte al susseguirsi negli ultimi anni di interventi episodici
da parte del legislatore nazionale volti ad introdurre nell’ordinamento
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) Sul punto cfr. MANNELLA e PLATANIA, Il prestito vitalizio ipotecario, Milano, 2015, p.
219 s.
(2) Cfr., per un inquadramento della disciplina francese dell’istituto, GRIMALDI, L’hypothèque rechargeable et le prêt viager hypothécaire, in Reccueil Dalloz, 2006, p. 1294 s.;
OGG, Le prêt viager hypothécaire, in Retraite et société, 2012, p. 167 s.; per un ampio
inquadramento dell’istituto in chiave comparatistica, cfr. MANNELLA e PLATANIA, op. cit.,
p. 15 s.
(3) MAZZAMUTO, Il tramonto delle Scuole e il compito dell’odierna civilistica, in Eur. e
dir. priv., 2016, p. 289 s.
NLCC 4/2016
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
schemi contrattuali inediti – il prestito vitalizio ipotecario, nella nuova
versione, segue, infatti, l’introduzione del rent to buy (art. 23 d.l. n.
133/14) e precede quella del leasing immobiliare finanziario (art. 1, commi
dal 76˚ all’84˚, l. n. 208/15) – non ha mancato di criticare l’assenza di
sistematicità e la perdita di qualità della legislazione interna, sempre più
appiattita su scelte di mera politica economica. Si tratta, tuttavia, di una
tendenza che ben riflette l’attuale stato dei rapporti tra diritto ed economia
se è vero, com’è stato osservato, che «l’avvento della società post-industriale non reclama, come reclamò l’avvento dell’era industriale, profonde
riforme legislative» (4), ma solo interventi di adattamento della disciplina
del contratto. Anche là dove il legislatore nazionale, come in Francia e in
Germania, ancora persegue strategie di ampio respiro sistematico, l’intervento novellatore non manca di evidenziare una forte riduzione del suo
apparato concettuale e un generale appiattimento sulle esigenze del sistema economico (5). Venendo al merito della disposizione, in verità abbastanza scarno in punto di disciplina (6), l’art. 11 quaterdecies prevedeva
nell’originaria formulazione la possibilità per le persone di età non inferiore ai 65 anni di rivolgersi ad aziende di credito, istituti di credito,
nonché intermediari finanziari per ottenere un finanziamento a medio e
lungo termine subordinato alla concessione di un’ipoteca di primo grado
sugli immobili residenziali, con capitalizzazione annuale di interessi e spese
e l’obbligo di rimborso integrale in un’unica soluzione alla scadenza. Si
tratta, dunque, di un contratto bancario a struttura variabile, di durata e a
titolo oneroso. La durata incerta del contratto e la capitalizzazione annuale
degli interessi renderebbero, secondo alcuni autori, il prestito vitalizio
ipotecario un contratto aleatorio «in quanto la struttura legislativa dello
stesso è tale da non permettere alle parti, ed in particolare al finanziatore,
(4) GALGANO, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr.,
2000, p. 197.
(5) È sufficiente leggere la relazione di accompagnamento alla riforma del codice
francese per rendersene conto: si afferma espressamente che «L’objectif est de doter les
acteurs du monde économique d’un ensemble de règles destinées à faciliter leurs échanges
en les rendant plus sûrs». Del resto esiste una classifica degli ordinamenti giuridici ordinata
in base alla loro capacità attrattiva rispetto alle esigenze delle imprese, redatta dalla Banca
Mondiale e consultabile al sito www.doingbuisness.org, la quale mostra una chiara prevalenza dei paesi di tradizione di common law. Cfr., sul punto, SOMMA, La dittatura dello
spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, 2014, pp. 266 s. e 270 s.
(6) Secondo BULGARELLI, La disciplina del prestito vitalizio ipotecario, in Il Caso.it, 2015,
p. 2, «di fatto, tale norma, più che disciplinare l’istituto del prestito vitalizio ipotecario, si
limitava ad una mera descrizione, priva di alcuna disposizione operativa. Forse proprio per
tale motivo il provvedimento non è stato sufficiente a promuovere l’avvio ed il regolare
sviluppo dell’operatività bancaria su questa nuova tipologia di prodotto».
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le nuove leggi
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di conoscere al momento della stipula quale sarà l’entità dei vantaggi e,
rispettivamente, dei sacrifici che riceveranno dal contratto» (7). Secondo
una diversa opinione, tuttavia, «gli elementi di incertezza non sono tali da
far ritenere aleatorio il contratto in esame» (8): «la prestazione a carico del
soggetto finanziatore è certa e predeterminata, mentre la prestazione del
soggetto obbligato è determinabile sulla base dell’ammontare del prestito e
degli interessi, ed è oltretutto garantita da ipoteca» (9). Ad un primo
sguardo emerge l’analogia con la vendita della nuda proprietà: entrambi
gli istituti mirano, infatti, a soddisfare l’esigenza della fascia più anziana
della popolazione di ricavare liquidità dal valore della propria abitazione e
di continuare ad abitarla fino alla propria morte. Al di là dei punti di
contatto, il prestito vitalizio ipotecario presenta, tuttavia, significativi tratti
di novità ed, anzi, la sua introduzione si è resa necessaria proprio per
superare alcune criticità (10) dello schema traslativo emerse nella prassi a
seguito delle mutate esigenze sociali: esso, infatti, risponde alla richiesta di
quei soggetti ancora relativamente giovani che difficilmente riuscirebbero
a trovare un’acquirente della nuda proprietà; è più flessibile, perché permette di dilazionare nel tempo la somma erogata in prestito; consente,
infine, di godere della somma erogata senza privare il soggetto finanziato (11) della titolarità del bene.
Uno degli aspetti centrali dello schema contrattuale è rappresentato
dall’ipoteca, la quale «non è soltanto garanzia dell’adempimento ma entra
anche nella causa del contratto, in quanto senza ipoteca non può esservi
prestito vitalizio ipotecario» (12). Ancora più significativa è la circostanza
che qui, a differenza di quanto accada nel mutuo fondiario, l’ipoteca sia
prevista come elemento necessario di un finanziamento non finalizzato,
(7) Cosı̀ MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 87.
(8) Cfr. FARACE, Prestito vitalizio ipotecario, in Enc. giur. Treccani, Aggiornamenti,
Roma, 2006, p. 3.
(9) Ibidem.
(10) Le criticità della nuda proprietà sono illustrate da POPPETTI, Il Prestito ipotecario
vitalizio. Un’alternativa alla nuda proprietà, in Bancaria, 2014, p. 72, e da BULGARELLI, op.
cit., p. 3; CHERTI, Prime note sulle modifiche alla disciplina del prestito vitalizio ipotecario, in
Corr. giur., 2015, p. 1106 s.; FARACE, op. cit., p. 5.
(11) Questo aspetto è ben sottolineato da BACCIARDI, La tutela civile degli anziani alla
luce dell’art. 25 della Carta di Nizza, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 303.
(12) FARACE, op. cit., p. 2; MANNELLA e PLATANIA, Il prestito vitalizio ipotecario, cit., p.
118 parla dell’ipoteca come del «perno centrale dell’intera impalcatura del prestito vitalizio
ipotecario»; anche CERINI, Il prestito vitalizio ipotecario: legal transplant in cerca di definizione, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2006, p. 508 riconosce che «la garanzia
ipotecaria rappresenta, del resto, il perno dell’intero meccanismo[…]sebbene per imprinting
culturale, l’enfasi sia posta sul finanziamento».
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
com’è quello destinato all’acquisto di un’immobile, a riprova della tendenza del legislatore non solo nazionale ad estendere in via generalizzata
l’utilizzo del credito ipotecario. La nuova formulazione della norma mantiene il ruolo centrale assegnato all’ipoteca e prevede che il finanziamento
sia garantito «da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, e agli
stessi si applica l’articolo 39, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del Testo Unico di cui al
decreto legislativo 1˚ settembre 1993, n. 385». Il rinvio al testo unico
bancario introduce una serie di vantaggi per l’istituto di credito, in deroga
tanto alla disciplina dell’ipoteca, quanto a quella della revocatoria fallimentare (13). La nuova formulazione della norma non ha invece risolto il problema di coordinamento con l’art. 2855 c.c. (14), ed in particolare con il
suo secondo comma, il quale prevede che l’iscrizione di un capitale che
produce interessi fa collocare nello stesso grado gli interessi dovuti ma con
il limite delle due annate anteriori e di quella in corso al giorno del
pignoramento. La norma mira ad evitare un eccessivo accumulo di interessi a danno dei successivi creditori e dell’eventuale terzo proprietario e
sanziona, al secondo comma, con la nullità il patto di estensione dell’iscrizione ad un numero maggiore di annualità. È evidente il difetto di compatibilità tra la norma e il dettato dell’art. 11 quaterdecies che prevede la
capitalizzazione annuale degli interessi con l’obbligo di restituzione soltanto alla scadenza del rapporto, il quale si estende di regola per un periodo
di tempo assai lungo. In assenza di una esplicita deroga, alcuni commentatori hanno ritenuto che la fattispecie possa ricadere sotto il patrocinio
dell’art. 2852 c.c. relativo ai crediti che nascono in dipendenza di un
rapporto già esistente, lasciando l’art. 2855 c.c. a regolare solo l’ipotesi
della restituzione annuale degli interessi (15). Secondo una lettura più convincente l’applicazione dell’art. 2855 c.c. sarebbe, invece, superata in virtù
del richiamo operato dal co. 12 quater all’art. 39 del t.u.b. ed in particolare
al comma 3˚ che prevede che il credito dell’istituto erogante relativo a
finanziamenti con clausole di indicizzazione sia garantito dall’ipoteca iscritta fino a concorrenza dell’importo effettivamente dovuto per l’effetto dell’applicazione di dette clausole (16).
(13) Cfr., per le deroghe alla disciplina ordinaria, RUMI, La nuova disciplina del prestito
vitalizio ipotecario, in Contratti, 2015, p. 942 s.; MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 120 s.
(14) Cfr., sul punto, FARACE, Prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 5; MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 122 s.; CHERTI, op. cit., p. 1104.
(15) Cosı̀, GIGLIOTTI, Il prestito vitalizio ipotecario: un reverse mortgage all’italiana?, in
Corr. merito, 2011, p. 679; MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 122 s.
(16) Cosı̀ CHERTI, op. cit., p. 1105.
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le nuove leggi
721
La diffusione del credito ipotecario (17) si inserisce a pieno nell’attuale
fase di sviluppo del capitalismo cosı̀ fortemente incentrato sulla finanza – o
economia del debito, secondo una definizione che parrebbe preferibile (18)
– e nel quale la forma di ricchezza prevalente è costituita dalla proprietà
mobiliare. Lo conferma l’ampia diffusione del fenomeno della cartolarizzazione (19) che consente, com’è noto, alla banca di rifinanziarsi mediante
la cessione del credito ipotecario ad una società che emette titoli obbligazionari da offrire sul mercato. La dottrina attenta ai risvolti sul piano
sociologico ha rimarcato lo slittamento semantico (20) che ha investito
l’ipoteca la quale da diritto di garanzia fortemente legato all’immobile è
diventata credito in astratto, un valore mobiliare del tutto irrelato. Il
prestito vitalizio ipotecario si inserisce a pieno titolo in una strategia di
smobilizzazione della ricchezza immobiliare a vantaggio della sua trasformazione in valori mobiliari in sintonia con le esigenze di un capitalismo
che, come detto, individua nella proprietà smaterializzata la forma privilegiata di ricchezza. Si tratta, a dire il vero, di una strategia non inedita e
già ampiamente presente nel codice civile come dimostrano alcune norme
– si pensi agli artt. 838, 857 e 865 c.c. – che si giustificano soltanto alla
luce della strategia promossa dal capitalismo industriale di smobilizzazione
della proprietà terriera a vantaggio della proprietà produttiva (21). La trasformazione attuale esibisce, però, dei tratti di novità assai significativi:
(17) Esso è a tal punto centrale, che si è avvertita l’esigenza di una disciplina unitaria
dell’ipoteca a livello europeo: cfr. FUSARO, Le linee di tendenza del diritto europeo dell’ipoteca: euroipoteca e ipoteca ricaricabile, in Banca, borsa e tit. cred., 2009, p. 553 s.
(18) Preferisce il termine «economia del debito» a quello di «finanziarizzazione»,
LAZZARATO, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Roma,
2012, p. 42.
(19) Cfr. PERONA e SEPE, Cartolarizzazione: riflessioni critiche e crisi finanziaria, in
GABRIELLI e LENER (a cura di) I contratti del mercato finanziario, in RESCIGNO e GABRIELLI,
Trattato dei contratti (diretto da), Torino, 2011, p. 1471 s.; per un inquadramento giuridico
dell’istituto, cfr. CARIOTA, La cartolarizzazione dei crediti, ivi., p. 1501 s.
(20) Cfr. GOTMAN, Vers la fin de la transmission? De l’usage du logement pour assurer ses
vieux jours. Le prêt à hypothèque inversée, in Sociologie, 2010, p. 150 s.; cfr., altresı̀, ASSIERANDRIEU e GOTMAN, Réversion du principe du logement humain. Chronique du prêt hypothécaire inversé, Paris, 2009, p. 39 s.
(21) Lo sottolinea BARCELLONA, Diritto privato e società moderna, Napoli, 1996, p. 273:
«il riconoscimento della proprietà privata della terra costituisce insieme un portato inevitabile del principio proprietario, ma anche – per le caratteristiche del bene terra – un ostacolo
al pieno espandersi di esso nel mercato». Infatti, ivi, p. 295: «la proprietà esclusiva della
terra tende ad assumere di per sé una valenza economica, che è la rendita, ed entra in
conflitto con la logica produttivistico-mercantile, sia perché legittima situazioni di appropriazione di ricchezza non legate al processo produttivo e alla creazione di profitto, sia
perché legittima forme di attribuzione della ricchezza non sempre mediate da un rapporto
di scambio».
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
mentre la strategia messa in capo dal “secondo capitalismo” (22) prevedeva
la sostituzione di una forma di ricchezza improduttiva – la rendita – a
vantaggio di una produttiva – il profitto – oggi la relazione è a segno
invertito. Si assiste ad un prepotente ritorno della rendita come forma
privilegiata dell’attuale sistema capitalistico per estrarre plusvalore, senza
più la necessità di organizzare la cooperazione produttiva (23). Il capitalismo finanziario (24) mette, infatti, in gioco un dispositivo di accumulazione (25) che fa a meno dello Stato nel suo ruolo di organizzatore della
produzione e che è in gran parte esterno ai processi produttivi: non contribuisce a creare ricchezza sociale ma si limita a carpirla in modo parassitario, «se ne appropria, rimanendo tenacemente asserragliato dentro la sua
forma di denaro che è capitale per sé ma non fuori di se» (26). In questa
nuova veste il capitalismo attuale fa mostra di sé nel modo più odioso
poiché, nel superare la distinzione tra bene mobile e bene immobile,
convertendo i beni immobili in valori mobiliari, coinvolge il bene al quale
nella coscienza sociale più di altri è attribuito un indubbio valore idiosincratico, la casa d’abitazione. Percepita come un mezzo di sostentamento
indissociabile dalla condizione umana, una proprietà esclusivamente definita per il suo valore d’uso, irriducibile a qualsiasi valutazione di mercato,
l’abitazione diventa nel linguaggio neoliberista semplice «patrimonio dormiente»: una risorsa inutilizzata e non monetizzata.
2. La struttura della fattispecie: gli elementi soggettivi.
Il recente intervento di modifica ad opera della l. 2 aprile 2015, n. 44
ha aggiunto all’art. 11 quaterdecies i commi dal 12˚ bis al 12˚ sexies, dettando una disciplina più articolata e meno lacunosa. Con riferimento alla
nozione di finanziatore la norma supera l’ambiguo riferimento alle «aziende ed istituti di credito» e circoscrive l’ambito di applicazione alle banche
e agli altri intermediari finanziari di cui all’art. 106 del t.u.b., cioè a quei
soggetti iscritti in appositi albi e sottoposti ad un sistema normativo e di
(22) La tripartizione del capitalismo in tre fasi è efficacemente proposta da NIVARRA,
Diritto privato e capitalismo, Napoli, 2010, passim.
(23) Acute le osservazioni di HARDT e NEGRI, Comune. Oltre il privato e il pubblico,
Milano, 2010, p. 137 s., a proposito della metamorfosi della composizione del capitale.
(24) LAZZARATO, La fabbrica dell’uomo indebitato, cit., p. 39.
(25) Accumulazione originaria del capitale che «è sempre contemporanea al suo sviluppo, non ne costituisce una fase storica, ma una contemporaneità sempre rinnovata»: cosı̀,
LAZZARATO, op. cit., p. 59.
(26) Cosı̀ NIVARRA, La funzione sociale della proprietà: dalla strategia alla tattica, in Riv.
crit. dir. priv., 2014, p. 516.
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vigilanza che garantisce non solo la parte “debole” del contratto, che potrà
beneficiare ad esempio della nullità delle clausole abusive (27), ma anche la
stabilità del sistema finanziario. Quanto al soggetto finanziato, proprio al
fine di consentire una maggiore fruibilità e diffusione dell’istituto, è stata
abbassata l’età per richiedere il finanziamento da 65 a 60 anni. Non è,
invece, previsto alcun limite massimo d’età, essendo la durata del contratto
ancorata alla vita del finanziato, anche se dall’art. 2 del decreto attuativo si
desume che la durata fisiologica non sia superiore ai 25 anni, in linea con
gli indicatori demografici dell’Istat che fissano a poco più di 80 anni l’età
media della morte. La norma dispone, infatti, che il prospetto sull’andamento del debito che la banca è tenuta a fornire al soggetto finanziato
debba avere «una durata minima pari alla differenza tra l’età del soggetto
finanziato più giovane e 85 anni e comunque non inferiore a 15 anni». È
invece prevista una durata minima del contratto di 18 mesi: lo si deduce dal
rinvio operato agli artt. 15 s. del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601, relativo
alla disciplina delle agevolazioni tributarie per le operazioni di credito a
medio e lungo termine, che considera tali le concessioni di credito di
durata contrattuale superiore a 18 mesi (28). Particolarmente opportuna
è la previsione dell’art. 2, comma 7˚, del decreto attuativo che prevede
nel caso in cui il soggetto finanziato sia coniugato o anche soltanto convivente more uxorio da almeno cinque anni l’obbligo della sottoscrizione per
entrambi i coniugi, anche nel caso in cui l’immobile non sia in comunione
dei beni. La disposizione scongiura infatti il pericolo per il coniuge o il
convivente più giovane, in caso di morte dell’altro coniuge, di perdere il
diritto d’abitazione sulla casa data in ipoteca e lega a tal fine la durata del
finanziamento alla vita del coniuge superstite. In assenza di un tale correttivo la previsione dell’art. 540, comma 2˚, c.c. (29) che riserva al coniuge,
ancorché concorra con altri chiamati, il diritto di abitazione sulla casa
adibita a residenza familiare non impedirebbe al finanziatore che abbia
precedentemente iscritto ipoteca sull’immobile di procedere con l’espropriazione (30).
(27) Lo sottolineano, CHERTI, Prime note sulle modifiche alla disciplina del prestito
vitalizio ipotecario, cit., p. 1104; GIGLIOTTI, op. cit., p. 678.
(28) RUMI, op. cit., p. 940.
(29) MENGONI, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1982, p. 1129 ha ricondotto la ratio della norma entro «la tutela della
salute degli anziani», dal momento che i diritti ivi previsti assicurano al beneficiario «al di là
del semplice interesse a disporre di un alloggio, la conservazione del rapporto affettivo con
l’ambiente in cui è vissuto in comunione di vita col coniuge scomparso».
(30) Cfr., ad es. quanto deciso da Cass. 13 gennaio 2009, n. 463 in pluriscedam.it.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Il riferimento alla nozione di persona fisica mantenuto dalla nuova
formulazione della norma di per sé non esclude dal novero dei soggetti
finanziati i professionisti ma solamente le persone giuridiche, coerentemente con la scelta di limitare la durata del finanziamento alla vita del
soggetto finanziato. Ciò, peraltro, non contrasta con la previsione nella
fase precontrattuale di una serie di obblighi informativi in capo al finanziatore dato che la debolezza nei contratti di intermediazione finanziaria
caratterizza anche il professionista. La disciplina in tema di “trasparenza
delle condizioni contrattali e dei rapporti con i clienti”, di cui al titolo VI
del t.u.b., riguarda, infatti, il cliente, cioè, come precisa la Banca d’Italia
nelle “Disposizioni di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e
finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti” (art. 3,
Sezione I), «qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che ha in essere
un rapporto contrattuale o che intenda entrare in relazione con l’intermediario». A proposito degli obblighi informativi, l’art. 2 del decreto del
Ministero dello sviluppo prevede che il finanziatore sia tenuto a consegnare gratuitamente al richiedente, almeno 15 giorni prima dell’eventuale
stipula del contratto, un prospetto informativo contenente le informazioni
minime tra cui l’importo finanziato, il valore dell’immobile dato in garanzia e la somma effettivamente percepita dal finanziato al netto delle imposte e di tutti i costi. Il confronto con le Disposizioni di trasparenza solleva
il dubbio se tale prospetto corrisponda alla copia del contratto che, unitamente al documento di sintesi, deve essere consegnata al cliente, non
entro «tempi congrui» come si esprime l’art. 6 (Sezione II) delle Disposizioni, ma entro 15 giorni, o se si tratti, viceversa, di un obbligo informativo
diverso ed ulteriore. Sia la copia del contratto, sia il documento di sintesi si
collocano nella fase precontrattuale in quanto assolvono alla funzione di
fornire al cliente prima della conclusione del contratto un quadro chiaro
delle condizioni economiche contenute nel foglio informativo e personalizzate per il singolo cliente. Si tratta di un’ulteriore espressione del neoformalismo negoziale (31), cioè di quella tendenza ad un uso diffuso dei
vincoli di forma al fine di veicolare non solo il contenuto del contratto ma
anche le informazioni precontrattuali – la c.d. “forma informativa” – e ciò
allo scopo di rafforzare un consenso debole quale quello di chi aderisce ad
un regolamento contrattuale non negoziato o comunque imposto da una
parte in posizione più forte (32). Alla medesima ragione risponde l’obbligo
(31) Cfr., a riguardo, ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino, 2015, p. 339 s.;
MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2015, p. 233 s.
(32) Le conseguenze sul piano rimediale dell’omessa consegna della copia sono ana-
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previsto dall’art. 2, comma 1˚, a carico dell’istituto finanziatore di predisporre nel contratto due prospetti esemplificativi sull’andamento del debito nel tempo, uno utilizzando il tasso previsto al momento della conclusione del contratto, l’altro simulando al terzo anno un rialzo del tasso di
interessi. Si tratta di una regola specifica dettata con riferimento al prestito
vitalizio ipotecario in attuazione dell’obbligo generale previsto dagli artt. 6
e 7 (Sezione II) delle Disposizioni di trasparenza di consegnare al cliente
una copia del contratto, con allegato un documento di sintesi o in alternativa il solo documento di sintesi, con allegato un piano di ammortamento. Anche la previsione del comma 3˚ dell’art. 2 del decreto di attuazione,
secondo cui è fatto divieto al finanziatore di esigere il pagamento delle
spese per le attività svolte nel caso in cui il richiedente non sottoscriva il
finanziamento, discende dall’art. 6 (Sezione II) delle Disposizioni di trasparenza che prevede non solo che la consegna della copia del contratto o
del documento di sintesi sia gratuita ma anche che essa non vincoli in
nessun modo alla conclusione del contratto.
Più netta è, invece, la soluzione francese che, nel collocare la disciplina
del prêt viager hypothécaire nel Code de la Consommation all’art. L.314-2
esclude espressamente, a pena di nullità, che soggetti di tipo professionale
possano accedere al finanziamento (33). La scelta del legislatore francese
non solo appare in sintonia con la prassi degli operatori bancari anche
italiani di vietare l’impiego del prestito vitalizio ai fini, tra gli altri, di
finanziamento di attività produttive o professionali dei mutuatari ma sembra essere maggiormente in sintonia con la ratio dell’istituto: se infatti la
finalità del contratto sotto il profilo causale è certamente quella di finanziamento di per sé non finalizzato e dunque compatibile anche con l’impiego a fini professionali, l’età avanzata dei soggetti (34) e le motivazioni in
lizzate, a partire dal contratto di credito al consumo, da PAGLIANTINI, Il contratto di credito al
consumo tra vecchi e nuovi formalismi, in Obbl. e contr., 2009, p. 296 s.
(33) Secondo MANNELLA e PLATANIA, Il prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 82 la scelta di
non seguire la soluzione francese «si lega anche alla natura ed allo scopo del finanziamento
concesso che […] può essere destinato a soddisfare i bisogni più diversi, come ad esempio
quello di liquidità di una impresa individuale»; anche GIGLIOTTI, Il prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 678, non esclude che «l’erogazione del credito finanzi l’attività di impresa,
svolta magari in forma individuale o di microimpresa, dal soggetto richiedente o dai suoi
aventi causa».
(34) Certamente non si può dire che l’anziano assurga a categoria soggettiva autonoma,
ancorché sia destinatario di una specifica attenzione anche a livello costituzionale europeo,
in particolare all’art. 25 della Carta di Nizza; cfr., sul tema della tutela giuridica dell’anziano
BACCIARDI, La tutela civile degli anziani alla luce dell’art. 25 della Carta di Nizza, cit., p. 293 s.
Va, inoltre, certamente escluso che il prestito ipotecario vitalizio possa piegarsi ad un’esigenza di tipo strettamente assistenziale (prestazione di fare, consistente nel prendersi cura
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concreto che li spingono a farne richiesta conferiscono alla causa una
spiccata coloritura in senso consumeristico. È evidente, infatti, che il prestito vitalizio è concepito come uno strumento volto ad incentivare i bisogni di consumo di quella fascia della popolazione che non dispone di
liquidità sufficiente a finanziarli, non solo di carattere meramente voluttuario ma sempre più di carattere fondamentale, in conseguenza della
privatizzazione di tutta una serie di prestazioni previdenziali.
3. Segue: gli elementi oggettivi.
Venendo agli elementi oggettivi, il regolamento ministeriale si limita a
precisare che per immobile si intende «l’immobile residenziale e le relative
pertinenze» con chiaro riferimento alla destinazione urbanistica di civile
abitazione; non risulta invece chiaro se l’immobile dato in garanzia debba
essere quello abitato dal soggetto che richiede il finanziamento oppure
possa essere anche un altro di sua proprietà, ad esempio una seconda casa
di villeggiatura. Parrebbe più convincente, invece, escludere che il bene
possa essere dato in godimento a terzi: dal momento che l’art. 3 del
Decreto attuativo prevede l’immediata restituzione della somma se, dopo
la conclusione del contratto (lett. b) vengono trasferiti diritti di godimento
sull’immobile o (lett. g) soggetti che non siano i familiari prendano la
residenza nell’immobile, la preesistenza di un contratto di locazione sull’immobile dato in garanzia dovrebbe essere considerata causa impeditiva
alla conclusione del contratto (35).
Nel silenzio del legislatore, alcuni commentatori (36) hanno ipotizzato
la possibilità di una dissociazione tra la figura del richiedente il prestito e
quella del proprietario dell’immobile residenziale su cui deve essere iscritta
l’ipoteca. Sebbene tale eventualità sia astrattamente possibile appare più
convincente ritenere che il legislatore abbia formulato la norma tenendo
personalmente e concretamente della persona anziana); cfr., sul punto, LONG, La contrattualizzazione dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 606 s., la quale sottolinea gli aspetti di
debolezza dell’istituto: «L’effettiva soddisfazione dell’interesse del vitaliziato dipende dunque dalla capacità di quest’ultimo (o più spesso dei suoi familiari o amici) di amministrare i
proventi della rendita vitalizia per ottenere l’assistenza necessaria. L’ammontare delle rate
della rendita vitalizia e della reverse mortgage, inoltre, è fisso e non varia al mutare delle
condizioni personali del vitaliziato né (salvo che sia espressamente indicato nel contratto)
dalla svalutazione».
(35) Cfr., in senso analogo, MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 125, nt. 165.
(36) CHERTI, Prime note sulle modifiche alla disciplina del prestito vitalizio ipotecario,
cit., p. 1099 s., spec., per il profilo evidenziato nel testo, p. 1104; GIGLIOTTI, op. cit., p. 678;
MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 127 s.
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conto dell’ipotesi fisiologica in cui il soggetto finanziato coincida anche
con il proprietario dell’immobile concesso in ipoteca. E infatti l’art. 11
quaterdecies, comma 12˚ quater prevede come ipotesi alternativa alla vendita diretta da parte del finanziatore la possibilità che sia l’erede a provvedere alla vendita dell’immobile, intendendo in tal senso l’erede del proprietario del bene ipotecato che, però, coincide anche con il soggetto
finanziato, non potendosi riconoscere ad un altro terzo il potere di vendere
un immobile di proprietà altrui (37). Il comma 12˚ prevede, oltretutto,
come causa di rimborso anticipato del prestito il ricorrere di una serie
di eventi in grado di compromettere il valore dell’immobile e riconducibili
tutti al comportamento del soggetto finanziato, cosı̀ presupponendo che il
bene ipotecato sia di proprietà del finanziato il quale soltanto ne ha la
disponibilità.
Il riferimento al termine finanziamento, di per sé abbastanza generico,
si adegua alla prassi ormai in uso – si pensi al termine fornitura di beni,
utilizzando dalla direttiva sulla vendita dei beni di consumo – di dettare
una disciplina trasversale per diversi tipi contrattuali accomunati dalla
medesima finalità, cosı̀ da consentire alle parti di scegliere lo schema di
erogazione del credito più rispondente alle loro esigenze. Se la forma tipica
è quella del mutuo non è escluso che le parti possano stipulare un’apertura
di credito o un contratto di rendita la cui disciplina si applicherà in quanto
compatibile.
Nulla dice la disciplina sull’entità del finanziamento e sui parametri per
determinarlo anche se, com’è stato segnalato (38), costituisce un punto di
riferimento senz’altro utile l’art. 38, comma 2˚, t.u.b. che rinvia alla Delibera del CICR del 22 aprile 1995 e alle conseguenti istruzioni applicative
della Banca d’Italia le quali fissano il limite massimo di finanziabilità in una
misura pari all’80 per cento del valore dei beni ipotecati (39). È evidente, in
ogni caso, che sull’ammontare del prestito incidono sia il valore dell’immobile, sia l’età del soggetto finanziato. Quanto al valore dell’immobile
particolare importanza assume non solo il suo valore attuale ma anche la
previsione del valore al momento della restituzione del prezzo, ragione per
(37) Le ragioni di un’interpretazione restrittiva sono ben illustrate da MANNELLA e
PLATANIA, op. cit., p. 128, sebbene, poi, gli autori aderiscano all’impostazione estensiva
che ammette la figura del terzo datore di ipoteca anche nel prestito vitalizio ipotecario,
ritenendo possibile una completa scissione tra finanziato e datore di ipoteca (cfr. ivi, p. 132).
(38) Da CHERTI, op. cit., p. 1103.
(39) Cfr., sul problema delle conseguenze del superamento del limite massimo di
finanziabilità, PAGLIANTINI, La logica (illogica) dell’art. 38 TUB ed il canone (mobile) della
Cassazione, in Contratti, 2014, p. 439 s.
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la quale il prestito sarà accordato esclusivamente agli abitanti di quei
quartieri sufficientemente valorizzati sul mercato immobiliare. Quanto all’incidenza dell’età del soggetto finanziato sull’ammontare del finanziamento, se nel mutuo fondiario o nelle varie forme di credito al consumo (40)
l’età avanzata costituisce un ostacolo all’erogazione di un prestito, non
potendo la banca contare sul rispetto, nel lungo periodo, degli impegni
contrattuali assunti, nel prestito vitalizio ipotecario l’età avanzata, e quindi
la durata relativamente breve del prestito rappresentano, viceversa, un
incentivo per la banca (41). Questa, infatti, non corre il rischio né di un
aumento eccessivo dei tassi di interessi che potrebbero pregiudicare la
restituzione della somma erogata, né di una diminuzione del valore dell’immobile su cui eventualmente potersi rifare.
Per quel che riguarda il termine di restituzione del finanziamento,
cioè il momento in cui diventa esigibile il credito alla restituzione della
somma erogata, comprensiva degli interessi e delle spese capitalizzate, il
comma 12˚ nella nuova formulazione elimina le incertezze derivanti dal
vecchio riferimento alla scadenza e precisa che esso debba avvenire «al
momento della morte del soggetto finanziato ovvero qualora vengano
trasferiti, in tutto o in parte, la proprietà o altri diritti reali o di godimento sull’immobile dato in garanzia o si compiano atti che ne riducano
significativamente il valore, inclusa la costituzione di diritti reali di garanzia in favore di terzi che vadano a gravare sull’immobile» (42). Un
elenco dettagliato di tali atti è contenuto nell’art. 3 del decreto di attuazione del Ministero dello Sviluppo economico: si tratta di comportamenti
che coinvolgono il bene ipotecato in via diretta, compromettendo o
rendendo più difficile l’escussione della garanzia ipotecaria prevista dal
legislatore e in via indiretta, incidendo negativamente sul suo valore.
L’art. 3, comma 1˚, lett. b, n. 2 prevede, infatti, come causa di decadenza
dal beneficio del termine la costituzione di un diritto di godimento
d’usufrutto, d’uso, di abitazione, di superficie e il successivo n. 3 la
costituzione di un diritto di servitù. Secondo quanto disposto dall’art.
2812 c.c. l’iscrizione della costituzione di una servitù, di un diritto di
usufrutto, di uso o di abitazione, successivamente all’iscrizione dell’ipo-
(40) Lo sottolinea, AGABITINI, Ordine pubblico di protezione e mercato del credito.
L’evoluzione del credito al consumo, in Riv. crit. dir. priv., 2010, p. 619.
(41) Lo segnalano CHESSA, Il prestito vitalizio ipotecario, in Immobili e proprietà, p. 306;
CHERTI, op. cit., p. 1103; MANNELLA e PLATANIA, Il prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 103.
(42) Le singole ipotesi di decadenza dal beneficio del termine sono analizzate con
compiutezza da MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 149 s.
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teca non è opponibile al creditore ipotecario «il quale può far subastare
la cosa come libera». Il creditore potrà, dunque, agire mediante l’ordinaria procedura esecutiva del bene ipotecato, ma non potrà ricorrere alla
speciale procedura individuale prevista dall’art. 11 quaterdecies. L’art.
2812, comma 2˚, c.c. prevede, infatti, che i titolari dei suddetti diritti
possano soddisfare le proprie ragioni sul ricavato della vendita e tale
possibilità potrà essergli garantita esclusivamente mediante il ricorso
all’ordinaria procedura esecutiva. Nel caso di trascrizione della costituzione di un diritto di superficie o di enfiteusi, l’art. 1812, comma 3˚, c.c.
rinvia, invece, alle disposizioni relative ai terzi acquirenti e cioè all’art.
2858 c.c. il quale prevede che se il terzo «non preferisce pagare i creditori iscritti», o «rilasciare i beni stessi ovvero liberarli dalle ipoteche»,
«l’espropriazione segue contro di lui secondo le forme prescritte dal
codice di procedura civile». Il trasferimento di un diritto al terzo obbliga
quindi il creditore, anche in questo caso, a ricorrere alla procedura
esecutiva ordinaria dal momento che l’efficacia meramente obbligatoria
del patto marciano ne impedisce l’opponibilità al terzo. Quanto agli atti
che riducono significativamente il valore del bene immobile ipotecato,
l’art. 3, lett. c del decreto di attuazione elenca tra le ipotesi oltre alla già
citata costituzione sull’immobile ipotecato di diritti reali di garanzia in
favore di terzi, la realizzazione di modifiche sull’immobile senza accordo
con il finanziatore, la revoca dell’abitabilità dell’immobile per l’incuria o
l’omessa manutenzione, il trasferimento ad opera di terzi della residenza
nell’immobile ipotecato, l’assoggettamento dell’immobile a procedimenti
conservativi o esecutivi di importo pari o superiore al venti per cento del
valore dell’immobile.
Le ipotesi alternative alla morte del soggetto finanziato che giustificano
la restituzione immediata della somma erogata rappresentano, secondo
un’opinione diffusa, cause legali di decadenza dal beneficio del termine (43) ex art. 1186 c.c.: si tratta di circostanze estranee al rapporto obbligatorio e legate al sopravvenire di fatti esterni che incidono sulla situazione patrimoniale complessiva del debitore. La decadenza dal beneficio
del termine rappresenta una forma di tutela satisfattiva di cui il creditore
può avvalersi quando la gravità dell’insolvenza rende insufficienti gli ordinari mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, e, quindi, neces-
(43) Cfr., sul punto, MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 146 s.; LENZI, Il credito per
l’accesso all’abitazione, in BUCELLI (a cura di), L’esigenza abitativa. Forme di frizione e tutele
giuridiche, Atti del convegno in onore di Gianni Galli, Firenze 19-20 ottobre 2012, Padova,
2013, p. 309.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
sario soddisfare immediatamente l’interesse del creditore (44). Tale forma
di tutela si distingue dalla risoluzione la quale presuppone un inadempimento idoneo a giustificare lo scioglimento del contratto, laddove nella
decadenza a rilevare sono eventi che segnalano la compromissione della
capacità del debitore di far fronte ai debiti futuri, dalla quale discende il
diritto di chiedere immediatamente il pagamento di quanto dovuto. Tale
differenza tende, tuttavia, a sfumare nel contratto di mutuo dato che gli
obblighi previsti a carico del soggetto finanziato non riconducibili al pagamento degli interessi sono anch’essi funzionali al mantenimento della
garanzia ipotecaria la quale concorre pienamente a delimitare il rischio
dell’operazione per il finanziatore, rischio in funzione del quale è costruito
l’equilibro tra le prestazioni (45). E del resto anche il risultato pratico che
consegue alla decadenza dal beneficio del termine è analogo a quello che si
verifica in caso di risoluzione: il mutuatario dovrà, infatti, restituire anticipatamente la somma che aveva ricevuto (46).
Nonostante il termine fissato dal legislatore per il rimborso integrale
del prestito e degli interessi coincida con la morte del soggetto finanziato è
stato previsto, a partire da tale momento, un termine per l’adempimento
della prestazione di un anno, periodo durante il quale l’erede ha l’opportunità di valutare se estinguere il debito o lasciare che la banca si soddisfi
sul ricavato della vendita dell’immobile. Il comma 12˚ quater prevede,
infatti, la possibilità per la banca di vendere direttamente l’immobile senza
ricorrere ad una procedura esecutiva, avvalendosi, per la determinazione
del prezzo, di un esperto indipendente da essa nominato: la disposizione
introduce una tipizzazione del c.d. patto marciano e di essa si dirà in modo
approfondito nel proseguo. La proroga di un anno rappresenta un termine
dilatorio e non una proroga del termine iniziale, ragione per cui l’effetto
sospensivo della mora durante l’anno decorrente dalla morte del soggetto
finanziato è condizionato all’adempimento alla scadenza del termine “di
tolleranza” con la conseguenza che nel caso di inadempimento gli effetti
della mora decoreranno dal primo termine stabilito (47). In alternativa alla
restituzione integrale del finanziamento e degli interessi alla morte del
(44) Cfr., sulla decadenza dal beneficio del termine, FADDA, sub art. 1186, in Comm.
UTET, Delle obbligazioni, artt. 1173-1215, Torino, 2012, p. 426 s.
(45) Cfr., sul punto, ORESTANO, Il mutuo, in ROPPO (diretto da), Trattato dei contratti,
IV. Opere e servizi, 2, Milano, 2014, p. 668.
(46) FRIGENI, Mancato pagamento delle rate nel mutuo fondiario e rimedi a disposizione
della banca: tra risoluzione del contratto e decadenza dal beneficio del termine, in Banca, borsa
e tit. cred., 2015, p. 582 s.
(47) Sulla distinzione tra proroga del termine e c.d. termine di tolleranza cfr. CAPPAI,
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soggetto finanziato il comma 12˚ bis prevede inoltre la possibilità che il
finanziato e il concedente concordino modalità di restituzione rateale dei
soli interessi e delle spese con esclusione in tal caso della capitalizzazione
annuale degli interessi. Le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo
di rimborso rateale degli interessi sono disciplinate mediante rinvio all’art.
40, comma 2˚, t.u.b., il quale prevede, nel caso di ritardo limitato tra il
trentesimo e il centottantesimo giorno successivo alla scadenza e protrattosi per sette rate anche non consecutive o, a prescindere dal numero delle
rate, nel caso di ritardo successivo ai centottanta giorni, la possibilità per la
banca di chiedere la risoluzione del contratto (48). Particolarmente significativa è, infine, la parte del comma 12˚ quater secondo cui «l’importo del
debito residuo non può superare il ricavato della vendita dell’immobile al
netto delle spese sostenute»: si tratta di un’ipotesi legale di rimessione del
debito. La ratio della disposizione è quella di garantire il soggetto finanziato da eventuali svalutazioni del mercato immobiliare o da improvvisi
rialzi dei tassi di interesse, accollando alla banca il rischio del crossover (49), il rischio cioè che il valore del debito residuo maturato sia superiore al valore di vendita dell’immobile. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi
eccezionale dal momento che la banca, al fine di contenere tale rischio,
concederà un prestito di ammontare inferiore al valore stimato dell’immobile in modo da garantirsi contro l’eventuale decremento di valore al
momento della vendita.
4. Le finalità del prestito vitalizio ipotecario.
Sono perlomeno tre le letture che si possono dare dell’istituto in
esame: la prima, apparentemente più neutrale, fa leva sulla necessità di
sostenere i consumi della popolazione più anziana, tenuto conto del generale allungamento dell’aspettativa di vita, il cui reddito si va drasticamente
riducendo e la cui ricchezza immobiliare tuttavia rimane costante (50) (i
c.d. house rich, cash poor). In una prospettiva macroeconomica il prestito
sub art. 1185 c.c., in Comm. UTET, Delle obbligazioni, artt. 1173-1215, Torino, 2012, p.
404; CANTILLO, Le obbligazioni, II, Torino, 1992, p. 510 s.
(48) Cfr., ad es., FRIGENI, Mancato pagamento delle rate nel mutuo fondiario, cit., p. 586;
SEPE, sub art. 40, in CAPRIGLIONE (a cura di), Commentario al testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia, Padova, 2001, p. 305; BOATTO, sub art. 40, in COSTA (a cura
di), Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, D.lgs. 1˚ settembre
1993, n. 385 e successive modificazioni, Artt. 1-69, Torino, 2013, p. 385 s.
(49) Cfr. CERINI, Il prestito vitalizio, cit., p. 514 s.
(50) Cfr., sotto il profilo statistico, i rilievi di POPPETTI, Il Prestito ipotecario vitalizio,
cit., p. 70 s., nonché, MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 6 s.
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vitalizio avrebbe cosı̀ l’effetto di riattivare i consumi contrastando la tendenziale contrazione che caratterizza l’età avanzata e in una prospettiva
microeconomica consentirebbe di migliorare le condizioni di vita della
popolazione meno giovane senza privarla della titolarità della propria abitazione (51). Una seconda lettura inserisce il prestito vitalizio ipotecario nel
più ampio contesto del diritto della crisi, ossia quel complesso di interventi
normativi che avrebbero l’obiettivo di temperare da un lato le difficoltà di
accesso al credito, come nel caso del rent to buy o del leasing immobiliare
finanziario, e dall’altro di tamponare gli effetti negativi dell’inadempimento, come nel caso della disciplina del sovraindebitamento (l. n. 3/12,
successivamente modificata con il d.l. n. 179/12 convertito dalla l. n.
222/12) (52). Secondo tale prospettiva la natura eccezionale e imprevista
della crisi richiederebbe al diritto interventi correttivi degli effetti distorsivi
che l’applicazione delle regole esistenti produrrebbe (53). Una terza lettura,
certamente più persuasiva, pone, invece, l’accento sul carattere endemico
della crisi in un modello economico di tipo capitalistico quale effetto
naturale della ristrutturazione dei processi di valorizzazione del capitale.
In questa diversa prospettiva gli interventi normativi perseguono una strategia più ambiziosa della semplice risposta emergenziale agli effetti della
crisi economica che è quella di ridefinire sulle basi della nuova «razionalità
neoliberista» (54) le relazioni sociali e i mezzi di soddisfazione dei bisogni
essenziali degli individui. In particolare, il prestito vitalizio ipotecario, al di
là dell’obbiettivo immediato di mantenere ad un livello soddisfacente i
consumi, si candida a diventare uno strumento alternativo di politica
sociale e patrimoniale progettato per far fronte all’invecchiamento della
popolazione nei paesi occidentali. Lo smantellamento progressivo del sistema di protezione offerto dallo Stato sociale e la sua trasformazione in
terreno di accumulazione e profitto per le imprese si accompagna all’idea
che non spetta più allo Stato provvedere al mantenimento della popolazione inattiva ma è un compito demandato alla responsabilità individuale
dei singoli che dovranno assumere su di sé il rischio della gestione della
(51) MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 10 s.; CHERTI, op. cit., p. 1099; RUMI, La nuova
disciplina del prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 939 s.
(52) Cfr., sui rapporti tra sovraindebitamento e prestito vitalizio ipotecario CERINI, op.
cit., p. 527 s.
(53) Cfr., ad es., CERINI, op. cit., p. 512 s.; VARI, La riforma dell’ipoteca convenzionale in
Francia, in Riv. dir. civ., 2009, p. 270.
(54) Su tale concetto, cfr., sin d’ora DARDOT e LAVAL, La nuova ragione del mondo.
Critica della razionalità neoliberista, Roma, 2013, passim; FOUCAULT, Nascita della biopolitica.
Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, 2009, passim.
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propria vecchiaia (55). L’immobile diventa cosı̀ una riserva di liquidità, un
bene fungibile e consumabile di cui ciascuno dispone e dal quale ricavare
il supplemento di entrate necessario per garantirsi quell’autonomia finanziaria che i salari e le pensioni non sono più sufficienti ad assicurare (56). Il
prestito vitalizio ipotecario testimonia perciò una strategia ben più significativa di quella che lo annovera tra gli istituti della crisi e riflette, a livello
sistemico, un vero e proprio mutamento antropologico che si consuma con
il passaggio dal paradigma dell’uomo “produttore” a quello che viene
abitualmente definito “soggetto imprenditoriale” o “uomo indebitato”.
Se, infatti, l’intervento messo in campo dal capitalismo industriale attraverso l’integrazione delle originarie protezioni civili con le più sofisticate
protezioni sociali, aveva come obiettivo l’inclusione del lavoratore fordista
nel capitale, nel quadro di un ambizioso progetto di regolazione del conflitto sociale, quello attuale si indirizza verso l’unificazione delle diverse
soggettività intorno alla figura dell’impresa. La trasformazione della forzalavoro che in maniera sempre più consistente assume le forme di un
“comune” autonomamente produttivo (57) e che, per le sue caratteristiche
(55) Cfr., ancora, sul punto, DEL VECCHIO, Assicurare i soggetti. Sicurezza e dispositivi di
governo nella modernità, in Filosofia politica, 2015, p. 405 s., spec. p. 418; LAZZARATO, La
fabbrica dell’uomo indebitato, cit., p. 46; v., altresı̀, ID., Il governo delle diseguaglianze. Critica
dell’insicurezza neoliberista, Verona, 2013, p. 31: «Il modello di assicurazione individuale
deve sostituire ovunque il modello della mutualizzazione dei rischi: non si tratta di organizzare il trasferimento dei redditi da una parte della società a un’altra, per compensare gli
squilibri prodotti dal mercato, ma, al contrario, di far funzionare i meccanismi della capitalizzazione e dell’assicurazione individuale in tutti gli ambiti della vita (sanità, pensioni,
formazione ecc.)»; cfr., altresı̀, ID., op. cit., p. 33 s. Si veda pure l’interessante saggio di
KESSLER, L’avenir de la protection sociale, in Commentaire, 1999, p. 619 s.
(56) Cfr. GOTMAN, Vers la fin de la transimission?, cit., p. 149; MASSON, L’épargnant
propriétare face à ses vieux jours, in Revue française d’économie, 2015, p. 129 s.; AGABITINI,
Ordine pubblico di protezione e mercato del credito, cit., p. 605 s.; ID., Ancora in tema di
ordine pubblico di protezione e il mercato del credito. L’accesso al credito e il “bene casa”, in
Riv. crit. dir. priv., 2011, p. 78; ID., Debito sovrano ed accesso al credito. Recenti proposte di
riforma del diritto italiano delle garanzie mobiliari alla luce dei precedenti in diritto interno e
comparato, in Riv. crit. dir. priv., 2015, p. 439, secondo cui «il mercato del credito [è]
chiamato a rivestire una nuova e particolare funzione, essendo il ricorso ad esso sempre
più spesso indotto da bisogni legati ad una serie di diritti (salute, casa, mezzi di sostentamento) un tempo garantiti dai benefici del Welfare». Si veda, a riguardo, il numero della
Rivista Retraite et société, n. 62, 2012, intitolato «Ressources et logement pendant la retraite:
quels sont les liens?», con vari contributi, tutti dedicati al tema in esame.
(57) Per “comune”, spiega bene NIVARRA, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e
comune, in MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni,
Verona, 2012, p. 82, si intende, secondo una delle varie accezione che la parola sottende, «la
nuova forma di ricchezza sociale riconducibile alle trasformazioni subite dal lavoro, che
sempre più si caratterizza per il suo essere lavoro cognitivo e lavoro affettivo». Questo tipo
di lavoro, rilevano HARDT e NEGRI, Comune, cit., p. 146 s. tende «a produrre cooperazione
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(immaterialità, cognitività, affettività) fa a meno di qualsiasi organizzazione
o mediazione esterna, sollecita il capitalismo ad una ristrutturazione complessiva dei suoi meccanismi di accumulazione. Con la promessa apparentemente emancipativa di fare di ciascun individuo un «imprenditore di sé
stesso» (58) il programma neoliberista attua un processo di privatizzazione
dei servizi offerti dallo Stato sociale che riduce il messaggio liberatorio
originario esattamente nel suo contrario: «diventare imprenditore di sé
significa limitarsi alla gestione, secondo i criteri dell’impresa e della concorrenza, della propria occupabilità, dei propri debiti, della diminuzione
del proprio salario e dei propri redditi, della riduzione dei propri servizi
sociali» (59). La nuova soggettività non assume più come orizzonte il rapporto cittadino-Stato ma quello debitore-creditore, ed è la ragione per cui
l’espressione “economia del debito” fotografa al meglio questa trasformazione nella quale l’essere in debito diventa «il prototipo dell’esperienza
contemporanea» (60) e l’“uomo indebitato” la nuova soggettività di riferimento. Il prestito vitalizio ipotecario è emblematico di questa trasformazione nella misura in cui presuppone la trasformazione dei diritti sociali in
debiti sociali, quindi in debiti privati, e ne assicura, grazie al ruolo centrale
svolto dall’ipoteca, l’inserimento in un circuito di autovalorizzazione del
capitale estorsivo e autoreferenziale (61). Non meno significativa è poi la
testimonianza che il prestito vitalizio offre – ma in questa sede se ne può
solo accennare – di un’ulteriore trasformazione messa in campo dalla
razionalità neoliberista e cioè la cancellazione di qualsiasi progettualità
associata ad una visione di lungo periodo. Le conseguenze dell’assunzione
del debito sulla trasmissione intergenerazionale della ricchezza, nonostante
la fattispecie non privi, di per sé, il soggetto finanziato della titolarità del
bene, sono tali da pregiudicare nel lungo periodo la stessa funzionalità del
fenomeno successorio e di offuscarne il carattere istitutivo del diritto
borghese: la possibilità degli eredi di rimanere titolari dell’immobile se
non è astrattamente esclusa è, infatti, subordinata al pagamento del debito
residuo e risulta quindi fortemente disincentivata.
in maniera autonoma dal comando capitalistico», che, anziché organizzarlo, si limita a
sfruttarlo in maniera parassitaria.
(58) FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit., p. 180 s.; cfr., altresı̀, STIMILLI, Debito e
colpa, Roma, 2015, p. 54 s.
(59) LAZZARATO, La fabbrica dell’uomo indebitato, cit., p. 107, ma anche pp. 24 s. e 65 s.
(60) STIMILLI, op. cit., p. 15.
(61) LAZZARATO, op. cit., p. 116 s.
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5. La produzione di interessi anatocistici mediante capitalizzazione annuale di interessi e spese.
Uno degli aspetti della norma più discutibili è rappresentato dalla
previsione nell’art. 11 quaterdecies della possibilità per la banca di capitalizzare annualmente gli interessi dovuti. Si tratta di un’applicazione del
fenomeno dell’anatocismo a lungo diffusa, specie nei contratti di conto
corrente bancario, in virtù dell’indebita qualificazione degli usi bancari
come usi normativi. Essa consiste nel sommare gli interessi già maturati
al capitale e calcolare sulla somma cosı̀ ottenuta ulteriori interessi in virtù
del principio dell’autonoma esigibilità degli interessi rispetto alla somma
capitale. Si tratta di un principio ricavabile dall’art. 1820 c.c. ed espressamente sancito dall’art. 1283 c.c., in deroga all’art. 1282 c.c. Non è questa
la sede per dilungarsi oltremodo su un tema che ha visto giurisprudenza e
legislatore contendersi la soluzione definitiva e che ha avuto una tappa
importante nelle sentenze del 1999 della Cassazione (62) che hanno affermato la nullità della clausola della capitalizzazione trimestrale, dequalificando gli usi bancari a usi non normativi. Le tappe ulteriori sono sin
troppo note: nel tentativo di compiere la definitiva legittimazione delle
clausole anatocistiche il legislatore ha introdotto il secondo comma dell’art. 120 t.u.b., rimettendo poi al CICR la determinazione delle modalità
di produzione degli interessi sugli interessi. Con Delibera del 9 febbraio
2000 il CICR ha autorizzato la produzione di interessi anatocistici limitatamente ai rapporti di conto corrente, alle operazioni di raccolta e a quelle
di finanziamento con piano di rimborso rateale, sempre che tra banca e
cliente intercorra apposita pattuizione e che la medesima periodicità caratterizzi tanto gli interessi passivi quanto gli interessi attivi. Nel tentativo
di chiarire definitivamente la portata dell’anatocismo, superando l’orientamento liberale della Delibera del 2000 e mettendo fine alla querelle con la
giurisprudenza, il legislatore è intervenuto nel 2013 (63) con una norma
(62) Cfr. Cass. 16 marzo 1999, n. 2374, in Banca, borsa e tit. cred., 1999, II, p. 389 s.,
con note di GINEVRA, Sul divieto di anatocismo nei rapporti fra banche e clienti; DOLMETTA e
PERRONE, Risarcimento dei danni da inadempimento di obbligazione di interessi e anatocismo;
Cass., 30 marzo 1999, n. 3096, in Riv. dir. comm., 1999, p. 167 s., con nota di FERRO LUZZI,
Prime considerazioni a margine della sentenza della Corte di Cassazione del 16 marzo 1999, n.
237, in tema di anatocismo, usi e conto corrente bancario. L’orientamento è stato confermato
nel 2004 con la Cass., sez. un., 7 novembre 2004, n. 21095, in Foro it., 2004, I, c. 3294 s.,
con commenti di PALMIERI e PARDOLESI, L’anatocismo bancario e la bilancia di Balek; COLANGELO, Interessi bancari e meccanismi moltiplicativi delle remunerazioni; FERRO LUZZI,
Canone inverso. Le sezioni unite sull’anatocismo bancario: una sconfitta per i consumatori?
(63) Cfr. GRIFFO, Interessi moratori, usura, e anatocismo: la querelle infinita, in Con-
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abbastanza lacunosa contenuta nell’art. 1, comma 629˚, della l. 27 dicembre 2013, n. 147 che ha sostituito il secondo comma dell’art. 120 t.u.b. La
norma prevede che il «CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione
di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che a) nelle operazioni in conto corrente sia
assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio
degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale».
Tale norma, in attesa della delibera del CICR, ha di fatto reso inoperante il
principio dell’anatocismo “bancario” se non nei limiti stringenti fissati
dall’art. 1283 c.c., secondo un’interpretazione avallata da alcune decisioni
della giurisprudenza (64) e dell’Arbitro bancario finanziario (65). Il divieto
di capitalizzazione è assunto come principio generale anche nell’art. 3 della
proposta di delibera del CICR formulata dalla Banca d’Italia nell’agosto
del 2015 (66) che espressamente vieta in tutte le operazioni di esercizio del
credito che «gli interessi naturali maturati possono produrre ulteriori interessi» ancorché all’art. 4 si preveda per i contratti di conto corrente, a
parziale smentita del principio affermato, la capitalizzazione annuale degli
interessi dovuti, previa esplicita approvazione da parte del debitore entro i
60 giorni successivi alla scadenza. Per gli altri rapporti bancari non regolati
in conto corrente deve, invece, ritenersi applicabile la disciplina generale
prevista dall’art. 1283 c.c.
Da questo punto di vista l’art. 11 quaterdecies, là dove prevede l’automatica possibilità per la banca di capitalizzare annualmente gli interessi,
sembrerebbe introdurre una deroga vistosa alla regola ordinaria (67) con
l’effetto di aggravare fortemente la posizione finanziaria del soggetto fi-
tratti, 2015, p. 507 s.; CARRIÈRE, La fine dell’anatocismo (bancario?), in Contratti, 2015, p.
1154 s.; MARCELLI, L’anatocismo e le vicissitudini della Delibera CICR 9/2/00, in Il Caso.it,
2014, p. 1 s.
(64) Cfr. Trib. Milano, ord. 3 aprile 2015.
(65) Cfr. Arbitro bancario finanziario, Collegio di coordinamento, decisione dell’8
maggio 2015, n. 7854.
(66) Consultabile al sito internet www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/consultazioni/2015/proposta-delibera-cicr.
(67) Cosı̀ CHERTI, Prime note sulle modifiche alla disciplina del prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 1102, secondo cui «la norma, eccezionale, è un’evidente deroga a quanto
disposto dall’art. 1823 c.c., in materia di anatocismo e si giustifica solo in relazione alla
struttura di questa tipologia di finanziamento»; RUMI, La nuova disciplina del prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 940; BULGARELLI, La disciplina del prestito vitalizio, cit., p. 4; MANNELLA e PLATANIA, Il prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 107 s.
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nanziato. Anche in assenza di un rialzo dei tassi di interesse nel corso del
rapporto, ipotizzando la scadenza al termine di un periodo di dieci anni, il
debito, per effetto della capitalizzazione degli interessi e delle spese, ammonterà al doppio della somma erogata: analizzando un modello di finanziamento predisposto da uno dei principali istituti di credito italiani (68) si
nota come a fronte di una somma erogata di 40.000 €, ad un tasso del 7
per cento, il debito maturato alla scadenza assomma a ben € 78.759. Va
perciò letto come un tentativo di mitigare gli effetti della previsione o
quantomeno un tentativo di ricondurre l’istituto nell’alveo della regola
generale, la possibilità riconosciuta dalla riforma del 2015 di escludere la
capitalizzazione annuale qualora le parti concordino un piano di rimborso
rateale dei soli interessi e spese. Il ragionamento che sembra aver guidato il
legislatore è dunque il seguente: data la possibilità concessa alle parti di
prevedere convenzionalmente il rimborso rateale degli interessi e delle
spese, la scelta di non avvalersi di tale facoltà equivale alla volontà, implicita, di escludere il pagamento alla scadenza degli interessi e di autorizzare
che venga prorogata l’esigibilità di tale obbligazione e che, come contropartita, essa produca a sua volta interessi. Se, dunque, la possibilità offerta
al debitore di evitare la capitalizzazione degli interessi corrispettivi e delle
spese esclude una previsione imposta, ancorché conoscibile, si assiste ad
un’inversione della regola generale (69) che solleva non poche perplessità:
non più divieto generale con possibile deroga nei limiti stringenti previsti
dall’art. 1283 c.c. ma applicazione generale con preventiva accettazione,
salvo deroga pattizia. Inoltre, se è vero che il rischio per gli eredi di dover
pagare gli interessi corrispettivi trova un limite nella previsione per la quale
l’ammontare del debito dovuto non può mai superare il valore dell’immobile stimato al momento della conclusione del contratto di finanziamento,
qualora l’ammontare del debito sia inferiore al valore dell’immobile, gli
eredi subiranno gli effetti negativi della capitalizzazione ricavando dalla
vendita dell’immobile meno di quanto avrebbero potuto ricavare in assenza della capitalizzazione.
(68) Foglio informativo, Prestito vitalizio ipotecario Prestisenior, Mps, aggiornato al 7
luglio 2014.
(69) Cosı̀ MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 108.
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6. La deroga alla procedura di escussione della garanzia ipotecaria: il
comma 12˚ quater e la tipizzazione del patto marciano.
Un altro aspetto della disciplina assai delicato e sul quale conviene
perciò soffermarsi riguarda la possibilità concessa all’istituto di credito di
ricorrere ad una peculiare forma di esecuzione individuale «in deroga alle
norme civilistiche in materia di esecuzione forzata immobiliare (regolata
dagli articoli 555 e seguenti del codice di procedura civile)». L’art. 11
quaterdecies, comma 12˚ quater prevede infatti che il finanziatore possa
vendere l’immobile senza dover attendere le lungaggini del processo esecutivo, qualora entro 12 mesi dal verificarsi della morte del soggetto finanziato il debito non sia integralmente rimborsato. Lo schema adottato
non è quello dell’alienazione a scopo di garanzia con la quale le parti
pattuiscono il trasferimento della proprietà al creditore in caso di inadempimento, ma quello della procura a vendere a scopo di garanzia. Tale
schema rientra secondo la soluzione accreditata in dottrina (70) nella fattispecie del mandato con rappresentanza in rem propriam ad alienare c.d.
post mortem perché destinato ad essere eseguito, di regola, dopo la morte
del mandatario. Gli effetti si produrrebbero in capo al mandante, ormai
defunto, e quindi ai suoi eredi in forza dell’ultrattività del mandato in rem
propriam e come conseguenza della sua insensibilità rispetto all’evento,
normalmente estintivo del mandato, della morte. La giurisprudenza sembra, infatti, ammettere l’ultrattività degli effetti del mandato con rappresentanza in virtù dell’applicazione diretta dell’art. 1723 c.c. sul presupposto che il mandato con rappresentanza non sia l’unione di due negozi
distinti e scindibili ma una figura autonoma a sé stante alla quale si applicano tanto le norme relative alla rappresentanza, tanto quelle relative al
mandato. L’inquadramento del prestito vitalizio ipotecario nel mandato
con rappresentanza in rem propriam rappresenta, secondo alcuni commentatori, un’agevole alternativa alla fattispecie del mandato ad alienare nella
quale, secondo la ricostruzione privilegiata (71), l’efficacia traslativo-reale è
destinata a prodursi non immediatamente, ma solo al verificarsi della
condizione sospensiva rappresentata dall’alienazione del bene dal mandante al mandatario, ancorché tale alienazione sia di natura esclusivamente
strumentale. La possibilità di disporre anticipatamente del proprio patri-
(70) BULGARELLI, op. cit., p. 10; MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 179 s. Cfr., altresı̀,
LEO, Mandato in “rem propriam” eseguito dopo la morte del mandante, commento a Cass. 23
aprile 2011, n. 5981, in Notariato, 2002, p. 254 s.
(71) Cfr. LUMINOSO, Il mandato e la commissione, in Tratt. Rescigno, VIII, Torino, 2007,
p. 475.
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monio per il tempo in cui il debitore avrà cessato di vivere rappresenterebbe, secondo un’opinione diffusa, un’eccezione al divieto legale dell’art.
458 c.c., «confermando la tendenza del legislatore degli ultimi anni di
ampliare gli spazi riservati all’autonomia privata nell’ambito dei negozi
post mortem» (72). È stato, peraltro, fatto notare da alcuni commentatori
come la fattispecie, in realtà, non realizzi una deroga al divieto dei patti
successori dal momento che la specifica finalità della norma non è quella
di «costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una
successione non ancora aperta», ma esclusivamente quella di finanziamento, sicché gli effetti dispositivi post mortem, pur presenti, sarebbero del
tutto eventuali, un mero riflesso indiretto dello scopo primario avuto di
mira dalle parti (73).
La norma deroga, invece, sicuramente e in maniera abbastanza vistosa
all’art. 2744 c.c. che, come è noto, sancisce la nullità del patto con cui
debitore e creditore convengono che in caso di inadempimento dell’obbligazione entro il termine pattuito la proprietà della cosa ipotecata o data
in pegno sia trasferita in proprietà a quest’ultimo. La norma sul prestito
vitalizio rappresenta il segnale di un’inversione di tendenza rispetto all’orientamento restrittivo consolidatosi negli anni sul divieto del patto commissorio (74), sul presupposto che l’esercizio dell’autonomia privata in materia di garanzie reali nascondesse sovente un intento di sopraffazione del
creditore nei riguardi del debitore (75). Il principio ha avuto perciò un’applicazione assai estensiva che ha valorizzato, al di là dello schema tipico, la
(72) FARACE, Prestito vitalizio ipotecario, cit., p. 5; PADOVINI, Fenomeno successorio e
strumenti di programmazione patrimoniale alternativi al testamento, in Riv. notariato, 2008,
p. 1024 s., afferma che «L’ultimo confine al divieto dei patti successori è segnato dal
cosiddetto “prestito vitalizio ipotecario” (…) Questa regola, insegna, allora, che sono leciti
rapporti contrattuali dove l’obbligazione principale gravante su una parte può divenire
esigibile nel momento della morte di quella stessa parte».
(73) MANNELLA e PLATANIA, op. cit., p. 186.
(74) Cfr., sul punto, AGABITINI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di patto
commissorio, in Riv. crit. dir. priv., p. 119 s.
(75) Cfr., a riguardo, PAGLIANTINI, I misteri del patto commissorio, le precomprensioni
degli interpreti e il diritto europeo della dir. 2014/17/Ue, in questa Rivista, 2015, p. 181 s., il
quale raggruppa una serie di sentenze all’insegna di una serie di principi cosı̀ riassumibili: «è
irragionevole disporre in funzione di garanzia»; «la presunzione di coercizione del debitore
alienante per via commissoria è assoluta»; il valore protetto dall’art. 2744 c.c. «si radica
nell’interesse sociale ad evitare il diffusivo confezionarsi di garanzie reali atipiche»; la clausola di stima contenuta nella convenzione marciana «scaccia il pericolo di abuso sinallagmatico ma è inefficiente rispetto all’illibertà di una vicenda traslativa irreversibile». L’A.
pone, quindi, un interrogativo: «la lettura funzionalista dell’art. 2744 (…) si è fatta viepiù
radicale arricchendosi di una ratio maggiormente sofisticata, la tutela della libertà morale del
debitore, donde il riaccreditarsi dell’idea di un divieto generale, del sistema italiano, di
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funzione di garanzia del negozio di alienazione a prescindere dalla presenza di garanzie reali tipiche e dal momento in cui si fosse perfezionato
l’effetto traslativo (76). La novità introdotta dalla disciplina del prestito
vitalizio ipotecario non è isolata e si inserisce nel solco di interventi analoghi volti a rendere il diritto delle garanzie più adatto alle esigenze degli
operatori economici (77), tenuto conto anche delle lungaggini che, specie in
Italia, affliggono il processo civile. Si fa riferimento all’art. 6, comma 2˚,
d.lgs. n. 170/04 il quale dispone che «ai contratti di garanzia finanziaria
che prevedono il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia,
compresi i contratti di pronti contro termine non si applica l’articolo 2744
del codice civile»; nonché alla recente riforma dei muti ipotecari. L’art.
120 quinquiesdecies, comma 3˚, t.u.b., in tema di mutui immobiliari ai
consumatori, introdotto dall’art. 1 d.lgs. n. 72/16, in attuazione della
Dir. 2014/17/UE, accoglie la possibilità concessa agli Stati dall’art.
28 (78) della direttiva di prevedere che «il trasferimento della garanzia reale
o dei proventi della vendita della garanzia reale [sia] sufficiente a rimborsare il credito». L’art. 120 quinquiesdecies attribuisce, infatti, alle parti la
possibilità di pattuire espressamente, al momento della conclusione del
contratto, che il bene ipotecato passi in proprietà della banca in caso di
inadempimento (pari a 18 rate mensili, come specificato dal comma 4). A
tutela del finanziato è, tuttavia, previsto che il valore del debito residuo
non possa oltrepassare il valore dell’immobile, e che, nel caso in cui questo
superi l’ammontare del debito, al finanziato venga restituita l’eccedenza.
Ancora più di recente l’art. 2 d.l. n. 59/16, di prossima conversione, ha
apportato una rilevante modifica al t.u.b., introducendo l’art. 48 bis, rubricato “Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene
immobile sospensivamente condizionato”: si tratta di un’ulteriore tipizzazione del c.d. patto marciano. La nuova disposizione prevede, infatti, che il
contratto di credito stipulato tra la banca e l’imprenditore possa essere
negozi ad effetti reali con causa di garanzia, divieto corazzato da una nullità testuale,
dissociata dalla compresenza di un effettivo pregiudizio per il debitore?».
(76) Cfr., proprio in tema di illiceità della procura a vendere con funzione di garanzia,
Cass. 10 marzo 2011, n. 5740, in Giur. it., 2012, p. 568 s., con commento di ALBANESE, Brevi
note in tema di patto commissorio, procura a vendere e autonomia privata ovvero la fattispecie
e i suoi confini, p. 570 s.
(77) CERINI, Il prestito vitalizio, cit., p. 509 afferma che «tanto la costituzione quanto
l’escussione satisfattiva della garanzia ipotecaria sono operazioni dei costi transattivi nettamente antitetici rispetto all’esigenza di immediatezza ed efficienza che governa il mondo
delle garanzie del credito».
(78) Cfr., per un inquadramento generale, RUMI, Profili privatistici della nuova disciplina
sul credito relativo agli immobili residenziali, in Contratti, 2015, p. 70 s.
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garantito dal trasferimento, sospensivamente condizionato all’inadempimento, in favore dell’istituto di credito, della proprietà di un immobile
del finanziato o di un terzo. Nel caso in cui, a seguito della stima del bene
da parte del perito, risulti che il valore dell’immobile sia superiore all’ammontare del debito è espressamente previsto che al debitore sia restituita la
differenza. Le innovazioni sul piano normativo si inseriscono all’interno di
un trend che anche a livello giurisprudenziale tende ad individuare la
ratio (79) del divieto di cui all’art. 2744 c.c. non tanto nella «tutela della
libertà morale del debitore» quanto nel rischio di una sproporzione tra il
valore del bene e l’importo del credito. Il rischio è, infatti, che la debolezza
economica di chi cerca un finanziamento renda assai probabile che egli
accetti di perdere in futuro la proprietà di un bene di grande valore pur di
ricevere un prestito immediato (80). Il disvalore del patto commissorio,
come ha di recente argomentato la Cassazione, dipende dalla sua attitudine a produrre effetti contrari all’ordinamento e che consistono non già in
una garanzia, bensı̀ «in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore» (81). Ne deriva quindi la piena ammissibilità della fattispecie generale del patto marciano con cui si conviene
che in caso di inadempimento il creditore acquisti la proprietà di un bene
del debitore con l’obbligo per il creditore di versare al debitore l’eventuale
eccedenza di valore del bene rispetto all’importo del debito inadempiuto.
In questo caso, infatti, non solo viene meno quello squilibrio tra l’ammontare del debito e il valore del credito che viene sanzionato con il divieto del
patto commissorio, ma si avrebbe addirittura una maggiore tutela per il
debitore garantito rispetto al ricorso alla procedura esecutiva. A seguito
della riforma (82) del 2006 sulle garanzie ipotecarie, il patto marciano
riceve esplicito riconoscimento anche nell’ordinamento francese (83) con
la previsione della possibilità per il creditore, in caso di inadempimento, di
giovarsi di un patto commissorio precedentemente stipulato (artt. da 2458
a 2460 cod. civ. francese), purché in caso di sproporzione tra il valore del
credito e quello dell’immobile, l’eventuale differenza venga versata al de-
(79) Cfr. DE MENECH, Il patto marciano e gli incerti confini del divieto di patto commissorio, in Contratti, 2015, p. 823 s.
(80) Cosı̀ DE MENECH, op. cit., p. 827.
(81) Cass. 9 maggio 2013, n. 10986, in pluriscedam.it. Cfr., sul punto, PAGLIANTINI, I
misteri del patto commissorio, cit., p. 188.
(82) VARI, La riforma dell’ipoteca convenzionale in Francia, cit., passim. L’esigenza di
una riforma delle garanzie, specificamente di quelle mobiliari, è stata avvertita anche in
Italia: cfr., sul punto, AGABITINI, Debito sovrano ed accesso al credito, cit., p. 417 s.
(83) Cfr. VARI, op. cit., p. 270 s.
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bitore. Tale possibilità è contemplata anche nel prestito vitalizio ipotecario
all’art. L. 314-3 del Code de la Consommation, il quale introduce, peraltro,
un’eccezione alla regola generale che prevede, nel caso in cui il bene
ipotecato sia la residenza principale del debitore, l’esclusivo ricorso all’esecuzione immobiliare. Sulla scia del legislatore francese anche l’art. 11
quaterdecies, comma 12˚ quater, stabilisce che, a seguito dell’alienazione da
parte del creditore del bene, «le eventuali somme rimanenti, ricavate dalla
vendita e non portate a estinzione del predetto credito, sono riconosciute
al soggetto finanziato, o ai suoi aventi causa».
Affinché tale pattuizione sia valida, secondo l’orientamento prevalente
è necessario prevedere un procedimento di stima del bene al tempo dell’inadempimento e che siano predeterminate le modalità che assicurino
una valutazione imparziale del bene o attraverso il ricorso a parametri
oggettivi preventivamente convenuti, ovvero attraverso l’affidamento dell’incarico ad un terzo soggetto imparziale. Il requisito dell’imparzialità del
perito incaricato della stima del bene sarebbe soddisfatto quando la scelta
promani almeno formalmente da entrambi le parti, soluzione che consentirebbe anche l’applicazione della disciplina propria dell’arbitraggio e in
particolare della possibilità di impugnare la determinazione del valore per
manifesta iniquità od erroneità ex art. 1349 c.c. Nel caso in cui, tuttavia, la
determinazione del terzo è funzionale ad accertamenti di natura tecnica e
non discrezionale sarebbe più corretto parlare di perizia contrattuale,
ancorché la dottrina maggioritaria (84), a differenza della giurisprudenza
che insiste nel ricondurre la figura ad un tertium genus, nega alla figura
un’autentica autonomia sul piano strutturale, riconducendola ora nell’arbitrato irrituale ora nell’arbitraggio. Ciò comporta la possibilità di riferire
anche alla perizia i rimedi previsti per l’arbitraggio con l’unica precauzione
di tenere nella dovuta considerazione la natura tecnica delle modalità di
valutazione adottate, in modo da adattare la manifesta erroneità o iniquità
della decisione alle regole di carattere tecnico su cui si fonda tale valutazione (85). È lecito allora nutrire più di qualche perplessità sulla scelta del
legislatore di affidare la nomina dell’esperto al finanziatore, cioè a una sola
delle parti, tenuto conto che sia il disegno di legge del 2007, sia la prassi
formatasi sotto il vigore della previgente disciplina affidavano la nomina ad
(84) GITTI, Problemi dell’oggetto, La determinazione del terzo, in VETTORI (a cura di),
Regolamento, in ROPPO (diretto da) Trattato del contratto, II, Milano, 2006, p. 38 s.
(85) ID., ivi, p. 39; contra GABRIELLI, sub art. 1349, in Comm. UTET, Artt. 1321-1349,
2011, p. 817 s. Fa espresso riferimento all’art. 1349 c.c. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1625, in
pluriscedam.it; cfr., a riguardo, DE MENECH, Il patto marciano, cit., p. 838 s.
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le nuove leggi
743
un terzo, il Presidente del Tribunale del luogo in cui è situato l’immobile.
La soluzione adottata per il prestito vitalizio ipotecario suscita perplessità
ancora maggiori alla luce delle recenti disposizioni in materia di mutui
ipotecari e conferma il disagio dell’interprete di fronte al susseguirsi di
interventi disorganici che, in mancanza di un approccio sistematico, finiscono per creare disparità di disciplina difficilmente giustificabili. A differenza, infatti, di quanto previsto dall’art. 11 quaterdecies, comma 12˚ quater, in materia di prestito vitalizio ipotecario da un lato, la nuova disposizione dell’art. 48 bis t.u.b. (in particolare il comma 6˚) in tema di credito
immobiliare ai consumatori affida al Presidente del tribunale la scelta del
perito e dall’altro, la previsione dell’art. 120 quinquiesdecies, comma 4˚,
lett. d, t.u.b. in tema di finanziamenti ipotecari alle imprese, rimette la
nomina del perito all’accordo tra le parti e, solo in mancanza di un accordo, al Presidente del tribunale. La stessa disciplina francese del prêt viager
hypothécaire all’art. L. 314-13 prevede che la stima del bene sia fatta
quantomeno «par un expert choisi d’un commun accord par le créancier et
l’emprunteur». Il legislatore italiano ha invece ritenuto sufficiente, in luogo
della scelta condivisa o della nomina da parte del Presidente del tribunale,
il requisito dell’indipendenza del terzo senza neppure chiarire i contenuti
di tale requisito. Un’indicazione la si ricava, tuttavia, dalle Linee guida per
gli immobili in garanzia delle esposizioni creditizie del 15 dicembre 2015,
redatte in esecuzione della circolare della Banca d’Italia n. 263/06 sulla
base del Reg. UE n. 575/2013. Al punto R. 2. 3, concernente la definizione
di perito, le Linee guida confermano che «Il perito può essere un dipendente della banca o esterno alla stessa fermo restando il rispetto di tutti i
requisiti del presente codice di condotta R.2.», in grado di assicurarne
l’indipendenza. Il rischio è che, per come congegnata, la norma sacrifichi
l’interesse all’indipendenza del perito e lasci prevalere l’esigenza della
banca di soddisfarsi celermente sul bene ipotecato a discapito dell’interesse del debitore a vendere l’immobile al prezzo più alto possibile. Tale
sensazione trova ulteriore conferma nella previsione secondo cui in caso
di mancata alienazione il prezzo di vendita è decurtato automaticamente
del 15 per cento per ogni anno successivo, a prescindere da qualsiasi
deprezzamento reale dell’immobile. La disposizione compromette seriamente l’equilibrio tra il valore del bene ipotecato e il valore del debito
che è alla base della legittimità del patto marciano, essendo concreto il
rischio che, in tal modo, all’esito dell’operazione non residui nessun valore
da restituire agli eredi del finanziato. Oltretutto la riduzione automatica
sembra contrastare con l’indicazione che si ricava dalle Linee guida per la
valutazione degli immobili che, invece, ancorano la stima dell’immobile al
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
valore di mercato ed escludono che ai fini della determinazione del prezzo
possano invece influire necessità soggettive di vendere o acquistare. Va
allora considerato un correttivo in favore degli eredi la possibilità (86) che
gli viene concessa di provvedere direttamente alla vendita dell’immobile;
se è questa la ratio della norma si dovrebbe, allora, ritenere tale vendita
“concordata” come alternativa alla sola procedura di riduzione progressiva
del prezzo ma pur sempre ancorata alla determinazione del valore di
mercato fatta dal perito. Qualora, invece, si volesse rintracciare la ratio
della disposizione nella necessità di salvaguardare l’intangibilità del patrimonio ereditario, nell’ipotesi in cui uno degli eredi fosse interessato all’acquisto esclusivo dell’immobile si dovrebbe ritenere tale modalità integralmente alternativa a quella posta in essere dal finanziatore.
Particolarmente di favore (87), per il terzo acquirente, ma non meno
per il soggetto finanziato dato l’incentivo all’acquisto che essa determina,
è, infine, la previsione del comma 12˚ quater che prevede l’inopponibilità
al terzo delle domande giudiziali di cui all’art. 2652, comma 1˚, nn. 7) e 8)
c.c., trascritte successivamente all’acquisto. Si tratta di domande con cui si
contesta il fondamento degli acquisti mortis causa e che, in virtù della c.d.
retroattività reale, sono tali da pregiudicare i diritti dei terzi anche nel caso
in cui essi abbiano trascritto il titolo del loro acquisto anteriormente alla
trascrizione della domanda. L’art. 2652, n. 7) c.c. prevede, a tutela della
stabilità dell’acquisto, l’inopponibilità degli effetti della domanda giudiziale contro l’erede apparente o il legatario apparente, se trascritta dopo
cinque anni dalla trascrizione dell’acquisto mortis causa da parte del terzo
in buona fede. Ciò a prescindere dal requisito dell’apparenza (88) richiesto,
invece, dall’art. 534 c.c., ancorché sia necessario, secondo una parte della
dottrina (89), pur nel silenzio della norma, che l’acquisto del terzo sia
anteriore a quella dell’erede o del vero legatario. Il comma 12˚ quater,
(86) Cfr., sulla natura giuridica dell’incarico conferito agli eredi di vendere l’immobile,
BULGARELLI, La disciplina del prestito vitalizio, cit., p. 12 s.
(87) Cosı̀ si esprimono CHERTI, Prime note sulle modifiche alla disciplina del prestito
vitalizio ipotecario, cit., p. 1106; RUMI, La nuova disciplina del prestito vitalizio ipotecario, cit.,
p. 944 s.
(88) Cfr., sul punto, ORESTANO, Le domande con le quali si contesta il fondamento di un
acquisto a causa di morte, in GABRIELLI e GAZZONI (a cura di), Trattato della trascrizione, II,
La trascrizione delle domande giudiziali , Torino, 2014, p. 191.
(89) Cfr. ID., ivi, p. 192; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, p. 541; DEL
BENE, Acquisti mortis causa, trascrizione e apparenza, Milano, 199, p. 136 s.; FERRI, La
trascrizione degli acquisti «mortis causa» e problemi connessi, Milano, 1951, p. 173; contra
MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, Milano, 1975, p. 298 s.; TRIOLA, La trascrizione, in
Tratt. Bessone, Della tutela dei diritti, Torino, 2012, p. 274 s.
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le nuove leggi
745
derogando all’art. 2652 c.c. in senso più favorevole al terzo acquirente,
dispone un’anticipazione della tutela a far data dalla trascrizione dell’acquisto prevedendo l’inopponibilità immediata della domanda, purché la
trascrizione dell’acquisto sia anteriore alla trascrizione della domanda. Il
medesimo effetto di rendere immediatamente inopponibile al terzo che
abbia trascritto il suo acquisto prima della trascrizione della domanda
giudiziale è previsto anche per la sentenza che accoglie le domande di
riduzione delle disposizioni lesive della legittima proposte contro il beneficiario, e quindi potenzialmente pregiudizievoli del terzo che da questi
abbia acquistato l’immobile. La norma deroga all’art. 2652, comma 1˚, n.
8) c.c. che, com’è noto, dispone, per gli acquisti a titolo oneroso dei beni
immobili, ulteriormente rispetto a quanto previsto dall’art. 563 c.c., l’inopponibilità delle domande di riduzione trascritte (e non proposte, come
invece previsto dall’art. 563 c.c.) dopo il termine decadenziale di dieci
anni dall’apertura della successione, a prescindere dalla buona fede del
terzo che acquista (90).
(90) Cfr. GAZZONI, Le domande di riduzione e di restituzione, in Trattato della trascrizione cit., 199 s., il quale valuta negativamente l’eccessiva lunghezza del termine di prescrizione dell’azione di riduzione sia, di conseguenza, di quello di decadenza previsto dall’art.
2652, n. 8). La deroga prevista dal comma 12˚ quater rischia, tuttavia, di sollevare un
problema di incostituzionalità per disparità di trattamento rispetto agli altri terzi acquirenti
estranei alla vicenda del prestito vitalizio ipotecario. Perplessità esprime, BULGARELLI, op.
cit., p. 20, il quale ritiene che non sussista «alcuno speciale motivo che possa far ritenere
prevalenti, per il prestito vitalizio ipotecario, gli interessi del finanziatore e dell’acquirente
dell’immobile rispetto a quelli degli aventi diritto ad una quota di riserva dell’asse ereditario
che di fatto vedono compromesso il termine decennale concesso per tutelare i loro diritti
successori, sino a renderne eccessivamente difficile, se non impossibile, l’esercizio».
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GIULIA GABASSI (*)
Dottore di ricerca in Comparazione giuridica e storico-giuridica
DELIBERA AGCOM 519/15/CONS E REGOLAMENTO UE
N. 2015/2120: DUE OCCASIONI MANCATE PER LA TUTELA
DEGLI UTENTI NEI CONTRATTI AVENTI AD OGGETTO
SERVIZI DI COMUNICAZIONE ELETTRONICA?
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Ambito soggettivo di applicazione. – 3. Coordinamento con
altre disposizioni normative. – 4. Qualificazione del contratto. – 5. Informazioni precontrattuali. – 6. Forma del contratto. – 7. Contenuto del contratto. – 8. Durata del
contratto, cessazione e recesso ordinario. – 9. Lo ius poenitendi. – 10. Il recesso come
conseguenza dell’esercizio dello ius variandi da parte dell’operatore. – 11. Inadempimento del contratto. – 12. La decadenza dal contratto. – 13. Fornitura non richiesta. –
14. Conclusioni.
1. Introduzione.
La seconda metà del 2015 ha visto l’adozione, nel settore delle comunicazioni elettroniche, di due regolamenti di particolare rilevanza e da
lungo attesi: sul piano interno, il regolamento allegato alla delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (da qui AGCom) n. 519/
15/CONS (“Regolamento recante disposizioni a tutela degli utenti in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche”) (1), a livello europeo il regolamento UE n. 2015/2120 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015 che stabilisce misure
riguardanti l’accesso a un’Internet aperta e che modifica la direttiva 2002/
22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di
reti e di servizi di comunicazione elettronica e il regolamento UE n. 531/
2012 relativo al roaming sulle reti pubbliche di comunicazioni mobili
all’interno dell’Unione (in G.U.U.E. L 310 del 26 novembre 2015, p.
1 ss.) (2).
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) Testo in www.agcom.it.
(2) Cui ha fatto seguito la del. AGCom del 31 maggio 2016, n. 224/16/CONS recante
“Atto di indirizzo in relazione alla corretta applicazione del regolamento (UE) n. 2012/531
relativo al roaming sulle reti pubbliche di comunicazioni mobili all’interno dell’Unione,
NLCC 4/2016
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le nuove leggi
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Già ad un primo sommario approccio, i provvedimenti appaiono ben
lontani dal dettare una organica disciplina e/o riforma del settore delle
comunicazioni elettroniche, occupandosi invece di disciplinare solamente
alcuni aspetti della materia, lasciando ad altre fonti o ad interventi futuri il
compito di riorganizzare il sistema.
Volgendo lo sguardo ai lavori preparatori, sembra potersi desumere
che la scelta, sia sul piano interno che su quello europeo, appaia come un
ridimensionamento delle originarie intenzioni: l’AGCom (3) ha sostituito il
già vigente regolamento adottato con delibera 664/06/CONS, che recava
una disciplina compiuta dei contratti stipulati a distanza, con un regolamento che per lo più lascia alla disciplina generale dei contratti dei consumatori la regolamentazione dei contratti conclusi nel settore delle comunicazione elettroniche, preoccupandosi di disciplinare solo alcuni
aspetti legati alla particolare natura dei contratti di settore; il Parlamento
europeo ed il Consiglio (4), per parte loro, hanno abbandonato gran parte
delle proposte della Commissione, che aveva inteso intervenire sull’intera
disciplina dei contratti aventi ad oggetto servizi di comunicazione elettronica, per concentrarsi esclusivamente sulla neutralità della rete e sul roaming.
Si può, peraltro, intravedere un nesso tra i due provvedimenti, nei
limiti in cui osserveremo che alcune delle disposizioni adottate dall’AGCom prendevano spunto da alcuni contenuti della proposta di regolamento approvato dalla Commissione (5), contenuti poi abbandonati nel corso
del procedimento di adozione del regolamento UE, come appena accennato.
L’analisi di queste recenti modifiche, della ratio degli interventi e
l’impatto che essi hanno sulla regolamentazione dei contratti aventi ad
come modificato dal regolamento (UE) n. 2015/2120”, al fine espresso di “agevolare una
piena e uniforme applicazione delle disposizioni del Regolamento Roaming nel periodo
transitorio (30 aprile 2016 – 14 giugno 2017)” e di chiarire agli operatori che “L’Autorità,
nell’ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al
rispetto delle norme e dei principi richiamati”. Si vedano anche le delibere nn. 222/16/
CONS e 223/16/CONS dell’AGCom di diffida alle società Wind e Telecom Italia s.p.a. in
relazione alla corretta applicazione del regolamento.
(3) Lavori preparatori rinvenibili sul sito dell’Autorità (www.agcom.it) sub delibere nn.
645/14/CONS e 519/15/CONS, in particolare si rinvia al documento di sintesi della consultazione pubblica.
(4) Lavori preparatori rinvenibili all’indirizzo http://eur-lex.europa.eu/procedure/IT/
2013_309.
( 5 ) Proposta adottata a Bruxelles in data 11.9.2013, COM(2013) 627, 2013/
0309 (COD).
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
oggetto servizi di comunicazione elettronica non possono essere condotti
se non si premette un’osservazione, cioè che il settore delle comunicazioni
elettroniche costituisce uno di quei ambiti del nostro ordinamento nei
quali si intersecano normative di carattere pubblicistico – in particolare
di natura amministrativa – e norme di carattere privatistico, ed è anche
uno di quegli ambiti – nel settore privatistico – nei quali la molteplicità
delle fonti – nazionali e sovranazionali, primarie e secondarie – complica il
quadro imponendo un complesso sforzo interpretativo al fine di individuare soluzioni che consentano al mercato di fondarsi su regole certe.
In questo settore, infatti, il regime normativo dei contratti risulta
composto da: artt. 70 ss. del Codice delle comunicazioni elettroniche
(d.lgs. 1˚ agosto 2003, n. 259, d’ora in avanti c.com.el.), delibere dell’AGCom di integrazione dello stesso, Codice del Consumo, normativa europea
e, seppure residualmente, norme del diritto privato “generale” (6).
Ebbene, il codice delle comunicazioni elettroniche, entrato in vigore in
Italia ormai più di un decennio fa in recepimento delle direttive europee
costituenti il c.d. “pacchetto Telecom” (7) è stato oggetto in un passato
poco più che recente di interventi legislativi dettati sempre dall’esigenza di
conformare l’ordinamento interno alle modifiche richieste dalla produzione normativa europea.
Il codice delle comunicazioni elettroniche è stato emendato, infatti, dal
d.lgs. 28 maggio 2012, n. 70 recante “Modifiche al decreto legislativo 1˚
agosto 2003, n. 259, recante codice delle comunicazioni elettroniche in
attuazione delle direttive 2009/140/CE, in materia di reti e servizi di
comunicazione elettronica, e 2009/136/CE in materia di trattamento dei
dati personali e tutela della vita privata”.
Mentre la dir. 2009/140/CE (e le sue disposizioni di recepimento) si
occupa principalmente degli aspetti pubblicistici del settore delle comunicazioni elettroniche (organismi competenti, consolidamento del mercato
interno, pianificazione strategica e coordinamento della politica in materia
(6) In senso contrario, quanto all’applicazione “sussidiaria” delle regole di diritto
privato “generale”, sembra porsi ZOPPINI, Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti
ai “Codici di settore” (Lo ius variandi nei codici del consumo e delle comunicazioni elettroniche), in Riv. dir. civ., 2016, p. 144.
(7) Trattasi delle dirr. 2002/21/CE («direttiva quadro»), 2002/19/CE («direttiva accesso»), 2002/20/CE («direttiva autorizzazioni»), 2002/22/CE («direttiva servizio universale») e 2002/58/CE («direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche»).
Per un inquadramento generale del provvedimento si veda, sebbene prima delle ultime
novità introdotte, QUADRI, Il codice delle comunicazioni elettroniche, in questa Rivista,
2003, p. 1327.
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le nuove leggi
749
di spettro radio, gestione delle radio frequenze et al.), gli aspetti più
strettamente privatistici, nonché il profilo della tutela degli utenti, sono
affrontati nella dir. 2009/136/CE, nella parte in cui essa apporta modifiche
alla dir. 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in
materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (8).
In questo quadro si inserisce, dunque, il già citato reg. UE n. 2015/
2120, il quale lascia sostanzialmente invariata la direttiva “servizio universale”, aggiungendo esclusivamente alcuni obblighi informativi che gli operatori devono adempiere nei confronti degli utenti.
Dal punto di vista europeo, la scelta “riduttiva” rispetto alle originarie
intenzioni appare legata a questioni politiche in seno al Consiglio, alla luce
di osservazioni fatte dagli Stati Membri, i quali dubitavano dell’opportunità della scelta dello strumento giuridico – regolamento e non direttiva –
il quale avrebbe imposto un livello di tutela inferiore a quello già praticato
in alcuni degli Stati che sarebbero stati interessati dall’intervento normativo. Nel compromesso politico, pertanto, Parlamento e Consiglio hanno
deciso di abbandonare – quantomeno per il momento – la possibilità di
predisporre una nuova disciplina generale dei contratti, concentrandosi e
disciplinando gli aspetti ritenuti più necessari, l’accesso a internet e il
roaming.
Dal punto di vista nazionale, invece, il ridimensionamento delle intenzioni dell’AGCom appare l’esito preannunciato di un dibattito ormai risalente avente ad oggetto il rapporto tra norme speciali sui contratti aventi
ad oggetto servizi di comunicazione elettronica e norme generali di tutela
(8) Il recepimento delle suddette direttive è avvenuto in Italia con ritardo (il termine
fissato dalle direttive stesse era il 25 maggio 2011), di tanto che sono state aperte due
procedure di infrazione a carico del nostro Paese (n. 2011_0847 e 2011_0848). La necessità
di giungere in un breve lasso di tempo al recepimento (esigenza di cui si può scorgere traccia
negli atti parlamentari), a seguito dell’apertura delle suddette procedure, ha causato, tuttavia, alcune imprecisioni di non trascurabile conto con riferimento alle modalità di attuazione. Non occupandoci per il momento delle questioni “sostanziali” si noti soltanto che la
denominazione del decreto è errata nella parte in cui si riferisce all’attuazione della dir.
2009/136/CE “in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata”. Se è
vero, infatti, che la dir. 2009/136/CE a ragione recava modifiche anche della “direttiva
2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata”, tuttavia
tali modifiche non interessano il c.com.el. (quanto il codice della privacy dove effettivamente
sono state trasposte). Il d.lgs. n. 70/12, invero, attua la dir. 2009/136/CE nella parte in cui
essa modifica la “direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti
in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica”. In secondo luogo, appare come
lapsus la circostanza che nel decreto suddetto presenti due capi, l’uno intitolato “Recepimento della direttiva 2009/140/CE”, l’altro intitolato “Norme di coordinamento del codice
delle comunicazioni elettroniche”. Nessun riferimento viene fatto alla dir. 2009/136/CE
anche se l’attuazione della stessa è sicuramente contenuta nel capo I.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
del consumatore e la definizione delle sfere di competenza delle autorità
indipendenti garanti del settore, l’AGCom stessa e l’AGCM.
Come avremo modo di approfondire infra, l’intersecarsi della disciplina “speciale” di cui al c.com.el. con la disciplina generale in tema di diritto
dei consumatori impone non solamente un coordinamento di norme, ma
anche un coordinamento di Autorità, se è vero che l’un ambito è sottoposto alla sorveglianza e al potere disciplinare dell’AGCom e l’altro vede il
ruolo fondamentale dell’AGCM.
La suddivisione dei ruoli tra le due Autorità si riverbera anche sulla
stessa disciplina dei contratti settoriali, se è vero, come è vero, che le
autorità hanno anche potere regolamentare.
Prova ne è, dunque, proprio la recentissima delibera n. 519/15/CONS
e l’allegato “Regolamento recante disposizioni a tutela degli utenti in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche”. La storia stessa dell’approvazione di questa delibera dimostra la
stretta interconnessione tra ambito delle comunicazioni elettroniche e settore consumeristico, soprattutto per la tipologia dei contratti conclusi a
distanza o fuori dai locali commerciali, considerato che nell’iter di adozione era sicuramente tenuta in considerazione la modifica del codice del
consumo apportata in attuazione della dir. 2011/83/UE (9) e del d.lgs.
21 febbraio 2014, n. 21 di attuazione della stessa e nelle stesse premesse
della delibera si precisa che è “ritenuto necessario allineare la disciplina
recata dal suddetto regolamento (10) al mutato quadro legislativo, tenuto
anche conto dell’attribuzione all’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato della competenza a vigilare sul rispetto delle disposizioni del
predetto Codice del consumo in materia di contratti conclusi a distanza
e fuori dai locali commerciali”.
Le innovazioni introdotte sia a livello europeo che a livello interno
vanno, pertanto, inquadrate nell’ambito degli aspetti civilistici e di tutela
dell’utente, nel settore dei servizi di comunicazione elettronica, disciplinati
a livello legislativo dal titolo II, capo IV, sezione III del c.com.el. recante
“Tutela degli utenti finali”. Si analizzeranno, dunque, i singoli aspetti
(9) “Sui diritti dei consumatori, recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la
direttiva 85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio”.
(10) Regolamento allegato alla del. n. 664/06/CONS del 23 novembre 2006, di “Adozione del regolamento recante disposizioni a tutela dell’utenza in materia di fornitura di
servizi di comunicazione elettronica mediante contratti a distanza”, ora abrogato per effetto
della del. n. 519/15/CONS.
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le nuove leggi
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afferenti la disciplina dei contratti aventi ad oggetto i servizi di comunicazione elettronica, evidenziando, per ognuno di essi, il contributo di
novità portato dai recenti interventi normativi interni ed europei.
2. Ambito soggettivo di applicazione.
Preliminarmente occorre delimitare l’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni settoriali regolanti i contratti per la prestazione di
servizi di comunicazione elettronica.
L’art. 70 c.com.el., infatti, contiene una pluralità di disposizioni aventi
un ambito soggettivo di applicazione non uniforme.
Il comma 1˚, infatti, il quale si occupa in particolare del contenuto
contrattuale (su cui infra), attribuisce il diritto di stipulare contratti a “i
consumatori o gli altri utenti finali che ne facciano richiesta”; il comma 4˚,
invece, disciplina il recesso del “contraente” a seguito dell’esercizio dello
ius variandi da parte dell’impresa; il comma 5˚, ancora, sanziona con la
decadenza dal contratto il comportamento illecito dell’“utente finale”.
Ai sensi dell’art. 1 c.com.el. deve qualificarsi quale “contraente” quella
“persona fisica o giuridica che sia parte di un contratto con il fornitore di
servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, per la fornitura
di tali servizi”; deve intendersi per “utente finale” “un utente che non
fornisce reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico”; per “consumatore” “l’utente finale, la
persona fisica che utilizza o che chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico per scopi non riferibili all’attività lavorativa, commerciale o professionale svolta”. A queste definizioni
si aggiunga quella di “utente”, cioè “la persona fisica o giuridica che
utilizza o chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica
accessibile al pubblico”.
Si noti che, per effetto del d.lgs. n. 70/12, la parola “contraente” di cui
al comma 4˚ ha sostituito la parola “abbonato” contenuta nella precedente
formulazione, con l’effetto di fugare ogni dubbio circa la riconducibilità
alla fattispecie anche dei titolari di utenze riconducibili allo schema c.d.
prepagato.
Concentrandosi, dunque, sul primo comma dell’articolo in commento,
deve ritenersi che il diritto di stipulare contratti con una o più imprese (11)
(11) A questo diritto non corrisponde un obbligo di contrarre a carico delle imprese,
bensı̀ semplicemente un obbligo di adottare un determinato contenuto contrattuale nei
confronti dei consumatori e degli altri utenti finali che ne facciano richiesta, nell’eventualità
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
spetti a tutte le persone fisiche e giuridiche, anche nell’ambito della loro
attività lavorativa, professionale e commerciale, a condizione che non forniscano a loro volta reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico (12).
Se, per quanto riguarda i consumatori, tuttavia, le disposizioni inerenti
il contenuto obbligatorio del contratto si applicano automaticamente, per
quanto riguarda l’applicazione delle disposizioni agli altri utenti finali, essa
è subordinata alla richiesta da parte di questi ultimi (13).
Tale “richiesta” non dev’essere riferita alla generica stipulazione del
contratto, bensı̀ alla volontà di stipulare il contratto con il contenuto
previsto obbligatoriamente per gli accordi conclusi con i consumatori.
In altre parole, quando l’impresa fornitrice del servizio di comunicazione elettronica conclude un contratto con un consumatore, tale accordo
dovrà inevitabilmente rivestire la forma e il contenuto previsto dall’art. 70
c.com.el. (14). Ove invece controparte sia un utente finale che non possa
qualificarsi come consumatore, le disposizioni contrattuali suddette si applicheranno solo nell’ipotesi in cui provenga dall’utente stesso una manifestazione di volontà a ciò diretta.
Queste regole devono essere, inoltre, coordinate con quanto disposto
nel comma 2˚ della disposizione in commento, il quale attribuisce all’AG-
in cui un contratto venga concluso (conf. GIARDA, in CLARICH e CARTEI (a cura di), Il Codice
delle comunicazioni elettroniche, Milano, 2004, p. 325).
(12) Come si evince dal 21˚ considerando della dir. 2009/136/CE “Le disposizioni
contrattuali dovrebbero applicarsi non soltanto ai consumatori ma anche ad altri utenti
finali, in primo luogo le microimprese e le piccole e medie imprese (PMI), che possono
preferire un contratto studiato per le esigenze del consumatore”. La novità di muove nel
solco della tendenza all’estensione delle regole speciali per i rapporti B2C a quelle realtà
imprenditoriali che, per la loro ridotta compagine e scarso potere contrattuale, pur essendo
a rigore “professionisti” necessitano delle stesse tutele predisposte per i consumatori.
(13) Sempre il 21˚ considerando dispone che “Per non imporre inutili oneri amministrativi ai fornitori di servizi e per evitare la complessità legata alla definizione di PMI, le
disposizioni contrattuali non dovrebbero applicarsi agli altri utenti finali automaticamente,
ma solo su richiesta. Gli Stati membri dovrebbero adottare misure appropriate per informare le PMI di questa possibilità”. Per un possibile spunto di qualificazione si veda l’art. 18,
lett. d bis inserita dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. in l. 24 marzo 2012, n. 27, la quale
definisce “microimprese” le “entità, società o associazioni che, a prescindere dalla forma
giuridica, esercitano un’attività economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando
meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo
non superiori a due milioni di euro, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, dell’allegato alla
raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003”.
(14) Si potrebbe ritenere, inoltre, che le disposizioni contrattuali “obbligatorie” o
“estese agli altri utenti finali” non siano solamente quelle previste dall’art. 70 c.com.el.,
bensı̀ tutte quelle contemplate dalla sezione III.
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le nuove leggi
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Com il potere di estendere gli obblighi di cui al comma 1˚ dell’art. 70
affinché sussistano anche nei confronti di altri utenti finali.
La ratio di questa norma pare oscura in relazione alla scelta, optata nel
comma 1˚, di lasciare alla volontà degli altri utenti finali l’opzione circa il
contenuto contrattuale.
Ed invero tale disposizione, introdotta in origine in sede di emanazione del c.com.el., rappresentava l’esatta trasposizione del comma 2˚ dell’art.
20 della dir. 2002/22/CE. La direttiva 2009/136/CE, tuttavia, nel momento in cui ha optato per l’applicazione “su richiesta” del contenuto contrattuale minimo, ha corrispondentemente abrogato il predetto comma.
Una fedele attuazione di quest’ultima direttiva avrebbe dovuto comportare, dunque, la corrispondente abrogazione del comma 2˚ dell’art. 70
c.com.el.
Data tuttavia la circostanza che tale abrogazione non è intervenuta,
può individuarsi una residuale funzione di questa disposizione, nel senso
di consentire all’AGCom di superare la scelta dell’“applicazione a richiesta” legislativamente prevista e imporre, in via regolamentare, il contenuto
contrattuale indipendentemente da una manifestazione di volontà in tal
senso diretta da utenti finali che non siano anche consumatori (15).
Destinatarie del precetto sono, invece, tutte le imprese che forniscono
servizi di connessione ad una rete di comunicazione pubblica o servizi di
comunicazione elettronica accessibile al pubblico (16).
Venendo, invece, al regolamento adottato dall’AGCom con del. n.
519/15/CONS, si deve sottolineare che, seppur ai soli fini del regolamento, la nozione di “utente” appare diversa rispetto a quella dell’art. 70
c.com.el., poiché viene definito come “la persona fisica o giuridica che
utilizza o chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica
accessibile al pubblico e che non fornisce reti pubbliche di comunicazione
(15) Si confronti, per un’estensione soggettiva del contenuto minimo contrattuale anche
“ad altri utenti finali” a pochi mesi dall’entrata in vigore del c.com.el., anche l’all. A alla
delibera n. 179/03/CSP, il quale, dopo aver definito come “utenti” “le persone fisiche o
giuridiche, ivi compresi i consumatori, che utilizzano o chiedono di utilizzare servizi di
telecomunicazioni accessibili al pubblico”, impone alle imprese fornitrici dei servizi di
comunicazione elettronica l’adozione di uno schema contrattuale contenente informazioni
analoghe a quelle previste dall’ art. 70 c.com.el. (art. 5).
(16) Si è risolta, con l’emendamento del c.com.el., la dicotomia contenuta nell’originaria formulazione, la quale al primo comma prevedeva come destinatarie dell’obbligo le
imprese che forniscono la connessione o l’accesso alla rete telefonica pubblica, e al terzo
estendeva il contenuto contrattuale obbligatorio anche ai contratti stipulati tra consumatori
e “fornitori di servizi di comunicazione elettronica diversi dai fornitori di connessione e/o
accesso alla rete telefonica pubblica”.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
o servizi di comunicazioni elettroniche accessibili al pubblico” specificando,
quindi, diversamente da quanto fa il c.com.el. (e la dir. 2002/21/CE,
richiamata dalla dir. 2002/22/CE di cui il c.com.el. è attuazione), che
l’utente, per essere tale, non deve essere a sua volta fornitore di reti o
servizi di comunicazione elettronica. Ne consegue che l’ambito di applicazione delle regole previste dal reg. adottato con del. AGCom n. 519/15/
CONS con riferimenti agli utenti risulta più ridotto. In sostanza, la nozione di “utente” ai sensi del regolamento dell’AGCom equivale a quella di
“utente finale” di cui al c.com.el.
3. Coordinamento con altre disposizioni normative.
La delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 70
suscita con evidenza il problema della possibile interferenza con altri complessi normativi, interferenza che fin da subito deve essere inquadrata per
poter poi analizzare compiutamente lo statuto normativo dei contratti
conclusi per la fornitura di servizi di comunicazione elettronica.
A rigore, il primo rinvio ad una disciplina esterna al c.com.el. è espresso dallo stesso art. 70, il cui comma 1˚ fa salve “le disposizioni di cui al
decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla
legge 2 aprile 2007, n. 40”.
Il rinvio è inevitabilmente da ricondurre all’art. 1 (17) del predetto d.l.
convertito e investe principalmente i profili riguardanti la durata del contratto e il diritto di recesso (su tutti v. infra).
(17) Il cui testo recita: “Ricarica nei servizi di telefonia mobile, trasparenza e libertà di
recesso dai contratti con operatori telefonici, televisivi e di servizi internet. 1. Al fine di
favorire la concorrenza e la trasparenza delle tariffe, di garantire ai consumatori finali un
adeguato livello di conoscenza sugli effettivi prezzi del servizio, nonché di facilitare il
confronto tra le offerte presenti sul mercato, è vietata, da parte degli operatori di telefonia,
di reti televisive e di comunicazioni elettroniche, l’applicazione di costi fissi e di contributi
per la ricarica di carte prepagate, anche via bancomat o in forma telematica, aggiuntivi
rispetto al costo del traffico telefonico o del servizio richiesto. È altresı̀ vietata la previsione
di termini temporali massimi di utilizzo del traffico o del servizio acquistato. Ogni eventuale
clausola difforme è nulla e non comporta la nullità del contratto, fatti salvi i vincoli di durata
di eventuali offerte promozionali comportanti prezzi più favorevoli per il consumatore. Gli
operatori di telefonia mobile adeguano la propria offerta commerciale alle predette disposizioni entro il termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. 2.
L’offerta commerciale dei prezzi dei differenti operatori della telefonia deve evidenziare
tutte le voci che compongono l’offerta, al fine di consentire ai singoli consumatori un
adeguato confronto. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni determina le modalità
per consentire all’utente, a sua richiesta, al momento della chiamata da un numero fisso o
cellulare e senza alcun addebito, di conoscere l’indicazione dell’operatore che gestisce il
numero chiamato. I contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti
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le nuove leggi
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Se già la presenza di questo rinvio suscita problemi di coordinamento,
sicuramente maggiori perplessità si pongono circa l’applicabilità, anche
nell’ambito dei contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi di
comunicazione elettronica, delle disposizioni che, in altri settori, hanno
come obiettivo la tutela dei consumatori.
Deve essere fin da subito sottolineata la circostanza che, per effetto del
d.lgs. n. 70/12, è stato abrogato il comma 6˚ dell’art. 70 c.com.el., il quale
in origine recitava: “Rimane ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela dei consumatori”.
Espunta l’unica clausola di salvezza delle norme in materia di tutela
dei consumatori, v’è da chiedersi, dunque, quale sia la conseguenza di tale
scelta legislativa (18).
televisive e di comunicazione elettronica, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata,
devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto o di trasferire le utenze
presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati [da esigenze tecniche]
e senza spese non giustificate da costi dell’operatore e non possono imporre un obbligo di
preavviso superiore a trenta giorni. Le clausole difformi sono nulle, fatta salva la facoltà
degli operatori di adeguare alle disposizioni del presente comma i rapporti contrattuali già
stipulati alla data di entrata in vigore del presente decreto entro i successivi sessanta giorni.
4. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni vigila sull’attuazione delle disposizioni di
cui al presente articolo e stabilisce le modalità attuative delle disposizioni di cui al comma 2.
La violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 è sanzionata dall’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni applicando l’articolo 98 del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo 1˚ agosto 2003, n. 259, come modificato dall’articolo 2,
comma 136, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla
legge 24 novembre 2006, n. 286”.
(18) Si noti che lo schema contenente gli emendamenti al c.com.el. in recepimento delle
dirr. 2009/136/CE e 2009/140/CE sottoposto a consultazione pubblica dal Ministero dello
sviluppo economico prevedeva, a fronte dell’abrogazione del comma 6˚ dell’art. 70, l’inserimento di un comma 2˚ bis all’art. 2 il cui tenore doveva essere: “2 bis. Fermo restando che
ai sensi della direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005, del Parlamento europeo e del
Consiglio, la disciplina delle pratiche commerciali sleali si applica unicamente in assenza
di norme che disciplinano aspetti specifici di dette pratiche ovvero di legislazione relativa a
specifici settori, le disposizioni del Titolo II, Capo IV, del Codice, relative ai diritti degli
utenti finali, si applicano fatte salve le norme dell’Unione europea e nazionali in materia di
tutela dei consumatori e, in particolare, le disposizioni della Parte III, Titolo I e Titolo III,
Sezioni II, III e IV del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, recante Codice del
consumo”. La soluzione non è stata, tuttavia, accolta in sede di approvazione del decreto
legislativo posto che, come si evince nella Relazione Illustrativa al d.lgs. n. 70/12, in sede di
sintesi dei contributi ed esiti della consultazione pubblica è emerso che: “La disposizione
dovrebbe precisare che, in materia di disciplina delle pratiche commerciali sleali, le norme
settoriali prevalgono (sulle generali) solo in caso di contrasto e per aspetti specifici. La
disposizione dovrebbe precisare che molte parti del Codice del consumo (D. Lgs. 206/
2005) non trovano applicazione e che la normativa speciale del settore prevale. Sull’ ambito
di applicazione della normativa vi è un netto contrasto tra la posizione dell’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni e l’AGCM che è stato demandato al tavolo istituito presso il
Dipartimento per le politiche comunitarie”.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
I profili di possibile concorso di norme riguardano, principalmente, la
disciplina delle clausole vessatorie (artt. 33 ss. c.cons.), la disciplina dei
contratti conclusi a distanza o fuori dai locali commerciali (artt. 49 ss.
c.cons.) e la disciplina delle pratiche commerciali scorrette (artt. 18 ss.
c.cons.), nonché le regole dettate dal d.lgs. n. 70/03 per il commercio
elettronico (19).
Un sostegno all’interpretazione deriva dall’art. 1, comma 4˚, dir. 2002/
22/CE cosı̀ come modificato dalla dir. 2009/136/CE il quale dispone che:
“Le disposizioni della presente direttiva relative ai diritti degli utenti finali
si applicano fatte salve le norme comunitarie in materia di tutela dei
consumatori, in particolare le direttive 93/13/CEE e 97/7/CE, e le norme
nazionali conformi al diritto comunitario”.
La questione pone problemi interpretativi di particolare gravità, in
considerazione anche del fatto che il legislatore italiano non si è occupato
esplicitamente di risolvere il potenziale conflitto, ma anzi ha preferito
omettere ogni chiarimento sul punto ed addirittura, come si è appena
visto, cancellare l’unico riferimento certo (20).
Nonostante l’assenza di un riferimento espresso nel c.com.el. devono,
ad ogni modo, ritenersi senza dubbio applicabili anche nell’ambito dei
contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi di comunicazione elettronica le disposizioni contenute negli artt. 33 ss. c.cons. relative alle
clausole vessatorie (norme di attuazione della dir. 93/13/CE) (21).
(19) V. il 32˚ considerando dir. 2009/136/CE che fa salve le norme della dir. 2000/31/
CE sul commercio elettronico.
(20) La problematica era già stata sollevata, ex multis, da G. DE CRISTOFARO, sub art. 19
c.cons., in G. DE CRISTOFARO e A. ZACCARIA (a cura di), Commentario breve al diritto dei
consumatori, Padova, 2010, p. 128 ss. Ritiene che “se un fatto o una vicenda, di per sé
sussumibile nell’ambito della normativa consumeristica, trova una propria speciale regolazione nella disciplina delle comunicazioni elettroniche dovrà necessariamente trovare applicazione (solo) quest’ultima” ZOPPINI, Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai
“Codici di settore”, cit., p. 143. Sui rapporti tra codice del consumo e codici di settore si
v. anche BATTELLI, Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non
meramente di specialità, in Eur. Dir. Priv., 2016, p. 425 ss.
(21) Ed infatti già in passato si è sostenuta la vessatorietà della generica previsione
contrattuale del pagamento del canone di abbonamento per i servizi forniti dalla Telecom,
poiché tale clausola non conterrebbe l’informazione chiara, corretta e dettagliata dei servizi
compresi nel canone di abbonamento, sul presupposto che la generica pretesa di un canone
di abbonamento determinerebbe uno squilibrio tra l’obbligo a carico dell’utente di versare
un canone e il diritto dell’impresa di pretenderlo, pur non specificando in via contrattuale la
ragione della pretesa (GRECO, È vessatorio il canone di abbonamento telefonico?, in Resp. civ.
e prev., 2008, p. 201). Prova ulteriore ne sia anche la pronuncia in via pregiudiziale della
Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, in C-472/10 Invitel, proprio in relazione ad una clausola
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le nuove leggi
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In secondo luogo deve necessariamente ammettersi l’applicabilità, anche nell’ambito dei servizi di comunicazione elettronica, degli artt. 45 ss.
c.cons., recanti attuazione della dir. 2011/83/UE in materia di contratti a
distanza o negoziati fuori dai locali commerciali.
Qualche problema di maggior conto desta – rectius destava – l’applicabilità, anche nell’ambito dei servizi di comunicazione elettronica, delle
disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette (22).
Se è vero infatti che il citato art. 1, comma 4˚, dir. 2002/22/CE, elenca
solo a titolo esemplificativo le dir. 97/7/CE e 93/13/CE, con ciò non
escludendo assolutamente la concorrente applicazione di disposizioni contenute in direttive diverse, per quanto riguarda, in particolare, la dir. 2005/
29/CE relativa alle pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori nel mercato interno, essa dispone, all’art. 3, che “In caso di contrasto
tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che
disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono
queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici” (norma trasposta nell’art. 19 c.cons.).
Proprio sulla base di questo inciso il Consiglio di Stato, in adunanza
plenaria (sentt. 11 maggio 2012, nn. 11,12,13,15 e 16 (23)), chiamato a
decidere circa la delimitazione delle sfere di competenza dell’AGCom e
dell’AGCM, aveva escluso la competenza di quest’ultima giudicando che il
complesso normativo composto dal c.com.el., dal d.l. n. 7/07 e dalle
disposizioni regolamentari emanate dall’AGCom costituisse un corpus
completo ed esaustivo che si pone in rapporto di specialità con la disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
In sostanza, le disposizioni che regolano il settore delle comunicazioni
elettroniche, al pari di quelle che disciplinano le pratiche commerciali
scorrette, secondo il Consiglio di Stato, tutelerebbero l’utente/consumatore, ma sarebbero caratterizzate da un quid pluris che le porrebbe in rapporto di specialità con la disciplina “generale” delle pratiche commerciali
scorrette.
La soluzione proposta dal Consiglio di Stato, dunque, avrebbe comportato la completa disapplicazione della disciplina delle pratiche com-
inserita nelle condizioni generali di contratto praticate dal fornitore dei servizi di telefonia
fissa, su cui amplius infra.
(22) Problematica che investe, oltre agli evidenti aspetti sostanziali, la definizione dei
confini di competenza tra AGCom e AGCM, come si avrà modo di approfondire infra.
(23) Sent. 11 maggio 2012, n. 12 rinvenibile in Corr. giur., 2012, p. 1363, con nota di
NASTI, Pratiche commerciali scorrette nelle comunicazioni elettroniche: l’actio finium regundorum del Consiglio di Stato.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
merciali scorrette e la conseguente sottrazione ai procedimenti di cui all’art. 27 c.cons. di qualsiasi comportamento tenuto dai fornitori di servizi
di comunicazione elettronica qualora anche astrattamente configurabile
quale pratica commerciale scorretta.
Alla decisioni in ad. plen. del Consiglio di Stato aveva fatto seguito un
intervento legislativo del legislatore che, con la l. n. 135/12 di conversione
del d.l. n. 95/12, aveva introdotto l’art. 23, comma 12˚ quinquiesdecies, che
prevedeva che: “L’importo massimo delle sanzioni di cui all’articolo 27,
commi 9 e 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in materia
di pratiche commerciali scorrette, la competenza ad accertare e sanzionare
le quali è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso
unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in
essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria,
con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di
poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati, è aumentato a 5.000.000 di euro” (24).
Le scelte del legislatore e della giurisprudenza amministrativa furono,
tuttavia, poste in discussione dalla Commissione europea che, con procedura di infrazione n. 2013/2169, contestò all’Italia la non corretta attuazione
della dir. 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali scorrette, sulla base
della considerazione che l’esistenza di una normativa speciale di settore non
poteva di per sé sola escludere l’applicazione della disciplina generale delle
pratiche commerciali scorrette, dovendo la normativa settoriale prevalere
unicamente nell’ipotesi in cui aspetti specifici regolati dalla dir. 2005/29/
CE fossero incompatibili con la normativa di settore (anch’essa di derivazione europea), dovendosi altrimenti gli obblighi scaturenti dalla dir. 2005/
29/CE affiancarsi a quelli previsti dalla normativa di settore.
A fronte dell’apertura della procedura di infrazione, il legislatore italiano ha inserito, in occasione del recepimento della dir. 2011/83/UE, il
comma 1˚ bis dell’art. 27 c.cons. prevedendo che “Anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei
confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente,
spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il
parere dell’Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza
delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di
(24) Comma poi abrogato per effetto dell’articolo 1, comma 7˚, d.lgs. n. 21/14.
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violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica
commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di
intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze” (25).
Da ultimo, sulla questione è nuovamente intervenuto il Consiglio di
Stato, con le pronunce “gemelle” adottate in adunanza plenaria (26), il
quale ha chiarito che quando una condotta astrattamente illecita secondo
quanto previsto dal corpus normativo presidiato dall’AGCom (ad esempio
una violazione dei doveri informativi) “è elemento costitutivo di un più
grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa
di settore presidiata dall’Autorità AGCM”, allora si ha un’ipotesi di progressione illecita e, qualora sia ravvisabile una “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”, la competenza ad irrogare la sanzione
spetta in via esclusiva all’AGCM.
Allo stato, dunque, sotto il profilo sostanziale, deve ritenersi che vi sia
una concorrente applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali
scorrette e della disciplina settoriale specifica per la comunicazioni elettroniche, con assorbimento delle condotte lesive di disposizioni afferenti al
sistema delle comunicazioni elettroniche nella nozione di pratiche scorrette, quando di queste sussistano tutti gli elementi costitutivi.
Venendo, da ultimo, al recente intervento dell’autorità che regola il
settore delle comunicazioni elettroniche, sembra potersi evincere che questa impostazione appare aver influenzato le stesse scelte dell’AGCom in
ambito regolamentare: nel regolamento adottato con delibera 519/15/
CONS, l’Autorità di settore interviene, infatti, a disciplinare solo quegli
aspetti che, data la particolare natura del settore delle comunicazione
elettroniche, necessitano di regole specifiche non essendo ritenute sufficienti le “disposizioni generali” di carattere consumeristico. Sotto il profilo
della suddivisione delle competenze tra le autorità, alla competenza generale dell’AGCM si affianca, quindi, quella dell’AGCom, ma solo nelle
ipotesi “residuali” in cui la condotta violatrice non integri già una pratica
commerciale scorretta sanzionabile ex artt. 18 ss. c.cons.
(25) Su tutti questi aspetti v. ex plurimis, per una completa ricostruzione, NAVA, Il
legislatore interviene nuovamente sul riparto di competenza tra Agcom e autorità di settore in
merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette: la soluzione definitiva?, in Diritto
mercato tecnologia, 2014, p. 44 ss. Si veda anche CARUSO, In tema di attivazione non richiesta
di servizi di utenza telefonica e di cumulo di competenze tra Autorità amministrative indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, in Dir. inf., 2010, 6, p. 956.
(26) Sentt. 9 febbraio 2016, nn. 3 e 4, identiche sia per la condotta contestata sia per le
motivazioni, in www.giustizia-amministrativa.it.
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4. Qualificazione del contratto.
Venendo dunque alla disciplina del contratto avente ad oggetto servizi
di comunicazione elettronica, prima di valutarne gli aspetti legati al contenuto e alla disciplina, oggetto di attenzione dev’essere la riconducibilità
di questi accordi ad un tipo contrattuale.
La dialettica ha visto quali protagonisti, perlopiù, il contratto di appalto e quello di somministrazione, con argomenti a favore e contro la
riconducibilità all’uno o all’altro tipo.
Da un lato, è stata proposta la ricostruzione della fattispecie in termini
di appalto, che avrebbe permesso all’interprete di evitare l’impasse della
littera legis dell’art. 1559 c.c., il quale definisce il contratto di somministrazione come quel contratto con il quale una parte si obbliga, verso
corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose (27).
Attualmente appare prevalere l’opinione che lo schema contrattuale
tipico sia quello della somministrazione (28), con riserva di applicazione
della disciplina dell’appalto con riferimento alle singole prestazioni (art.
1570 c.c.), in quanto compatibile. Il dato letterale costituito dal mero
riferimento alle cose non sarebbe idoneo, infatti, ad escludere la possibilità
di configurare anche una somministrazione di servizi (29).
Conferma della soluzione interpretativa circa la riconducibilità alla
tipologia della somministrazione potrebbe ricavarsi, inoltre, dal comma
(27) La ricostruzione in tema di appalto di servizi è stata proposta con particolare
interesse nei confronti del contratto di accesso a internet, v. DE NOVA, I contratti di accesso
a internet, in AIDA, 1996, p. 39.
(28) V. GIARDA, in CLARICH e CARTEI (a cura di), Il codice delle comunicazioni elettroniche, Milano, 2004, p. 321 e, nella giurisprudenza amministrativa e nelle pronunce dell’AGCOM e dei Comitati Regionali per le Comunicazioni (CoReCom), ex plurimis tra le più
recenti CoReCom Emilia Romagna determ. 27/12 Nagliati/Fastweb; AGCom del. 82/12/
CIR, Carboniero/E4A s.r.l.; CoReCom Lazio 29/12/CRL, Raffaelli/Vodafone Omnitel; CoReCom Emilia-Romagna 18/12, Cavalieri/Fastweb; incidentalmente AGCom del. 60/12/
CIR, Rosato/Telecom Italia s.p.a. e 66/12/CIR Mauri/Telecom Italia s.p.a.; Tar Lazio Roma,
5 luglio 2010, n. 22499; nella giurisprudenza civile, invece, Cass. 29 agosto 2013, n. 19882,
in Dir. e giust.; Cass. 2 ottobre 1997, n. 9624, in Nuova giur. civ. comm. 1999, I, p. 154, con
nota di UNGARI TRISATTI; App. Napoli 15 gennaio 2002, in Giurisprudenza napoletana, 2002,
p. 281; Trib. Montepulciano 20 febbraio 2009, in DeJure. Nel senso dell’appalto, invece, in
giurisprudenza Giud. pace Gioiosa Jonica 1˚ dicembre 2007, in DeJure; Trib. Genova, 20
febbraio 2006, n. 537, in DeJure. V. anche BRUTTI, La conformazione dei contratti di comunicazione elettronica (Il nuovo art. 70, d.lgs. 1˚ agosto 2003, n. 259), in Dir. inf., 2012,
p. 765.
(29) V. ZUDDAS, Somministrazione, concessione di vendita, franchising, in BUONOCORE
(diretto da), Trattato di diritto commerciale, III, Torino, 2003, p. 29.
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5˚ dell’art. 70 c.com.el., che sanziona con la decadenza dal contratto di
fornitura del servizio l’uso illegittimo da parte dell’utente finale.
Il problema relativo alla qualificazione giuridica del contratto si (ripro)pone con particolare incidenza ove si osservi, invero, la prassi contrattuale che vede, nella prestazione dei servizi di comunicazione elettronica (l’esempio paradigmatico è quello dei servizi telefonici (30)), l’avvicendarsi di due distinte “vesti negoziali”: da un lato i servizi forniti “in
abbonamento”, dall’altro il sistema cd. “prepagato”.
Questa duplice accezione riscontrabile nella realtà commerciale ha
posto seri dubbi circa la riconducibilità di entrambi i modelli al medesimo
tipo contrattuale.
Se il contratto “in abbonamento”, risolti i dubbi di delimitazione con
l’appalto, può essere ricondotto alla categoria della somministrazione (31)
integrata, secondo taluno (32), dalla disciplina dell’appalto in quanto compatibile, maggiori difficoltà si sono riscontrate con riferimento al contratto
c.d. prepagato (33).
Quest’ultimo, infatti, è stato ritenuto riconducibile ad un contratto ad
effetti reali, o meglio ad una vendita a consegne (eventualmente) ripartite (34) di quote di traffico, cui accederebbe clausola di opzione a favore
dell’utente che, per il periodo di validità dell’offerta, sarebbe titolare del
diritto di acquistare ulteriore traffico mediante manifestazioni di volontà
(30) Per una riflessione specifica sulla natura del contratto di abbonamento alla pay-tv
v. MAJELLO, Il contratto di abbonamento alla pay-tv, in BOCCHINI (a cura di), I contratti di
somministrazione di servizi, Torino, 2006, p. 455 e CAPALDO, Il contratto di abbonamento alla
pay-tv, in BOCCHINI e GAMBINO (a cura di), I contratti di somministrazione e di distribuzione,
Torino, 2011; sul contratto di accesso a internet v. BOCCHINI, Il contratto di accesso a
Internet, ivi; sui contratti di telefonia v. BOCCHINI, Il contratto di somministrazione del
servizio telefonico, ivi.
(31) V. GIARDA, in CLARICH e CARTEI, Il codice delle comunicazioni elettroniche, Milano,
2004, p. 321; Cass., 2 ottobre 1997, n. 9624, in Giust. civ. (Massimario), 1997, p. 1841;
Cass., sez. un., 29 novembre 1978, n. 5613.
(32) V. BRUTTI, La telefonia mobile, Torino, 2009, p. 7.
(33) Si noti, a questo proposito, che nella vigenza della diversa formulazione si era
anche prospettata l’idea che i contratti rispondenti allo schema c.d. prepagato fuoriuscissero
dalla sfera applicativa dell’art. 70 poiché i titolari non sarebbero stati riconducibili alla
categoriali “abbonati” cui la disposizione faceva espresso riferimento. Con il d.lgs. n. 70/
12, come visto supra, si è messo certamente fine alla questione, sostituendo il termine
“abbonato” con il termine “contraente”.
(34) PIETROSANTI, Telefonia mobile: licenza d’esercizio di stazione radio e tassa di concessione governativa, in Giur. it., 2001, p. 434. La tesi sorge in ambito tributario, per
sottrarre le schede prepagate all’obbligo di versare la cd. tassa di concessione governativa,
che è limitata agli “abbonamenti”.
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unilaterali e recettizie che determinerebbero il sorgere di nuovi ed ulteriori
rapporti di utenza.
Il dubbio è stato risolto da una pronuncia del Tar Lazio (35) il quale ha
affermato che anche il contratto cd. prepagato è sussumibile nella categoria dei contratti di somministrazione, ad effetti obbligatori e di durata,
senza che alcun rilievo nasca dalla circostanza che una parte del rapporto
adempie immediatamente l’intera sua prestazione (il cliente che acquista,
ad esempio, il credito telefonico), mentre l’altra parte (l’operatore) “spalma nel tempo la propria prestazione”.
In secondo luogo, il contratto di somministrazione di servizi telefonici
o, più in generale, di servizi di comunicazione elettronica assume, perlopiù, la configurazione di un contratto per adesione (36), con clausole e
condizioni contrattuali unilateralmente predisposte dall’operatore da quest’ultimo imposte all’utente, cui è consentito soltanto decidere se aderire o
meno al regolamento negoziale standardizzato utilizzato dal fornitore.
5. Informazioni precontrattuali.
Per quegli utenti che rivestano anche la qualifica di “consumatori” è
necessario, come già si è detto, integrare le disposizioni del c.com.el. con la
disciplina del Codice del Consumo. In particolare, per quanto attiene alle
informazioni precontrattuali – aspetto che non viene disciplinato dal c.com.el. (37) – gli artt. 48 e 49 c.cons. specificano quali informazioni il professionista ha l’obbligo di fornire prima che il consumatore sia vincolato da
un contratto (o da una corrispondente offerta) a distanza o fuori dai locali
commerciali (art. 49) o diverso da questi (art. 48).
Senza addentrarci in questa sede nello specifico delle informazioni che
devono essere fornite, deve rilevarsi come, per quanto attiene ai contratti a
distanza o stipulati fuori dai locali commerciali, l’art. 49 disponga che le
informazioni che devono essere fornite “formano parte integrante del
contratto a distanza o del contratto negoziato fuori dai locali commerciali
e non possono essere modificate se non con accordo espresso delle parti”.
(35) Tar Lazio Roma, 27 febbraio 2008, n. 1775, in Corr. giur., 2008, p. 1003, con nota
di NASTI.
(36) V. NASTI, Il servizio universale e la tutela dell’utenza nel settore delle comunicazioni
elettroniche, Napoli, 2009, p. 107, la quale sottolinea che, in alcuni casi, trattasi di contratti
rientranti nella “più generale categoria degli “scambi senza accordo” (contratti automatici).
(37) Si veda comunque, da ultimo, la recentissima del AGCom 252/16/CONS del 16
giugno 2016, recante “Misure a tutela degli utenti per favorire la trasparenza e la comparazione delle condizioni economiche dell’offerta dei servizi di comunicazione elettronica”.
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Applicandosi questa disposizione anche nel settore dei contratti aventi
ad oggetto i servizi di comunicazione elettronica, deve ritenersi che tali
informazioni diventino parte del contratto in aggiunta agli elementi imposti dall’art. 70 c.com.el. (su cui infra) e, deve ritenersi che, nel caso di
discordanza tra le informazioni precontrattuali fornite ai sensi dell’art. 49
c.cons. e il contenuto contrattuale predisposto ai sensi dell’art. 70, prevalga quanto comunicato in sede precontrattuale, salvo che il professionista
non dimostri che vi è stato un accordo espresso con il consumatore/utente.
Quanto alle modalità per la comunicazione delle informazioni precontrattuali, il codice del consumo si limita a precisare che esse devono essere
fornite “in maniera chiara e comprensibile”, senza imporre una forma
vincolata (38).
6. Forma del contratto.
Se per l’informativa precontrattuale non è imposta una forma vincolata, è necessario domandarsi se una determinata forma sia richiesta, invece, per il contratto.
Come accennato supra, proprio nell’ottica di tutelare gli utenti “aderenti” (39), gli operatori sono gravati dall’obbligo di predisporre contratti
che presentino un contenuto minimo cosı̀ come previsto dall’art. 70 c.com.el., in combinato con quanto disposto dall’art. 1 del d.l. 7/2007 e con
quanto imposto, per determinate categorie di contratti, dalla normativa
regolamentare.
È cosa ovvia che forma e contenuto del contratto attengono ad aspetti
diversi dello stesso: vi è tuttavia, in questo caso, un stretta interdipendenza
tra questi due elementi atteso che l’imposizione di un determinato contenuto contrattuale – negoziale, normativo o solo informativo – fa nascere
spontaneamente la questione circa la forma che deve rivestire il negozio
stesso.
(38) Su tutti questi profili v. G. DE CRISTOFARO, La disciplina degli obblighi informativi
precontrattuali nel codice del consumo riformato, in questa Rivista, 2014, p. 917.
(39) Come si evince dal 32˚ considerando della dir. 2009/136/CE “La disponibilità di
informazioni trasparenti, aggiornate e comparabili su offerte e servizi costituisce un elemento fondamentale per i consumatori in mercati concorrenziali nei quali numerosi fornitori
offrano servizi. […] Inoltre è opportuno che, prima di acquistare un servizio, gli utenti finali
e i consumatori siano correttamente informati del prezzo e del servizio offerto”. L’obbligo
relativo al contenuto minimo contrattuale non è, ad ogni modo, limitato alle ipotesi di
contratti per adesione, dovendo esso essere osservato anche nelle ipotesi di contratto stipulato a seguito di trattativa individuale.
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Dovendo necessariamente partire dal dato normativo, deve rilevarsi
che l’art. 70 c.com.el. se, da un lato, impone un determinato contenuto
contrattuale, dall’altro non dispone nulla in merito alla forma che deve
rivestire il negozio e non determina quale sanzione (dal punto di vista
civilistico) (40) discenda dalla mancata o dall’inesatta indicazione di uno
o più degli elementi facenti parte del contenuto minimo contrattuale.
Data questa indeterminatezza sul piano legislativo, una è la questione
che per prima coinvolge l’interprete: può affermarsi che dalla previsione di
tale contenuto minimo contrattuale discenda la previsione implicita di un
onere di forma (scritta)?
Sebbene da qualcuno si sia prospettata questa tesi (41) e sebbene effettivamente la consegna di un documento cartaceo o di altro supporto
durevole sembri costituire l’unica modalità effettivamente idonea a garantire trasparenza e certezza (42), deve negarsi che dall’art. 70 discenda la
necessità di adottare la forma scritta per la redazione del contratto.
Non vi è spazio per ritenere imposta una determinata forma non solo
perché non espressamente previsto, ma anche in considerazione di ulteriori indici legislativi: il comma 4˚ della medesima disposizione, infatti, nel
disciplinare l’esercizio dello ius variandi, attribuisce all’Autorità il potere di
determinare la forma che esso deve rivestire, di talché deve dedursi che, se
il contenuto minimo contrattuale dovesse necessariamente rivestire la forma scritta, allo stesso onere formale dovrebbe essere sottoposto anche
l’atto con cui l’operatore unilateralmente modifichi uno o più di quei
contenuti, ma ciò appare escluso per tabulas; l’art. 1 del d.l. n. 7/07,
poi, impone all’operatore di garantire ai clienti il diritto di recesso dai
contratti per adesione stipulati indipendentemente dalla tecnologia utilizzata.
La disciplina di cui all’art. 70 c.com.el. deve essere, ad ogni modo,
integrata con la normativa regolamentare emanata dall’AGCom e, in particolare, per quanto qui interessa, con l’all. A alla del. n. 179/03/CSP
(modificata da ultimo dalla del. n. 73/11/CONS) recante Direttiva generale in materia di qualità e carte dei servizi di telecomunicazioni ai sensi
(40) È stabilita, infatti, espressamente dalla legge una sanzione amministrativa che, ai
sensi dell’art. 98, comma 16˚, c.com.el., può oscillare dai 58.000,00 ai 580.000,00 euro di
pena pecuniaria.
(41) GIARDA, in CLARICH e CARTEI, op. cit., p. 326.
(42) 30˚ considerando, dir. 2002/22/CE: “Il contratto è uno strumento importante per
garantire agli utenti e ai consumatori un livello minimo di trasparenza dell’informazione e di
certezza del diritto”. Come, ad es., disposto per i contratti di multiproprietà dall’art. 71
c.cons.
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del’art.1, comma 6, lettera b), numero 2, della legge 31 luglio 1997, n.
249. L’AGCom impone agli organismi di telecomunicazioni di adottare
uno “schema di contratto” contenente precisazioni relative a molti degli
elementi individuati dall’art. 70 c.com.el. (art. 5) (43). L’utilizzo del termine
“schema” fa inevitabilmente pensare alla necessità di predisporre un contratto avente forma scritta o comunque disponibile su supporto durevole.
Si noti, peraltro, che il recente regolamento adottato dall’AGCom con
del. n. 519/15/CONS, all’art. 3, impone agli operatori di adeguare i propri
modelli contrattuali e adottare tutte le misure necessarie affinché gli utenti
dispongano, prima della conclusione del contratto, delle informazioni
elencate all’articolo 70 del c.com.el. Oltre alle informazioni di cui a quest’ultima disposizione, l’AGCom richiede agli operatori di indicare, in
particolare, il termine entro il quale avverrà l’attivazione del servizio e le
modalità di corresponsione dell’indennizzo automatico se tale termine non
viene rispettato. Tutte queste informazioni, peraltro, devono essere riportate in modo chiaro, dettagliato e facilmente comprensibile.
Con riferimento, invece, alle modalità e alla forma dei contratti conclusi a distanza, la disciplina cui fare riferimento è quella contenuta nel
c.cons., poiché sempre per effetto della del. AGCom n. 519/15 è stata
abrogata la del. n. 664/06/CE recante “Adozione del regolamento recante
disposizioni a tutela dell’utenza in materia di fornitura di servizi di comunicazione elettronica mediante contratti a distanza” che, in precedenza,
dettava una disciplina completa e generale per il settore delle comunicazioni elettroniche.
L’art. 51 c.cons., rubricato “Requisiti formali per i contratti a distanza”, impone oneri formali per la comunicazione delle informazioni “precontrattuali” di cui all’art. 49 c.cons. nonché oneri formali per il contratto
(43) Art. 5, comma 2˚ “(…) 2. Gli organismi di telecomunicazioni adottano uno schema
di contratto nel quale sono precisati almeno:
a) il servizio da fornire, adeguatamente descritto;
b) le condizioni, tecniche ed economiche, ed i termini di disponibilità al pubblico che
specificano almeno, in relazione alle caratteristiche del servizio:
i. il dettaglio dei prezzi, nonché le modalità secondo le quali possono essere ottenute
informazioni aggiornate in merito a tutti i prezzi applicabili e a tutti i costi di manutenzione;
ii. il tempo di fornitura del collegamento iniziale;
iii. la durata, le condizioni di rinnovo e di cessazione dei servizi e del contratto;
iv. i tipi di servizio di manutenzione offerti;
v. gli indennizzi e i rimborsi agli abbonati in caso di servizio insoddisfacente;
vi. una sintesi della procedura da seguire per i reclami rispondente a quanto previsto
dall’articolo 8 della presente direttiva;
vii. una sintesi della procedura da seguire per la soluzione delle controversie rispondente a quanto previsto dalla delibera 182/02/CONS (…)”.
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stesso. Le informazioni devono essere fornite al consumatore con linguaggio chiaro e comprensibile in modo appropriato al mezzo i comunicazione
a distanza impiegato e, se fornite su supporto durevole, devono essere
leggibili. Sotto il profilo della forma del contratto, invece, l’art. 51 impone
di distinguere tra contratti conclusi per telefono e contratti conclusi su
mezzi durevoli. Quando il contratto è concluso per telefono l’offerta deve
essere confermata dall’operatore, anche su supporto durevole. Il consumatore è vincolato solo dopo aver firmato l’offerta o averla accettata per
iscritto (a cui equivale la sottoscrizione digitale del documento informatico). Per i contratti conclusi su supporto durevole è necessario invece che
l’operatore confermi l’avvenuta conclusione del contratto al consumatore.
Rimangono ferme, inoltre, le indicazioni di cui al d.lgs. n. 70/03 (rinvio
operato dall’ultimo comma dell’art. 51).
Per quanto riguarda i contratti conclusi fuori dai locali commerciali, ai
sensi dell’art. 50 c.cons., se da un lato le informazioni “precontrattuali” di
cui all’art. 49 devono essere fornite al consumatore su supporto cartaceo o
altro mezzo durevole, se il consumatore ne conviene, sotto il profilo della
forma del contratto, si specifica che il consumatore deve ricevere o copia
sottoscritta dello stesso o quantomeno conferma dell’avvenuta conclusione
dello stesso su supporto cartaceo ovvero, sempre previo consenso del
consumatore, su supporto durevole.
Sotto il profilo regolamentare, l’AGCom con il già citato regolamento
adottato con del. n. 519/15/CONS ha imposto all’operatore di pubblicare
ai sensi dell’art. 71 c.com.el. le modalità di conclusione dei contratti a
distanza (con specifico riferimento a quelli conclusi per telefono) e di
informare l’utente, nel caso di contratti che comportano il trasferimento
ad altro operatore, che ciò comporterà la cessazione del precedente rapporto contrattuale e che, in caso di esercizio del diritto di recesso ai sensi
dell’art. 52 c.cons., non comporterà il “ripristino automatico di tale rapporto contrattuale”.
Non è chiaro, invece, il valore giuridico degli “Orientamenti per la
conclusione per telefono di contratti per la fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche” adottati dall’AGCom con del. n. 520/15/
CONS (44).
(44) “1. L’operatore che intende concludere per telefono un contratto per la fornitura
di servizi di comunicazioni elettroniche fornisce al consumatore, nel corso della comunicazione telefonica, le seguenti informazioni, in modo chiaro e comprensibile:
a) l’identità dell’operatore e lo scopo commerciale della telefonata;
b) le generalità o, quantomeno, il codice identificativo dell’incaricato chiamante;
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Tali orientamenti, infatti, appaiono dettare delle vere e proprie regole
civilistiche, inerenti ad esempio forma del contratto ed efficacia dello
stesso, ma non sembrano poter avere alcuna efficacia o influenza nella
disciplina privatistica dei contratti, non avendo neppur valore regolamentare. Esse appaiono, dunque, solo come suggerimenti di “buona pratica”
agli operatori del settore e, forse, come suggerimenti di “buona interpretazione” agli operatori giuridici.
7. Contenuto del contratto.
Se, alla luce di quanto sin qui detto, sembra dunque doversi escludere
che sia imposto all’operatore un onere specifico di forma, per il contratto e
per la comunicazione delle informazioni “precontrattuali”, a condizione
che il mezzo scelto dallo stesso sia, in buona sostanza, idoneo a rendere
una chiara, completa e trasparente informazione al consumatore e possa
dirsi “durevole” di modo che le informazioni e le condizioni contrattuali
rimangano nella disponibilità dell’utente e non possano essere “occultamente” unilateralmente modificate, occorre chiedersi, con specifico riferimento all’art. 70 c.com.el. che impone l’inserimento nel contratto delle
informazioni elencate, cosa accade se queste informazioni non vengono
fornite o vengono fornite in modo “inesatto”.
Bisogna domandarsi, dunque, se la mancanza di uno dei requisiti del
contenuto minimo contrattuale imposto dall’art. 70 c.com.el. abbia conseguenze dal punto di vista privatistico – e se sı̀, quali – o se invece l’osser-
c) le altre informazioni elencate all’art. 51, commi 4 e 5, del Codice del consumo;
d) la procedura da seguire per il perfezionamento del contratto.
2. Se il consumatore accetta di concludere il contratto, l’operatore invia la conferma
dell’offerta, contenente tutte le informazioni di cui all’art. 70 del Codice delle comunicazioni
e all’art. 49 del Codice del consumo, presso l’indirizzo comunicato dal cliente.
3. Previo consenso esplicito del consumatore, la conferma può essere inviata dall’operatore anche su supporto durevole, ad esempio come allegato ad un’e-mail, o tramite invio o
comunicazione di un link di accesso ad un account privato nella titolarità del cliente finale
sul sito web del venditore contenente le informazioni indirizzate al cliente, a condizione che
le medesime informazioni non possano essere rimosse o modificate unilateralmente dal
venditore.
4. Il contratto si considera vincolante per il consumatore dal momento in cui questi
comunica all’operatore l’accettazione dell’offerta, dopo aver preso visione della conferma
dell’offerta, di cui ai punti 2 e 3. Detta comunicazione può essere resa anche su supporto
durevole, ad es. tramite e-mail o sms, ovvero mediante accettazione telematica.
5. Il termine per esercitare il diritto di recesso, di cui all’art. 52 del Codice del consumo, decorre dal momento in cui il consumatore invia all’operatore la comunicazione di cui
al punto 4”.
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vanza della disposizione sia garantita esclusivamente dalla previsione di
una sanzione amministrativa (45).
Se ci si interroga sui profili privatistici, occorre valutare se il contratto
che non contenga uno o più degli elementi indicati dall’art. 70 c.com.el.
possa considerarsi valido o debba ritenersi nullo, per cause estranee alla
mancanza del requisito della forma.
Potrebbe ipotizzarsi, innanzitutto, la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto, ove il contratto difetti dell’indicazione di quegli
elementi che individuano le principali obbligazioni delle parti: il servizio
prestato e il prezzo imposto.
Questa soluzione desta, per quanto a rigore indiscutibile, alcuni dubbi.
Innanzitutto, da un punto di vista esclusivamente sistematico, tale conclusione non avrebbe certo necessitato l’imposizione di un onere di indicazione ai sensi dell’art. 70 c.com.el. posto che qualsiasi contratto è nullo ove
non ne sia indicato l’oggetto o esso non sia né determinato né determinabile. Deve tuttavia evidenziarsi, a onor di verità, che l’art. 70 abbasserebbe
la soglia per l’invalidità, posto che se, in generale, un contratto è valido
anche se l’oggetto è solo determinabile, in questo caso invece sarebbe
necessaria la determinatezza effettiva.
In secondo luogo, ammesso anche che sia nullo solo il contratto che
non contiene indicazioni circa il prezzo o il servizio offerto, in relazione a
quest’ultimo bisogna soffermarsi sulla lettera della legge: l’art. 70 dispone
infatti che il contratto deve indicare il servizio offerto e in particolare i
livelli minimi di qualità del servizio o informazioni su eventuali condizioni
che limitano l’accesso o l’utilizzo di servizi e applicazioni, et. al. Bisognerebbe quindi chiedersi se il legislatore non abbia inteso elevare anche
queste indicazioni a “elementi essenziali del contratto”, con ciò condizionando la validità dello stesso.
In terzo luogo, questa soluzione non porta a configurare un rimedio
valevole per tutti gli elementi che il contratto non contempli: lascerebbe
invero aperta la questione circa il regime giuridico in caso di omissione
dell’indicazione di elementi “accessori”.
Una seconda soluzione, estremamente radicale, sarebbe quella che
volesse far discendere la nullità dell’intero contratto dal contrasto con
norme imperative, ai sensi dell’art. 1418, comma 1˚, c.c.
(45) L’art. 98 c.com.el., comma 16˚, prevede, infatti, che “In caso di inosservanza delle
disposizioni di cui agli articoli 60, 61, 70, 71, 72 e 79 il Ministero o l’Autorità, secondo le
rispettive competenze, comminano una sanzione amministrativa pecuniaria da euro
58.000,00 ad euro 580.000,00”.
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Questa scelta interpretativa comporterebbe questioni problematiche
ancora più ampie di quelle accennate poc’anzi e che possono, in questa
sede, essere soltanto sommariamente profilate.
È vero, infatti, che l’art. 70, ove ritenuto norma imperativa, si riferisce
al contenuto del regolamento negoziale e quindi potrebbe “causare”, ove
violato, l’invalidità del negozio (46). È anche vero, tuttavia, che l’obbligo di
adottare un contenuto minimo, imposto dal legislatore, potrebbe essere la
semplice manifestazione della volontà di estendere un obbligo di condotta
a carattere informativo oltre la soglia precontrattuale e fino al momento
della stipulazione del contratto (47), con la conseguenza che la mancata
indicazione degli elementi “informativi” non potrebbe condurre all’invalidità del negozio.
Dev’essere tuttavia notata una differenza fondamentale tra un obbligo
informativo richiesto dalla legge prima della stipulazione del contratto (48)
e un contenuto minimo negoziale, sebbene (parzialmente) a contenuto
informativo: nel primo caso, infatti, l’obiettivo perseguito dalla norma
(dal punto di vista della tutela dell’utente) è esclusivamente quello di
consentire la formazione del c.d. “consenso informato”; nel secondo caso,
invece, a questo obiettivo si aggiunge quello di agevolare l’utente anche
nella fase successiva al contratto, nella specie con riferimento (ad esempio)
alle modalità o procedure da seguire per i rimborsi o per la risoluzione
delle controversie.
Ne dovrebbe derivare, pertanto, un climax ascendente di tutela, poiché nell’un caso il dovere di condotta può ritenersi adempiuto, ad esem-
(46) Per la delimitazione delle ipotesi in cui la violazione di una norma imperativa può
essere causa di nullità del contratto v. ex plurimis Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n.
26724, in Giust. civ., 2008, 5, I, p. 1175, con nota di NAPPI; in Giust. civ., 2008, 12, p. 2775,
con nota di FEBBRAJO; in Il Civilista, 2009, 10, p. 100, con nota di ROI; in Il Civilista, 2009,
12, p. 13, con nota di MINARDI, PLENTEDA; in Banca, borsa e tit. cred., 2010, 6, II, p. 686, con
nota di CORRADI; in Foro it., 2008, 3, I, p. 784, con nota di SCODITTI; in Guida al dir., 2008,
5, p. 41, con nota di MAZZINI, in Giur. comm., 2008, 3, II, p. 604, con nota di BRUNO e
ROZZI; in Il Civilista, 2012, 2, p. 72, con nota di D’APOLLO; in Il Civilista, 2009, 6, p. 74, con
nota di GAGLIARDI.
(47) D’Amico parla esplicitamente di “tendenza a “localizzare” una parte dell’informazione “precontrattuale” nel momento della conclusione del contratto (il che avverrebbe
attraverso l’imposizione di oneri di “forma” scritta accompagnati dalla prescrizione della
necessaria ricomprensione di taluni elementi nel “contenuto” dell’atto”), cfr. D’AMICO,
Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996,
p. 315.
(48) Si pensi, innanzitutto, proprio al caso degli obblighi di correttezza e buona fede
imposti all’intermediario finanziario dall’art. 21 t.u.f. e che hanno dato origine (sebbene
nella precedente formulazione normativa) proprio alla pronuncia delle sezioni unite cit.
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pio, con la consegna di moduli informativi, nel secondo caso si richiede
invece che il contratto serva a “mettere nero su bianco” tutte le condizioni
contrattuali che consentano all’utente di superare non solo il deficit informativo precontrattuale, ma gli consentano anche una “gestione” del contratto in regime di maggiore consapevolezza.
Si pensi, infatti, che l’indicazione, ad esempio, nel contratto dei livelli
minimi di qualità offerti, cosı̀ come dei servizi di manutenzione offerti, non
costituisce solamente, in un’ottica anche concorrenziale, il presupposto
perché il contraente “debole” possa con maggiore consapevolezza scegliere con quale operatore concludere il contratto, ma anche il presupposto
affinché quel medesimo contraente “debole” possa invocare e far valere un
eventuale inadempimento dell’operatore e, se del caso, decidere di cambiarlo.
La necessità di indicare in modo chiaro e dettagliato le informazioni
suddette nel contratto perseguirebbe, dunque, anche l’interesse sovraindividuale allo sviluppo della concorrenza: in quanto, infatti, un utente sarà in
grado di conoscere agevolmente le condizioni contrattuali, in tanto sarà
pienamente libero di optare per un diverso operatore. In quanto un diverso operatore sarà in grado di apprendere con chiarezza e pienamente le
offerte promosse dal concorrente, in tanto potrà orientare la propria attività commerciale al fine di produrre un servizio di qualità migliore e a
prezzi concorrenziali.
Verrebbe dunque da dedurne che non possano essere trattati con il
medesimo rimedio civile entrambi i problemi.
Si potrebbe, tuttavia, anche discutere se effettivamente sia la nullità
(quale sia la causa di essa) il rimedio che meglio risponde alle esigenze di
tutela, posto che comunque l’utente sarebbe tenuto a versare quanto ottenuto per ingiustificato arricchimento (49).
Senza contare due ulteriori corollari di una soluzione nel senso della
nullità: il primo è che sarebbe necessario configurare una nullità di protezione virtuale; il secondo che operata questa scelta nel campo delle
comunicazioni elettroniche, per coerenza sistematica si dovrebbe mutuare
in tutti quegli altri ambiti di “tutela del contraente debole” ove invece, allo
stato, tale sanzione è esclusa.
Con riferimento alla prima questione, deve chiarirsi, infatti, che la
mancata indicazione degli elementi dovrebbe essere qualificata come nul-
(49) Si badi, tuttavia, che se è vero che l’obbligazione derivante dall’art. 2041 c.c. deve
basarsi sul minore dei due termini, tra arricchimento e danno, l’utente dovrebbe certamente
versare meno di quanto ha già corrisposto all’operatore in base alle tariffe applicate.
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lità sı̀, ma speciale, ovvero di protezione, cioè invocabile esclusivamente
dal cliente. Sarebbe privo di logica, infatti, consentire all’operatore che
abbia violato l’art. 70 di invocare a suo vantaggio l’invalidità del contratto.
Il percorso logico dell’interprete, dunque, non si potrebbe fermare alla
costruzione di una c.d. nullità virtuale, ma dovrebbe spingersi oltre fino a
predisporre la disciplina di questa fattispecie in termini di protezione di
una parte.
Proprio con riferimento a questa “doppia ricostruzione”, sono stati
sollevati dubbi circa la legittimità della scelta che deleghi al giudice non
solo l’individuazione del rimedio applicabile (la nullità virtuale), ma anche la
costruzione della disciplina applicabile a tale rimedio (se è “di protezione”,
infatti, cambiano le regole circa la legittimazione attiva e la sanabilità) (50).
A ciò si potrebbe obiettare, tuttavia, che è ben elevato il tasso di
discrezionalità dell’interprete anche quando si configura in termini di
nullità di protezione un’ipotesi di nullità testuale che il legislatore ha
scientemente non qualificato come nullità di protezione.
Ebbene, ricomponendo tutte queste problematiche con l’obiettivo di
proporre una ricostruzione della disciplina dell’art. 70 c.com.el., deve
ammettersi che l’unico dato certo e sicuramente condivisibile è che la
mancata indicazione del servizio prestato e della tariffa applicabile debbano ritenersi causa di nullità del contratto, in ossequio alla regola generale
di cui all’art. 1418, comma 2˚, c.c.
In caso di mancata indicazione di altri elementi, invece, la sanzione
privatistica rimane dubbia.
Soprattutto in questi ultimi casi, dunque, vi sarebbe spazio per far
deporre l’interprete a favore della sola previsione della sanzione amministrativa (51) per l’inosservanza del disposto normativo, idonea ad escludere
di per sé la configurabilità di un qualche rimedio civilistico (52).
Queste considerazioni devono essere vagliate, nella loro rilevanza pratica, inoltre, alla luce dell’id quod plerumque accidit, cioè che i contratti
aventi ad oggetto servizi di comunicazione elettronica sono e saranno
stipulati per mezzo del ricorso a moduli o formulari o, comunque, pel
(50) D’AMICO, Nullità virtuale – Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità), in
Contratti, 2009, p. 740 e nt. 31. Per una compiuta analisi delle difficoltà sottese a tali
operazioni interpretative si v. PRUSSIANI, Nullità ed eteroregolazione del contratto al tempo
delle Autorità amministrative indipendenti, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 94 (Parte
Prima) e p. 129 (Parte Seconda).
(51) Come quella prevista dall’art. 98 c.com.el. per la violazione dell’art. 70.
(52) Conclusione che sembrerebbe prospettare D’ADDA, Nullità parziale e tecniche di
adattamento del contratto, Padova, 2008, p. 198.
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tramite di condizioni generali di contratto, fornite quantomeno su supporto durevole.
Nella maggior parte dei casi, pertanto, si renderà applicabile la disciplina delle condizioni generali di contratto di cui all’art. 1341 e, per i
consumatori, gli artt. 33 ss. c.cons.
I “contenuti minimi” previsti dall’art. 70 c.com.el. potranno essere,
infatti, inseriti non tanto nel singolo contratto, quanto piuttosto da esso
richiamati poiché ricompresi nelle condizioni generali di contratto generalmente applicate e allo stesso allegate.
Deve ritenersi, al riguardo, che l’art. 70 sia in grado di incidere sulle
modalità di predisposizione delle condizioni generali di contratto, nella
misura in cui chiede che gli elementi siano indicati in modo chiaro, dettagliato e facilmente comprensibile.
Ciò pare deporre a sfavore della sufficienza della generica conoscibilità
delle condizioni contrattuali al fine di renderle opponibili ai sensi dell’art.
1341, comma 1˚, c.c., dovendo invero l’operatore effettuare uno sforzo di
diligenza superiore e volto a facilitare l’effettiva conoscenza da parte dell’utente delle condizioni praticate.
Solo alcune delle informazioni costituenti il contenuto minimo del contratto, tuttavia, possono aprire una questione di opponibilità all’utente, ovvero solamente quelle informazioni che includano un contenuto negoziale: cosı̀
potrà non essere opponibile all’utente la durata del contratto (lett. f) se essa
non sarà resa conoscibile in modo chiaro, dettagliato e facilmente comprensibile; ovvero ancora non saranno opponibili le clausole che prevedano commissioni dovute alla scadenza del contratto (lett. f, n. 3) oppure un utilizzo
minimo per poter beneficiare di condizioni promozionali (lett. f, n. 1).
Vi sono, tuttavia, alcuni contenuti la cui assenza non può essere sanzionata sotto il profilo dell’inefficacia, cioè tutte quelle informazioni che
attengono perlopiù all’indicazione della qualità del servizio o che dovrebbero agevolare l’utente nella fase esecutiva o patologica del negozio (lett. b,
n. 4; lett. c; lett. g; lett. h).
Con specifico riferimento, inoltre, ai contratti aventi ad oggetto servizi di
accesso ad internet, il recente reg. UE n. 2015/2120 ha introdotto ulteriori
contenuti informativi che devono essere inclusi nel testo dell’accordo (53).
(53) Nei contratti che includono anche servizi di accesso a internet, infatti, i contratti
devono precisare anche: “a) informazioni sul potenziale impatto delle misure di gestione del
traffico applicate dal fornitore sulla qualità dei servizi di accesso a Internet, sulla vita privata
degli utenti finali e sulla protezione dei loro dati personali; b) una spiegazione chiara e
comprensibile delle conseguenze pratiche che eventuali restrizioni del volume, la velocità e
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Lo stesso regolamento, peraltro, precisa che tali obblighi informativi si
aggiungono a quelli già previsti dalla dir. 2002/22/CE e che gli Stati sono
liberi di mantenere o introdurre requisiti aggiuntivi di monitoraggio, informazione e trasparenza, compresi quelli relativi al contenuto, alla forma
e alle modalità della pubblicazione delle informazioni.
Vi è, da ultimo, un importante aspetto del contenuto negoziale che
non è disciplinato dall’art. 70, bensı̀ dall’art. 1 d.l. n. 7/07, che per effetto
del rinvio operato dal comma 1˚ dell’art. 70 integra la disciplina dei contratti di fornitura di servizi elettronici. Esso dispone, infatti, che “I contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti televisive e
di comunicazione elettronica, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto o
di trasferire le utenze presso altro operatore senza vincoli temporali o
ritardi non giustificati [da esigenze tecniche] e senza spese non giustificate
da costi dell’operatore e non possono imporre un obbligo di preavviso
superiore a trenta giorni”.
La problematica del recesso ci impone di introdurre la questione
inerente la durata del contratto.
8. Durata del contratto, cessazione e recesso ordinario.
Si è già accennato come, tra le informazioni che devono essere inserite
nel contratto, la lett. f indichi “la durata del contratto, le condizioni di
rinnovo e di cessazione dei servizi e del contratto compresi: 1) ogni utilizzo
minimo o durata richiesti per beneficiare di condizioni promozionali; 2) i
diritti e gli obblighi inerenti la portabilità dei numeri o di altri identificatori; 3) eventuali commissioni dovute alla scadenza del contratto, compresi
altri parametri di qualità del servizio possono avere sui servizi di accesso a Internet e, in
particolare, sulla fruizione di contenuti, applicazioni e servizi; c) una spiegazione chiara e
comprensibile delle conseguenze pratiche che i servizi di cui all’articolo 3, paragrafo 5, a cui
si abbona l’utente finale possono avere sui servizi di accesso a Internet forniti a tale utente
finale; d) una spiegazione chiara e comprensibile della velocità dei servizi di accesso a
Internet minima, normalmente disponibile, massima e dichiarata di caricamento e scaricamento per le reti fisse o la velocità dei servizi di accesso a Internet massima stimata e
dichiarata di caricamento e scaricamento per le reti mobili, nonché il potenziale impatto
di deviazioni significative dalle rispettive velocità di caricamento e scaricamento dichiarate
sull’esercizio dei diritti degli utenti finali di cui all’articolo 3, paragrafo 1; e) una spiegazione
chiara e comprensibile dei mezzi di ricorso a disposizione del consumatore a norma del
diritto nazionale in caso di discrepanza, continuativa o regolarmente ricorrente, tra la
prestazione effettiva del servizio di accesso a Internet riguardante la velocità o altri parametri di qualità del servizio e la prestazione indicata conformemente alle lettere da a) a d)”.
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gli eventuali costi da recuperare in relazione all’apparecchiatura terminale”.
L’art. 80, comma 4˚ quater, c.com.el. attribuisce all’AGCom il potere
di provvedere affinché i contratti conclusi tra consumatori e imprese nel
settore delle comunicazioni elettroniche non possano imporre un primo
periodo di impegno iniziale superiore ai 24 mesi e, inoltre, che gli operatori offrano agli utenti la possibilità di sottoscrivere un contratto della
durata massima di 12 mesi. In attuazione di questa disposizione, l’art. 5
del regolamento adottato con del. n. 519/15/CONS prevede che: “1. I
contratti conclusi tra operatori e consumatori che riguardano la fornitura
di servizi di comunicazioni elettroniche non possono imporre un primo
periodo di impegno iniziale superiore a ventiquattro mesi. 2. Gli operatori
garantiscono, comunque, agli utenti la possibilità di aderire ad almeno un
contratto che preveda una durata massima iniziale di dodici mesi. 3. I
contratti conclusi tra operatori ed utenti non prevedono termini per la
comunicazione della disdetta del contratto superiori a trenta giorni dalla
scadenza del periodo di durata del vincolo contrattuale. L’operatore avvisa
i propri clienti dell’approssimarsi del termine per comunicare la disdetta
con almeno trenta giorni di anticipo rispetto alla scadenza di tale termine.
4. Nel caso di offerte che prevedono anche l’acquisto di beni, resta salva la
possibilità di prevedere periodi di rateizzazione, per il pagamento del
corrispettivo relativo a tali beni, più lunghi rispetto alla durata del contratto principale, afferente alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche. Gli operatori garantiscono ai propri clienti la facoltà, in caso di
disdetta del contratto principale, di pagare in un’unica soluzione le rate
residue per l’acquisto degli apparati, senza alcun costo ulteriore, specificandone l’importo nel contratto”.
I primi due commi della disposizione appaiono una esatta trasposizione dell’art. 28 della proposta di regolamento adottata dalla Commissione
europea (54), poi espunti nel corso della procedura di adozione del provvedimento.
Non è chiarito, tuttavia, quale sia la sanzione nell’ipotesi in cui il
contratto preveda una durata maggiore: potrebbe prevedersi esclusivamente una sanzione amministrativa, oppure anche una sanzione civile, e
nell’ambito delle sanzioni civili si potrebbe ipotizzare l’automatica trasformazione del contratto in accordo di durata indeterminata oppure l’automatica riconduzione nel limite temporale legale.
(54) Cit. nt. 5.
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L’imposizione da parte dell’operatore di una durata minima del contratto, tuttavia, vede limitata la sua efficacia da quanto previsto dall’art. 1
d.l. n. 7/07 (c.d. decreto Bersani bis) il quale prevede, come già si è visto,
che tutti contratti aventi ad oggetto servizi di comunicazione elettronica
consentano al contraente di recedere dal contratto (o di trasferire le utenze
presso altro operatore) senza vincoli temporali o ritardi non giustificati e
senza spese non giustificate da costi dell’operatore. Il recesso (55) (o il
“passaggio di operatore”) non possono comportare, in primo luogo, la
perdita per il consumatore del credito residuo prepagato poiché, ove ciò
fosse consentito, si imporrebbe di fatto un limite alla libera concorrenza,
inducendo gli utenti ad effettuare una scelta contrattuale non conforme
alla loro volontà, che li avrebbe diretti verso un altro operatore.
Il c.d. decreto Bersani specifica anche la sanzione civile collegata alla
difformità di una clausola dalle prescrizioni, disponendone la nullità.
Il recesso ordinario pare consentito al cliente sia nel caso di contratti
privi di termine finale sia nel caso di contratti per i quali sia previsto un
termine di durata.
In questo secondo caso, tuttavia, la norma dev’essere coordinata con
quanto disposto dall’art. 70, comma 1˚, lett. f, nella parte in cui impone
all’operatore di indicare “la durata del contratto (...) compresi: 1) ogni
utilizzo minimo o durata richiesti per beneficiare di condizioni promozionali”.
La possibilità di imporre un utilizzo minimo o una durata per beneficiare di condizioni promozionali potrebbe porsi in contraddizione con il
diritto dell’utente di recedere in qualsiasi momento dal contratto: deve
ritenersi che anche in quei casi egli possa recedere, con la conseguenza di
perdere tuttavia retroattivamente il diritto alla promozione (56).
(55) Su cui v. anche BRUTI LIBERATI, I contratti delle comunicazioni elettroniche, in
ROPPO e BENEDETTI (diretto da), Trattato dei contratti, Milano, 2014, p. 1277.
(56) Ad es. se Tizio conclude un contratto telefonico comportante l’addebito di un
canone mensile ridotto da 50 euro a 40 a condizione di mantenere lo stesso contratto per un
anno, deve ritenersi che lo stesso possa recedere o trasferire l’utenza in qualsiasi momento,
ma debba pagare per il pregresso l’importo non ridotto di 50 euro. Il problema può sorgere
ove non sia esplicitato, nell’offerta promozionale, l’ammontare del canone “intero”. In
questo senso pare si ponesse anche la già citata proposta della Commissione, la quale
prevedeva che “(in caso di recesso) non sarà dovuto alcun indennizzo se non (…) un
rimborso pro rata temporis per gli altri eventuali vantaggi promozionali, contrassegnati
come tali al momento della stipula del contratto”. V. sul punto anche STAZI, I contratti
della telefonia e la tutela dei consumatori, in TOSI (a cura di), La tutela dei consumatori in
Internet e nel commercio elettronico, Milano, 2012, p. 710.
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Il recesso non necessita inoltre della sussistenza e dell’indicazione di
una giusta causa da parte del recedente, il quale è titolare di un diritto ad
nutum.
Elemento essenziale dello statuto normativo del recesso è quello che
vieta l’imposizione di spese per il recesso che non siano giustificate da costi
dell’operatore. Tali costi sono unicamente quelli effettivamente affrontati
per la disattivazione del servizio e in funzione della stessa, con il conseguente
logico, seppur tacito, divieto di inserire fra i costi in tale occasione sostenuti
quelli che sono ad essa causalmente e temporalmente estranei (57) e che
abbiamo quindi la sola funzione di reintrodurre una penale per il recesso.
Diversamente dal recesso, la “disdetta” costituisce la “comunicazione
con la quale l’utente manifesta all’operatore la propria volontà di non rinnovare il contratto alla scadenza del termine di durata dello stesso” (art. 1,
reg. adottato con del. n. 519/15/CONS). La disdetta ha come funzione,
quindi, quella di evitare un c.d. rinnovo automatico del contratto. Decisamente a favore del consumatore l’indicazione, da parte dell’AGCom, dell’obbligo per l’operatore di avvisare l’utente con almeno trenta giorni di
anticipo dell’approssimarsi del termine per la comunicazione della disdetta:
in questo modo, infatti, si cerca di evitare che gli operatori possano “approfittare” di dimenticanze da parte degli utenti. Anche questa disposizione
pare ispirarsi alla proposta della Commissione, la quale, tuttavia, prevedeva
anche che la proroga tacita avrebbe trasformato il contratto in negozio a
durata indeterminabile, “risolvibile” dall’utente finale in qualsiasi momento
con un preavviso di un mese e senza incorrere in alcun costo.
Altrettanto a favore degli utenti è la disposizione, sempre introdotta
dal recente regolamento dell’AGCom, che impone agli operatori – nell’ipotesi in cui ad un contratto principale avente ad oggetto la prestazione di
servizi di comunicazione elettronica sia collegato un contratto avente ad
oggetto la vendita di beni, con un piano di pagamento rateale del prezzo
superiore alla durata prevista per il contratto principale – di indicare già ab
initio, nel contratto, l’importo che l’utente dovrà versare per l’acquisto dei
beni ove intenda disdire il rinnovo del contratto principale (58).
(57) V. Tar Lazio Roma, 1˚ giugno 2009, n. 5360, in Foro amm. TAR, 2009, 6, p. 1784,
con riferimento al recesso da un contratto di servizio televisivo a pagamento.
(58) Anche in questo caso si può sentire l’influenza della proposta della Commissione,
la quale prevedeva (art. 28) che in caso di recesso nessun corrispettivo potesse essere
imposto se non per il valore residuo delle apparecchiature sovvenzionate abbinate al contratto al momento della sua stipula.
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Ad integrazione di quanto sin qui detto, quanto agli effetti della cessazione del contratto, la disciplina regolamentare (art. 8 reg. adottato con
del. n. 519/15/CONS) precisa che nessun “corrispettivo” può essere imposto all’utente per la cessazione del rapporto contrattuale, salvo eventuali
commissioni dovute alla scadenza del contratto, anche eventualmente legate all’uso dell’apparecchiatura terminale, purché indicate nel contratto.
Né alcun corrispettivo può essere richiesto (e se addebitato, dev’essere
rimborsato) per le prestazioni che venissero eventualmente erogate dopo
la cessazione del contratto.
9. Lo ius poenitendi.
Si è rilevato supra come le disposizioni del c.com.el., come modificate
in sede di attuazione della dir. 2009/136/CE, non contengono più alcun
riferimento, rinvio o coordinamento con le altre disposizioni europee o
interne di trasposizione relative alla tutela dei consumatori.
La dir. 2002/22/CE, cosı̀ come modificata dalla dir. 2009/136/CE,
tuttavia, fa salve le disposizioni contenute nella dir. 97/7/CE, riguardante
la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza e negoziati
fuori dai locali commerciali (ora abrogata e sostituita dalla dir. 2011/
83/UE).
La disciplina dei contratti di fornitura di servizi di comunicazione
elettronica a distanza e negoziati fuori dai locali commerciali deve essere
ricavata, pertanto, dagli artt. 50 ss. c.cons. e, abrogato come si è visto il
Regolamento recante disposizioni a tutela dell’utenza in materia di fornitura
di servizi di comunicazione elettronica mediante contratti a distanza, all. A
alla delib. n. 664/06/CONS, esclusivamente da quanto previsto dall’art. 4
del reg. adottato con del. 519/15, di cui supra.
Ove, pertanto, il contratto avente ad oggetto servizi di comunicazione
elettronica venga stipulato telefonicamente o attraverso altro mezzo di
comunicazione a distanza, ovvero sia negoziato fuori dai locali commerciali, il termine di quattordici giorni per l’esercizio del diritto di recesso
decorre, trattandosi di servizi, dal giorno della conclusione del contratto
(art. 52 c.cons.) e non dovrà comportare costi per il consumatore, se non
giustificati ai sensi degli artt. 56, comma 2˚, e 57 c.cons. Poiché il contratto
ha ad oggetto la prestazione di servizi, l’esecuzione degli stessi non dovrà
essere iniziata prima del decorso dei quattordici giorni per l’esercizio del
diritto di recesso, a meno che il consumatore non ne faccia esplicita
richiesta. In questo caso, ove il consumatore receda, deve versare al professionista “un importo proporzionale a quanto è stato fornito fino al
momento in cui il consumatore ha informato il professionista dell’esercizio
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del diritto di recesso, rispetto a tutte le prestazioni previste nel contratto.
L’importo proporzionale che il consumatore deve pagare al professionista
è calcolato sulla base del prezzo totale concordato nel contratto. Se detto
prezzo totale è eccessivo, l’importo proporzionale è calcolato sulla base del
valore di mercato di quanto è stato fornito” (59).
Con riferimento al recesso, come già accennato poc’anzi, l’AGCom
con il nuovo Regolamento adottato con la del. n. 519/15/CONS si è
limitata a specificare che nell’ambito degli obblighi informativi gravanti
sull’operatore rientri anche quello di avvertire il consumatore che quando
conclude a distanza o fuori dai locali commerciali un contratto che comporta il “passaggio” da un operatore ad un altro l’eventuale esercizio del
diritto di recesso non comporta l’automatico ripristino del rapporto contrattuale precedente.
10. Il recesso come conseguenza dell’esercizio dello ius variandi da parte
dell’operatore.
Un ulteriore diritto di recesso concesso al contraente (60) funge da
contropartita rispetto al diritto potestativo attribuito all’operatore di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali (ius variandi) (61) dopo
la stipulazione del contratto stesso.
(59) La disciplina precedente all’attuazione della dir. 2011/83/UE (art. 55 c.cons.)
escludeva, invece, la possibilità di recedere nel caso di “fornitura di servizi la cui esecuzione
sia iniziata, con l’accordo del consumatore, prima della scadenza del termine” per il recesso.
(60) Si badi al termine usato dal legislatore: il termine contraente utilizzato dal comma
4˚ fa sı̀ che la norma sia applicabile a qualunque soggetto che sia parte di un contratto avente
ad oggetto servizi di comunicazione elettronica. Non solo, pertanto, consumatori o utenti
finali, ma più in generale anche utenti, qualora anche a loro volta forniscano a terzi servizi di
comunicazione elettronica. Per una disamina di questi profili si v. anche ZOPPINI, Conclusione di un nuovo contratto e modificazione del regolamento contrattuale in essere nel codice
del consumo e nel codice delle comunicazioni elettroniche, in D’ANGELO e ROPPO, Annuario
del contratto 2014, Torino, 2015, p. 100 ss.
(61) Sullo ius variandi in generale v., senza pretese di completezza, GORGONI, in Contratto e responsabilità, a cura di VETTORI, Padova, 2013, p. 377 ss.; SCARPELLO, in ALPA (a
cura di), I contratti dei consumatori, Milano, 2014, p. 679; ID., La modifica unilaterale del
contratto, Padova, 2010; GRANELLI, Modificazioni unilaterali del contratto: c.d. ius variandi,
in Obbl. e contr., 2007, p. 967; RISPOLI, Incremento del prezzo, vessatorietà e diritto di recesso,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 428 ss.; PAGLIANTINI, La modificazione unilaterale del
contratto asimmetrico secondo la Cassazione (aspettando la Corte di giustizia), in Contratti,
2012, p. 265 ss.; IURILLI, Riequilibrio delle posizioni contrattuali e limiti all’esercizio dello “ius
variandi” nei contratti del consumatore, in Giur. it., 2001, p. 3; SCHLESINGER, Poteri unilaterali di modificazione (jus variandi) del rapporto contrattuale, in Giur. comm., I, 1992 p. 18.
Sullo ius variandi nei contratti aventi ad oggetto servizi di comunicazione elettronica sia
consentito rinviare a GABASSI, sub art. 70 c.com.el., in G. DE CRISTOFARO e A. ZACCARIA (a
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Il comma 4˚ dell’art. 70, che disciplina il recesso dell’utente a seguito
della comunicazione da parte dell’operatore delle modifiche delle condizioni contrattuali, può essere diversamente interpretato: una prima soluzione esegetica potrebbe condurre a ritenere che sia attribuito all’operatore uno ius variandi esercitabile ad nutum, senza la necessaria ricorrenza
di un giustificato motivo e senza la necessaria previsione nel contratto di
un siffatto diritto; ma si potrebbe anche ritenere, seconda soluzione, che il
comma 4˚ si limiti a precisare la disciplina “operativa” dello ius variandi, i
presupposti del cui esercizio devono essere ricavati da disposizioni diverse
ed estranee al complesso normativo del c.com.el., ovvero dal contratto.
Se si aderisce alla prima opzione interpretativa, si può notare come la
scelta legislativa di attribuire un diritto di modifica unilaterale del contratto esercitabile dall’operatore ad nutum, senza cioè che debba ricorrere
alcun giustificato motivo o giusta causa si porrebbe in discontinuità con
le opzioni legislative attuate in altri ambiti del settore della tutela dell’utente.
Se si confronta, ad esempio, l’art. 118 del t.u.b. si rileva come, in quel
settore, l’esercizio del c.d. ius variandi sia invece sottoposto al ricorrere di
diverse condizioni, a seconda che si tratti di contratti a tempo determinato
o indeterminato, a seconda che il contraente sia o meno consumatore/
piccola media impresa, ma in ogni caso è necessario che nel contratto sia
espressamente prevista una clausola che attribuisce lo ius variandi.
Anche nell’ambito dei contratti di vendita di pacchetti turistici, si vede
che la revisione del prezzo del pacchetto (art. 40 Codice del turismo) è
legittima solo ove sia stata espressamente prevista dal contratto e in conseguenza di un giustificato motivo che viene dal legislatore ricollegato alle
variazioni di alcuni indici di costo che non dipendono dalla volontà del
venditore, quali il costo del trasporto, del carburante e delle tasse, costi
che comunque devono essere documentati adeguatamente dal venditore e
con l’effetto di modificare il prezzo per una percentuale comunque non
superiore al 10 percento in aumento (62).
Per quanto riguarda le altre condizioni contrattuali, l’organizzatore e il
venditore che ne abbia necessità può modificarle, dovendone dare però
immediatamente avviso in forma scritta al turista, il quale può recedere dal
cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, Padova, 2013, p. 1377 ss.; G. DE
CRISTOFARO sub art. 70 c.com.el., in G. DE CRISTOFARO e A. ZACCARIA (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, Padova, 2010, p. 1777 ss.
(62) Cfr. ex plurimis, VENCHIARUTTI, I contratti del turismo organizzato nel codice del
turismo, in ALPA (a cura di), I contratti del consumatore, cit., p. 1211 ss.
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contratto. Si badi che, in caso di recesso, il turista ha diritto di usufruire di
un altro pacchetto turistico di qualità equivalente o superiore senza supplemento di prezzo o di un pacchetto turistico qualitativamente inferiore,
previa restituzione della differenza del prezzo e fatto salvo, comunque, il
diritto di essere risarcito di ogni ulteriore danno dipendente dalla mancata
esecuzione del contratto (art. 42 Codice del turismo).
A queste considerazioni comparative si aggiunga l’osservazione per
cui, adottando l’idea di una fonte legale dello ius variandi nel settore delle
comunicazioni elettroniche, non sarebbe necessario per gli operatori inserire nei contratti o nelle condizioni generali alcuna clausola che preveda un
diritto di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, poiché esse
sarebbero già ammesse senza limiti dall’art. 70 c.com.el., con l’effetto di
escludere quindi ogni valutazione di vessatorietà ai sensi della dir. 93/13/
CE (attuata con gli artt. 33 ss. c.cons.), la cui applicazione tuttavia è fatta
salva dalla stessa dir. 2002/22/CE (63).
Diversamente accadrebbe, infatti, ove si accedesse alla seconda delle
interpretazioni suddette, quella secondo cui il comma 4˚ della disposizione
in esame si limiterebbe ad indicare le modalità per l’esercizio dello ius
variandi, le cui condizioni dovrebbero però essere ricavate aliunde.
In particolare, il diritto di modificare unilateralmente il contratto potrebbe discendere dal contratto (nella maggior parte dei casi, dalle condizioni generali di contratto).
In questo caso, ove destinatario di una clausola siffatta sia il consumatore, bisognerebbe che la stessa superasse il vaglio di vessatorietà ai
sensi dell’art. 33, lett. m e o, c.cons. secondo cui si presumono vessatorie
sino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto o per effetto di
“consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del
contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire,
senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso” e “consentire al
professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il
consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato
rispetto a quello originariamente convenuto”.
(63) A favore della “specialità” della tutela prevista dal c.com.el., secondo il modello
c.d. di opt-out, rispetto alla disciplina dello ius variandi nel codice del consumo si v. ZOPPINI,
Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai “Codici di settore” (Lo ius variandi nei
codici del consumo e delle comunicazioni elettroniche), in Riv. dir. civ., 2016, p. 153, secondo
il quale “a fronte di tutte le variazioni contrattuali, prospettate all’utente-consumatore
dall’operatore di comunicazioni elettroniche, che attengono ai servizi e alle tariffe compresi
nel contratto originariamente concluso, all’utente spetta unicamente il diritto di recesso da
esercitarsi appunto nelle forme dell’art. 70, comma 4˚, c. com. el.”.
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Con particolare riferimento alla lett. m, dovrebbe pertanto evincersi
che l’operatore sarebbe titolare dello ius variandi a condizione che: questo
diritto sia previsto nel contratto e sussista un giustificato motivo (rectius,
quel giustificato motivo predeterminato nel contratto). Con riferimento
alle modifiche attinenti il prezzo, invece, imprescindibile sarebbe l’attribuzione del corrispondente diritto di recesso al consumatore.
È in questo frangente, tuttavia, che il ragionamento logico rischia di
riportare alle medesime conseguenze della prima opzione interpretativa: se
si accede all’idea che la previsione del diritto di recesso per il cliente
potrebbe ritenersi idonea ad eliminare quello squilibrio dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto che costituisce fondamento della vessatorietà (64), e preso atto della legislativa attribuzione del diritto di recesso al
contraente, allora anche in forza di questa seconda ricostruzione interpretativa non sarebbe necessaria la sussistenza di un giusto motivo per l’esercizio dello ius variandi.
La Corte di Giustizia si è occupata della questione, proprio in un’ipotesi di paventata vessatorietà di una clausola inserita nelle condizioni
generali allegate ad un contratto avente ad oggetto servizi di telefonia fissa
a mezzo della quale un professionista prevedeva una modifica unilaterale
delle spese collegate al servizio da prestare, senza peraltro descrivere chiaramente le modalità di quantificazione delle spese suddette né specificare
validi motivi per tale modifica, e ha avuto modo di precisare che nell’effettuare la valutazione di abusività di una clausola siffatta il giudice nazionale ha il dovere di verificare in particolare se, alla luce di tutte le clausole
figuranti nelle condizioni generali dei contratti stipulati con consumatori
delle quali fa parte la clausola controversa, nonché della legislazione nazionale che prevede i diritti e gli obblighi che potrebbero aggiungersi a
quelli previsti dalle condizioni generali di cui trattasi, i motivi o le modalità
di variazione delle spese collegate al servizio da prestare siano descritti in
modo chiaro e comprensibile e se, all’occorrenza, i consumatori dispongano della facoltà di porre termine al contratto (65).
La chiarezza e la trasparenza dell’informativa contrattuale sembrano
costituire, dunque, il vero obiettivo e risultato cercato a livello europeo, al
fine garantire la tutela degli utenti, quale mezzo per una sana concorrenza.
(64) V. ex plurimis FARNETI, sub art. 33 lett. m e lett. o, in G. DE CRISTOFARO e A.
ZACCARIA (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, Padova, 2013, rispettivamente pp. 306 ss. e 316 ss.
(65) Corte Giust. UE, 26 aprile 2012, in C-472/10, Invitel.
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In quest’ottica sembra spiegarsi anche una recente pronuncia della
Corte di Giustizia (66), in un caso attinente la variazione del prezzo del
servizio per effetto di una clausola di indicizzazione contenuta nel contratto, la quale ha precisato che una modifica delle tariffe di una prestazione di servizi relativi alle reti o di servizi di comunicazione elettronica,
derivante dall’applicazione di una clausola di adeguamento delle tariffe
contenuta nelle condizioni generali di contratto applicate da un’impresa
che fornisce tali servizi, clausola che prevede un tale adeguamento in base
a un indice oggettivo dei prezzi al consumo stabilito da un istituto pubblico, non costituisce una «modifica delle condizioni contrattuali» che, ai
sensi dell’art. 20, par. 2, dir. 2002/22/CE, conferisce all’abbonato il diritto
di recedere dal contratto senza penali.
È forse, dunque, proprio nell’ottica di garantire la trasparenza e la
chiarezza che si può legittimare l’interpretazione che vuole che, in ogni
caso, sia prevista nel contratto una clausola attributiva del diritto di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali.
Sotto il profilo regolamentare e giurisprudenziale dell’AGCom non
sembra potersi ricavare un indice univoco nell’uno o nell’altro senso, posto
che nelle pronunce appare talvolta contraddittoria (67) e nelle disposizioni
regolamentari non sembra prendere espressamente posizione sul punto.
Nel recente regolamento adottato con del. n. 519/15/CONS, il comma 1˚
dell’art. 6 rubricato “Modifica delle condizioni contrattuali” recita semplicemente: “Gli operatori modificano le condizioni contrattuali solo nelle
(66) Corte Giust. UE, 26 novembre 2015, in C-326-14, Verein für Konsumenteninformation contro A1 Telekom Austria AG, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, p. 696, con nota
di GABASSI, Ius variandi, clausole di indicizzazione e recesso nel settore delle comunicazioni
elettroniche.
(67) Si v. ad esempio la pronuncia dell’AGCom, la quale ha affermato che “è noto che
ai sensi dell’articolo 70, comma 4, del Codice delle comunicazioni elettroniche (CCE), gli
operatori hanno la facoltà di modificare le proprie offerte sul mercato, purché rispettino, di
volta in volta (vale a dire in occasione di ogni rimodulazione, a prescindere dai giustificati
motivi generali indicati “a monte” nella contrattualistica, in ottemperanza a quanto previsto
dal Codice del consumo), gli adempimenti stabiliti nella predetta norma speciale (comunicazione all’utente del contenuto delle modifiche con preavviso di almeno 30 giorni rispetto
alla loro efficacia e riconoscimento del diritto di recedere senza penali qualora l’utente non
accetti le nuove condizioni). Pertanto, una volta che l’operatore abbia adempiuto al disposto
dell’articolo 70, comma 4, CCE, la rimodulazione è da ritenersi legittima (nonché espressione di uno ius variandi attribuito per legge) e lo strumento di tutela a disposizione
dell’utente è quello del recesso senza penali, per permettergli una agevole migrazione verso
offerte di altri operatori ormai ritenute più convenienti” (del. n. 132/11/CIR, Definizione
della controversia Carmeni / Vodafone Omnitel n.v.).
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ipotesi e nei limiti fissati dalla legge o dal contratto medesimo, ovvero
quando tali modifiche siano esclusivamente a vantaggio dell’utente”.
Comunque siano ricostruite le condizioni per l’esercizio dello ius variandi, il comma 4˚ impone all’operatore di comunicare le modifiche al
contraente con adeguato preavviso, non inferiore in ogni caso a 30 giorni (68). L’operatore, inoltre, deve informare i clienti anche del loro diritto
di recedere senza penali, né costi di disattivazione, nonché della possibilità
di passare ad un altro operatore (art. 6, comma 2˚, reg. adottato dall’AGCom con del. n. 519/2015/CONS).
Si deve ritenere che le modifiche contrattuali non abbiano effetto se
l’operatore non le comunica nei tempi previsti. Ugualmente esse sono
prive di effetto ove la comunicazione non contenga “le informazioni complete circa l’esercizio del diritto di recesso”.
Proprio con riferimento a quest’ultima condizione deve affrontarsi
anche il tema della forma della comunicazione.
Il problema si pone con particolare evidenza con riferimento alla
prassi commerciale nel settore della telefonia mobile per cui le modifiche
contrattuali sono comunicate al contraente tramite SMS il quale rinvia, per
le informazioni complete circa il recesso, sovente al sito Internet dell’operatore.
La questione riguarda, per l’appunto, l’idoneità di questa comunicazione per relationem a soddisfare il disposto del comma 4˚.
L’AGCom (69), in un primo tempo, è intervenuta affermando che la
comunicazione delle modifiche contrattuali e del diritto di recesso deve
essere contestuale con la conseguenza che la notifica, ancorché tramite
SMS, della sola rimodulazione, senza citare espressamente il conseguente
diritto di recedere dal contratto, non equivale a soddisfare pienamente
l’obbligo informativo di cui all’art. 70, comma 4˚, c.com.el.
Nel caso oggetto di attenzione dell’Autorità si discuteva circa l’idoneità ai sensi dell’art. 70, comma 4˚, c.com.el., di un sms avente il seguente
tenore: “dal 6 agosto l’attuale meccanismo di autoricarica cesserà. Aderisci
Gratis alla nuova AUTORICARICA chiama 4916. Per Info/recesso senza
penali www.tim.it/negozi Tim”.
(68) La precedente formulazione indicava un preavviso di un mese.
(69) Del. n. 39/09/CONS, Ordinanza ingiunzione alla società Telecom Italia S.p.A. per
violazione dell’articolo 70, comma 4 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259, con
riferimento alla modifica dei piani tariffari denominati “Autoricarica 300”, “Autoricarica
190”, “Flash Tim”, “Flash Tim 24 h”, “Unica + Superautoricarica” e “Unica new + Autoricarica 5”.
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La non rispondenza della comunicazione a quanto imposto dall’art. 70
era stata affermata sulla base delle seguenti osservazioni: l’operatore avrebbe rinviato esclusivamente al sito web dell’operatore per “info” senza dare
alcun avviso circa l’esistenza del diritto di recesso (70); ingiustificata sarebbe la differenziazione tra il canale informativo indicato nel suddetto SMS
per accedere alle informazioni inerenti la nuova offerta (numero telefonico
gratuito) e quello per le informazioni sul diritto di recesso (sito web);
tenendosi conto del fatto che nel periodo (luglio-agosto 2008) in cui è
stata effettuata la manovra “autoricarica” gli strumenti integrati di comunicazione (SMS-sito internet) verso cui l’operatore convoglia gli utenti per
le informazioni e il diritto di recesso non sarebbero stati agevolmente
fruibili, poiché il numero di utenti che ha la possibilità di utilizzare postazioni informatiche nel periodo estivo si riduce notevolmente rispetto ai
periodi lavorativi.
L’adeguatezza del mezzo informativo rispetto allo scopo di trasparenza
dovrebbe, dunque, essere valutato anche alla stregua di condizioni estranee al tenore della comunicazione stessa e “contingenti”.
Emerge chiaramente, però, che in tal modo diveniva particolarmente
opinabile l’idoneità del singolo mezzo informativo a comunicare le modifiche contrattuali, con la conseguenza che gli operatori non si sarebbero
mai dovuti sentire effettivamente obbligati ad effettuare una comunicazione della facoltà del recesso completa e contestuale alla notifica delle modifiche contrattuali.
Ciò con evidenti ripercussioni sulla concorrenza, posto che un utente
non completamente informato difficilmente si assumerà in proprio l’onere
di cercare le informazioni che dovrebbero invece essergli fornite senza
richiesta dal professionista (71).
Queste considerazioni venivano svolte prima che l’AGCom esercitasse,
ai sensi del comma 4˚ dell’art. 70, il potere di indicare agli operatori la
(70) Invero l’sms accenna all’esistenza di un diritto di recesso senza penali, anche se
rimanda al sito internet per ogni ulteriore informazione.
(71) Emerge dalla del. citata che a fronte degli 8.414.809 di utenti il cui servizio
telefonico rientrava tra quelli oggetto di manovra, solo 228.175 avevano esercitato il diritto
di recesso. A questo si aggiunga la considerazione che l’esiguità della pena comminata
dall’Autorità (e che, presumibilmente, potrebbe essere indice di paragone anche per eventuali future sanzioni di ipotesi paragonabili, per violazione dell’art. 70 in forza dell’art. 98,
comma 11˚, c.com.el.) non poteva certo avere efficacia deterrente, essendo commisurata in
euro 58.000. Se Telecom, infatti, avesse guadagnato anche solo un cent/euro per cliente una
tantum (ma la prospettiva di guadagno è superiore per diversi ordini di grandezza) in virtù
delle modifiche contrattuali, detratta comunque la sanzione, avrebbe ottenuto un ricavo
dall’operazione “scorretta”.
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forma della comunicazioni inerenti lo ius variandi. L’AGCom, infatti, con
l’Allegato I al regolamento adottato con del. 519/15/CONS, ha indicato
agli operatori le modalità per la comunicazione agli utenti delle modifiche
contrattuali, considerando la comunicazione in fattura, l’obbligatoria pubblicazione dell’informativa preso i punti vendita e sul sito web (con apposito avviso nella home page), nonché: per le utenze mobili, mediante invio
di sms; per i servizi televisivi a pagamento, tramite annunci da trasmettere
nelle ore e nei canali di maggior ascolto.
Con riferimento agli sms, si è precisato che esso “inizi con la seguente
dicitura “Modifica delle condizioni contrattuali”, o similare, e che indichi,
almeno, il contenuto delle modifiche e la data di entrata in vigore delle
stesse, con l’invito a verificarne gli ulteriori dettagli tramite i canali divulgativi sopra elencati, fermo restando l’obbligo di informativa sul diritto di
recesso di cui al paragrafo 4”.
In ogni caso, una volta effettuata la comunicazione ai sensi del comma
4˚, l’operatore deve limitarsi ad attendere che il contraente esprima, o
meno, la volontà di recedere.
Volontà che può essere espressa in qualsiasi forma, posto che né le
norme primarie, né quelle secondarie prevedono oneri formali.
E si noti che solo l’effettivo recesso esclude l’applicazione delle modifiche contrattuali (comportando lo scioglimento del vincolo), posto che in
assenza di esso queste divengono efficaci, anche qualora il contraente
abbia manifestato la sua contrarietà espressamente, ma senza recedere.
L’AGCom con il recente regolamento ha precisato che la volontà del
cliente di recedere deve essere comunicata entro la data di entrata in
vigore delle modifiche. Non appare chiara, invece, la formulazione del
comma 3˚ dell’art. 6 del regolamento adottato con del. n. 519/2015/
CONS, il quale stabilisce che “Il recesso ha efficacia a far data dall’entrata
in vigore delle modifiche contrattuali se la relativa comunicazione perviene
all’operatore prima di tale data e, in ogni caso, rende inapplicabili all’utente le nuove condizioni”. Non è chiaro, in particolare, il significato della
locuzione “in ogni caso”: se essa si riferisce, infatti, all’ipotesi in cui la
comunicazione della volontà di recedere pervenga all’operatore dopo la
data dell’entrata in vigore delle modifiche contrattuali, allora essa pare
porsi quantomeno in apparente contraddizione con quanto poco prima
previsto dal regolamento, e cioè che la volontà di recedere debba essere
comunicata entro la data dell’entrata in vigore delle modifiche stesse.
L’unica soluzione interpretativa che pare possa far collimare le due indicazioni è stabilire che sia sufficiente che la volontà di recedere sia manifestata prima della data di entrata in vigore delle modifiche e ciò basti per
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impedire l’applicazione delle nuove condizioni contrattuali; se poi essa
anche giunge all’indirizzo dell’operatore entro la data di entrata in vigore,
allora il recesso ha effetto da tale data (non dopo, non prima).
Sotto il profilo degli effetti, l’art. 8 del regolamento adottato con del.
n. 519/15/CONS precisa anche che l’operatore non può addebitare all’utente alcun corrispettivo per le prestazione erogate a decorrere dalla data
di efficacia del recesso e, qualora non riesca tecnicamente ad impedirne
l’addebito, deve provvedere tempestivamente a stornare o a rimborsare
quanto addebitato.
Analogamente nel caso in cui al recesso si accompagni la volontà di
cambiare operatore, caso nel quale, nel periodo tecnicamente necessario
per il passaggio, si applicano le condizioni previste anteriormente alle
modifiche (art. 6, comma 4˚, regolamento AGCom) e se l’operatore non
dovesse riuscire a impedire tecnicamente l’applicazione delle nuove condizioni, deve provvedere tempestivamente a stornare o a rimborsare all’utente le somme in eccesso eventualmente addebitate.
11. Inadempimento del contratto.
Meritano un’attenzione particolare due profili di disciplina introdotti
l’uno, dal regolamento UE 2015/2120 e, l’altro, dal regolamento dell’AGCom adottato con delibera n. 519/2015/CONS, inerenti alcune vicende
patologiche del contratto e che presentano caratteri di novità.
Il legislatore europeo, da un lato, si è fatto carico di esplicitare che
qualsiasi significativa discrepanza, continuativa o regolarmente ricorrente,
tra la prestazione effettiva dei servizi di accesso a internet (riguardante la
velocità o altri parametri di qualità del servizio) e la prestazione indicata
dal fornitore nelle forme prescritte dal medesimo regolamento costituisce
una non conformità delle prestazioni ai fini dell’attivazione dei rimedi a
tutela del consumatore, purché i pertinenti fatti siano oggetto di accertamento da parte di un meccanismo di monitoraggio certificato dall’autorità
nazionale di regolamentazione. Questo elemento – a condizione che sia
attivato il meccanismo di monitoraggio – costituisce un vantaggio per gli
utenti i quali possono agevolmente rendersi conto dell’inadempimento al
fine non tanto di risolvere il contratto, quanto di recedere e nel caso
cambiare operatore.
Sul piano nazionale, sempre a favore degli utenti appare l’art. 7 del
reg. adottato dall’AGCom con del. n. 519/2015/CONS, il quale dispone
che: “1. In caso di mancato o ritardato pagamento di un singolo servizio
oggetto del contratto, l’operatore non può sospendere la fornitura di altri
servizi, anche supplementari, dedotti in contratto, se non nei limiti speci-
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ficamente ammessi dall’Allegato 4, Parte A, lett. e) (72) del Codice e,
comunque, nel rispetto delle misure adottate dall’Autorità ai sensi di tale
allegato.
2. L’utente che ha presentato formale reclamo all’operatore in merito
all’addebito di un singolo bene o servizio, anche supplementare, può
sospenderne il pagamento fino alla definizione della procedura di reclamo.
L’utente è comunque tenuto al pagamento degli importi che non sono
oggetto di contestazione.”.
12. La decadenza dal contratto.
L’ultimo comma dell’art. 70 c.com.el. sanziona con la decadenza dal
contratto di fornitura del servizio l’utente finale che utilizzi, o dia modo ad
altri di utilizzare il servizio per effettuare comunicazioni o attività contro la
morale o l’ordine pubblico o arrecare danno ai minori molestia o disturbo
alla quiete privata ovvero per finalità abusive o fraudolente.
Prima di addentrarci nella ricostruzione dell’istituto della “decadenza”, sono necessarie alcune notazioni preliminari.
In primo luogo questa disposizione sanziona esclusivamente l’utente
finale, cosı̀ escludendo quegli utenti che utilizzano il servizio di comunicazione elettronica per fornire a loro volta l’accesso alle reti o ai servizi di
comunicazione elettronica.
In secondo luogo, l’utente non è sanzionato solo per il comportamento
“proprio”, ma anche per quello del terzo il quale abbia fatto uso abusivo
del servizio (di cui è titolare l’utente).
Non è chiaro se trattasi di una sorta di “responsabilità oggettiva” o se
il comportamento del terzo possa causare la decadenza dal contratto dell’utente finale solo ove questi abbia posto in essere un comportamento
(almeno) colposo.
(72) Allegato 4, Parte A, lett. e: “Parte A: Prestazioni e servizi citati all’articolo 60 del
Codice: (…) e) Mancato pagamento delle fatture. L’Autorità autorizza l’applicazione di
misure specifiche per la riscossione delle fatture non pagate emesse dalle imprese per
l’utilizzo della rete telefonica pubblica in postazione fissa. Tali misure sono rese pubbliche
e ispirate ai principi di proporzionalità e non discriminazione. Esse garantiscono che il
contraente sia informato con debito preavviso dell’interruzione del servizio o della cessazione del collegamento conseguente al mancato pagamento. Salvi i casi di frode, di ripetuti
ritardi di pagamento o di ripetuti mancati pagamenti e per quanto tecnicamente fattibile, tali
misure garantiscono che sia interrotto solo il servizio interessato. La cessazione del collegamento per mancato pagamento delle fatture avviene solo dopo averne debitamente avvertito
l’abbonato. Prima della totale cessazione del collegamento l’Autorità può autorizzare un
periodo di servizio ridotto durante il quale possono essere effettuate solo le chiamate che
non comportano un addebito per l’abbonato (ad esempio chiamate al “112”)”.
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La norma sembra porre, invero, un dovere di diligenza in capo all’utente finale nell’utilizzo del servizio, con la conseguenza che neanche il
dolo del terzo, che consapevolmente abbia fatto uso illecito del servizio di
cui è titolare l’utente, sembrerebbe poter escludere sempre e comunque la
responsabilità dell’utente finale (73).
Difficilmente, pare, potrebbe invece essere sanzionato l’utente finale il
quale appresti tutte le protezioni possibili secondo la comune esperienza,
ove ciò nonostante il terzo con mezzi fraudolenti riesca a fare uso del
servizio.
Fatte queste premesse e venendo dunque alla nozione di decadenza,
deve rilevarsi che essa, quale causa o motivo di scioglimento del contratto,
costituisce un istituto estraneo alla sfera del diritto privato.
Il termine “decadenza” appare, infatti, rimandare al concetto amministrativo di “decadenza dal contratto o dalla concessione”, cioè una sanzione nei confronti del concessionario del servizio, all’occorrenza di violazioni
qualificate, applicata tramite un atto di autotutela della p.a.
Essa è, in quell’ambito, generalmente comminata a fronte di inadempienze gravi e reiterate ed assume un carattere sanzionatorio che agisce
determinando la risoluzione del rapporto (74).
Conseguenza della risoluzione del contratto a seguito di decadenza, in
ambito amministrativo, è l’obbligo generale di risarcimento (75).
La decadenza dalla convenzione o concessione è, nella prassi amministrativa, collegata sovente alla violazione di obblighi dedotti in contratto,
con la conseguente assimilazione prima facie della fattispecie ad una clausola risolutiva espressa. La fattispecie è tuttavia peculiare, di tanto che si
considera che essa non sia disciplinata dalle norme civilistiche e sia pertanto sottratta alla giurisdizione del giudice ordinario (76).
Venendo invero all’ambito dell’art. 70, che disciplina dal punto di
vista (anche) privatistico i rapporti tra operatori e utenti, la decadenza
dal contratto di somministrazione di servizi di comunicazioni elettroniche
potrebbe costituire un caso di scioglimento automatico del contratto (con
effetto ex nunc dal momento in cui vengono poste in essere le condotte
vietate) oppure un’ipotesi di recesso ex lege concesso all’operatore, il quale
(73) Potrebbe, pertanto, decadere dal servizio il titolare dell’abbonamento ad un servizio internet il quale utilizzi un router senza proteggerlo con password, consentendo cosı̀ a
terzi di utilizzare facilmente il servizio.
(74) SANTORO, Manuale dei contratti pubblici, Rimini, 2002, p. 840.
(75) SILVESTRI, Il riscatto delle concessioni amministrative, Milano, 1956, p. 44.
(76) V. Tar Lazio, sez. dist. Latina, 26 febbraio 2004, n. 87, in Foro amm. TAR, 2004,
p. 455.
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tramite una dichiarazione unilaterale potrebbe causare lo scioglimento del
vincolo.
La ricostruzione della fattispecie in termini di scioglimento automatico
del contratto avrebbe come conseguenza, nella maggior parte dei casi, che
entrambe le parti continuerebbero ad eseguire il contratto nonostante lo
scioglimento.
Non può nascondersi come, nella maggior parte dei casi, dell’utilizzo
illecito l’operatore viene spesso a conoscenza solo in un momento successivo anche di molto alla condotta, perché ad esempio oggetto di procedimento penale.
In conseguenza dello scioglimento automatico, tuttavia, ogni prestazione effettuata in esecuzione dello stesso risulterebbe indebita, con la
conseguenza che l’utente sarebbe legittimato a non pagare il prezzo del
servizio o a ripeterlo, ove già versato. Salvo l’obbligo di corrispondere,
naturalmente, l’importo corrispondente all’ingiustificato arricchimento ricevuto che tuttavia potrebbe corrispondere ad un’entità minore di quanto
preteso contrattualmente dall’operatore, con la conseguenza che la decadenza dal contratto costituirebbe, in quest’ottica, quasi un vantaggio per
l’utente piuttosto che una sanzione.
Ove si ricostruisca la fattispecie, invece, in termini di recesso ex lege
attribuito all’operatore, tale soluzione parrebbe non rispondere completamente alla ratio della disposizione, la quale sembra invero non voler lasciare esclusivamente alla libertà dell’operatore la corresponsione della
“sanzione”, ma sembrerebbe voler attribuire rilevanza oggettiva al comportamento scorretto.
Si pensi, con riferimento a questa opzione interpretativa, che se medio
tempore, tra la condotta illecita e il recesso, l’operatore fosse inadempiente
rispetto alle proprie obbligazioni, l’utente potrebbe persino invocare il
risarcimento del danno.
In realtà sembra potersi dire che la norma intenda far discendere
dall’inadempimento qualificato dell’utente, costituito per l’appunto dall’uso illecito del servizio, una conseguenza immediata e diretta.
La decadenza potrebbe configurarsi, pertanto, quale autonoma e diversa modalità di scioglimento del contratto, in forza della quale, al verificarsi dei comportamenti vietati, l’utente finale sarebbe privato della qualifica di parte del contratto e, di conseguenza, decadrebbe da tutti i diritti
nascenti dal contratto stesso, in primo luogo non potendo più pretendere
l’adempimento dei crediti di cui è titolare (alla corretta prestazione del
servizio, all’eventuale risarcimento del danno per inadempimento), mentre
debba adempiere le obbligazioni su di lui gravanti in virtù del contratto (in
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primis, pagamento del corrispettivo per l’utilizzo del servizio). L’operatore
diverrebbe titolare, invece, del potere di sciogliere definitivamente il contratto tramite un negozio unilaterale. Sulla base di tale ricostruzione il
provider di servizi verrebbe sicuramente sollevato da una responsabilità
contrattuale nel caso in cui privasse l’utente finale dell’accesso al servizio
dopo il (ed eventualmente a causa del) compimento delle attività illecite,
anche qualora non abbia emesso la “dichiarazione di decadenza”. Al contrario l’utente finale, il quale dopo la decadenza abbia continuato a usufruire del servizio dovrebbe continuare ad essere obbligato ad adempiere
le obbligazioni su di lui gravanti sulla base del contratto di somministrazione del servizio.
13. Fornitura non richiesta.
Non vi sono dubbi che valga anche nel settore delle comunicazioni
elettroniche quanto previsto dall’art. 66 quinquies c.cons., rubricato “Fornitura non richiesta”, il quale precisa che: “1. Il consumatore è esonerato
dall’obbligo di fornire qualsiasi prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta di beni, acqua, gas, elettricità, teleriscaldamento o contenuto digitale o di prestazione non richiesta di servizi, vietate dall’articolo
20, comma 5, e dall’articolo 26, comma 1, lettera f) (77), del presente
Codice. In tali casi, l’assenza di una risposta da parte del consumatore
in seguito a tale fornitura non richiesta non costituisce consenso. 2. Salvo
consenso del consumatore, da esprimersi prima o al momento della conclusione del contratto, il professionista non può adempiere eseguendo una
fornitura diversa da quella pattuita, anche se di valore e qualità equivalenti
o superiori.”.
Dal punto di vista regolamentare, tale disposizione è integrata dall’art.
3 del regolamento adottato dall’AGCom con del. n. 519/15/CONS, il cui
comma 3˚ prevede che gli operatori adottino “tutte le misure necessarie ad
evitare la fornitura di servizi in assenza di un contratto consapevolmente e
liberamente concluso dall’utente, in particolare nel caso in cui il contratto
comporti il passaggio ad altro operatore e la portabilità del numero”.
Proprio con riferimento alla portabilità del numero (che ai sensi dell’art.
80 c.com.el. dev’essere agevolata) la medesima disposizione precisa altresı̀
(77) Art. 26. Pratiche commerciali considerate in ogni caso aggressive. 1. Sono considerate in ogni caso aggressive le seguenti pratiche commerciali: (…) f) esigere il pagamento
immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha
fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, salvo quanto previsto dall’articolo 66sexies, comma 2.
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che “se il cambiamento di operatore avviene contro la volontà (78) dell’utente, l’operatore responsabile non pretende alcun corrispettivo per le
prestazioni erogate e provvede in favore dell’utente, oltre alla corresponsione degli indennizzi dovuti, al rimborso delle somme da questi indebitamente corrisposte in ragione del trasferimento, ivi incluse quelle necessarie al ripristino delle condizioni tecniche e contrattuali preesistenti”.
L’attivazione di una fornitura non richiesta che comporti il cambio di
operatore rappresenta, nel settore delle comunicazioni elettroniche, un’eventualità che può comportare pregiudizi economici rilevanti per l’utente,
il quale subendo il trasferimento può perdere condizioni contrattuali precedenti magari più favorevoli. Appare, dunque, opportuno l’aver previsto
che l’operatore “infedele” debba corrispondere anche le somme che l’utente debba corrispondere per ottenere il ripristino delle condizioni contrattuali precedenti. Resta da chiedersi, tuttavia, cosa accada ove tali condizioni non siano ripristinabili ovvero il precedente operatore non possa/
voglia ripristinarle. La soluzione più favorevole all’utente sarebbe quella,
dunque, che imponesse all’operatore “abusivo” di sopportare sine die i
pregiudizi derivanti dalla sua condotta contraria a buona fede e correttezza, rimborsando l’utente di quanto debba eventualmente versare in ragioni
di condizioni contrattuali non più altrettanto favorevoli.
Non è soltanto, peraltro, l’attivazione di un servizio non richiesto ad
essere sanzionata, ma anche l’ipotesi – di più incerto inquadramento – in
cui effettivamente un contratto è stato stipulato, ma l’utente non l’ha fatto
consapevolmente e liberamente.
14. Conclusioni.
La variegata disciplina che si è cercato sin qui, seppur necessariamente
soltanto per grandi linee, di rappresentare dimostra come il settore delle
comunicazioni elettroniche costituisca un “campo di gioco” nel quale
molteplici sono le forze coinvolte e gli interessi sottesi allo sviluppo della
disciplina.
La chiave è quella della ricerca della tutela dell’utente al fine di ottenere un mercato il più possibile basato sulla consapevolezza delle scelte
economiche, per la ricerca di un maggiore sviluppo della concorrenza.
Tutte le regole dettate, quindi, sono improntate all’imposizione agli
operatori di condotte trasparenti, chiare, dettagliate e comprensibili per gli
utenti. Utenti che, solamente se adeguatamente informati, si ritiene possa-
(78) Con ciò dovendo intendersi, presumibilmente, in mancanza di contratto.
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no effettuare le proprie scelte commerciali nella maggiore consapevolezza
possibile.
Anche le disposizioni di diritto privato, quindi, sebbene per loro natura deputate a disciplinare i rapporti, per l’appunto, tra i privati, assumono (anche) in questo settore un ruolo che si estende al di là della
risoluzione dei conflitti tra singoli, per rappresentare invece uno strumento
di regolazione del mercato, quel minimo di regole che tutti gli operatori
devono osservare per poter partecipare, legittimamente, al gioco della
concorrenza.
Se questo è il quadro di riferimento per comprendere il settore, rimane
da dare una risposta alla domanda che si è scelta quale titolo per il
presente contributo. L’impressione è quella che sia il regolamento adottato
dall’AGCom con la delibera n. 519/15/CONS che il reg. UE n. 2015/2120
costituiscano solo due ulteriori tasselli che gli operatori, gli utenti e gli
interpreti devono tenere in considerazione nella composizione del puzzle
della “tutela degli utenti nei contratti aventi ad oggetto servizi di comunicazione elettronica”. In un sistema già, come si è visto, ampiamente
frammentato, forse vi sarebbe stato bisogno – e qui la critica è rivolta
perlopiù al legislatore europeo – di interventi organici e chiarificatori e
non di ulteriori “pezzi” da aggiungere alla già complessa composizione.
Dal lato europeo, bisognerà attendere un nuovo più organico intervento, che verrà forse contemplato nel riesame del quadro normativo per
le telecomunicazioni, che sarà presentato nel 2016.
Dal lato interno, invece, il regolamento adottato dall’AGCom con la
delibera n. 519/2015/CONS, come si è detto, sembra essere l’esito finale
dell’iter iniziato già nel 2012, dopo l’attuazione delle dirr. 2009/136/CE e
2009/140/CE. Un nuovo intervento, quindi, è lecito aspettarsi che vi sarà
solo a seguito di ulteriori novità imposte dall’Unione europea (79).
(79) La recentissima del. AGCom 252/16/CONS del 16 giugno 2016, recante “Misure
a tutela degli utenti per favorire la trasparenza e la comparazione delle condizioni economiche dell’offerta dei servizi di comunicazione elettronica” invece, non pare avere particolare
rilievo sotto il profilo della disciplina privatistica dei contratti di settore, affrontando invero
più in particolare i profili inerenti la pubblicità e la trasparenza delle informazioni (che non
costituiscono specifico oggetto del presente contributo).
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SAGGI ED APPROFONDIMENTI
MARCO CIAN (*)
Professore nell’Università di Padova
REGISTRO DELLE IMPRESE ED ALTRI STRUMENTI
PUBBLICITARI (1)
SOMMARIO: 1. Il registro delle imprese, gli altri registri pubblici, le “nuove” piattaforme
informative per l’impresa. – 2. La pubblicità nel sito internet societario. La diffusione
intermediata delle informazioni finanziarie regolamentate. – 3. La circolazione delle
quote di s.r.l. innovativa: documentazione e informazione mediante annotazione nei
registri degli intermediari. – 4. Considerazioni conclusive: modernizzazione, privatizzazione e semplificazione delle piattaforme informative.
1. Il registro delle imprese, gli altri registri pubblici, le “nuove” piattaforme informative per l’impresa.
Il tema dei rapporti tra il registro delle imprese e gli altri strumenti
pubblicitari si presta ad essere declinato su una pluralità di piani, tra loro
anche molto distanti e portatori di interrogativi assai eterogenei. Almeno
due di questi piani sembrano assumere una rilevanza particolare.
Un modo di accostarsi all’argomento da una prospettiva per cosı̀ dire
classica sarebbe quello di porre a confronto il registro delle imprese con le
altre piattaforme documentali amministrative: in primis i registri immobiliari e gli archivi (essi pure con una loro valenza informativa) dell’Ufficio
italiano brevetti e marchi. Un confronto senz’altro assai producente sotto il
profilo delle (diverse) modalità di raccolta, di conservazione e di disponibilità del materiale censito, della non omogenea efficacia delle iscrizioni e
trascrizioni, della varia efficienza degli strumenti.
In questa prospettiva si potrebbero mettere a fuoco anche le interferenze tra le piattaforme, quanto ad esempio ai conflitti tra più acquirenti,
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di alcuni riferimenti bibliografici essenziali, il
testo della relazione presentata al convegno “I 20 anni del Registro delle imprese”, svoltosi a
Piacenza il 20-21 maggio 2016.
NLCC 4/2016
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interferenze che si verificano specie (ma non solo) nei casi di trasferimento
di un’azienda comprendente beni immobili o diritti IP.
Un più moderno modo di guardare ai rapporti tra registro delle imprese e altri strumenti documentali-pubblicitari è però suggerito da alcune
recenti novità del diritto societario. Da un lato, l’attuazione della dir.
2009/109/CE ha prodotto un, sia pur molto parziale e molto circoscritto,
avvicendamento tra registro delle imprese e sito internet della società, a
proposito della pubblicazione del progetto di fusione o scissione (art. 2501
ter, comma 3˚, c.c.) (2), con obiettivi dichiarati di contenimento dei costi
per le società e nella parimenti dichiarata convinzione che la funzione
informativa propria del registro possa venire (qui) assolta con analoga
adeguatezza anche dal portale gestito direttamente dalla società. Dall’altro
lato, il potenziamento, con il d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, degli strumenti
giuridico-finanziari di diritto speciale a disposizione delle PMI e delle
start-up innovative a responsabilità limitata ha determinato l’innesto di
un terzo meccanismo di circolazione delle quote, accanto a quello tradizionalissimo della negoziazione mediata dal notaio e a quello, più recente
ma non meno tradizionale per l’aspetto che qui interessa, della negoziazione digitale veicolata dal professionista; un terzo meccanismo che supera
il deposito e l’iscrizione nel registro delle imprese, sostituendoli con un’annotazione del trasferimento nei registri tenuti dall’intermediario abilitato
(art. 100 ter comma 2˚ bis t.u.f.).
Una prospettiva moderna, dunque, non in senso valoriale (con l’idea
che quella classica esprima un metodo di ricerca obsoleto o comunque
risaputo), ma soltanto per ragioni cronologiche.
E anche una prospettiva dalla quale ci si accosta al tema fatalmente
con assai modesta sistematicità. Si tratta in effetti di interventi del tutto
settoriali, privi di qualsivoglia organicità ed unità di intenti; anche non
ascrivibili, direi, ad una tendenza più diffusa o movimento verso la semplificazione degli oneri pubblicitari per le società, dei quali invero non
parrebbe esservi traccia, sebbene una spinta contenitiva dei costi amministrativi, a beneficio delle imprese, risulti senza dubbio su altri versanti
registrabili (basta pensare alle novelle incidenti sulla costituzione delle
società a responsabilità limitata in genere e, recentissimamente, proprio
delle start-up innovative).
(2) Sul punto, in generale, v. M. PANDIMIGLIO, Le nuove modifiche al codice civile in
materia di operazioni straordinarie tra imprese: la riduzione degli obblighi di informazione in
caso di fusioni e scissioni societarie, in questa Rivista, 2013, p. 149 ss., part. p. 153 ss., ove
ulteriori riferimenti.
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Oltretutto, i due interventi normativi operano, nell’incidere sulla portata documentale del registro delle imprese, da due fronti diversi. La
disposizione contenuta nell’art. 2501 ter c.c. mantiene la funzione informativa della pubblicità, come si è sottolineato, rendendo equipollente al
registro il sito internet societario; opera dunque una vera e propria sostituzione della piattaforma documentale, in vista della realizzazione dei
medesimi obiettivi. L’art. 100 ter t.u.f. interviene viceversa a monte dell’iscrizione, consentendo alle vicende circolatorie di perfezionarsi anche nei
confronti della società mercé flussi di informazioni non transitanti dal
registro, congelando in esso un’iscrizione a nome dell’intermediario; e
poiché i registri di quest’ultimo non sono uno strumento pubblicitario
(qualcosa si dovrà poi dire al riguardo), la norma agisce sulla stessa funzione della documentazione.
Ancorché di portata limitatissima, ancorché del tutto disorganiche,
queste recenti vicende suscitano un qualche interesse e rappresentano
(la prima in particolare) una frontiera nuova della pubblicità d’impresa.
Ad esse pare dunque utile dedicare alcune considerazioni. Vi è coinvolta,
in effetti, una riconsiderazione delle stesse funzioni primarie di tale pubblicità e del registro, una riconsiderazione che per certi aspetti parrebbe
non essere neppure del tutto consapevole (è il caso della novella concernente la circolazione delle quote), e ciononostante indiscutibilmente implicata nell’arretramento della forma documentale tipica a favore di quella
più moderna, e che per altri aspetti (è il caso della pubblicità nelle operazioni straordinarie) è sicuramente cosciente e voluta, ma probabilmente
non colta sino in fondo, quantomeno da parte del legislatore italiano, nei
suoi precipitati e nelle sue potenzialità.
2. La pubblicità nel sito internet societario. La diffusione intermediata
delle informazioni finanziarie regolamentate.
Il ricorso allo strumento informatico per lo scambio di dati e dichiarazioni e la veicolazione dei medesimi attraverso la rete internet sono
fenomeni in crescita nel sistema giuridico interno: in parte prevista su
iniziativa del legislatore nazionale, come è per le notizie che le s.r.l. semplificate debbono divulgare nel proprio sito web (art. 2463 bis c.c.), ammesso che lo possiedano, la canalizzazione di informazioni per via telematica è in parte maggiore il portato delle direttive comunitarie che hanno
recentemente investito le società quotate e le società per azioni in genere.
Alla citata dir. 2009/109/CE si affianca, di poco precedente, la SHRD,
dalla quale, come si sa, sono scaturite le nuove modalità di convocazione
delle assemblee nelle s.p.a. quotate e l’articolato complesso di disposizioni
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interessanti l’intero spettro delle informazioni pre- e post-assembleari indirizzate ai soci.
È solo la prima, tuttavia, che investe il registro delle imprese. Anche
altre disposizioni fanno transitare documenti e notizie via web (nella stessa
disciplina delle operazioni straordinarie, art. 2501 septies c.c., e recentemente anche a proposito del diritto di opzione nell’aumento di capitale,
art. 2441 c.c.), ma in alternativa al deposito presso la sede sociale, non
all’iscrizione.
Il fenomeno appare importante perché, al di là della assoluta settorialità dell’intervento in questa sua prima manifestazione (una settorialità di
secondo grado, nel senso che esso riguarda non solo specifiche operazioni
societarie, ma anche, all’interno di queste, esclusivamente uno dei momenti del relativo procedimento), l’impostazione politico-legislativa è suscettibile di una estensione sostanzialmente ad libitum.
Il tema è affrontato dal punto di vista della competitività della piattaforma telematica rispetto al registro delle imprese: una competitività estrema, inutile negarlo, in termini di costi, cui si accompagna il riconoscimento
di una pari idoneità a raggiungere i destinatari delle informazioni. Al
punto che, nel 2˚ considerando, il legislatore comunitario definisce gli
obblighi informativi pregressi, investiti dal provvedimento, pur senza fare
esplicito riferimento alla pubblicazione nel registro, come “superati o eccessivi”.
Al di là delle dichiarazioni di principio, è certamente significativo che
lo snellimento di questi obblighi venga limitato alla prima fase del procedimento e che dunque non coinvolga né il momento deliberativo, né
quello stipulativo, il che d’altra parte si spiega anche per ragioni di geometria del sistema, la fase progettuale essendo la sola specifica delle operazioni di fusione e scissione e quindi la sola su cui si poteva agire senza
intaccare l’architettura complessiva dei principi che presiedono alla pubblicità delle modifiche statutarie in generale.
Resta ad ogni modo evidente la vis expansiva della valutazione di
competitività tra il registro e il web ed è proprio tale valutazione a richiedere una più attenta considerazione.
Il registro delle imprese è una piattaforma documentale pubblica,
accessibile a chiunque vi abbia interesse, che, per le modalità e il carattere
amministrativo della sua gestione, garantisce l’integrità dei dati iscritti o
depositati, la certezza della data di iscrizione/deposito, la continuità dell’accesso, la conformità e completezza dei dati medesimi (per effetto del
controllo di regolarità formale cui procede l’ufficio).
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Di tutto questo cosciente, il legislatore comunitario fissa alcuni parametri il cui rispetto è stabilito come necessario al fine di assicurare in fatto
la sopra citata equipollenza al registro del sito web: le modalità di amministrazione di quest’ultimo dovendo garantire la sicurezza del sito e l’autenticità dei documenti (art. 2; e cfr. anche il 4˚ considerando); il legislatore
italiano vi aggiunge la certezza della data di pubblicazione (art. 2501 ter,
comma 3˚, c.c.).
È solo in apparenza tuttavia che queste statuizioni di principio determinano una sovrapponibilità dei due strumenti informativi sul piano funzionale.
È, prima di tutto, la stessa accessibilità all’informazione a venire in
discussione.
Non c’è dubbio che le potenzialità di irraggiamento dei dati, da parte
di una pagina web, siano illimitate; molte differenze però si profilano o
possono profilarsi rispetto alla piattaforma pubblica (tanto più se informatizzata, come è ora il registro).
Tralasciando qui taluni aspetti tecnici (3), centrale appare il fatto che,
mentre il registro delle imprese è una piattaforma ufficiale e unica, il sito
internet manca di queste caratteristiche.
La norma italiana non si avvale di tutte le opzioni offerte dalla direttiva
(la quale contempla l’ipotesi della pubblicazione anche in siti diversi da
quello societario, quali le pagine delle associazioni di categoria o delle
camere di commercio o altri siti dedicati: v. il quarto “considerando”) e
si indirizza esclusivamente verso il primo. Sennonché il legislatore dà per
scontato che l’indirizzo web della società sia di dominio pubblico e immediatamente conoscibile da chiunque vi abbia interesse. Il che, in assenza di
iscrizioni del medesimo nel registro delle imprese (!), non è.
La circostanza appare suscettibile di minare fin nel profondo la funzione
primaria della pubblicità, scaricando sul destinatario dell’informazione l’onere di ricercare la sede in cui essa è collocata. Sotto questo profilo la via
italiana si rivela assai meno accurata di quelle sperimentate altrove in Europa. Tolti i Paesi in cui il registro parrebbe non avere perduto posizioni
(cosı̀ la Germania (4), o il Portogallo (5)), alcuni ordinamenti hanno optato
(3) Come la perimetrabilità dei destinatari, qualora le informazioni venissero pubblicate
in un’area riservata del sito: possibilità implicitamente esclusa dalla direttiva (la pubblicazione deve avvenire “senza costi per il pubblico”: art. 2), ma non dall’art. 2501 ter c.c.,
ancorché non sia dubbio che la norma nazionale debba essere interpretata in conformità con
quella comunitaria e in coerenza con gli obiettivi dell’upload, non limitati all’erogazione di
dati ai soli soci.
(4) § 61 UmwG.
(5) Art. 100 código das sociedades comerciais.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
per l’introduzione di strumenti di ufficializzazione, per cosı̀ dire, dell’indirizzo web. La legge spagnola, da sempre (con la relatività che questa espressione ha rispetto alle innovazioni tecnologiche) sensibile alle esigenze di
assicurare l’effettività della pubblicità telematica (v. in generale quanto stabilito nell’art. 11 bis ley de sociedades de capital) (6), dispone che il fatto
dell’inserzione nella pagina web vada reso noto nel Boletı´n oficial del Registro Mercantil, con indicazione dell’indirizzo di reperimento (art. 32 ley n. 3/
09); e cosı̀ il code des sociétés belga, il progetto dovendo essere almeno
menzionato negli Annexes du Moniteur belge con un collegamento ipertestuale (art. 693); e le European Communities (Mergers and Divisions of
Companies) Regulations irlandesi, che impongono di dare notizia della pubblicazione nel proprio sito mediante avviso inserito nella Companies Registration Office Gazette e in due quotidiani (Reg. 11, par. 3); e il sistema
inglese, che impone agli amministratori di dare al registrar notizia del sito e a
questo di pubblicare la notizia nella Gazette (Sec. 906A). Altri sistemi optano invece per la pubblicazione telematica del progetto in una piattaforma
comunque ufficiale e dunque di sicura riconoscibilità (cosı̀ l’Austria, § 221a
AktG, in cui la piattaforma è l’Ediktsdatei previsto dal § 89j GOG = Gerichtsorganisationsgesetz) o per un sistema ibrido (come la Romania, se ben
si comprende, in cui, in luogo della pubblicazione nel Monitorul Oficial, la
società può provvedere via web, con il che però deve darne comunicazione
al registro, il quale pure provvede a pubblicare il progetto stesso nel proprio
sito: art. 242 legea n. 31/90).
L’art. 2501 ter c.c. italiano si rivela sotto questo essenziale profilo
insufficiente. Non basta la reperibilità attraverso i motori di ricerca a
garantire una accessibilità di pari livello a quella assicurata dal registro
delle imprese, sicché l’equipollenza sul piano funzionale, a dispetto di
qualsiasi dichiarazione di principio, non è effettiva.
Altre caratteristiche interne all’architettura della piattaforma documentale rendono poi comunque meno immediato il reperimento delle informazioni. È singolare che il legislatore nazionale (come per la verità anche quello
comunitario) si curi della autenticità ed integrità dei dati, ma non della loro
rinvenibilità. Il registro delle imprese è un sistema documentale strutturalmente ordinato: le informazioni sono collocate in una sede ben precisa e
standardizzata e per questo agevolmente raggiungibili. Cosı̀ non è per il sito
web societario, la reperibilità delle medesime all’interno del quale è rimessa
(6) Sul tema M. CIAN, Informazione societaria e nuove tecnologie: la pagina web delle sociedades de capital in Spagna (R.D.L. 9/2012 del 16 marzo), in Riv. società, 2012, p.
1028 ss.
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alle scelte di trasparenza della singola società; anche qui, i motori di ricerca
possono aiutare, ma non sopperire integralmente alla mancanza di preconoscibilità della specifica sede di pubblicazione.
Qualche considerazione merita anche l’equiparabilità tra i due strumenti pubblicitari sotto il profilo temporale. A questo proposito la direttiva avverte la differenza ontologica tra l’iscrizione nei registri pubblici e il
caricamento online nel sito privato e agisce dall’un lato imponendo alla
società di lasciare la documentazione accessibile per un periodo continuativo antecedente l’assemblea e consentendo dall’altro ai singoli Paesi di
prescrivere il mantenimento della medesima documentazione anche per un
periodo successivo alla stessa assemblea (art. 2). Con nuovamente eccessiva disinvoltura, il recepimento in Italia si è tradotto nella semplice e fallace
equiparazione tra iscrizione e upload, che debbono avvenire con almeno
trenta giorni di anticipo rispetto alla data stabilita per la decisione dei soci
sulla fusione, senza considerazione del fatto che, mentre un dato iscritto è
iscritto per sempre, un dato caricato può venire rimosso immediatamente
dopo. Se si vuole dir cosı̀, mentre l’iscrizione è un fatto irreversibile (non
in sé, naturalmente, bensı̀ per come la gestione del registro è impostata),
l’upload è un fatto anche immediatamente reversibile.
Di nuovo i legislatori nazionali d’oltreconfine mostrano maggior cura:
il mantenimento della documentazione è testualmente imposto dall’ordinamento spagnolo (art. 32 ley n. 3/09), da quello francese (art. R 236-2-1
c. comm.), inglese (Sec. 906A), romeno (art. 242 legea n. 31/90), irlandese
(Reg. 11 Merger and Divisions of Companies Regulations), per citarne
alcuni, per tutto il periodo che precede l’assemblea; e in qualche caso ci
si è avvalsi della facoltà accordata dalla direttiva (la Spagna lega la conservazione posteriore del documento al decorso del termine per l’opposizione dei creditori; l’Irlanda allunga il periodo di pubblicazione di un mese
oltre l’assemblea).
Non c’è dubbio che, quanto al periodo antecedente la deliberazione, il
progetto debba restare accessibile online anche per diritto italiano, nuovamente per ragioni di interpretazione della norma interna in conformità
alla disposizione comunitaria e per coerenza con le finalità della pubblicazione. Il punto più delicato riguarda la conservazione posteriore, indeducibile dal sistema in assenza di una norma ad hoc; il possibile vulnus all’interesse alla conoscenza successiva (specie dei creditori, il termine di
reazione dei quali è successivo alla decisione assembleare) è peraltro comunque evitato attraverso il recupero della pubblicazione del progetto nel
registro, quale allegato alla delibera dei soci, ex art. 2502 bis c.c. Resta
valida tuttavia la constatazione di ordine generale: le modalità di tenuta
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della documentazione prescritte dalla legge a riguardo della piattaforma
rappresentata dal sito internet della società non garantiscono la durevolezza dell’informazione, a differenza del registro delle imprese, tanto è vero
che solo il ricorso sia pure posticipato a quest’ultimo riesce ad assicurare la
piena soddisfazione delle aspettative di informazione diffuse nel mercato.
Si palesano in sintesi dubbi non trascurabili a proposito della predicata
equipollenza tra i due strumenti, sul piano della reperibilità della fonte, poi
della reperibilità dei dati all’interno di essa, e infine dello spazio temporale
di disponibilità dei medesimi.
Altre questioni attengono all’affidabilità tecnica della piattaforma.
Neppure il registro delle imprese, va da sé, è esente da rischi di malfunzionamento o di inoperatività; ma sono il carattere amministrativo della
gestione e la posizione di terzietà rispetto alle parti coinvolte a garantirne
l’affidabilità delle procedure. Quanto ai siti web societari, i legislatori
tentano il recupero di questa garanzia mercé l’enunciazione dei principi
sopra menzionati, a riguardo dell’autenticità e integrità dei documenti e
della certezza dei tempi di pubblicazione. Ma è l’affidamento alla gestione
privata, cui si unisce l’assenza di regole tecniche di attuazione di tali
principi, a rendere l’applicazione degli stessi tutt’altro che sicura. Non
c’è dubbio che la società possa essere chiamata a rispondere delle eventuali
disfunzioni imputabili alla mancata implementazione di standard tecnicoinformatici adeguati (con onere della prova a suo carico, oltretutto, in caso
di contestazioni); e non c’è neppure dubbio che simili disfunzioni possono
compromettere anche e prima di tutto la validità (per quanto poi la si
possa far valere, peraltro) della delibera successiva; il fatto è però che,
mentre la pubblicazione nel registro è, se cosı̀ vuol dirsi, strumento di
prevenzione, i rimedi risarcitori e demolitori sono strumenti di reazione (7).
(7) Per tacere del fatto che, sotto il profilo tecnico, una criticità ulteriore della legge
interna è dovuta all’avere lasciato del tutto indefiniti i parametri di rilevanza della disfunzione, nonostante quanto prospettava la direttiva comunitaria (“gli Stati membri possono
stabilire le conseguenze dell’interruzione temporanea dell’accesso al sito web…”, art. 2), e a
differenza di quanto altri ordinamenti, più accortamente, hanno stabilito: la Francia (art. R
236-2-1 c. comm.: “Lorsque le site internet n’est plus accessible pendant une période
ininterrompue d’au moins vingt-quatre heures, le projet de fusion ou de scission fait objet
d’un avis publié, sans délai, selon les modalités de l’article R 236-2”, ossia nel Bulletin officiel
des annonces civiles et commerciales), l’Irlanda (Reg. 11, par. 3 Mergers and Divisions of
Companies Regulations: “Where… access to the company’s website is disrupted for a
continuous period of at least 24 hours or for separate periods totalling not less than 72
hours, the period referred to in paragraph (3)(a) shall be extended for a period corresponding to the period or periods of disruption”); la Spagna (con la disposizione generale
contenuta nell’art. 11 ter ley de sociedades de capital).
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Il confronto tra le due piattaforme, a livello nazionale, lascia in definitiva emergere un significativo gap potenziale di funzionalità della pubblicazione via web rispetto a quella amministrativa, che induce a ritenere
implicata nell’intervento riformatore una revisione al ribasso delle esigenze
di informazione precedentemente soddisfatte.
Resta inteso che la rete è un poderoso veicolo di notizie e che la
rinuncia ad essa, in nome di una maggiore affidabilità del sistema documentale, rappresenterebbe una soluzione inefficiente e perdente. Occorre
tuttavia individuare un più adeguato equilibrio tra le opposte istanze.
Allargando gli orizzonti dell’inchiesta, un buon terreno di confronto è
dato dalla pubblicità delle informazioni rilevanti concernenti le società
quotate (le “informazioni regolamentate” di cui all’art. 113 ter t.u.f.).
Qui si esce, chiaramente, dal campo della comparazione diretta tra registro
e altri strumenti informativi, non ponendosi nella legislazione di settore un
problema di arretramento del primo rispetto ai secondi (e per quanto una
qualche contaminazione tra piattaforme, coinvolgente pure il registro, non
sia assente, come ad esempio nella pubblicità dei patti parasociali); si
profila tuttavia un’interessante opportunità di verificare verso quali canali
la legge si sia indirizzata, in un contesto in cui è primaria l’esigenza di
raggiungere il plafond più ampio possibile di destinatari e di garantire al
contempo l’effettività e l’adeguatezza della circolazione dei dati. E su
questo terreno, se si tralasciano i canali informativi classici, ma ancora
apprezzati (come la stampa quotidiana, cui la stessa legge non rinuncia
neppure quando comunque valorizza il sito web societario come principale
veicolo delle notizie: cosı̀ ad esempio nella convocazione delle società
quotate, ex art. 125 bis t.u.f.; e per le informazioni regolamentate v. proprio l’art. 113 ter citato, al comma 3˚), si rivela di sicuro stimolo il ricorso a
piattaforme per cosı̀ dire intermediate e amministrate professionalmente,
quali sono i sistemi di canalizzazione delle informazioni, previsti e disciplinati nel reg. Consob emittenti (SDIR: vedine l’articolata disciplina negli
artt. 65 quinquies e 116 quinquies ss.). Qui l’equipollenza rispetto al registro raggiunge sicuramente un livello maggiore: questi canali sono identificabili come tali, hanno una struttura documentale uniforme e una gestione che dovrebbe assicurare un sufficiente grado di adeguatezza tecnica
e di terzietà. Superando cosı̀ le scabrosità che, nel far fluire le informazioni, i siti societari, per come sono attualmente congegnati nell’ordinamento
italiano, possono per converso presentare.
Il doppio confronto suggerisce dunque una valutazione complessiva di
questo tenore: l’attitudine informativa dei canali telematici in genere è
fuori discussione (se ne avvale lo stesso registro delle imprese!); la sosti-
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
tuzione del registro medesimo, senza abdicazione alle funzioni proprie
della pubblicità d’impresa, è possibile, ricorrendo a piattaforme comunque
ufficiali in quanto mediate professionalmente, ancorché gestite privatamente; l’affidamento ad una pubblicità transitante esclusivamente dal sito
internet della società, in assenza di regole tecniche sulla sua conformazione
e modalità di amministrazione, comporta viceversa un affievolimento del
grado di certezza giuridica nell’assolvimento della funzione informativa,
sebbene in fatto l’attitudine comunicativa possa risultare comunque in
buona parte dei casi equivalente.
3. La circolazione delle quote di s.r.l. innovativa: documentazione e
informazione mediante annotazione nei registri degli intermediari.
Il secondo intervento riformatore qui di rilievo, che ha investito il
registro delle imprese negli anni recenti, è quello relativo alla circolazione
delle quote di società a responsabilità limitata.
Rispetto ad esse, tuttavia, non entra in gioco (o non entra in gioco
soltanto) la funzione pubblicitaria del registro; si agisce in effetti prima di
tutto sulla funzione di repertoriazione dei documenti, dallo stesso assolta.
Le quote di s.r.l. soggette al regime dell’art. 100 ter t.u.f. circolano
mediante annotazioni nei registri interni dell’intermediario, senza transitare per il registro delle imprese, dove figura una volta per tutte il nome
dell’intermediario medesimo quale socio per conto di terzi, secondo la
formula (peraltro sibillina: titolare della quota, giuridicamente, è l’intermediario o il socio sottostante?) del comma 2˚ bis, lett. b.
Ancorché sia stato sostenuto che i libri dell’intermediario debbono
restare accessibili a chi, interessato, ne faccia richiesta (8), è chiaro che il
cambio nella forma di documentazione è decisivo se si guarda alla funzione di trasparenza assolta dall’iscrizione nel registro delle imprese. Se l’attuale meccanismo di circolazione venne introdotto nel 1993 con finalità
pubbliche di disclosure nella movimentazione (delle aziende e) delle partecipazioni e con l’obiettivo di chiudere possibili canali di alimentazione
alla finanza illecita, e se le modalità circolatorie successivamente previste
nel 2008 (con la cessione per atto digitale veicolata dal professionista
abilitato), pur sopprimendo la necessità del filtro notarile, lasciarono inalterato l’obbligo pubblicitario poiché l’esito della vicenda traslativa rima-
(8) N. DE LUCA, Crowdfunding e quote “dematerializzate” di s.r.l.? Prime considerazioni, in questa Rivista, 2016, p. 5.
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neva il deposito presso il registro delle imprese, la terza via introdotta nel
2015 ha determinato un evidente arretramento, rispetto a quelle finalità.
È pur vero che la novella è destinata ad inserirsi in un contesto di
partecipazioni finanziarie concepite come paraazionarie in quanto esprimenti l’interazione della s.r.l. innovativa con il mercato dei capitali (e costruibili
anche giuridicamente come paraazionarie, se si pensa alla dosabilità dei
diritti loro attribuibili, in forte antitesi con gli schemi partecipativi ordinariamente propri delle società a responsabilità limitata); ma rimane il fatto
che il ripensamento delle logiche sottese alle formalità imposte dall’art. 2470
c.c. è un portato indiscutibile dell’intervento normativo.
Non è però su questo piano che merita declinare il confronto tra le
due piattaforme documentali. Il registro delle imprese è infatti nell’attuale
sistema anche strumento di risoluzione dei conflitti tra acquirenti ed è
perciò a riguardo della sicurezza della circolazione che mette conto comparare le due tecniche documentali.
Nello sciogliere il conflitto, la valenza comunicativa del registro delle
imprese esprime proprietà informative di livello, se cosı̀ si può dire, superiore rispetto a quelle genericamente pubblicitarie che gli sono di regola
caratteristiche. La protezione dell’acquirente primo iscrivente può ben
dirsi infatti giustificata dalla circostanza dell’essere la relazione documentale instaurata dall’iscrizione a nome del dante causa una relazione esclusiva (cioè irriproducibile contemporaneamente rispetto a qualsivoglia altro
individuo) in cui si proietta l’apparente situazione di titolarità della quota
in capo al primo. Sebbene la legge non si spinga sino a dotare l’iscrizione
di una efficacia pari alla documentazione propria delle partecipazioni
azionarie, cioè di una efficacia cartolare piena (che anzi il divieto delle
s.r.l. di emettere azioni proprio in questo consiste), appare più che plausibile affermare che l’art. 2470, comma 3˚, c.c. poggia su una logica di
tutela dell’affidamento pubblicitario (per quanto l’inquadramento della
disposizione risulti, come si sa, tutt’altro che agevole (9)).
È su questo piano che vale la pena verificare cosa accada alla circolazione della quota intermediata ex art. 100 ter t.u.f.
È opportuno premettere che qui il confronto si pone sempre tra strumenti pubblicitari, anche se i registri dell’intermediario non sono tali in
senso pieno (e ciò a prescindere dalla fondatezza della tesi sopra ricordata,
che li vuole accessibili a chi vi abbia interesse); resta invero comunque un
(9) In argomento, per tutti, DE STASIO, Trasferimento della partecipazione nella s.r.l. e
conflitto tra acquirenti, Milano, 2008, p. 155 ss.
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confronto tra strumenti di documentazione atta ad informare, perché la
medesima informazione che l’acquirente primo iscrivente raccoglie dal registro delle imprese è raccolta dall’acquirente che si vede annotato il proprio
acquisto nei libri dell’intermediario (e che dunque in essi è il primo annotato, ed altri non potranno esservene, l’unicità dell’annotazione essendo
garantita dalla gestione professionale e terza dei libri da parte dell’intermediario stesso). L’affidamento si colloca qui certamente a valle e non a monte
dell’atto di documentazione, ma il risultato informativo non cambia.
Occorre allora chiedersi se la circolazione della quota mediata ex art.
100 ter sia presidiata dallo stesso principio di tutela, di cui all’art. 2470,
comma 3˚, c.c., oppur no.
Sotto il profilo testuale, desta interesse il fatto che la novella richiami il
secondo comma di questo articolo (l’annotazione nei registri dell’intermediario e il rilascio della successiva certificazione all’acquirente, per l’esercizio dei diritti sociali, assolve alla funzione ordinariamente svolta dal
deposito nel registro delle imprese: ne “esaurisce le formalità”, art. 100
ter, comma 2˚ bis, lett. c), ma non il terzo.
Il che potrebbe indurre a chiudere la questione affermando la minor
protezione degli acquisti nella circolazione intermediata. Un esito da un
lato astrattamente coerente con il minor rigorismo formale di questa modalità di movimentazione delle quote; dall’altro tuttavia anche poco coerente con la logica e la funzione stesse di queste quote, primariamente
destinate ad intercettare il mercato degli investimenti, tanto da sollecitare
una più attenta valutazione della possibilità di applicare comunque in via
analogica l’art. 2470, comma 3˚, c.c.
È in quest’ottica, per la verità, che una ricostruzione del sistema più
sensibile a tale vocazione delle quote intermediate potrebbe portare anche
più lontano. Già ad una considerazione sommaria, il modello documentale
delineato nell’art. 100 ter t.u.f. appare infatti assai simile a quello su cui si
basa la circolazione degli strumenti finanziari dematerializzati immessi nei
sistemi di gestione accentrata, di cui agli artt. 83 bis ss. t.u.f., e i meccanismi di annotazione propri del primo molto vicini alle operazioni di giro
tipiche del secondo. Plausibile allora un’applicazione analogica non già
dell’art. 2470, comma 3˚, c.c., ma dell’art. 83 quinquies t.u.f., con la più
ampia protezione dell’acquirente a non domino che questo assicura (10)?
(10) Cfr. per alcune osservazioni in argomento anche N. DE LUCA, Crowdfunding, cit.,
p. 8 s. Sia consentito il rinvio altresı̀ a M. CIAN, Società start-up innovative e PMI innovative,
in Giur. comm., 2015, I, p. 982 s.
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Se si guarda al problema dal punto di vista dell’attitudine informativa
del nuovo sistema di annotazioni dedicato alle quote e si confronta questa
con la piattaforma rappresentata dal registro delle imprese, da un lato, e
dalla rete contabile ospitante i titoli scritturali, dall’altro lato, la praticabilità di una simile soluzione interpretativa non sarebbe da escludere.
Si sa che le registrazioni nei conti dei sistemi di gestione accentrata
sono idonee a veicolare l’operatività dei principi cartolari (come riveduti e
corretti per adattarli all’ambiente scritturale, negli artt. 83 quinquies e 83
septies t.u.f.), proprio in quanto assolvono ad una funzione informativa
qualificata, in ispecie analoga a quella dell’incorporazione nei titoli cartacei. Sotto questo profilo, i registri degli intermediari di quote possono
essere riconosciuti, almeno in astratto, come parimenti idonei: si tratta
di piattaforme documentali gestite secondo regole di adeguatezza tecnica
e in posizione di terzietà da soggetti professionalmente qualificati e senz’altro responsabili per la tenuta dei conti. Essi offrirebbero, almeno potenzialmente, un livello di affidabilità informativa, in vista dell’applicazione
del principio di autonomia reale, pari a quello del registro delle imprese.
Se tuttavia a questo la legge non ha inteso accordare l’idoneità a
garantire se non una forma parziale di tutela dell’acquirente, non sembra
plausibile spingersi in via interpretativa sino ad accordarla ai libri degli
intermediari. Non c’è dubbio che le s.r.l. innovative siano s.r.l. sui generis e
con una possibile declinazione partecipativa assai vicina – lo si è già osservato – a quella delle società azionarie; ma la sovrapposizione non è
completa e la s.r.l. innovativa rimane una società a responsabilità limitata,
rispetto alla quale permane in vita il divieto di emissione di azioni, nell’accezione prima esplicitata. Il tema per la verità non può essere chiuso
cosı̀ perentoriamente e una zona d’ombra, in un quadro di cosı̀ forte
ibridazione normativa dei tipi, rimane, con la possibilità di immaginare
anche soluzioni di compromesso, ad esempio la confezionabilità di una
struttura partecipativa a doppio livello (11), il primo rappresentato da quote a regime ordinario (cioè in tutto e per tutto caratterizzate e conformate
alla stregua della disciplina codicistica) e il secondo dalle quote paraazionarie, standardizzabili, a diritto di voto amovibile, proponibili sul mercato
dei capitali e magari, appunto, a circolazione protetta.
Se però ci si mantiene su posizioni meno spinte, si perviene quanto al
regime dei trasferimenti a risultati nel complesso probabilmente più appa-
(11) Per un’elaborazione di questa ipotesi rinvio a M. CIAN, Le start-up innovative a
responsabilità limitata: partecipazioni, altri rapporti partecipativi e nuovi confini del tipo, in
questa Rivista, 2014, p. 1178 ss.
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ganti anche sul piano del confronto tecnico tra le piattaforme documentali.
Le regole e le cautele presidianti il sistema di scritturazione degli strumenti
finanziari dematerializzati sono senza dubbio di assai diversa incisività
rispetto a quelle, di fatto assenti, concernenti le annotazioni delle quote;
per meglio dire, il primo sistema è eteroregolamentato, il secondo è rimesso alle scelte tecniche di ciascun intermediario.
Le ragioni dei rigorosi presidi normativi, nella gestione accentrata,
sono evidentemente legate alle dimensioni della ricchezza finanziaria immessavi e proprio al ruolo che la documentazione assume nella fase circolatoria (oltre che in quella di esercizio dei diritti). Il che equivale a dire che,
nell’altro sistema, l’assenza di presidi è coerente (con una realtà finanziaria
di riferimento di minore significatività e) con l’attribuzione ai registri di
una funzione giuridicamente meno pregnante nella medesima fase della
circolazione. Da questo punto di vista, il confronto, anche con il modello
documentale rappresentato dal registro delle imprese, segna un punto a
favore di quest’ultimo: resta vera l’idoneità in astratto delle annotazioni di
quote a veicolare gli stessi principi di tutela degli acquisti resi operativi
dalle iscrizioni nel registro delle imprese, ma la comparazione tra i concreti
livelli di regolazione normativa può ben dirsi riflettere il diverso ruolo
ascritto alle due forme documentali nell’attivazione dei regimi circolatori.
La tesi della non applicazione della regola codificata nell’art. 2470, comma
3˚, c.c. riceve dunque su questo piano una conferma, ancorché non decisiva, di sicuro rilievo.
4. Considerazioni conclusive: modernizzazione, privatizzazione e semplificazione delle piattaforme informative.
Due interventi di microchirurgia normativa su punti tanto distanti tra
loro del corpus delle regole pubblicitarie non rappresentano – e lo si era
già avvertito – una tendenza, né assai verosimilmente la anticipano. Esprimono però la prospettiva da cui il sistema viene modernizzato: privatizzazione delle piattaforme (nella forma di primo livello, in cui l’affidamento al
privato avviene per mezzo di professionisti intermediari della comunicazione, e nella forma di secondo livello, in cui la diffusione è affidata allo
stesso soggetto a cui si riferisce il dato diffuso) e semplificazione si manifestano come le tonalità di fondo di un processo, per quanto frammentario
e disordinato, di valorizzazione delle nuove tecnologie e di implementazione delle strutture intermediate su cui è costruita la dimensione finanziaria dell’economia contemporanea.
Si tratta di direttrici in sé apprezzabili. Fino a che punto lungo le stesse
sia razionale spingersi riducendo gli spazi attualmente occupati dal registro
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pubblico delle imprese è un interrogativo probabilmente prematuro e che
in ogni caso non può trovare risposta in questa sede. Criticità non trascurabili emergono invece sin da oggi nella concreta declinazione di queste
linee guida: specie la comparazione, verso l’esterno con gli ordinamenti di
molti altri Paesi europei e verso l’interno con la conformazione data a
piattaforme spiccatamente moderne nella gestione dei flussi informativi
provenienti dagli emittenti quotati, evidenzia nei due interventi legislativi
esaminati la disattenzione verso molti tra gli interessi protetti dalla tradizionale pubblicità d’impresa e la carenza di adeguati vincoli normativi
diretti a garantirne il presidio.
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STEFANO PAGLIANTINI
Professore nell’Università di Siena
ANCORA SULLA “SAGA” DEI DERIVATI
(NOTE MINIME SUL PRINCIPIO DI EFFETTIVITÀ
E SUI C.D. VIZI DEL XXI SECOLO)
SOMMARIO: 1. I derivati, la causa concreta ed il “consumerizzarsi” della loro tutela. – 2. Sez.
un. n. 26724/2007 e la “via di fuga” di un contrattualizzarsi dell’informazione –
comportamento: in nota il paradosso su di un’omissione informativa causa di una
mancanza di volontà. Profili sostanziali e processuali. – 3. Derivati e “causa”: il binomio
alea unilaterale – alea irrazionale. – 4. Derivati ed annullabilità: l’illusione ottica di un
rimedio adeguato. – 5. Derivati e responsabilità “pericontrattuale”, continuando a
spigolare sui c.d. vizi del XXI secolo. In nota sul contratto squilibrato irrescindibile
penalmente rilevante sub specie di usura reale. – 6. Continuando a spigolare: i vizi del
XXI secolo come una superfetazione.
1. I derivati, la causa concreta ed il “consumerizzarsi” della loro tutela.
Per quale ragione, come già è capitato di scrivere (1), i contratti derivati sono divenuti uno dei terreni di elezione di quel giurisdizionalizzarsi
dei rimedi la cui denominazione corrente è affidata al sintagma “effettività
della tutela”, lemma motivo di acute critiche e di (ancor più persuasive)
adesioni (2)? Il tutto, lo si osserva di passata, al netto della querelle che
divide da ultimo gli interpreti in ordine alla circostanza che l’optimum del
principio di effettività, quale valore ermeneutico ordinante l’attuale sistema multilivello delle fonti (3), abbia pur sempre come orizzonte quello
della “fattispecie”, naturalmente intesa non come rilevante in sé ma per
il “valore” che il processo le fa esprimere (4), ovvero che l’effettività da
questa abbia invece ormai divorziato eleggendo a nuovo “dispositivo di
(1) PAGLIANTINI, I derivati tra meritevolezza dell’interesse ed effettività della tutela: quid
noctis?, in Eur. e dir. priv., 2015, p. 383 ss.
(2) V., rispettivamente, CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 196 (nt.
247) e VETTORI, Il contratto europeo tra regole e principi, Torino, 2015, p. 23.
(3) Per tutti PROTO PISANI, Il principio di effettività nel processo civile italiano, in Giusto
proc. civ., 2014, p. 825 ss.
(4) V., naturalmente sintetizzandone al massimo un ragionamento ben più denso,
NIVARRA, Rimedi: un nuovo ordine del discorso civilistico?, in Eur. e dir. priv., 2015, p.
583 s.
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tutela” la categoria del “rimedio” (5). Di là infatti dalla circostanza che, se
la differentia specifica tra le due opinioni non attiene al radicamento costituzionale del principio, da rinvenirsi per entrambe negli artt. 24 e 3,
comma 2˚, Cost., allora detta polemica diventa operativamente di metodo,
il fatto che i derivati, ecco il perché del quesito posto, rappresentino
l’emblema di una c.d. dottrina delle corti, valorizzante il concetto di operazione economica (6), non è seriamente contestabile. Testualmente l’abbinamento tra derivati e rimedialismo valoriale, sinonimo quest’ultimo di un
sentenziare visto come una «pura e nuda decisione, (…) fonda[ta soltanto]
in sé stessa» (7), già risuona infatti nella pagina di chi ha notato che la
causa in concreto, costrutto argomentativo amministrante giudizialmente
la nullità dei derivati OTC, è una nozione allo stato grezzo, selezionata
perché meglio descrive «il merito dell’accordo» (8): dunque, e pour cause,
un’entità contingente e non impersonale, nel senso di formale, che «si
esaurisce e [si] consuma» nella fattualità del singolo patto. Implicitamente
la bina poi torna tanto tra i critici di un’idea giusrealistica della causa in
concreto, perché da un utilizzo in chiave di applicazione normativa la si
sarebbe ormai annegata in un pragmatismo valoriale sospettato di sfilacciare il principio di legalità (9), quanto fra gli scettici sull’utilità sistemica di
intendere il regolamento contrattuale non più come la proiezione di una
fattispecie bensı̀ ed in sua vece come il prodotto di quella situazione
complessiva, di cui «il singolo contratto è diretta esplicazione o nel cui
(5) Secondo l’affascinante pagina che, nella sua rappresentazione più compiuta, si deve
a DI MAJO, Rimedi e dintorni, in Eur. e dir. priv., 2015, p. 703 ss.
(6) Per il collegamento del rischio finanziario col rapporto sottostante: v., amplius, DI
RAIMO, Categorie della crisi economica e crisi delle categorie civilistiche: il consenso e il
contratto nei mercati finanziari derivati, in Giust. civ., 2014, pp. 1103 - 1105 e E. GABRIELLI,
Operazione economica e teoria del contratto. Studi, Milano, 2013.
(7) Cosı̀ IRTI, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, p. 17, sull’assunto, non
incontrovertibile però, che il valore non qualifichi predicativamente in quanto «reagi[rebbe]» piuttosto all’operazione economica della quale il giudice è stato chiamato a dibattere.
V. infatti G. BENEDETTI, Fattispecie e altre figure di certezza, in Persona e mercato, 2015, p. 72
(«La fattispecie – come ne stiamo discutendo – non indica un contenuto ma una struttura,
uno schema logico, e si riduce a un concetto, se si vuole una categoria. Che, in quanto
tale, sta»).
(8) Cfr. IRTI, op. cit., p. 17.
(9) Pur se con un apparato argomentativo diverso, esprimono un sentire cosı̀ sintetizzabile ROPPO, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non compiacente, né reticente)
con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, spec. p. 957; NICOLUSSI,
Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale tra diritto privato e diritto
pubblico, in Eur. e dir. priv., 2014, p. 1191 ss. e GIROLAMI, L’artificio della causa contractus,
Padova, 2012.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
contesto lo stesso è destinato a interagire», nozione che non a caso chi l’ha
coniata reputa provvista di un «valore costitutivo» (10).
Già, se non fosse che, come già un acuto osservatore ebbe a notare
quando il tema dei derivati esplose (11), la causa concreta, nel recitativo
delle corti, scopertamente ha ben poco a che spartire colla ferriana funzione economico – individuale o col costrutto che ne fa la minima unità
effettuale del contratto in quanto sintesi oggettiva dei suoi effetti giuridici
essenziali, mostrandosi tutt’altro: segnatamente stando (o fungendo) questa da “dispositivo” col quale si vuole assecondare il bisogno di tutela
associato all’Entscheidungs – freiheit di un investitore inesperto, onde ovviare, per chi creda nella virtù euristica del “rimedio”, all’insufficienza di
un modello di tutela rinserrato nel circuito formale della fattispecie e dei
suoi effetti. I derivati perciò, riprendendo l’interrogativo iniziale, come
epifenomeno sintomatico di un rimedio che reagisce ad un vizio del regolamento oltrepassando cosı̀ una tutela di fattispecie, notoriamente gli obblighi informativi dell’intermediario possono infatti apparire “estrinseci” e
non “intrinseci” a quest’ultima (12), per una «forza normativa» del rimedio
medesimo (13)?
È una prospettiva, quella sunteggiata, tutt’altro che balzana specialmente per chi abbia contezza delle due premesse che scopertamente reggono, come la quasi totalità degli interpreti ormai riconosce (14), la materia:
un mercato finanziario che è altro dal paradigma utilitario di quel mercato
classico composto di atti di commercio (15), una finanza derivata i cui
complessi tecnicismi aziendali di ingegnerizzazione del rischio solo con
un alto tasso di problematicità può pensarsi di iscrivere nella tassonomia
concettuale classica del diritto civile (16). Una collazione degli usi terminologici più à la page, i derivati come contratti che non hanno un oggetto
(10) Stando alla prospettiva che ha cercato di accreditare elegantemente V. SCALISI, Il
diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 852 s. (c.vo nel
testo).
(11) V. VETTORI, Il contratto senza numeri e aggettivi. Oltre il consumatore e l’impresa
debole, in Contr. e impr., 2012, p. 1190 ss.
(12) In special modo V. SCALISI, op. cit., p. 853.
(13) L’incisiva formula è di D. MESSINETTI, La sistematica rimediale, in S. MAZZAMUTO (a
cura di), Le tutele contrattuali e il diritto europeo. Scritti per Adolfo di Majo, Napoli, 2012, p.
104 s.
(14) Tutti i riferimenti in MAFFEIS (a cura di), Swap tra banche e clienti, Milano, 2014.
(15) Cosı̀, in special modo, SPADA, voce Impresa, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez.
comm., VII, Torino, 1992, p. 43.
(16) V., in luogo di tanti, LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, p. 155 e
pure però la prospettiva meno tranchant di BUSNELLI, Quale futuro per le categorie del diritto
civile, in Riv. dir. civ., 2015, p. 5.
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fuori di sé (17), sinonimo di speculazione pura, trattandosi non di un investimento borsistico ma di un’operazione indifferente ad altre finalità «che
siano socialmente apprezzabili» (18), ed ancora contratti privi di una funzione sociale, naturalmente per chi identifichi causa e scambio di mercato,
in quanto il guadagno prodotto non concorre a formare il prezzo di
mercato delle utilità negoziate (19), queste ed altre formule consimili valgono, molto più di quanto farebbe un periodare analitico, a corroborare
l’impressione di un’anomalia del derivato OTC, per la verità già sub art. 21
t.u.f. qualificabile, ove sconveniente in sé, come un atto gestorio in conflitto di interessi quando sia negoziato in contropartita diretta (20). Cass. n.
3773/2009 (21), allorché dubita dell’esattezza del richiamo all’art. 1935
«per l’esistenza di dettagliate disposizioni normative [quanto all’attività
dell’intermediario]», implicitamente già assevera, di là poi dal rimedio
esperibile, detta qualificazione.
Forse però, se la vicenda dei derivati esprime un bisogno di tutela di
quei risparmiatori e di quegli enti pubblici che la Corte costituzionale
ellitticamente ha qualificato come dei contraenti deboli (22), c’è margine
per provare pure a notare qualcosa in più, fissandolo nell’immagine di un
giudiziale “consumerizzarsi” di questa fattispecie, per effetto di un suo
ancoraggio alla circostanza che anche i derivati mettono fuori gioco quell’Inhaltsfreiheit delle parti nella forma che essa riceve nell’art. 1322, comma
1˚, come cioè «libertà di decidere se stipulare o no il contratto a certe
condizioni, sulle quali l’altra parte conviene (23)». Già intuita per altro da
(17) Cosı̀ DI RAIMO, op. cit., p. 1130.
(18) V. DOLMETTA, Introduzione. Speculazione e prudenza, in MAFFEIS (a cura di), Swap
tra banche e clienti, cit., XXVI. Ma in termini consimili si muovevano già SPADA, Codice
civile e diritto commerciale, in Riv. dir. civ., 2013, p. 340 e FRANZONI, Il contratto nel mercato
globale, in Contr. e impr., 2013, p. 81.
(19) V., con ampia disamina critica, M. BARCELLONA, Diritto sistema senso. Lineamenti
di una teoria, Torino, 1996 e, più di recente, E. BARCELLONA, Ius monetarium. Diritto e
moneta alle origini della modernità, Bologna, 2013, p. 15 ss.
(20) Per tutti MAFFEIS, Il conflitto di interessi e la tutela degli investitori, in GITTI,
MAUGERI e NOTARI (a cura di), I contratti per l’impresa, II, Banca, mercati, società, Bologna,
2012, p. 228 e, ID., successivamente, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario e il contratto derivato over the counter come scommessa razionale, in MAFFEIS (a cura di), Swap tra
banche e clienti, cit., p. 3 ss.
(21) V. Cass. 17 febbraio 2009, n. 3773, in Banca, borsa e tit. cred., 2010, II, p. 707 ss.
(22) Corte cost. 18 febbraio 2010, n. 52, in Banca, borsa e tit. cred., 2011, II, p. 35 ss.
(23) Cosı̀, magistralmente, MENGONI, Problemi di integrazione della disciplina dei ‘contratti del consumatore’ nel sistema del codice civile, ora in CASTRONOVO, ALBANESE e NICOLUSSI (a cura di), Scritti II. Obbligazioni e negozio, Milano, 2011, p. 346.
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un’acuta dottrina (24), una lettura dei derivati come l’ennesima epifania
della summa divisio tra contratti negoziati e quelli predisposti, lungi dall’essere puramente descrittiva, potrebbe tornare utile perché li catapulta
d’emblée nella dimensione di una norma (violata) limitativa dell’autonomia
privata, evocando cosı̀ quel concetto di ordine pubblico che non si può
certo dire avulso dal disposto di un art. 21, comma 1˚, lett. a, t.u.f. ove il
comportamento dell’intermediario è pur sempre visto in funzione, se non
finalizzato, a garantire l’“integrità dei mercati”.
2. Sez. un. n. 26724/2007 e la “via di fuga” di un contrattualizzarsi
dell’informazione – comportamento: in nota il paradosso su di un’omissione
informativa causa di una mancanza di volontà. Profili sostanziali e processuali.
Sunteggiando al massimo il discorso, si può provare a renderlo cosı̀:
come l’opacità di una clausola economica, quando il contratto sia del tipo
B2C, può essere motivo di una vessatorietà di riflesso, in quanto il costo
del contratto non risulta affidabilmente misurabile dal consumatore, cosı̀
l’alea irrazionale, riflesso a sua volta del modo decettivo col quale il rischio
sia stato ingegnerizzato, fonda una qualificazione negativa del contratto
perché rivelatrice a monte di un “valore complessivo” del derivato incompreso dall’investitore. Trib. Torino 17 gennaio 2014 è inequivoco al riguardo: nulla quaestio sulla liceità di negoziare un’alea che per una parte
sia maggiore di quella ricadente sull’altra, ma detto squilibrio dev’essere il
risultato di «una libera scelta delle parti e non [la] conseguenza [di un’architettura del rischio contrattuale] soggettivamente ignota al contraente
debole in quanto unilateralmente predisposta dalla convenuta» (25). Come
dire, il derivato sconveniente, che l’intento sia poi di copertura o speculativo è indifferente, va trattato come un problema di in trasparenza economica della lex contractus, perché il rischio contrattualizzato non corrisponde alla copertura attesa dall’investitore, a tutela di un affidamento
vanificato dalla “sorpresa” per costui di trovarsi esposto ad un’alea maggiore di quella che aveva programmato di assumere. Con una differentia
specifica, naturalmente, la quale è però il riflesso dei diversi principi di
diritto che reggono la materia: nell’un caso l’art. 34, comma 2˚, c.cons., che
(24) L’allusione è a FERRO LUZZI, Attività e “prodotti” finanziari, in Riv. dir. civ., 2010, I,
p. 142.
(25) Consultabile in Contratti, 2014, p. 1012 ss. Le si possono accostare Trib. Milano
23 giugno 2014, n. 8332, in www.expartecreditoris.it ed App. Bologna 11 maggio 2014, in
www.dirittobancario.it.
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esclude testualmente l’immunità giudiziale per la clausola economica opaca, nell’altro il dictum reso dalle sezioni unite nel 2007 (26), un’informazione precontrattuale incompleta od erronea è causa di responsabilità per
l’intermediario infedele e non di una nullità virtuale del contratto. Art.
1418, comma 3˚, c.c., perché il fatto che la regola di buona fede oggettiva
abbia natura cogente non basta (27), vs. art. 1418, comma 1˚, c.c., com’è
notorio: epperò subordinatamente alla condizione, questo il punto, che
l’informazione sia declinata coi soli panni dogmatici di una regola di
comportamento. Gli è infatti, nonostante certe critiche taglienti mostrino
di trascurarlo (28), che le sez. un. n. 26724 del 2007 non hanno affatto
escluso che possa aversi la nullità di un contratto finanziario per un’informazione incompleta od inadeguata, sempre che detta informazione sia però
trasfusa nella struttura della fattispecie. Il che, non a caso, è esattamente
quanto fanno le corti quando statuiscono, con un recitativo ormai stereotipato, che «tutti gli elementi dell’alea e gli scenari che da essa derivano
costituiscono ed integrano la causa stessa del contratto» (29), modo certamente non inopinabile ma senz’altro esplicito nel riconnettere l’informazione alla funzione del derivato, quale scommessa legalmente autorizzata
se razionale. Cosı̀ del resto, sebbene si tratti scopertamente di un obiter, ha
fatto mostra di voler ragionare pure Cass. n. 9996/2014 (30).
Volendo, col fatto di contrattualizzare l’informazione, potrà sembrare
che le corti “aggirino” la distinzione tra regole di validità e di comportamento (31): e tuttavia, finanche cosı̀ fosse, è innegabile, detto senza tante
circonlocuzioni, che il problema di tutela sollevato dai derivati concerne,
in realtà, il tipo di vestimentum che si ritenga di dover dare all’informa-
(26) Per esteso Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Corr. giur., 2008, p.
230 ss.
(27) Per una diversa prospettiva v. G. PERLINGIERI, L’inesistenza della distinzione tra
regole di comportamento e di validità nel diritto italo – europeo, Napoli, 2013, p. 31 ss.
(28) Tra gli altri, diffusamente, PROSPERI, Violazione degli obblighi di informazione nei
servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass., sez. un., 19 dicembre 2007,
nn. 26724 e 26725), in Contr. e impr., 2008, p. 961 s. e MAFFEIS, Discipline preventive nei
servizi di investimento: le Sezioni Unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono
nere, in Contratti, 2008, p. 403 s., mentre un’equilibrata valutazione della sentenza si legge
in CASTRONOVO, Patologie contrattuali, invalidità e risarcimento, in BELLAVISTA e PLAIA (a
cura di), Le invalidità nel diritto privato, Milano, 2011, p. 45.
(29) Cosı̀ App. Milano 18 settembre 2013, n. 3459, in Banca, borsa e tit. cred., 2014, II,
p. 278 ss. con nota di A. TUCCI, Interest rate swap: “causa tipica” e “causa concreta”.
(30) V. Cass. 8 maggio 2014, n. 9996, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 1103 ss.
(31) In special modo PONTIROLI, Contratti derivati e scommessa: come l’uso incontrollato
di una metafora comprometta i rapporti tra diritto dei contratti e diritto dell’intermediazione
finanziaria, in Riv. dir. priv., 2015, p. 274.
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zione precontrattuale, se infeudata nel procedimento di Vertragsanbahnung causa soltanto di danni mentre, ove la si riporti nella fattispecie,
corazzabile dal più solido scudo di una delle nullità testuali iscritte nel
disposto dell’art. 1418, comma 2˚, c.c. D’altronde quel Collegio Arbitrale
milanese che, da ultimo, ha dedotto l’irriconoscibilità dell’alea dall’omessa
informazione sui modelli di pricing utilizzati dalla banca per determinare il
fair value, ha sı̀ preferito alla nozione di causa quella di oggetto, con una
nullità che per conseguenza si iscrive nel disposto dell’art. 1346 c.c. (32),
ma intuendo una cifra del ragionamento che si dà alquanto simile.
Risultato: ciò che, quando si faccia questione di derivati, dà la sensazione di una nullità tradotta in un rimedio extra ordinem contro un ingiusto profitto (od un vantaggio iniquo) attiene, in realtà, al modo spurio col
quale le corti manipolano contrattualmente l’obbligo di full disclosure dell’intermediario, assimilandolo non ad un requisito di forma – contenuto,
mimante quoad effectum una forma prescritta dalla legge ad substantiam, e
neanche riportandolo ad una qualità dell’accordo bensı̀ facendone un quid
che si interfaccia col concetto, da sempre basculante per altro tra struttura
e funzione, di causa (33).
(32) V. Coll. Arb. Milano 4 luglio 2013, in Banca, borsa e tit. cred., 2015, II, p. 220 ss.,
con osservazioni critiche di A. TUCCI, Contratti derivati: determinazione dell’alea e determinabilità dell’oggetto.
(33) Pur se, per una migliore intelligenza del discorso, gioverà riflettere un po’ più
sofisticamente sul problema del rapporto tra informazione ed invalidità del contratto. Ove
beninteso non se ne faccia una questione, come nel testo si cerca di evidenziare, di contrattualità dell’informazione precontrattuale. A commento delle sezioni unite del 2007,
un’autorevole dottrina evidenziava infatti come la «violazione di una regola di comportamento altera il processo di formazione, e quindi di conformazione, della regola negoziale. In
quest[o] cas[o] i suoi elementi ne sono alterati, e la sua invalidità è secondo i principi» (cosı̀
GENTILI, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in
Contratti, 2008, p. 393 ss.). Fin qui, nulla quaestio: il problema è innescato dal proseguo del
discorso, segnatamente dal passo in cui, sulla premessa che un comportamento illecito
omissivo impedisca il formarsi di un consenso libero e consapevole, si accredita la deduzione
che detta omissione inquini il contratto, nel senso che certifichi l’(in)«esistenza di un [suo]
requisito (l’accordo delle parti)» (c.vo aggiunto). Donde, per un’intrinseca coerenza del
ragionamento, la nullità del contratto medesimo. L’equivoco, perché tale come a presso
vedremo è, alberga già nella motivazione di Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it.,
2006, I, p. 1105 ss. Questa infatti, pur rigettando l’assunto di un’omessa informazione quale
causa di una mancanza di volontà, dalla quale poi originerebbe per l’appunto una nullità del
contratto, ebbe per vero modo di sentenziare che detta nullità non fosse configurabile
allorché la reticenza investiva, come accadeva nella fattispecie dedotta in giudizio, la convenienza dell’affare. Il che, ha ragione allora GENTILI, op. loc. citt., di fatto però avalla, se ed in
quanto la reticenza inerisca alla natura od all’oggetto del contratto, l’idea che un consenso
disinformato può, giust’appunto in virtù del suo oggetto, dischiudere un’ipotesi di nullità
per mancanza di volontà. È una deduzione, muovendo dalle premesse di Cass. n. 19024/
2005, che si ottiene semplicemente ragionando a contrario.
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Letti cosı̀, cioè come un momento di quel processo di contrattualizza-
Orbene, prendendo per buona detta premessa, sorge però istintiva una domanda: se
l’omissione od il raggiro inquinano il consenso secondo un costrutto che lo vede carente
piuttosto che alterato, non si avrà allora che la nullità finisce in realtà per assorbire tutte le
fattispecie di reticenza? Non si vede infatti, per poco che si rifletta, quale spazio dovrebbe
residuare per un’annullabilità se la premessa da cui si muove è che l’omissione di un’informazione dovuta, motivo per l’inverarsi di un consenso disinformato, rileva normativamente
quale “mancanza di volontà” della vittima e non da “vizio del consenso”. Il tutto, naturalmente, quale che poi sia la nullità che verrà a darsi: testuale ed assoluta (art. 1418, comma
2˚, per carenza cioè di un requisito strutturale del contratto), virtuale (art. 1418, comma 1˚) e
di protezione (quando il contratto sia asimmetrico). Il problema teorico, giova metterlo in
evidenza, non inerisce certo alla circostanza che possa ragionevolmente dibattersi sul se la
legge qualifichi come elemento essenziale del contratto un semplice accordo piuttosto che un
accordo informato (cosı̀ invece ROPPO e AFFERNI, Dai contratti finanziari al contratto in
genere: punti fermi della cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, in
Danno e resp., 2006, p. 25 ss.). È scritto infatti nei principi che un consenso disinformato
importi l’invalidità del contratto: gli è però che già la disciplina codicistica declina in termini
di annullabilità due ipotesi, l’errore essenziale ed il dolo determinante, ove l’unica volontà
esistente è apparente giacché il contratto stipulato non si può certo dire voluto. Nel contempo dovrebbe quanto meno riflettersi sul fatto che, a) opposta una riserva mentale, il
contratto è in realtà normativamente valido, quantunque una volontà singola faccia difetto, e
b) che l’errore ostativo è pur sempre declinato dal legislatore in termini di annullabilità (art.
1433). V. al riguardo, finemente, BELVEDERE, Quando il legislatore vuol fare il professore.
Appunti sull’art. 1325, in Studi in onore di Giovanni Iudica, Milano, 2014, p. 177. Replicare
in limine che la nullità (assoluta) per mancanza di accordo potrebbe ben essere di protezione
perché il sistema delle nullità codicistiche è da sempre duale (v. GENTILI, La “nullità di
protezione”, in Eur. e dir. priv., 2011, p. 77 ss.), non è che, per quanto qui interessa,
spariglierebbe il discorso. Pure a riconoscere infatti che la nullità codicistica ha una doppia
anima, sanzionatoria quanto alle comminatorie per contrarietà all’ordine pubblico ed al
buon costume (art. 1343) e protettiva, viceversa, per la classe delle nullità strutturali unilaterali (art. 1325), sempre invero dovrebbe farsi i conti con una nullità che, parcellizzando
sensibilmente il terreno dell’annullabilità, la relega va da sé in un canto.
Insomma, asserire che la vittima di un’omissione informativa, quando l’errore sia essenziale nel senso definito dall’art. 1429 c.c. (cosı̀ Cass. n. 19024/2005), è tutelabile perché
manca l’accordo, di fatto predica la nullità di una vis attractiva che azzera l’efficienza operativa dell’annullabilità quale forma di impugnativa separata del contratto. Epperò andrebbe
altresı̀ notato che, proprio sulla scorta del dato edittale, la nullità per una mancanza di
accordo, nel senso di ammanco di una comune volontà delle parti contraenti, stretta com’è
tra le due polarità della validità/annullabilità da un lato e dell’inesistenza, dall’altro, finisce
in realtà per ritagliarsi un perimetro attuativo cosı̀ residuale da sembrare «davvero minimo»
(v., non a caso, BELVEDERE, op. loc. citt.). Persino infatti nelle fattispecie di volontà contrattuale apparente, tale perché solo fittiziamente riferibile a chi ne risulta autore, l’assenza di
accordo in realtà latita in quanto può ragionevolmente dubitarsi, nella quasi totalità dei casi
solitamente citati, che dette ipotesi dischiudano una riconoscibilità sociale della dichiarazione
resa come contrattuale. E qui, va da sé, il pensiero corre alle fattispecie classiche della
violenza fisica o dell’ipnosi, delle dichiarazioni rese ioci o docendi causa mentre per la figura
di una dichiarazione volitiva sı̀ formata ma spedita al destinatario contro la volontà del suo
autore, delle due l’una: si avrà annullabilità, ove la non volontarietà della spedizione sia
riconoscibile dal destinatario, piena validità nell’ipotesi contraria. In ambedue le ipotesi non
si potrà però far questione di una mancanza di accordo, ragionevolmente configurabile di
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zione degli obblighi informativi ormai costellante in parallelo tanto l’area
fatto nella sola ipotesi di un dissenso occulto. V., in tal senso, anche BELVEDERE, op. cit., p.
178 s. Quanto poi al notare che una nullità virtuale di protezione, di là dalla circostanza che
le sezioni unite del 2007 la tengono persuasivamente in non cale prestando semmai avallo
alla prospettiva di un obbligo di fattispecie, è figura da preferire all’annullabilità tutte le
volte in cui il legislatore abbia di mira l’obbiettivo dell’efficienza, ebbene trattasi di un
argomento che, in realtà, serve a ben poco. L’efficienza, per il vero, di per sé non è un
valore estraneo ai contratti di diritto comune: sicché, dando per buono l’assunto che ogni
deficit informativo si sostanzia in un’assenza di volontà e per ciò stesso in una carenza di
accordo, il perimetro operativo dell’annullabilità ne risulterà comunque e di rimando prosciugato. Paradossi dell’interpretazione od epicedio dell’annullabilità?
Non solo. Se l’omissione informativa rileva e sta come mancanza di volontà, c’è il rischio
di un autentico cortocircuito sistematico in applicazione del dictum delle sez. un. n. 26242/
2014, stando alle quali notoriamente la nullità è rilevabile ex officio pendente una qualsiasi
domanda di impugnativa contrattuale, dunque pure quella di annullamento: con in più il
novum, come si sa, che il rilievo d’ufficio allo stato comporta, quando si faccia questione di
una nullità assoluta (art. 1418, comma 2˚), che il giudice la debba dichiarare in motivazione,
rigettando cosı̀ l’impugnativa proposta perché infondata nel merito. V. infra par. 4, in fine, testo
e note. Ove infatti l’informazione mancante o parziale venisse denunziata processualmente
come un vizio del consenso, epperò il giudice si orientasse per una mancanza di accordo e la
rilevasse nel contraddittorio delle parti (art. 183, comma 4˚, e 101, comma 2˚, c.p.c.), a valle di
un’omessa domanda di accertamento financo incidentale della nullità, il fatto che tra rilevare e
dichiarare si dia oggi per esistente un rapporto di inclusione importerà il risultato di un rigetto
della domanda di impugnativa negoziale, sul sottinteso evidentemente di una nullità incidenter
tantum del titolo prodotto: con poi un vincolo selettivo al motivo portante ostativo a che il
convenuto possa domandare, in un altro giudizio, l’adempimento di quello stesso contratto.
Con un rigetto che già configura un accertamento dichiarativo della nullità, poco qui importa
se nei termini di una preclusione extraprocessuale o di un giudicato in senso proprio (v.
CONSOLO e GODIO, Patologia del contratto e (modi dell’) accertamento processuale, in Studi
Senesi, CXXVI (III Serie, LXIII), Supplemento 2014, “Nullità e accertamento”, Siena, 2014, p.
143 ss. e PROTO PISANI, Una decisione storica delle sezioni unite, ivi, p. 233 ss.), è soltanto infatti
per i terzi, i quali volessero ridiscutere la validità del titolo, che detto rigetto varrebbe nei
termini di una mera rilevazione ex art. 1421 c.c. Torna cosı̀ l’immagine di un’annullabilità che
si sfilaccia, per la concorrenza di una nullità che la trasforma in una forma di invalidità
operativamente quasi impalpabile.
Per inciso, nella variabile che vede il deficit informativo come un fatto causante, nell’area
della contrattazione asimmetrica, una nullità virtuale di protezione ex art. 1418, comma 1˚, c.c.
(v. per tutti V. SCALISI, Autonomia privata e regole di validità: le nullità conformative, ora in ID.,
Il contratto in trasformazione, Milano, 2013, p. 402), il quadro non muterebbe, anzi si ha il
fondato sospetto che detta qualificazione finirebbe per annoverare una variabile destinata forse
ad importare una complicazione in più. Stante infatti l’esistenza di un regime processuale
asimmetrico, come si sa se il contraente protetto, che sia stato giudizialmente edotto della
nullità, non si risolve a formulare una domanda di accertamento, per le sezioni unite ancorché
rilevata la nullità non è qui dichiarabile in motivazione ed il giudice «dovrà decidere come
se [questa]non esistesse» (CONSOLO e GODIO, op. cit., p. 146), non è per verità affatto certo che
un eventuale rigetto dell’impugnativa ex art. 1439 c.c. lascerebbe impregiudicata la questione
circa una possibile nullità del titolo dedotto in giudizio. Un successivo dibattersi su codesta
nullità si potrà infatti ammettere soltanto muovendo dalla premessa che la preclusione manifestata dal consumatore/cliente non ha già prodotto un effetto convalidante a livello endoprocessuale.
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del B2C (artt. 50, 51 e 71 c.cons.) quanto il comparto degli strumenti
finanziari (reg. n. 16190/2007 e com. Consob n. 0097996/2014, sulla
distribuzione di detti prodotti ai clienti retail), l’interprete, detto per incidens, ne trae pure un vantaggio operativo: se le patologie del loro regolamento sono infatti un problema di strutturazione del contratto, l’anomalia
dei derivati finisce di fatto per venire “normalizzata”. Ed in un modo che
circuita di colpo la selva di questioni originate dal disposto, purtroppo non
inequivoco, dell’art. 23, comma 5˚, t.u.f. (34).
3. Derivati e “causa”: il binomio alea unilaterale – alea irrazionale.
Lo spunto per ribadire l’idea di una nullità che è qui maneggiata come
un rimedio giudiziale ci viene dalla lettura di due pagine recenti, pressoché
coeve, accostabili perché, di là dalla differenza di accenti e toni, mostrano
entrambe il convincimento che la nullità dei derivati sia il risultato di una
pre – comprensione correttiva, come si segnala nella prima, necessitata da
«posizioni [nate già] sperequate» (35): mentre è nella seconda che, con
grande nitidezza, viene fatto notare come le corti ancorino detta nullità
ad un’incalcolabilità subiettiva dell’alea indotta da un contenuto contrattuale lasco (36). Spigolando tra le decine di sentenze, edite ed inedite (37), ci
si avvede infatti che il focus giudiziale è tendenzialmente concentrato non
tanto sulla circostanza che la narrativa della vicenda abbia fatto registrare
Verrà poi fatto di domandarsi: tendenzialmente la vittima di una disinformazione eccepisce un vizio che, involgendo la convenienza del contratto, veste i panni del dolo incidente (art.
1440). Ebbene, a voler ragionare nell’ottica di una carenza di volontà, dovrebbe allora ammettersi che detto vizio prelude perciò ad una nullità parziale nella forma di cui all’art. 1419,
comma 1˚, c.c. Se non fosse che una nullità parziale per mancanza di accordo non sembra
facilmente configurabile. Processualmente, tra l’altro, a monte di una domanda di accertamento della nullità solo parziale ex art. 1419, comma 1˚, ove il giudice dovesse tutto al contrario
convincersi di una nullità dell’intero contratto, se nel contempo il rilievo officioso della stessa
non dovesse indurre l’attore a sostituire la domanda originaria, dovrebbe aversi per riflesso che
il giudice rigetti la domanda sul presupposto che essa dà per sottintesa la validità di un titolo
che viceversa non può assumersi «stante la sua genetica invalidità a 360˚» (cosı̀ CONSOLO e
GODIO, op. cit., p. 164). È cosı̀ infatti che, di nuovo sunteggiando, sembrano aver sentenziato le
sezioni unite. (par. 6.16 della motivazione).
(34) È la sintetica ma pregnante notazione di G. GABRIELLI, Operazioni sui derivati:
contratti o scommesse?, in Contr. e impr., 2009, p. 1133 ss. Incidentalmente pure S. MAZZAMUTO, Il contratto europeo nel tempo della crisi, in Eur. e dir. priv., 2010, p. 645 s.
(35) V. DELFINI, Contratti derivati OTC: problemi di validità e di qualificazione (a
margine di un recente libro in tema di Swap), in Contr. e impr., 2014, p. 911 ss.
(36) V. GRISI, Spigolando su causa, derivati, informazione e nullità, in Persona e mercato,
2015, p. 137 ss.
(37) Per una sintesi molto informata v. INDOLFI, Aleatorietà convenzionale dei contratti
derivati, Padova, 2013, p. 60 ss.
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una condotta infedele dell’intermediario bensı̀ sul darsi qui uncontratto
che non trasmette «un’informazione corretta» (38). App. Milano n. 3459/
2013 (39), senz’altro la più sofisticata di questi arresti (40), è paradigmatica
al riguardo: se la meritevolezza del derivato è nella misurabilità bilaterale dell’alea, siccome detta misurabilità si specchia in un’informativa che si è
fatta contenuto del contratto, quando quel contenuto risulti decettivo, non
si ha un rischio suscettibile d’essere inteso come negoziato razionalmente
da entrambe. Manca la “causa” del derivato over the counter, dicono le
corti: e sia pure. Cave, causa subiettiva però e non funzione, se un’irrazionalità di scelta dell’investitore ignaro trapassa illico et immediate ad attributo di immeritevolezza del contratto. Riprendendo allora un’intuizione di
Renato Scognamiglio, il contratto è tutt’uno colla sua funzione cioè la c.d.
causa (41), si ha la sensazione che se le corti, anziché ragionare di un’alea
razionale ove subiettivamente calcolabile pure da un investitore rimasto
estraneo alla sua negoziazione (42), sentenziassero cosı̀: un contenuto inveritiero muta la causa, quale amalgama «di tutti gli altri elementi (primari o
secondari che siano) di cui [la] struttura [del derivato] è composta» (43),
questa sı̀ funzione economico – individuale, perché “un’alea reticente”
non può dirsi «l’espressione oggettivata delle finalità soggettive che (…)
gli autori del negozio intendono perseguire» (44), molti degli equivoci che
affollano la materia svanirebbero. D’altro canto, non è forse vero che
l’alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del
prodotto finanziario è causa di nullità del contratto B2C sub art. 67 septiesdecies, comma 4˚, c.cons.? Una norma speciale questa se, come fanno le
sez. un. n. 26724/2007 (45), la si iscrive in quello spicchio di fattispecie ove
il contravvenire ad un’informazione – comportamento, siccome la legge
qui ha disposto diversamente (art. 1418, comma 3˚), non è soltanto motivo
(38) Cosı̀ GRISI, op. cit., p. 146.
(39) App. Milano 18 settembre 2013, n. 3459, cit.
(40) Ma v. anche App. Trento 3 giugno 2013, in Giur. comm., 2014, II, p. 62 ss.
(41) In I contratti in generale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna - Roma, 1970, p. 310.
(42) E dunque, per dirlo di nuovo alla MENGONI maniera, Problemi di integrazione della
disciplina dei ‘contratti del consumatore’ nel sistema del codice civile, cit., p. 346, senza avere
«il potere di influire sul contenuto dell’accordo ottenendo l’inserimento di clausole gradite o
l’esclusione di clausole sgradite».
(43) Cosı̀, in una classica pagina, G.B. FERRI, Tradizione e novità nella disciplina della
causa del negozio giuridico (dal codice civile 1865 al codice civile 1942), in Riv. dir. comm.,
1986, I, p. 127.
(44) Cfr. G.B. FERRI, op. loc. citt.
(45) Che ragionano, senza mezzi termini, di una norma «sistematicamente isolata nel
nostro ordinamento, mettendo in mostra «evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio».
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di danni, ed invece di tutt’altro stampo se detti obblighi di informativa,
per effetto della loro contrattualizzazione, li si fa diventare il punto di
sintesi di interessi antagonisti che l’alea ingegnerizzata unilateralmente
traduce in una forma data di rischio finanziario.
Ma tant’è.
Tornando al diritto vivente, è più che plausibile, come si diceva poc’anzi, etichettare detta strategia delle corti a guisa di una “via di fuga”,
ammiccante ad una tecnica di tutela consumeristica, per mettere in non
cale un risarcimento danni che pure le sez. un. n. 26724/2007 dubitano,
per altro, possa rappresentare il “rimedio più appropriato” per l’investitore deluso (46). Di là però dalle metafore, torna senz’altro più utile dare
conto riassuntivamente della cifra assiologica di questa giurisprudenza, le
cui Fallgruppe sembrano seguire uno spartito binario ordinabile cosı̀:
– casi di alea unilaterale, ove il costrutto di uno scambio inutile per
difetto di causa o per una non meritevolezza della stessa ha più di un senso
perché non si danno normativamente (artt. 1325 e 1933, comma 1˚, c.c.)
forme di sinallagma puro o di scambio in sé (47), col sequitur, e statisticamente, come si sa, è l’ipotesi più ricorrente,
(46) Il che traspare apertamente in quel passo della motivazione nel quale l’opzione per
una nullità virtuale viene reputata provvista di una «qualche plausibilità solo ove risultasse
l’unica in grado di rispondere all’esigenza – sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell’art. 47 Cost., comma 1– di incoraggiare il risparmio e
garantire la tutela» (par. 1.9). In dottrina v. M. NUZZO, Il diritto europeo dei contratti e
l’evoluzione del diritto interno, in P. PERLINGIERI e TARTAGLIA POLCINI (a cura di), Novecento
giuridico: i civilisti, Napoli, 2013, p. 314 s.
(47) Come vorrebbero, rispettivamente, GIRINO, I contratti derivati, Milano, 2010, p.
244 ss. e p. 250 ss. e CAPUTO NASSETTI, I contratti derivati finanziari, Milano, 2011, p. 74 ss. e
p. 101. La nullità qui potrà motivarsi sostenendo che, se il proprium di qualsiasi scommessa
è la bilateralità dell’alea, allorquando l’integralità del rischio risulta intestata all’investitore,
di talché l’altra parte per certo vince, si è in realtà fuori dal tipo scommessa, con una
funzionalità del contratto che di per sé si inceppa. Ma non è meno plausibile sostenere,
specie se dovesse riconoscersi come ammissibile un contratto aleatorio unilaterale, che la
nullità ben qui si lega all’inconfigurabilità ex lege come valida di un’attribuzione patrimoniale sprovvista di corrispettivo, quando non sia sorretta da uno spirito di liberalità: il che è
quanto esattamente si registra allorché, per l’inserzione nel contratto di un interest rate
cap ad un tasso fisso esorbitante ovvero per la compresenza di una clausola di salvaguardia,
al coefficiente di rischio reale dell’investitore corrisponde una virtualità dell’alea per la
controparte. Ergo il derivato che si avvale di una lex contractus programmante un nudo
trasferimento di ricchezza, tale perché unilateralmente orientato, è nullo in quanto questa
attribuzione non palesa un vestimentum che «non sia quello di un arricchimento (…) senza
causa» (cosı̀ M. BARCELLONA, Il contratto e la circolazione della ricchezza, cit., p. 505). La
monetizzazione di un rischio non ripartito, questo si vuol dire, illustra per vero uno scompenso sinallagmatico immeritevole.
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– dei casi di alea irrazionale, lemma questo evocativo del fatto che, a
motivo di un’opacità nella costruzione unilaterale del regolamento contrattuale, come e quanto il rischio sia ripartito tra le parti contraenti sfugge
totalmente ad una calcolabilità preventivabile dall’investitore all’atto della
stipula. Ed è qui che, evidentemente, scatta
– quel “mascheramento” dell’informazione, convertita da dovere di
correttezza in elemento intrinseco della fattispecie in quanto contenuto
di relazione verrebbe da chiosare (48), con una nullità assoluta che opera
come se fosse una di protezione in quanto l’eccezione opposta, rispetto ad
una non veridicità del contenuto, consente di neutralizzare la cogenza del
principio per cui pacta sunt servanda (art. 1372 c.c.).
Naturalmente è immaginabile pure una pre – comprensione più a
monte, del seguente tenore: siccome, e per un verso, il pericolo sociale
sotteso ai derivati OTC non è più reputato inferiore all’utile di moltiplicare
gli scambi incrementando di riflesso la liquidità del mercato finanziario,
dando ormai, per l’altro, come acquisito che ogni tecnica di contrattazione
seriale, dunque pure i derivati, postula una selezione del rimedio applicabile in base al tipo di impatto regolativo, cioè al posterius di fisionomia, che
si vuol dare al mercato, la deduzione che rampolla dal combinare i due
enunciati vedrà scopertamente la nullità, quale “sanzione civile automatica” (49), imporsi sulle altre forme di impugnativa contrattuale in quanto
tecnica ripristinante prima e meglio il valore costituzionalmente garantito
del risparmio (art. 47 Cost.). Oppure, ma sempre però nell’ottica di sterilizzare un danno collettivo fatto di costi sistemici di convenienza e transattivi, perché la nullità è rimedio che scaccia un guadagno socialmente
improduttivo, la speculazione infatti arricchisce «ma non crea ricchezza»
quando consta di un profitto monetario scisso da un investimento (50),
deragliante da quel valore costituzionale primario che vuole ogni forma
di ricchezza protetta se ed in quanto sia originata da una funzione produttiva (art. 1 Cost.).
Lungi dal porsi in antitesi, le due prospettive infatti si completano, cambiando soltanto l’angolazione dalla quale si inquadra il fatto di dover declinare i rimedi, nell’esperienza postmoderna, nei termini di una «legittimazione
(48) Perché esprime, verrebbe da chiosare, il fine delle parti.
(49) Giacché effettiva senza l’ausilio di una «garanzia coercitiva»: cosı̀ IRTI, La nullità
come sanzione civile, in Contr. e impr., 1987, p. 543.
(50) V. E. BARCELLONA, Contratti derivati puramente speculativi: fra tramonto della causa
e tramonto del mercato, cit., p. 145.
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regolativa [e] non dogmatica» (51). Cass., sez. un., n. 13905/2013 (52), che
l’High Court of Justice di Londra ha di recente valorizzato sentenziando la
nullità dei derivati stipulati tra Dexia Crediop ed il Comune di Prato in
quanto la documentazione contrattuale non contemplava la facoltà di
recesso nei sette giorni successivi alla stipula in conformità al disposto
dell’art. 30, comma 7˚, t.u.f., norma questa giudicata inderogabile pattiziamente ex art. 3, comma 3˚, Convenzione di Roma I sulle obbligazioni
contrattuali (53), ne ha vivida contezza. Se infatti l’efficacia ritardata del
consenso è concepita per neutralizzare il pericolo di un effetto sorpresa,
trasformare l’art. 30, comma 7˚, t.u.f., in una norma materiale, la quale non
distingue in ragione della tipologia di servizio (di investimento) offerto
fuori sede quando controparte sia un cliente non professionale (54), equivale a caricare il recesso di una marcata funzione regolativa. Una funzione,
non v’è chi non lo veda, che si avrebbe invece per dimidiata se l’interprete
riperimetrasse il recesso circoscrivendolo alla sola sollecitazione di prodotti
finanziari standard a prezzo immodificabile.
4. Derivati ed annullabilità: l’illusione ottica di un rimedio adeguato.
Si fece notare, in uno dei commenti più autorevoli alle sentenze Rordorf, che l’aver escluso una nullità per violazione di norme imperative di
condotta non pregiudicava di per sé, nonostante l’ambiguità del recitativo,
la variabile che i contratti finanziari fossero «almeno annullabili» (55). Ed è
senz’altro significativo, a tal proposito, che la Corte di giustizia, nel caso
Hirmannc. Immofinanz AG (causa 174/12) (56), abbia ritenuto conforme al
diritto europeo la normativa austriaca che, per la violazione degli obblighi
di informazione previsti dalle direttive “prospetti” (artt. 6 e 25), “trasparenza” (artt. 7, 17 e 28) ed “abusi di mercato” (art. 14), contempla una
(51) Cosı̀ FEMIA, Nomenclatura del contratto o istituzione del contrarre? Per una teoria
giuridica della contrattazione, in GITTI e VILLA (a cura di), Il terzo contratto. L’abuso di potere
contrattuale nei rapporti tra imprese, Bologna, 2008, p. 287.
(52) V. Cass., sez. un., 3 giugno 2013, n. 13905, in Giur. it., 2014, p. 852 ss.
(53) Financo le parti avessero scelto di assoggettare i loro contratti alla legge inglese: v.
High Court of Justice, Queen’s Bench Division, Commercial Court, 10 - 1456.
(54) Ergo in quanto figura di genere vi rientrerà pure la negoziazione in contropartita
diretta.
(55) I giudici delle sezioni unite, si fa notare con uno stile insinuante, «lo ricordano, ma
non lo dicono, sembrano dirlo, lo lasciano supporre, non lo statuiscono. Forse, se si potesse
interrogarli si limiterebbero a rispondere che non era stato loro chiesto»: cosı̀ GENTILI,
Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, cit., p. 401.
(56) Corte giust. 19 dicembre 2013, ricordata pure da ALPA, I “principi generali del
diritto civile” nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Giust. civ., 2014, p. 332.
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responsabilità della società emittente nella forma di un’annullabilità del
contratto, coll’annesso obbligo di restituire all’acquirente un importo pari
al prezzo di acquisto delle azioni, senza che alla retroattività possa fare da
schermo la tutela di tutti gli altri azionisti nonché dei creditori della società. Dunque l’annullabilità, stando almeno al canone dell’effettività europea, rappresenterebbe un rimedio adeguato al danno subı̀to da parte
dell’investitore nonché dissuasivo nell’ottica di un disincentivo all’inadempimento dell’obbligo di informazione. Il tutto, naturalmente, al netto dell’interesse negativo risarcibile quale pregiudizio «all’interesse a non subire
la condotta scorretta» (57). Genil 48 c. Bankinter SA e Banco Bilbao Vizcaya
Argentaria SA (causa 604/11) (58), di poco precedente e relativa ad un
contratto di swap negoziato per coprire le variazioni dei tassi di interesse,
seppure più agnostica (59), non si è mostrata di un altro avviso. E non solo.
Posto, come si notava, che i derivati sottendono un problema di
quanta informazione sia esigibile dall’intermediario onde l’alea predisposta
unilateralmente possa dirsi razionale/misurabile dalla controparte investitrice, potrebbe tornare utile rammentare che i PECL da un lato equiparano al dolo “qualsiasi mancata informazione che invece secondo buona
fede e correttezza avrebbe dovuto essere rivelata” (art. 4:107, I), dall’altro
danno come ipotesi rilevante ex fide bona quella di un errore di cui la parte
sana “aveva o avrebbe dovuto avere conoscenza (…) [ed abbia invece
lasciato che l’errante] vi rimanesse” (art. 4:103, I, ii). Come chiosa la
migliore dottrina, la «non disclosure (…) diventa violazione di un obbligo
di informazione» e nel contempo, però, «attinge una dimensione nuova» (60), oltrepassante il perimetro della culpa in contrahendo, tutte le volte
in cui l’omissione informativa si palesi causalmente efficiente quanto alla
stipula di un contratto che diversamente non sarebbe stato concluso. Di
primo acchito, verrebbe da notare, niente di singolare, due ipotesi di
(57) Cosı̀ CASTRONOVO, Patologie contrattuali, invalidità e risarcimento, cit., p. 53.
(58) Corte giust. 30 maggio 2013, analizzata da GRUNDMANN, The Bankinter Case on
Mifid Regulation and Contract Law, in ERCL – European Review of Contract Law, 2013, p.
267 ss. e da TENENBAUM, Les contrats financiers complexes et les obligations d’information:
partition d’un dialogue subtil entre la CJUE et les juges nationaux, in Rev. des contrats, 2014,
p. 123 ss.
(59) Nel senso che, nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, «spett[i]
all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro disciplinare le conseguenze
contrattuali del mancato rispetto degli obblighi in materia di valutazione previsti dall’articolo 19, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2004/39 da parte di un’impresa di investimento che
proponga un servizio di investimento».
(60) V. CASTRONOVO, Un contratto per l’Europa, in Principi di diritto europeo dei contratti, Milano, 2001, XXXII.
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annullabilità, sul presupposto che l’art. 4:103, I, ii) copra il perimetro
includente le fattispecie omissive ove non sia dato registrare quell’intento
di raggirare che l’art. 4:107 pur sempre esplicita al comma 2˚ quale elemento costitutivo del dolo. Di fatto invece una soltanto se si prende
contezza della circostanza, combinando le due disposizioni, che una reticenza invalidante rilevi pure sub art. 4:103, I, ii) in virtù del catalogo dei
criteri che l’art. 4:107, comma 3˚ formalizza onde appurare «se la buona
fede o la correttezza imponevano a una parte la rivelazione di una determinata informazione». Contandosi infatti tra queste la specifica competenza della parte (a), il costo al quale ha potuto conseguire il set informativo
omesso sempre rapportandolo alla capacità dell’altra di conseguirlo autonomamente (b – c), il tutto avendo riguardo “all’importanza apparente
dell’informazione” (d), viene facile dedurne che l’animus nocendi qui è
in re ipsa. È vero naturalmente che discorrere, al riguardo, di un comportamento decettivo in sé varrebbe al più come un’ellissi (61). E tuttavia
un’intenzione di raggirare che, secondo quanto dispone per esempio l’art.
49 CESL, non rileva più autonomamente se l’omissione è inescusabile,
ribalta l’onere probatorio. Quando poi l’art. 48, lett. b, iii), CESL recita
di un contratto annullabile laddove la parte sana, al corrente dell’errore o
ragionevolmente tenuto a conoscerlo, ciò nondimeno fa sı̀ che il contratto
sia concluso «in base all’errore stesso omettendo informazioni pertinenti»
la cui comunicazione fosse essenziale ex fide bona, diventa arduo sfuggire
alla tentazione di accostare alla figura di detto contraente quella di un
intermediario tenuto a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza
per servire al meglio l’interesse dei clienti. Per inciso, nella fattispecie
descritta, neanche la riconoscibilità potrebbe costituire un problema visto
che l’errore risulterà indotto colpevolmente (62): mentre il fatto che i documenti di soft law (art. 4:103, § 2, lett. b, PECL ed art. 48, § 2, CESL)
escludano un errore invalidante, quando chi lo eccepisca ne aveva assunto
il rischio, non è probante visto che il qualificativo di “razionale/misurabile” è senz’altro ivi sottinteso.
Sic stantibus rebus, viene fatto allora di domandarsi se i derivati non
stilizzino il contesto ideale nel quale sperimentare un restyling interpreta-
(61) V. G. DE CRISTOFARO, “Invalidity” of Contracts and Contract Terms in the Proposal
for a Regulation on a Common European Sales Law, in Osservatorio dir. civ. e comm., 2013,
p. 145, critico sul fatto che le cause di annullabilità siano descritte ed individuate «with too
wide an extension and/or by using words and definitions which are too generic and ambiguous».
(62) Già GENTILI, op. ult. cit., p. 402.
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tivo dei vizi del consenso, facendo cosı̀ trascorrere pure l’impugnativa di
annullamento nel XXI secolo (63): il che, per inciso, di per sé non sarebbe
una novitas, già invero contandosi a tal riguardo più di un voce adesiva (64), ma col contrappunto che dette interpretazioni non vanno solitamente scevre dal rilievo di omettere quel che più conta, e cioè se si dia una
qualche utilità euristica ed operativa dall’iscrivere il problema del derivato
sconveniente nell’area dei vizi (tipici) del consenso (errore essenziale o
dolo) od in quella dei vizi (atipici) dell’intendere, via di fuga quest’ultima
che preferirà evidentemente chi plauda all’idea di una vittima dell’intermediario scorretto protetta ai sensi degli artt. 1337 e 2043 c.c., coll’appendice di un art. 2058 trasformante il diritto ad una tutela per equivalente nel diritto «alla rimozione dell’evento dannoso, cioè in un diritto alla
cancellazione del contratto» (65). Ribattere che un appiglio di rincalzo già
viene, per la verità, dall’art. 8, l. n. 129/04, se una parte ha fornito false
informazioni, l’altra può chiedere l’annullamento del contratto di affiliazione commerciale ex art. 1439 c.c., e qui davvero parrebbe necessaria la
sola prova della falsità non anche quella del raggiro (66), non sarebbe
persuasivo. A tacer d’altro se, citando di nuovo la Corte costituzionale
del 2010, la disciplina dei derivati si colloca “alla confluenza di un insieme
di materie”, vale a dire quelle relative “ai mercati finanziari”, all’“ordinamento civile” e al “coordinamento della finanza pubblica” (67), diventa poi
intuitivo notare lo stagliarsi ormai come preminente di un interesse sovraindividuale che dovrebbe mettere tra parentesi il ricorso, quale tecnica
protettiva, ad un’impugnativa per annullabilità, notoriamente prescrittibile
(tranne per l’eccezione) e, soprattutto, non rilevabile officiosamente. Salvo,
altrimenti, trasformarla in un ircocervo.
È vero, naturalmente, che l’annullabilità, segnatamente per il caso di
un errore essenziale riconoscibile, avrebbe dalla sua il vantaggio di una
rettifica conservativa, con effetto preclusivo dell’azione di annullamento
quando l’offerta rimoduli il contratto nel modo che doveva essere: ma, di
(63) Si mutua la felice espressione da GIANOLA, L’integrità del consenso dai diritti
nazionali al diritto europeo. Immaginando i vizi del XXI secolo, Milano, 2008.
(64) L’allusione è a DE POLI, Interest rate swap e patologie contrattuali, in MORERA e
BENCINI (a cura di), I contratti ‘derivati’. Dall’accordo alla lite, Bologna, 2013, p. 42, nt. 14 e
SARTORI, Prodotti finanziari illiquidi (derivati OTC): il fattore giurisprudenziale e l’evoluzione
normativa degli obblighi informativi, in CORTESE e SARTORI (a cura di), Finanza derivata,
mercati e investitori, Pisa, 2010, p. 157.
(65) Cosı̀ SACCO, Il contratto, I, Torino, 2004, p. 621.
(66) V., da ultimo, DEL PRATO, Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, in Riv.
dir. comm., 2015, I, p. 29.
(67) Cfr. Corte cost. 18 febbraio 2010, n. 52, cit.
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là dalla circostanza che l’art. 1432 c.c. la contempla soltanto nel caso che
detto contratto non abbia già inferto un pregiudizio alla controparte, sopravvengono a farle da diaframma due spesse controindicazioni, segnatamente una legittimazione esclusiva della parte non in errore ed il fatto che
nessuna manipolazione correttiva sia riconosciuta al giudice, allo stato
legittimato unicamente, in caso di conflitto tra le parti, a dichiarare l’adeguatezza dell’offerta od a rigettarla (68). Insomma una rettifica dalle maglie
alquanto strette nient’affatto apparentabile a quella che, sul paradigma
dell’art. 4:109 PECL, sancisce l’art. 230 del codice civile nederlandese:
ai sensi del quale, su domanda della parte legittimata all’annullamento, il
giudice può sentenziare una determinazione integrativa del contratto nel
modo in cui lo si sarebbe dovuto stipulare ex fide bona. E, detto di passata,
non c’è margine per sostenere che l’art. 1432 c.c. autorizzi l’interprete alla
variabile di una rettifica atipica, disposta dal giudice quando la reputi come
il rimedio contingente più appropriato. Il precedente di Cass. n. 12117/
2014, di là dalle accese discussioni che ne sono scaturite (69), ha riguardato
tutt’altra fattispecie, senza contare l’argomento (dirimente) traibile dal
rilievo che un’applicazione analogica dell’art. 1432, avvalorante la fattispecie nascosta di un (para)officioso ri - aggiustamento giudiziale del contratto, andrebbe ben oltre quel diritto ad un annullamento parziale, fortemente discusso de iure condito ma ammesso per esempio dall’art. 4:116 PECL
e dall’art. 54, § 2, CESL (70), che infatti non abbina all’effetto ablativo
un’appendice di sostituzione delle clausole sperequate od a sorpresa. Come dire, il diaframma dell’art. 1432 rappresenta tuttora un arcigno ostacolo al trapianto, nel sistema italiano, di rimedi improntati ad una correzione manutentiva del contratto, pure a prendere per buona l’idea che
dette forme siano «latitudinalmente diffuse» (71). Cass. n. 4065/2014 si è
(68) V., inter alios, E. QUADRI, La rettifica del contratto, Milano, 1973, p. 26 ss. e p. 77
ss. e G. MARINI, sub art. 1444, in NAVARRETTA e ORESTANO (a cura di), Dei contratti in
generale, IV, Torino, 2011, p. 292.
(69) V. Cass. 29 maggio 2014, n. 12117, per un commento della quale v. CHECCHI,
Annullamento del contratto ex art. 322 c.c. e potere di rettifica, in Fam. e dir., 2015, p. 455 ss.
e BRANDANI, L’annullamento parziale del contratto stipulato dal genitore in nome e per conto
proprio in violazione dei provvedimenti del giudice tutelare nell’interesse del minore: tante
questioni ancora aperte, in Vita not., 2015, p. 617 ss. Si è approfondito la questione in Diritto
giurisprudenziale, riconcettualizzazione del contratto e principio di effettività, in Studi in onore
di Vito Rizzo, §§ 6 e 7. in corso di stampa.
(70) V., da ultimo, NATUCCI, L’annullabilità parziale del contratto, in Riv. dir. civ., 2008,
II, p. 569 ss. e FRANZONI, Dell’annullabilità del contratto, Artt. 1425 – 1426, in Comm.
Schlesinger, Milano, 1997, p. 36 ss.
(71) È l’opinione di SERIO, La reazione dell’ordinamento ai vizi della volontà, in S.
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poi mostrata, in linea per altro con i precedenti di Cass. n. 5773/1996 e
Cass. n. 16031/2007 (72), tranchant (73): al contrario di quello spontaneo,
l’errore determinante indotto sul valore (o sulle qualità del bene oggetto
del contratto) è sempre causa di annullamento, giammai di una correzione
del prezzo. Perché il dolo rende annullabile il contratto quale che sia il
tipo di errore, determinante s’intende, del consenso.
Non solo. Tornando infatti alla nullità, se si sta al modulo discorsivo di
Cass., sez. un., n. 26242/2014, il perimetro imperativo della contrattazione
asimmetrica tutela un interesse privato tutt’uno colle regole di un mercato
improntato a correttezza e codeste regole sono di rango costituzionale sub
artt. 3 e 41 Cost. (par. 3.12.1), ci vuol poco a comprendere che, con una
finalità di protezione collettivizzata (74), l’annullabilità declina in quanto
scansata da un’assorbente nullità (virtuale) ex art. 1418, comma 1˚, c.c.
Nullità di struttura, naturalmente, ove il genitivo si intenda come predicato
di qualsiasi norma imperativa iscritta, nel senso che «trova spiegazione
(…), nell’interna struttura dell’atto» (75).Un ordine pubblico di protezione,
punto di convergenza tra i valori di efficienza del mercato e quelli di
stampo personal/solidaristico, riqualifica infatti la sanzione ogni qual volta
l’abuso o l’omissione dell’intermediario produca serialmente una decisione
negoziale irrazionale. Insomma, fare del derivato sconveniente un caso di
impugnabilità del contratto è sistemicamente più corretto, in quanto qui
non si dà (almeno in senso proprio) il caso di un limite di legge al riconoscimento dell’autonomia privata quanto e piuttosto un problema di regolamento che non è «espressione per una delle parti di una responsabile
valutazione della convenienza dell’affare» (76). Epperò l’annullabilità, proprio perché patologia “discreta” (77), pecca di efficienza regolativa rispetto
ai contratti (asimmetrici) del mercato. Del resto, pure la teoria della causa
MAZZAMUTO (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino, 2002,
p. 291.
(72) Rispettivamente Cass. 21 giugno 1996, n. 5773 e Cass. 19 luglio 2007, n. 16031.
(73) V. Cass. 20 febbraio 2014, n. 4065 (relativa ad una fattispecie nella quale una
società concedente lamentava di aver acquistato un bene come di “nuova fabbricazione”
quando invece, sebbene non fosse mai stato in precedenza usato, si trattava di un macchinario obsoleto perché prodotto un decennio prima).
(74) Perché tutelando l’interesse del singolo investitore è garantita la protezione di un
interesse sovraindividuale costituzionalizzato.
(75) Cosı̀ GENTILI, La “nullità di protezione”, in S. MAZZAMUTO (a cura di), Le tutele
contrattuali e il diritto europeo. Scritti per Adolfo di Majo, cit., p. 691 e GRISI, op. cit., p. 158.
(76) Cosı̀ U. MAJELLO, La patologia discreta del contratto annullabile, in Riv. dir. civ.,
2003, I, p. 339.
(77) V. U. MAJELLO, op. cit., p. 343.
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gestoria, quale ufficio di diritto privato, di fatto sposa questo costrutto
quando, proprio a cagione del vulnus inferto ad un interesse ancipite,
particolare ma anche sovraindividuale, reputa come di interesse pubblico
il rimuovere gli effetti di atti gestori “tossici” per l’economia reale (78). Ove
il rimuovere sottende e rimanda ad una vicenda ablativa non demandabile
evidentemente allo strumentario bivalente, anch’esso espressione di una
policy appiattita sulla valorizzazione dell’autonomia privata, di un rifiuto
del contratto ex art. 1711, comma 1˚ o di una risoluzione per inadempimento sub art. 1453 c.c. Del resto, il fatto che, per effetto di Cass. n.
26242/2014, la nullità sia adesso rilevabile officiosamente pendente una
domanda di annullamento nonostante con essa si faccia valere un altro
vizio originario del contratto, certifica sintomaticamente quanto ormai la
nullità abbia acquisito un’efficienza ultrattiva prosciugante il terreno di
un’annullabilità relegata ad una funzione residuale (79).
Nessun restyling perciò, detto a mo’ di chiosa, dell’annullabilità, neanche, abbigliandola alla tedesca (§ 143 BGB), se concepita come stragiudiziale, dunque fatta mediante una comunicazione alla controparte (art.
4:112 PECL ed art. 52 CESL) purché entro un termine ragionevole. Il
problema, per l’interprete che non si faccia ammaliare dal concetto di
scommessa razionale legalmente riconosciuta, si radica probabilmente a
monte: una scommessa “informata”, in quanto prevedibile, immunizza
di fatto il derivato nonostante la pratica abbia posto in risalto che lo
swap dell’impresa investitrice è solitamente estraneo al suo oggetto sociale.
Il che, più radicalmente, dovrebbe indurre a riflettere, se l’agire degli
intermediari finanziari «non è assimilabile all’attività di una casa da gioco
autorizzata» (Cass. n. 3773/2009), sulla compatibilità in concreto tra strumenti finanziari e la destinazione vincolata del patrimonio societario al
finanziamento dell’attività d’impresa.
5. Derivati e responsabilità “pericontrattuale”, continuando a spigolare
sui c.d. vizi del XXI secolo. In nota sul contratto squilibrato irrescindibile
penalmente rilevante sub specie di usura reale.
Chi dovesse mostrarsi dell’avviso che Cass. n. 21255/2013 abbia corroborato l’idea di una responsabilità pericontrattuale (80), cioè per danni
(78) V. MAFFEIS, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario e il contratto derivato over
the counter come scommessa razionale, cit., p. 10.
(79) Lo notano pure R. TOMMASINI e E. LA ROSA, Dell’azione di annullamento, Artt. 141
– 1146, in Comm. Schlesinger, Milano, 2009, p. 26.
(80) V. ROPPO, Spunti in tema di responsabilità “pericontrattuale”. Dialogo con Giorgio
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sofferti in conseguenza di vicende lesive occorse intorno al contratto,
siccome questa ha tutta l’aria d’essere un diverso appellativo col quale si
designa quell’illecito extracontrattuale ex art. 1337 c.c. causa di un debito
risarcitorio (quanto al sovrapprezzo versato: art. 1440) o di un effetto
demolitorio in forma specifica sub art. 2058, potrebbe a questo punto
obbiettare che l’annullabilità, soltanto a servirsi di paratie dogmatiche in
stile Begriffsjurisprudenz, potrà sembrare una figura cadetta. È un ragionamento sunteggiabile cosı̀: l’illecito dell’intermediario è, in realtà, di tipo
effettuale perché «incide non sulla conoscenza della realtà rilevante per il
contratto, bensı̀ sulla conformazione stessa di quella realtà» (81). Tradotto,
quanto l’intermediario fa non è rimanere reticente o rappresentare diversamente lo scenario probabilistico dal quale dipende l’alea, dunque un
mendacio avente ad oggetto un set di dati che per l’investitore sarebbe
stato decisivo conoscere. C’è piuttosto un quid pluris in quanto si assume
che detta alea risulti tendenzialmente costruita in una maniera «effettualmente avvers[a all’investitore]». Il che, per un’intrinseca coerenza del
discorso, implica poi che pure il requisito della conoscenza/conoscibilità
del falso, maturata od intuita dall’investitore ingenuo, e per ciò stesso
(negligente), diventi, quanto al potersi fare qui questione di un dolo invalidante o risarcitorio, un surplus carente di una qualche rilevanza scriminante. Gli è, invero, che il fatto costitutivo del danno starebbe qui nell’ingegnerizzazione stessa dell’alea (82): sicché quanto e come, al cospetto di
un silenzio illecito, la colpa dell’ingannato che non sia persona di normale
diligenza, giusta il disposto degli artt. 1338 e 1398 c.c. (83), funga da fatto
impeditivo di un’esimente finisce, va da sé, per mostrarsi irrilevante.
De Nova a margine della sentenza di Cassazione sul lodo Mondadori, in Resp. civ. e prev.,
2014, p. 16 ss.
(81) Cfr. ROPPO, op. ult. cit., p. 20 (anche per la citazione che segue).
(82) Naturalmente volendo prestare adesione, il che è quanto meno dubbio, a quella
giurisprudenza (v., da ultimo, Cass. n. 14628/2009, in Rep. Foro it., 2009, voce Contratto in
genere, nn. 436 e 488) secondo cui la scusabilità dell’affidamento è presupposto per la sua
tutelabilità, in termini demolitori e risarcitori, nonostante la reticenza disonesta della controparte. Il che, come si è fatto persuasivamente notare, è discutibile quando le circostanze
de quibus non siano «aperte all’accertamento di entrambe le parti»: cosı̀ P. TRIMARCHI, Il
diritto protegge gli ingenui?, in Studi in onore di Giovanni Iudica, Milano, 2014, p. 1394 s.
Detto “principio” giurisprudenziale andrebbe infatti pur sempre rapportato a quell’art.
1491 che esime il venditore dalla garanzia soltanto per vizi facilmente riconoscibili. Una
formula, questa, che rimanda scopertamente, in realtà, ad una fattispecie di negligenza grave
dell’acquirente.
(83) Sul fatto che poi, secondo il classico ragionamento di una deduzione di norme
attraverso altre norme, il combinato disposto citato autorizzi l’estrapolazione di un princi-
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Fraus omnia corrumpit ha, d’altronde, sentenziato di recente Cass. n.
4065/2014 (84), facendone un principio che regge l’intelaiatura dei vizi del
consenso. Trib. Milano n. 13976/2012 (85), quando ha ritenuto sussistente
il reato di truffa aggravata, non è che abbia dipinto un orizzonte interpretativo vestito, nel suo dispositivo, di panni argomentativi troppo diversi. E Cass. pen. n. 47421/2011 (86), sentenziando che la truffa contrattuale
si lega all’accertamento di un danno da valutarsi ex post quando il contratto abbia raggiunto la sua scadenza, autorizza l’illazione, sulla premessa
che il derivato è senz’altro un contratto di durata, di una truffa contrattuale quale reato ad esecuzione prolungata che cioè si consuma per la
prima volta quando, alla scadenza contrattuale convenuta per il pagamento
del differenziale, l’investitore abbia subito la deminutio patrimonii di una
rimessa in perdita.
Orbene, dando pure per buono il ragionamento, la replica di tratteggiare cosı̀ facendo l’abbozzo di un «diritto povero», perché basculante
tutto tra le due polarità, della «responsabilità civile [e della] solidarietà» (87), non è sopra le righe. Camuffato infatti da annullabilità, per l’attitudine del c.d. vizio del consenso (tipico od atipico) a produrre la distruzione del contratto od una manipolazione del rapporto onde ridurlo a
giustizia, quel che viene qui di fatto ad accreditarsi è un panaquilismo
risarcitorio azzerante il distinguo tra contratto e fatto illecito ogni qual
volta non si faccia questione di inadempimento di un’obbligazione. Quanto invece alla circostanza che l’annullabilità non avrebbe più i connotati
della patologia cadetta, una breve digressione finale può servire a scandagliare meglio quanto, nell’economia del discorso, è rimasto fino ad ora
confinato in un cono d’ombra.
Articolando il discorso, perché il dibattito in argomento è piuttosto
frastagliato, in non più di due luoghi topici, dalle spoglio delle fonti
legislative e di soft law può trarsi invero contezza del fatto che:
-) il regime di tassatività (Typenzwang) e tipicità contenutistica (Typenfixierung) (88), tanto che non è dato configurare un’annullabilità virtuale,
pio, il contratto non è impugnabile né può farsi questione di un interesse negativo risarcibile
quando l’ingannato sia in colpa, v. infra testo e nt. 107.
(84) Cass. 2 febbraio 2014, n. 4065 cit.
(85) Poi, notoriamente, riformata da App. Milano 3 giugno 2014, n. 1937.
(86) Cass. pen. 16 dicembre 2011, n. 47421, in Cass. pen., 2013, p. 184 ss.
(87) Cosı̀ CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, cit., p. 113.
(88) V., almeno, R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, Milano, 1977 (rist.), p. 248; ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011,
p. 713; DEL PRATO, Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, cit., p. 24 s. e G.
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dei vizi del consenso è senz’altro oggi eroso e messo in crisi da due policy
concorrenti che si fanno sponda, rispettivamente un de-tipicizzarsi per
addizione (violenza) o sottrazione (dolo) di (almeno due) dei vizi classici,
unitamente al conio in aggiunta di una quarta figura di vizio, al codice
civile nederlandese (art. 44) nota come “abuso di circostanze” e dai PECL
rubricata invece, come si sa, “ingiusto profitto o vantaggio iniquo” (art.
4:109 ed art. 3.10 Principi Unidroit) per l’avere la c.d. parte sana approfittato di una relazione fiduciaria o di dipendenza ovvero sfruttato indebitamente lo stato di necessità, bisogno economico, condizioni mentali
anomale o l’inesperienza della controparte. Riprodotta dalla CESL colla
dizione di “iniquo sfruttamento” (art. 51) (89), questa è una figura notoriamente ignota al BGB, perché il § 138 risolve detta fattispecie in una
nullità per immoralità, ma non all’esperienza italiana, per il precedente di
quell’art. 22 del Progetto italo-francese di Codice delle Obbligazioni e dei
Contratti, eclissatosi altrettanto risaputamente a seguito delle severe critiche rivolte ad un abuso che si voleva declinato riconnettendo il grave
squilibrio (tra i valori delle due prestazioni) ad un consenso non prestato
liberamente (90).
Ora il costante richiamo che il soft law fa ad un “vizio” di gross
disparity è senz’altro indice di un’impostazione che riconnette l’annullabilità ad un catalogo empirico di fatti causativi di un’alterazione del volere
ovvero, per chi dovesse riconoscersi nell’idea di un’impugnativa legata
piuttosto alla lesione dell’interesse contrattuale (91), alla circostanza che
detti fatti abbiano inferto alla vittima un pregiudizio patrimoniale (92).
Non dunque, come di primo acchito potrebbe pensarsi, un’impostazione
di stampo (neo)volontaristico incentrata sulla struttura del vizio perturbativo. Se si riflette però sulla circostanza che la fattispecie contigua di c.d.
violenza economica, largamente accreditata nell’esperienza francese (art.
D’AMICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli,
1996, p. 17 ss.
(89) V. G. D’AMICO, La proposta di regolamento per un diritto comune europeo della
vendita, in MEZZASOMA, V. RIZZO e LLAMAS POMBO (a cura di), La compravendita: realtà e
prospettive, Napoli, 2015, p. 122.
(90) Il dibattito sulla disposizione è ricordato, con la consueta lucidità, da BRECCIA,
Continuità e discontinuità negli studi di diritto privato. Testimonianze e divulgazioni negli
anni anteriori e successivi al secondo conflitto mondiale, in Quad. fior., 1999, I, pp. 328 - 334
e 462 - 464.
(91) Secondo la classica prospettiva di F. LUCARELLI, Lesione di interesse e annullamento
del contratto, Milano, 1962, pp. 4 e 7.
(92) Sulla questione, lucidamente, G. D’AMICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, cit., p. 38 s.
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1114-2 Avant-projet Catala), stilizza una forma di estorsione contrattuale
originata dalla vulnerabilità per stato di necessità o di dipendenza della
parte che la subisce (art. 1142 Projet d’Ordonnance portant réforme du
droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations), potrebbe rivelarsi appagante l’illazione che, ove un ordinamento tipizzi viceversa dette situazioni di debolezza o di diseguaglianza economica colla
diversa tecnica di un limite al riconoscimento del potere contrattuale,
l’autonomia del quarto vizio di fatto scompare in quanto annega «nelle
corrispondenti patologie», amministrate non a caso in termini di nullità, di
abuso della libertà contrattuale (93). Abuso si dirà, per il valore scriminante
recitato dall’accordo, tendenzialmente di una situazione economica o di
fatto (artt. 9 l. n. 192/98, 7 d.lgs. n. 231/02, 62 l. n. 221/12) (94), pur se
colla significativa eccezione dell’art. 33 c.cons., etichettabile propriamente
come abuso del diritto, in virtù dello speciale potere di predisposizione
unilaterale riconosciuto all’impresa dall’art. 1341 c.c. (95). La replica, l’abuso perché rilevi come causa di invalidità implica una testuale previsione
di legge (96), sicché sempre residuerà un enclave di situazioni che soltanto il
c.d. quarto vizio potrebbe emendare senza la via di fuga di una nullità per
illiceità della causa (97), non sarebbe irresistibile. Di là dalla circostanza che
(93) Cosı̀ DEL PRATO, Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, cit., p. 26. Di un
art. 4:109, quale disposizione «ancora tributaria di un rapporto alterato di libertà», ragiona
criticamente DI MAJO, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, p. 31.
(94) V., rispettivamente, RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, p. 58 e G.
D’AMICO, L’abuso della libertà contrattuale: nozione e rimedi, in PAGLIANTINI (a cura di),
Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010, p. 9 s., nell’ottica di un distinguo
che non trova viceversa eco nella dottrina prevalente: v., a titolo esemplificativo, MACARIO,
Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti tra imprese: verso una nuova clausola
generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 663 ss.; BRECCIA, Abuso del diritto, in Diritto privato
1997, III, L’abuso del diritto, Padova, 1998,p. 37 ss. e BUSNELLI e NAVARRETTA, Abuso del
diritto e responsabilità civile, ivi, p. 171 ss.
(95) Un potere di cui la suddetta giust’appunto abusa quando deroghi serialmente al
diritto dispositivo per uno scopo vessatorio e non per il fine (riconosciuto) di imprimere una
«razionalizzazione» alla propria attività «sul mercato»: v. G. D’AMICO, op. ult. cit., p. 13 s. Il
tutto sull’assunto, naturalmente, che la deroga alle norme dispositive non sconfini in un
abuso, donde l’immagine di una derogabilità unilaterale sub condicione, quando sia effettuata di comune intesa tra le parti.
(96) V. D’ADDA, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Padova, 2008,
p. 144 s.
(97) Già suggerita, notoriamente, da BETTI, Ancora sul progetto di un codice italofrancese delle obbligazioni. Replica al Senatore Scialoja, in Riv. dir. proc., 1930, II, p. 251:
ma impraticabile, quanto meno nel contesto normativo precedente la riforma dell’art. 644
c.p., per non cadere nell’equivoco di qualificare come illecita la causa di un contratto
irrescindibile e, per contro, lecita quella di un contratto impugnabile ex art. 1448. Donde
la via di fuga di una responsabilità da contratto valido ma sconveniente (v., di recente,
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la tipicità dell’abuso può ben significare che la figura necessita piuttosto di
un «fondamento normativo» (98), ed al riguardo il codice vigente vanta un
art. 1438 c.c. dal quale può estrarsi un principio di antigiuridicità della
condotta di chi “abusi” (in senso proprio) di un diritto o (in fatto) della
propria libertà contrattuale (99), nella stagione presente si hanno, per verità, almeno due fattispecie che ormai presidiano espansivamente il perimetro dell’“iniquo sfruttamento”, nel dettaglio l’art. 9 l. n. 192/98, che
Cass., sez. un., n. 24906/2011 ha qualificato come fattispecie di applicazione generale soltanto occasionata dunque da uno specifico rapporto di
subfornitura (100), ed il reato di usura reale (art. 644, comma 3˚, parte 2,
c.p.), immaginandola cosı̀ nella versione di un’usura il cui corrispettivo non
sono degli interessi ma altri vantaggi (seppur contro un capitale), reato che
sembra avere di rincalzo assottigliato alquanto – ecco il punto! – l’interstizio di fattispecie ove possa aversi l’inimpugnabilità di un contratto sı̀
iniquo ma irrescindibile perché la lesione inferta è infra dimidium (101). La
VETTORI, Diritto europeo e tutele contrattuali, in D’ANGELO e ROPPO (diretto da), Annuario
del contratto 2013, Torino, 2014, spec. p. 90), sulla cui pertinenza sistematica, come tra
breve si vedrà, sembra però legittimo nutrire, più di un dubbio. Proprio, ecco il punto, in
ragione del mutato contesto normativo.
(98) Cosı̀ CASTRONOVO, op. ult. cit., p. 116.
(99) V. D’AMICO, op. ult. cit., p. 17.
(100) Cass., sez. un., 25 novembre 2011, n. 24906, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, p.
298 ss. In dottrina, per tutti, LIBERTINI, La responsabilità per abuso di dipendenza economica:
la fattispecie, in Contr. e impr., 2013, p. 18 s.
(101) Con l’annesso problema, per evitare il paradosso di assoggettare la vittima di un
reato all’esecuzione di un contratto che «del reato è il mezzo» (V. ROPPO, Il contratto, cit., p.
846 e CARPINO, La rescissione del contratto, in Comm. Schlesinger, Milano, 2000, p. 73 ss.), di
immaginare allora un’illiceità di detto contratto sulla scorta di una nullità virtuale, creando
però cosı̀ l’incongruenza di una fattispecie meno grave trattata con maggior rigore a fronte di
quella più grave colpita col minus della sola rescissione. Non meno vischiosa è, d’altro canto,
la seconda variabile, tutti i contratti integranti il reato di usura sono nulli perché contravvengono ad una norma imperativa penale c.d. autosufficiente (v. E. QUADRI, La nuova legge
sull’usura: profili civilistici, in Nuova giur. civ. comm., 1997, p. 69): giacché, a ragionare cosı̀,
di fatto si accredita una tacita interpretatio abrogans della rescissione. V. GENTILI, I contratti
usurari: tipologie e rimedi, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 371 s. Un esito che il concepire poi
detta nullità come di protezione (v. OPPO, Lo “squilibrio” contrattuale tra diritto civile e
diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 542 s.) non consente certo di tenere in non cale.
D’altra parte però un’eventuale replica, l’art. 644 reprime la condotta dell’usurario ma non
intacca la validità del contratto, il «cui regime è in ogni caso quello civilistico che esclude la
nullità, anche virtuale ex art. 1418!» (cosı̀ GAZZONI, Obbligazioni e contratti, Napoli, 20091,
p. 1010 e, da ultimo, ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino, 2015, p. 482),
dovrebbe fare i conti con l’obiezione che allora non si capisce per quale ragione, come i più
notoriamente riconoscono (v. CARPINO, op. cit., p. 83 s.), debba reputarsi parzialmente nullo
il contratto integrante gli estremi dell’usura soggettiva. Le due fattispecie hanno invero un
eguale contenuto: e la circostanza che di interessi pecuniari si faccia questione soltanto
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fattispecie penalistica dell’usura è notoriamente più ampia di quella documentata dall’art. 1448 c.c.: e, se il rimando all’art. 1418, comma 1˚, nell’ottica di un reato – contratto, suppone che si avvalori per riflesso la
figura di una nullità virtuale parziale (102), il servirsi dell’art. 1337 (103), a
guisa perciò di una responsabilità da contratto valido ma sconveniente, dà
per buona una validità della pattuizione che non sembra ormai più seriamente concepibile in conseguenza del mutato contesto normativo.
6. Continuando a spigolare: i vizi del XXI secolo come una superfetazione.
Per altro, l’aver chiarito che la figura dell’abuso – limite fagocita,
nell’area della contrattazione asimmetrica, quella dell’abuso – vizio, ci
consente di passare subito ad un secondo distinguo delucidativo, di massima trascurato invece, se non negletto, dai più.
Andrebbe infatti notato che, sebbene declinata in senso debole, l’opzione ricostruttiva invalsa nei progetti di soft law pur tuttavia si modella
colle sembianze di una tecnica tipizzante (104), sicché il vero quesito che
ogni interprete ci parrebbe tenuto a farsi dovrebbe in realtà riguardare la
classificazione che si voglia riservare a quelle c.d. forme anomale di consenso menomato, vizi atipici come per brevità si è soliti indicarli, se in
particolare intenderli come un ambito qualificabile, al cospetto degli artt.
1427-1440 c.c., a mo’ di una fattispecie esclusa o non piuttosto, come
un’interpretazione estensiva dovrebbe indurre a concludere, alla stregua
di una fattispecie inclusa, perché disseminata in parte qua nel novero delle
nell’ipotesi di un’usura giust’appunto in concreto non può costituire motivo di una differentia specifica legittimante una diversa qualificazione rimediale.
(102) Onde neutralizzare l’ulteriore paradosso che, diversamente, una nullità del contratto importerebbe per la vittima un trattamento deteriore rispetto a quello che predica la
fattispecie dell’usura oggettiva: la quale, giusta il disposto dell’art. 1815, comma 2˚, ha
notoriamente messo in non cale il pregiudizio di un’obbligazione restitutoria immediata.
V. attentamente CARPINO, op. cit., p. 82.
(103) Ovvero del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2043: cosı̀ REALMONTE, Stato
di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della
vittima del reato, in Riv. dir. comm., 1997, I, p. 783 e, se si è ben compreso, GAZZONI, op.
cit., p. 1011.
(104) Tanto è vero che G. D’AMICO, La proposta di regolamento per un diritto comune
europeo della vendita, cit., p. 122 vede nell’art. 51 CESL un dispositivo idoneo a realizzare
«quell’allargamento delle cause di annullabilità del contratto», propugnato da molte voci, «e
difficilmente realizzabile per via giurisprudenziale a causa del principio di “tipicita” dell’annullabilità». Sul che però, in forza di quanto si sta tentando di notare nel testo, qualche
dubbio pare lecito nutrirlo.
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figure già normativamente formalizzate. Senza infatti tante perifrastiche e,
nel contempo, per meglio intendersi:
– da Cass. n. 411/1962 le corti hanno avviato un «aggiustamento»
dell’art. 428 c.c. (105), con una patologia del contratto che vede procedere
appaiate un’incapacità naturale, divenuta sinonimo di qualsiasi perturbamento psicologico, e la malafede della controparte profittatrice, derubricando cosı̀ il grave pregiudizio ad indice qualificato di detta minorità (106).
Cass. n. 7626/2013 (107), da ultimo, ha ribadito detta interpretazione inequivocamente;
– la c.d. violenza incidente, d’altra parte, se la si riconnette ad un’attitudine causale della minaccia a menomare il consenso, produce l’annullabilità in virtù del parallelismo che si viene cosı̀ ad istituire tra essenzialità
delle clausole coartate ed «efficienza causale» del metus (108); ancora,
– un’autentica tutela dell’affidamento, al netto di tutte le fattispecie in
cui sussista uno specifico obbligo di informazione, suppone l’equiparazione tra un errore riconoscibile e quello (non acclarabile secondo i parametri
di legge) ma riconosciuto in concreto, stilizzandosi altrimenti un comportamento doloso (109); di rincalzo
– è regola giurisprudenziale consolidata – v. Cass. n. 5429/06 (110) –
che l’errore essenziale e riconoscibile è causa di annullabilità del contratto
financo non sia scusabile (111); infine
(105) Come, con pregnante sintesi, si esprime ROPPO, op. ult. cit., p. 727.
(106) Lo segnalava già MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e tit.
cred., 1997, p. 14.
(107) Cass. 26 marzo 2013, n. 7626, in Guida al dir., 2013, pp. 21 e 46.
(108) V. DEL PRATO, Le annullabilità, in Tratt. del contratto Roppo, IV Rimedi – 1,
Milano, 2006, p. 297.
(109) Esemplare, al riguardo, la pagina di P. TRIMARCHI, op. cit., p. 1391.
(110) V. Cass. 13 marzo 2006, n. 5429, in Rep. Foro it., 2006, voce Contratto in genere,
n. 582: ed in precedenza Cass. 2 febbraio 1998, n. 985, in Giust. civ., 1999, I, p. 2491 ss.,
con nota di FIDOTTI, Jacopo della Quercia e l’errore essenziale e Cass. 29 giugno 1985, n.
3892, in Giur. it., 1986, I, p. 1386 ss. In dottrina, per tutti, P. TRIMARCHI, op. cit., p. 1390 s.
Per un’applicazione, di recente, v. PAGLIANTINI, Le stagioni della causa in concreto e la c.d.
interpretazione abusiva del contratto: notarelle a margine di Cass. 22343/2014, in Contratti,
2016, p. 604 ss.
(111) E a chi, al riguardo, volesse replicare che detto assunto cela un’antinomia perché
l’affidamento inescusabile non dà invece titolo per una tutela risarcitoria conseguente alla
stipula di un contratto invalido od inefficace (artt. 1338 e 1398 c.c.), verrà istintivo opporre
che un problema di validità del contratto non va confuso con uno di «responsabilità
precontrattuale»: cosı̀ P. TRIMARCHI, op. cit., p. 1390. Per la (persuasiva) ragione che, mentre
l’ammissione di un’annullabilità, quantunque l’errore fosse inescusabile, rimuove un contratto non voluto senza pregiudicare l’affidamento della controparte (se è vero che dovrà
comunque trattarsi di un errore (determinante) essenziale e riconoscibile), il consentire il
risarcimento del danno, pur se nei limiti s’intende dell’interesse negativo, equivarrebbe a
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– sub specie di una rilevanza di un comportamento decettivo in sé (c.d.
dolo colposo), senza immaginare che la reticenza abbia uno statuto separato dal dolo commissivo, il peso specifico mostrato dall’animus decipiendi
scema di fatto, come si è visto, nel momento in cui, in un’ottica ottimizzante la tutela dell’autodeterminazione volitiva del deceptus, doloso diventa
un attributo di riflesso dedotto dall’aver parificato le informazioni precontrattuali di legge a quelle esigibili secondo buona fede e correttezza (art.
49, § 1, CESL). Per poco infatti che si rifletta, la circostanza che un’omissione colpevole, in quanto inescusabile ex fide bona, dia diritto anche al
risarcimento dei danni, perché prima ancora rileva da causa di annullamento del contratto, è sintomatica di come la prospettiva europea strutturi
il conflitto di interessi tra vittima incolpevole e soggetto in colpa in una
maniera premiale per la prima. Non è escluso che detta premialità si colori
di una venatura sanzionatoria, per il sottinteso della vacatio «di un affidamento meritevole di tutela» in chi ha serbato il silenzio (112): resta il fatto
che l’upgrading di tutela dei PECL e della CESL, con una buona fede che
fa da diaframma ad un errore (inessenziale) sui motivi, è segno di una pre
– comprensione ben più spessa, istituzionalizzante una regola di impugnabilità trascendente la specialità di norme settoriali (art. 1892, comma
1˚ (113)) e dedotta, va da sé, dall’aver messo tra parentesi l’opinione (tradizionale) che viceversa vorrebbe la reticenza colposa rilevante causalmente come un mero fatto negativo. Dopo di che, se il principio di tipicità dei
vizi tollera la pratica di interpretazioni integrative o correttive di segno
evolutivo (114), a tacer d’altro per un’evoluzione dei costumi «verso una
generale consapevolezza degli obblighi di correttezza nella convivenza
sociale» (115), dovrebbe però venire spontaneo domandarsi quale spazio
premiare la condotta di una parte comunque incorsa in una negligenza. Ed in caso di
negligenze reciproche sembra appropriato «dare maggior rilievo alla negligenza della parte
in errore e lasciare il danno a suo carico» (cfr. P. TRIMARCHI, op. loc. citt.). V., al tempo
stesso, e con l’abituale lucidità, CASTRONOVO, Patologie contrattuali, invalidità e risarcimento,
cit., pp. 35 e 37.
(112) È l’avviso di SERIO, op. cit., p. 291: che, di fatto, riproduce però l’idea, largamente
diffusa in dottrina e di qui l’inutilità di diffondersi in citazioni, di una preferenza da
accordare, nel conflitto tra l’artefice del raggiro (quantunque colposo) e la vittima di un
errore inescusabile, a quest’ultima onde evitare il paradosso di qualificare come lecita la
condotta di chi profitta dell’errore altrui.
(113) Ove l’annullabilità si riconnette all’antefatto di un obbligo di informazione tipizzato.
(114) Mentre, per un’interpretazione che non trascenda «il limite consentito dalla
valenza semantica delle espressioni normative», v. G. D’AMICO, Regole di validità e principio
di correttezza nella formazione del contratto, cit., p. 33, nt. 39.
(115) Cosı̀ P. TRIMARCHI, op. cit., p. 1393.
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residuo permanga per una responsabilità da contratto valido ma sconveniente (116), figura sı̀ avvalorata dalle corti ma più come obiter che in presa
diretta in quanto, e non a caso (117), pronunziata in fattispecie di un’annullabilità prospettabile (ma non eccepita). Come sempre è una questione
interpretativa di actio finium regundorum: e, riteniamo, come già obliquamente avvalora Cass. n. 19024/2005 (118), la teoria dei vizi incompleti del
contratto ha un senso finché o si tipizzi in senso restrittivo il dolo omissivo
determinante (119), il che non parrebbe però ricevere più un favor incontrastato nella giurisprudenza di Cassazione (120), oppure si reputi ancora
pingue lo spicchio di fattispecie incorporanti una lesione infra dimidium
non rilevanti penalmente sub specie usurae (121). Il tutto, beninteso, al netto
poi della concorrenza che già esercitano l’art. 1494, comma 1˚ e, visto il
recitativo di Cass. n. 14056/2010 (122), l’art. 2043 c.c., norma questa che
potrebbe attrarre i casi, istituzionalizzati dal soft law (art.4:106 PECL; art.
II – 7:204 DCFR; art. 28, § 2, CESL) nei termini di una tutela risarcitoria
dell’interesse negativo, di errore scusabile non essenziale provocato da
informazioni inesatte per una colpa civile di chi le abbia fornite. Ergo
nessuna lacuna: né assiologica e tantomeno tecnica.
E non solo.
-) Di là dalla circostanza che si contano almeno due nuove forme
spurie di annullabilità, l’art. 768 sexies c.c. quanto al diritto dei legittimari,
che non abbiano partecipato al patto di famiglia, di pretendere, in sede di
apertura della successione, la liquidazione della stessa prestazione accordata agli altri legittimari (123), e l’art. 4 d.lgs. n. 28/10 per l’ipotesi di
un’omessa informativa dell’avvocato quanto al ricorso al procedimento
(116) Sulla quale, anche per i necessari riferimenti biografici, si rinvia a MANTOVANI,
«Vizi incompleti del contratto» e risarcimento del danno, Torino, 1995, passim.
(117) Cfr. G. D’AMICO, Responsabilità precontrattuale anche in caso di contratto valido?
(L’isola che non c’è), in Giust. civ., 2014, p. 197 ss., spec. p. 203 ss.
(118) La c.d. sentenza Marziale, Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, cit.
(119) Che, non a caso, poteva utilmente invocarsi, in luogo di una responsabilità da
contratto valido ma sconveniente nella (discutibile) Cass. 8 febbraio 2008, n. 24795, in Foro
it., 2009, I, p. 440 ss., con nota di SCODITTI, Responsabilità precontrattuale e conclusione di
contratto valido: l’area degli obblighi di informazione.
(120) V., rispettivamente, Cass. 2 febbraio 2012, n. 1480, in Foro it., 2012, I, p. 1474 ss.
e Cass. 26 aprile 2012, n. 6526, in Danno e resp., 2012, p. 1210 ss. In dottrina, per tutti,
GENTILI, voce Dolo, I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma, 1989, p. 4.
(121) V. supra par. 5, in fine, testo e nt. 100 - 102.
(122) V. Cass. 11 giugno 2010, n. 14056, in Danno e resp., 2011, p. 621 ss.
(123) Con un inadempimento del beneficiario, in realtà, che legittima cosı̀ all’annullamento (nel termine di un anno).
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di mediazione (124), l’esperienza postmoderna non conosce in realtà una
stagione rivitalizzante l’annullabilità.
Certo, è vero che tanto il diritto comune dei vizi del consenso quanto
la legislazione “facilitatrice” europea hanno di mira la protezione di una
razionalità del contrarre, quale fondamento dell’autonomia negoziale, epperò ben diverse, come si è da tempo acclarato (125), sono le due fattispecie: da un lato un’irrazionalità contingente ed individuale, dall’altra una di
stampo seriale che minaccia l’efficienza del mercato concorrenziale, quel
mercato pensato per un homo consumens e visto come istituzione di utilità
sociale in quanto fattore cui è demandato il prodursi del benessere collettivo. Per inciso, in quanto serialmente distorsiva del mercato, detta
irrazionalità rileva a prescindere dalla circostanza che sia stato occasionato
un pregiudizio economico individuale, innalzando nel contempo il livello
di condotta diligente/colpa inescusabile del professionista (ad es. l’art.
129, comma 2˚, lett. c, c.cons.).
Con una chiosa anticipante la chiusa del ragionamento, potrebbe allora farsi notare che, se cosı̀ è, non sembra tanto un problema di tensione,
che pur si può ben dare ovviamente, tra categorie dottrinali e normative,
cioè un problema di scissione quanto al modo di costruire la giuridicità.
Se, quando si dibatte di contratti asimmetrici, «è un ruolo socioeconomico
ed una categoria di operatori che si protegge» (126), diventa conseguente
riconoscere che alla differenza di fattispecie ne accede una di rimedi:
obblighi di informazione documentale immodificabili unilateralmente, in
quanto a monte rilevanti come parte integrante del contratto (artt. 49,
comma 5˚ e 72, comma 4˚, c.cons.) (127) e recessi di pentimento retroattivi
(art. 55 c.cons.) o nella veste di una condizione sospensiva (art. 30 t.u.f.)
prevengono il pericolo del vizio – sorpresa, amministrandolo in un modo
che rende perdente o, al più, residuale un’annullabilità la quale, per la
vocazione marcatamente giudiziale che le riserva l’art. 1441 c.c., è oltretutto di ostacolo ad uno scioglimento oggettivo del vincolo funzionale ad
(124) Col diritto del cliente all’annullabilità del contratto d’opera professionale, rimedio
per la verità eccentrico bypassabile com’è col recesso.
(125) V., in luogo di tanti, la limpida sintesi di S. MAZZAMUTO, Il contratto di diritto
europeo, Torino, 2015, p. 143 ss. preceduta dalla pagina di MENGONI, Autonomia privata e
Costituzione, cit., p. 15.
(126) Cosı̀ GENTILI, Nullità, annullabilità, inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in Contratti, 2003, p. 200 ss.
(127) V. PAGLIANTINI, La riforma del codice del consumo ai sensi del d. lgs. 21/2014: una
rivisitazione (con effetto paralizzante per i consumatori e le imprese)?, in ID. (a cura di), Nuovi
profili del diritto dei contratti, Torino, 2014, p. 271 ss.
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un tempestivo ritorno sul mercato (128). Quanto invece al fatto che il
significativo squilibrio (art. 33 c.cons.) non rilevi in sé ma sia l’effetto di
un abuso la cui qualificazione come «vizio di volontà della vittima non
deve considerarsi strana o troppo innovativa» (129), in astratto nulla quaestio. Se non fosse che la repressione di detto squilibrio, beninteso a tenere
(128) È emblematico, al riguardo, quanto giust’appunto si legge nella sentenza Travel
Vac SL c. Sanchis, v. Corte giust. 22 aprile 1999, causa 423/97: ove non a caso, sebbene il
dato sia solitamente pretermesso, il giudice spagnolo aveva sollevato la questione se il
recesso di pentimento fosse un rimedio incondizionato, in quanto rimesso unicamente al
doppio presupposto della qualità di consumatore del recedente, parte nel contempo di un
contratto iscritto nel perimetro della dir. 1985/577/CEE, ovvero pure connesso alla condizione di un dolo generico del professionista, rilevante nei modi di cui all’art. 1269 c.c. Il che,
se si fosse inclinato per un rapporto di interazione col coevo darsi di un raggiro fraudolento,
evidentemente avrebbe poi comportato che il consumatore doveva provare di essere stato
manipolato dal professionista. La Corte, come si sa, escluse recisamente che il recesso di
pentimento avesse tra i suoi presupposti l’abuso del professionista, sentenziando che detto
recesso era esercitabile finanche nell’ipotesi in cui non si avesse avuto contezza di questa o
quella pratica abusiva escogitata medio tempore dal venditore. Il che, com’è facile intuire,
per il discorso che si va qui conducendo, ha un rilievo sistemicamente decisivo.
Fattualmente, questo in sintesi vuol dirsi, è innegabile che il recesso si abbini ad un tipo
di vicenda, la sorpresa, idonea ad appannare la serietà del volere e, per conseguenza,
passibile di una declinazione tassonomica nei termini di un vizio del consenso. Un dato
più di altri, e segnatamente il fatto che il recesso di pentimento sia azionabile ad nutum,
donde un’esperibilità che si dà pure nell’ipotesi in cui detta sorpresa sia in concreto mancata, fonda però la notazione, sunteggiata nel testo, quanto al suo profilarsi come un rimedio
alternativo ad una qualsiasi forma di impugnabilità, giudiziale o stragiudiziale che essa poi
sia, del contratto. Detta impugnabilità infatti implicherebbe che il consumatore desse prova
della sorpresa perturbativa sub specie di una machinatio, induttiva ad una stipula che altrimenti non vi sarebbe stata mentre, per come il dato normativo europeo è concepito, il fatto
sorpresa è dato per presunto iuris et de iure ed in ogni caso non è che ex iure si leghi il
recesso alla pre- condizione di un abuso del professionista. Per altro chi, traendo spunto
dalla circostanza che il recesso attuale conosce un termine finale quand’anche perduri
l’inadempimento dell’obbligo di informazione (art. 53, comma 1˚, c.cons.), volesse per ciò
stesso pensare ad un riespandersi dell’annullabilità, cadrebbe in una vistosa illusione ottica.
Gli è infatti che la dir. 2011/83/UE è di armonizzazione massima ed il comparto degli artt.
52 - 59 c.cons. non figura tra quelli per i quali il legislatore nazionale risulta autorizzato ad
una derogabilità, financo in melius. Col risultato, se vuol starsi davvero a quanto il dato
normativo plausibilmente autorizza a dedurre, che l’inoperatività degli artt. 1439 e 1440 c.c.
è un corollario di quanto implicitamente prescritto da un art. 67, comma 2˚, c.cons., il quale
fa salvo il ricorso al diritto comune, non si può supporre altrimenti, entro i (soli) limiti in cui
lo consenta l’art. 4 della direttiva. Naturalmente è vero che l’omissione informativa potrà
rilevare ex art. 22, comma 5˚, c.cons. nella forma di una pratica commerciale scorretta e, in
questa veste, legittimare il richiamo al risarcimento del danno ex art. 1337. Ma, com’è di
tutta evidenza, il tutto avviene perché l’art. 67, comma 1˚ recita di una nuova disciplina che
non esclude né limita l’operare di un’altra tutela consumeristica di origine europea. V.
amplius in PAGLIANTINI, sub art. 67, in G. D’AMICO (a cura di), La riforma del codice del
consumo. Commento al d. lgs. n. 21/2014, Padova, 2015, p. 436 ss.
(129) Cfr. SACCO, L’abuso della libertà contrattuale, in Diritto privato 1997, III, L’abuso
del diritto, cit., p. 231.
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in non cale l’idea di un art. 1374 novellato nei termini di un’equità correttiva (130), risulta normativamente costruita come un abuso nell’accezione
di un vizio dello speciale potere di predisposizione unilaterale quale atto di
autonomia. Dopo di che detto abuso, evocando l’idea di un limite all’autonomia del professionista, facultizzato a ciò dall’art. 1341 ma col contrappunto di un art. 33, comma 1˚, c.cons. che intende evitare la prevaricazione di un effetto appropriativo, importa di riverbero un doppio corollario: da un lato se la tutela si radica «in un comportamento elusivo dei
limiti comportamentali dell’altra» (131), essa scaccia il sottinteso di una
protezione legata ad un consenso menomato della parte tutelata, senza
dall’altro incorrere però nell’obiezione (classica) di palesarsi come un inutile doppione della buona fede giacché questa, in quanto fonte di obblighi,
non sottende, al contrario dell’abuso, una qualificazione negativa dell’atto.
Diversamente, come la più accorta dottrina ha notato (132), si scivola nella
crasi in cui è incappata Cass. n. 20106/2009 (133), la quale, legando l’abusività del recesso alla buona fede, ha sovrapposto un problema di inqualificazione, perché l’abuso del diritto è carenza del fatto impeditivo che fa
da esimente all’atto di libertà che sia dannoso (134), con uno di responsabilità, motivo di danni per l’essersi contravvenuto ad una regola di condotta in executivis.
Risultato, potrà pure esser vero che, «repressa la coazione, garantita
l’informazione, la ponderatezza [e] l’accesso al mercato» non si danno più
fattispecie di consenso viziato immuni, nel senso di fondanti l’inimpugnabilità dei relativi contratti (135). Non in quanto però esista, questo è il
sottinteso della dottrina citata, una regola generalissima compendiabile
cosı̀: un contratto è invalidabile, in tutto od in parte, per un vizio del
consenso od un’influenza illecita (136). Il presupposto che tutto tiene sta
invero nel riconoscere che la tassonomia delle tecniche preposte a rime-
(130) V. MENGONI, Problemi di integrazione della disciplina dei ‘contratti del consumatore’ nel sistema del codice civile, cit., p. 352.
(131) Cosı̀ U. MAJELLO, op. cit., p. 354.
(132) V., pur se da angolazioni diverse, CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, cit., p. 111
e G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, p. 5 ss.
(133) Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, p. 85 ss.
(134) CASTRONOVO, op. ult. cit., p. 116.
(135) V. SACCO, Il contratto, cit., p. 619.
(136) V. SACCO, Purezza del consenso, elementi perfezionativi del contratto, effetti del
negozio: i cento articoli delle leggi e la regola unica preterlegale, in CABELLA PISU e NANNI (a
cura di), Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta,
Padova, 1998, p. 257 ss. e v. pure la critica di G. D’AMICO, Buona fede in contrahendo, in
Riv. dir. priv., 2003, spec. p. 340 ss.
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diare a fallimenti del mercato e dell’autonomia privata, secondo la diade
contratti asimmetrici – contratti di diritto comune (137), è variegata ed
irriducibile ad unum. Da cui una chiosa avente, per la verità, il valore di
una constatazione: i vizi del XXI secolo, quando l’interprete non li iscriva
in quelli esistenti mercé lo strumentario abituale di un’interpretazione
estensiva/evolutiva, sono niente più che una superfetazione.
(137) V. ROPPO, I paradigmi di comportamento del consumatore, del contraente debole e
del contraente professionale nella disciplina del contratto, in ROJAS ELGUETA e VARDI (a cura
di), Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato,
Roma, 2014, p. 26 s.
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DAVIDE SARTI
Professore nell’Università di Ferrara
CONCORRENZA E LEVEL PLAYING FIELD EUROPEO NELLA
GESTIONE COLLETTIVA DEI DIRITTI D’AUTORE E CONNESSI
SOMMARIO: 1. Il level playing field della direttiva 2014/26/UE come strumento di uniformazione concorrenziale dell’attività di collecting e il problema della sua giustificazione
“politica”. – 2. La giustificazione della gestione collettiva nell’impostazione tradizionale: governo dei costi di transazione e tendenza alla formazione di monopoli naturali. –
3. Profili critici del level playing field: il problema della discriminazione delle collecting rispetto a editori e produttori. – 4. Il perimetro del level playing realizzato dalla
direttiva: “organismi di gestione collettiva” (OGC) e “enti di gestione indipendente”
(EGI). – 5. Il level playing field comune a OGC ed EGI si limita alla regolamentazione
dei rapporti con gli utilizzatori dei repertori. – 6. La problematica ragion d’essere del
level playing field comune a OGC ed EGI, e della sua distinzione rispetto al level
playing field esclusivo degli OGC. – 7. Il level playing field comune a OGC ed EGI non
può giustificarsi: A) con il carattere (pretesamente) fiduciario della loro attività; – 8. B)
con l’interesse alla regolamentazione dei mercati caratterizzati dalla formazione di
monopoli naturali; – 9. C) con l’esercizio congiunto di un potere pretesamente fiduciario e rispettivamente monopolistico; – 10. D) con l’interesse di categoria (ormai non
più essenziale) perseguito dalle collecting. – 11. Conclusioni metodologiche: ipotesi di
lavoro che ricerchi la giustificazione “politica” del level playing field in funzione legittimante di un modello concorrenziale non legittimato (ed eventualmente contrario al
diritto antitrust) per i soggetti diversi dalle collecting.
1. Il level playing field della direttiva 2014/26/UE come strumento di
uniformazione concorrenziale dell’attività di collecting e il problema della
sua giustificazione “politica”.
L’armonizzazione europea dei diversi settori del diritto che toccano
interessi economici e concorrenziali (si pensi ad esempio al mercato bancario, finanziario, assicurativo) vede protagonista un “cavallo di battaglia”
suggestivamente etichettato attraverso l’espressione anglosassone “level
playing field”, o altre sinonime, approssimativamente traducibili in italiano
in termini di “campo di gioco”, o “terreno di gioco” (1). Non sorprende
(1) Il fenomeno è inquadrato in una prospettiva più generale da DENOZZA, La frammentazione del soggetto nel pensiero giuridico tardo-liberale, in Studi dedicati a Mario Libertini, Milano, 2015, p. 793 ss., che rileva la tendenza alla “frammentazione” del soggetto e
corrispondentemente la moltiplicazione di discipline sempre più settorializzate, dove (mi
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
dunque che l’obiettivo di realizzazione di un campo di gioco comune sia
stato richiamato con riferimento all’armonizzazione del mercato della gestione collettiva dei diritti d’autore e connessi, perseguita dalla direttiva
2014/26/UE (2).
L’idea alla base della predisposizione di un campo di gioco è apparentemente ovvia. Il funzionamento di un sistema concorrenziale presuppone l’esistenza di una disciplina uniforme di accesso al mercato e di
svolgimento della relativa attività, senza discriminazioni fra operatori. Poiché queste discriminazioni possono derivare in primis da differenze fra
legislazioni statali, è compito dell’UE rimuoverle creando un terreno comune uniformato a livello (quanto meno) europeo.
Ad una riflessione più approfondita, tuttavia, l’obiettivo di creazione
di un terreno di gioco comune nasconde alcune insidie. Dire che un
mercato richiede la creazione di un level playing field significa dire che
le regole del gioco si applicano all’interno di un determinato recinto di
gara, ma non al di fuori di esso. Tanto pone almeno due problemi. Un
primo problema è quello della determinazione dei confini del “recinto di
gara”, e cioè quello di stabilire a quali soggetti ed a quali attività applicare
pare di potere aggiungere) la determinazione dei limiti di applicabilità di una disciplina
anziché di un’altra diviene a sua volta “sfuggente”.
(2) L’espressione level playing field riprende alla lettera quella usata dalla Commissione
nella sua Comunicazione 24 maggio 2011, Com (2011) 287 final, A Single Market for
Intellectual Property Rights. Boosting creativity and innovation to provide economic growth,
high quality jobs and first class products and services in Europe, con particolare riferimento
alle collecting societies v. il punto 3.3.1. L’espressione è valorizzata da DREXL, NÈRISSON,
TRUMPKE, HILTY, Comments of the Max Planck Institute for intellectual property and competition law on the proposal for a directive of the European parliament and of the Council on
collective management of copyright and related rights and multi-territorial licensing of rights in
musical works for online uses in the internal market com (2012)372, Max Planck Institute for
Intellectual Property and Competition Law Research Paper No. 13-04 (d’ora in poi, per
brevità, Max Planck Comments), reperibile presso il sito www.ssrn.com, pubblicato in lingua
tedesca anche in GRUR int., 2006, 222, par. 1, dove l’istituto dichiara il suo supporto alla
realizzazione dell’obiettivo. L’espressione si ritrova alla lettera anche in REINBOTHE, Rechtliche Perspektiven für Verwertungsgesellschaften im Europäischen Binnenmarkt, in ZUM, 2003,
p. 31; PARDOLESI e GIANNACCARI, Gestione collettiva e diritto antitrust: figure in cerca d’autori?, in Gestione collettiva dell’offerta e della domanda di prodotti culturali, a cura di Spada,
Milano, 2006, p. 101; GUIBAULT and VAN GOMPEL, Collective management in the European
Union, in Collective management of copyright and related rights¸ ed. by Gervais, 3d ed.,
Austin, Boston, Chicago, New York, The Netherlands, 2016, p. 140. Espressioni analoghe
sono utilizzate da LIBERTINI, Gestione collettiva dei diritti di proprietà intellettuale e concorrenza, in Gestione collettiva dell’offerta e della domanda, a cura di Spada, cit., p. 121 (che
parla di piattaforma normativa comune); MAZZIOTTI, New licensing models for online music
services in the European Union: from collective to customized management, Public Law &
Legal Theory Working Paper Group, 11-269, reperibile al sito www.ssrn.com p. 34 (che
utilizza l’espressione common playing field).
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determinate regole del gioco. Un secondo conseguente problema è quello
di giustificare “politicamente” l’applicazione delle regole del gioco a certi
soggetti ed attività e non ad altri: con conseguente rischio di introdurre
discipline differenziate per chi opera al di fuori e all’interno del recinto di
gara, e con buona pace dell’interesse a realizzare condizioni di concorrenza
uniformi (3). Quest’ultimo problema può apparentemente sembrare superabile attraverso una risposta dell’ordinamento di tipo “poliziesco”: che
vada nel senso di escludere autoritativamente dal mercato chiunque operi
al di fuori del recinto di gara; cosı̀ da evitare ogni possibilità di concorrenza fra soggetti rientranti e reciprocamente esclusi dal terreno (4). Una
risposta del genere può essere in effetti suggerita dall’esperienza di altri
settori dove pure l’ordinamento europeo ha avvertito l’esigenza di realizzare un level playing field: come i settori bancario, finanziario o assicurativo, nei quali il mancato accesso al terreno di gioco qualifica come abusivo
lo svolgimento della relativa attività, esponendola alle relative sanzioni.
In realtà a meglio riflettere le situazioni non sono paragonabili. Nei
settori bancario, finanziario e assicurativo l’interesse ad evitare fenomeni di
(3) Il problema è emerso con particolare evidenza in Germania, dove l’applicabilità
della disciplina delle collecting è stata dibattuta con riferimento ad un “nuovo” gestore,
denominato CELAS, costituito da una joint venture fra le collecting storiche tedesca ed
inglese (GEMA e PRS) per lo sfruttamento del repertorio di un’unica major discografica
(EMI). Sulla struttura e i problemi posti da CELAS cfr. MAZZIOTTI, New licensing models,
cit., p. 20. Le opinioni favorevoli all’attrazione di CELAS nel campo di gioco delle collecting
hanno argomentato proprio in base all’opportunità di applicare una disciplina uniforme ai
soggetti operanti sul mercato dell’intermediazione dei diritti d’autore: cfr. soprattutto HOEREN und ALTEMARK, Musikverwertungsgesellschaften und das Urheberrechtswahrnehmungsgesetz am Beispiel der CELAS, in GRUR, 2010, p. 16: “unterliegt sie dennoch nicht den
Regelungen des WahrnG, wird der CELAS erlaubt, ein für Nutzer unverzichtbares Repertoire zu lizenzieren, ohne dass die Regelungen des WarhnG, wie z.B. Abschlusszwang und
Tarifkontrolle, greifen”. Sembra propendere (sia pur dubitativamente) per la l’applicabilità
a CELAS della disciplina delle collecting anche ALICH, Neue Entwicklungen auf dem Gebiet
der Lizenzierung von Musikrechten durch Verwertungsgesellschaften in Europa, in GRUR
int., 2008, p. 1002 s. In senso contrario cfr. REINBOTHE, vor §§ 1 ff., in Urheberrecht, IV
Auf., hrsg v. Schricker, bearb. v. Loewenheim, Beck, München, 2010, Rdn. 14; MÜLLER,
Rechtewahrnehmung durch Verwertungsgesellschaften bei der Nutzung von Musikwerken im
Internet, in ZUM, 2009, p. 127; nonché un obiter dictum di LG München, 25 Juni 2009, in
NJOZ, 2009, p. 3194.
(4) Ad un modello di repressione “poliziesca” parrebbe ispirato il sistema tedesco che:
a) subordina lo svolgimento di attività di collecting ad una pubblica autorizzazione, in
mancanza della quale il gestore non è legittimato a fare valere alcun diritto (§ 1, Abs. 3,
WahrnG); cfr. SCHULZE, § 1 UrhWG, in Dreier, UrhG, III Auf., München, 2008, Rdn. 14:
“dem Unternehmen ist die Tätigkeit zu verbieten, wenn es die Erfordernisse des UrhWG
nicht erfüllt”; b) in caso di irregolarità prevede la possibilità di revoca dell’autorizzazione (§
4 WahrnG); c) assoggetta le collecting al controllo del Patentamt, il quale può adottare
misure dirette a garantire il rispetto delle norme del WahrnG (§ 19 WahrnG).
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abusivismo può agevolmente giustificarsi in funzione del controllo di stabilità degli operatori. Nel settore della gestione collettiva la risposta “poliziesca” non pare invece giustificata da un analogo interesse, e al contrario
sembra difficilmente compatibile con la logica concorrenziale sottostante
al sistema della direttiva: perché comporta l’esclusione dal mercato dei
soggetti che non possono o non vogliono entrare nel campo di gara; e
perché dunque in conclusione trasforma il level playing field in uno strumento di ammissione selettiva delle imprese legittimate a partecipare al
gioco concorrenziale, in antitesi con le proclamate finalità liberalizzatrici (5).
2. La giustificazione della gestione collettiva nell’impostazione tradizionale: governo dei costi di transazione e tendenza alla formazione di monopoli
naturali.
I problemi posti dalla realizzazione di un level playing field nel mercato
della gestione collettiva vanno ulteriormente chiariti ricostruendo anzitutto
la funzione di questo mercato, che qui riassumo in termini volutamente
semplificati e per certi aspetti anzi semplicistici, ma in linea con la tradizione. Le opere protette da diritti d’autore e connessi (si pensi in primis
alle opere musicali) sono oggetto di innumerevoli utilizzazioni estremamente diversificate e diffuse su ampi territori. È comunemente affermato
che queste utilizzazioni di fatto non possono essere oggetto di contrattazioni negoziate fra il singolo titolare dei diritti e l’utilizzatore, e tanto meno
possono essere controllate su base individuale (6). Il fenomeno emerge
storicamente inizialmente nel settore della esecuzione di opere musicali
(5) È significativo che persino nel sistema tedesco, pur apparentemente ispirato ad un
modello di repressione “poliziesca” (cfr. la precedente nota) non hanno avuto successo
alcuni tentativi di impedire l’attività di gestori operanti al di fuori del level playing field.
In particolare ha fatto discutere la pronuncia di BayVGH, 13 August 2002, PMG, in ZUM,
2003, p. 78, che ha annullato un provvedimento di scioglimento forzato di un gestore di
diritti di riproduzione di articoli a stampa, negandone la natura di collecting. La pronuncia
pare in effetti discutibile, ed è criticata da RIESENHUBER, Die Verwertungsgesellschaft i. S. v. §
1 UrhWahrnG, in ZUM, 2008, p. 636 s. Proprio i dubbi sulla fondatezza delle argomentazioni dei giudici tedeschi fanno tuttavia pensare che in realtà l’annullamento dello scioglimento forzato sia dipeso non tanto da solide argomentazioni tecniche, quanto piuttosto
dall’imbarazzo avvertito dai giudici a fronte della possibilità di escludere autoritativamente
dal mercato alcuni gestori, come già ho evidenziato in SARTI, La categoria delle collecting
societies soggette alla direttiva, in AIDA, 2013, p. 9, e le considerazioni della relativa nota 15.
(6) Il dato è comunemente accettato e qualsiasi elenco di citazioni è inevitabilmente
incompleto. Per una introduzione generale al tema mi limito qui a rinviare a GERVAIS,
Collective management of Copyright: theory and practice in the digital age, in Collective
management, ed. by Gervais, cit., p. 4 ss., il quale evidenzia fra l’altro l’ulteriore ostacolo
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in pubblici esercizi (tipicamente bar o sale da ballo); si intensifica per
effetto dell’evoluzione tecnologica, estendendosi alla pubblica esecuzione
di opere nei cinema, o in diffusioni radiotelevisive; assume dimensioni via
via progressivamente globalizzate per effetto dei servizi offerti dalla televisione via cavo e via satellite, e ultimamente dalle reti telematiche. In
questo contesto l’informatica e la telematica hanno poi favorito la proliferazione delle possibili utilizzazioni di tipologie di opere anche diverse da
quelle musicali: si pensi alle utilizzazioni di opere fotografiche o audiovisive all’interno di contenuti multimediali; o alle utilizzazioni di opere giornalistiche da parte di rassegne stampa telematiche (7). Ugualmente il problema delle utilizzazioni delle opere musicali continua a rivestire importanza economica centrale; è quello che offre la maggiore esperienza e
complessità di applicazioni giurisprudenziali; è comunque rappresentativo
di questioni comuni ad altre tipologie di opere; e sarà perciò preso a
parametro anche nelle seguenti riflessioni.
Il fenomeno della gestione collettiva nasce come risposta ai problemi
di negoziazione e controllo delle tipologie di utilizzazioni precedentemente
schematizzate. Secondo l’opinione tradizionale, la difficoltà di negoziazione e controllo individuale di queste utilizzazioni ha determinato la nascita
di gestori collettivi (l’esempio più noto in Italia è rappresentato dalla
SIAE), cui i singoli titolari conferiscono il potere di amministrare i loro
diritti. In prima approssimazione, il gestore collettivo (collecting society o
più brevemente collecting) (8) può essere descritto come collettore di
alle contrattazioni dovuto alla molteplicità dei titolari dei diritti (autori di musica, parole,
produttori e artisti titolari di diritti connessi).
(7) Proprio questa forma di utilizzazione ha determinato il problema di stabilire l’attrazione di un nuovo gestore all’interno del level playing field delle collecting tedesche nel
caso deciso da BayVGH, 13 August 2002, cit.
(8) Continuo a ritenere preferibile questa espressione, non più utilizzata nella versione
finale della direttiva, rispetto allo sgradevole acronimo CMO, per collective management
organisations. Quest’ultima espressione si è in effetti imposta nella versione finale della
direttiva, ed è ritenuta maggiormente appropriata dalla dottrina più moderna, forse in
quanto idonea a ricomprendere anche organizzazioni non societarie; cfr. Max Planck Comments, cit., p. 3 alla nota 2. L’espressione collecting societies sembra intesa in senso diverso
nell’esperienza americana, cfr. LUNNEY, Copyright collectives and collecting societies, in Collective management, ed. By Gervais, cit., p. 319, secondo cui nel modello collecting society
“pricing and licensing terms are set by the individual copyright owners”. In questa prospettiva il significato dell’espressione collecting society tradizionale all’esperienza europea
corrisponde a quello statunitense di copyright collective (espressione che intendo evitare, in
quanto eccessivamente restrittiva e non comprensiva del fenomeno della gestione collettiva
dei diritti connessi). Nel testo cercherò di rispettare la terminologia più moderna senza
cedere ad un uso smodato di acronimi, ed utilizzerò, credo correttamente, il semplice
termine collecting.
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“mandati” alla negoziazione dei diritti di una molteplicità di titolari (9).
Egli può cosı̀ concedere ai terzi licenze estese genericamente all’utilizzazione di tutte le opere per cui ha ricevuto “mandato”, e che formano il c.d.
“repertorio” del gestore. La concessione della licenza può fra l’altro in tal
modo ricomprendere (e di fatto sempre ricomprende) non solo le opere
attuali, ma anche quelle create successivamente, nel periodo del vigore
dell’accordo relativo al repertorio, ed alle quali i titolari abbiano esteso
il “mandato” alla gestione.
La gestione collettiva consente dunque di concentrare presso un unico
contraente licenziante e in un unico contratto l’accordo relativo all’utilizzazione di un numero tendenzialmente ampio di opere: e precisamente
tutte le opere che formano il repertorio (presente e futuro) della collecting
(c.d. licenza generale di utilizzazione, e nella terminologia anglosassone
blanket license). La gestione collettiva reciprocamente evita i costi di contrattazione altrimenti necessari alla concessione di licenze su base individuale per ogni singola opera. D’altro canto il gestore collettivo è comunemente considerato legittimato ad agire contro chi utilizzi le opere del
repertorio sine titulo, in assenza di un contratto di licenza generale. Il
sistema cosı̀ predisposto dunque contemporaneamente accentra e riduce
i costi dell’esercizio dell’azione di contraffazione: che ciascun titolare dei
diritti non sarebbe in grado di affrontare per perseguire tutte le possibili
innumerevoli utilizzazioni delle proprie opere su base individuale. La riduzione dei costi dell’azione di contraffazione rende conseguentemente
credibile l’efficacia deterrente del suo possibile esercizio, e di fatto costituisce incentivo a che gli interessati all’utilizzazione delle opere concludano
con i gestori collettivi contratti di licenza sul repertorio.
In termini economici, il sistema delle collecting è stato giustificato in
funzione dell’interesse alla riduzione dei costi di transazione (10). Questo
(9) Non voglio qui tornare sul problema se il riferimento al mandato (comune nella
terminologia corrente) vada inteso in senso tecnico civilistico; ho affrontato questo problema
e risposto negativamente in SARTI, La gestione collettiva dei diritti di proprietà intellettuale fra
«mandato» e rapporti associativi, in Studi in onore di Cian, Padova, 2010, p. 2263 ss.
(10) Sulla funzione di abbattimento dei costi di transazione cfr. in generale MIRONE,
Libertà di associazione e gestione collettiva dei diritti di proprietà intellettuale, in AIDA, 2005,
p. 133; RICCIO, Copyright collecting societies e regole di concorrenza, Torino, 2012, p. 65 ss.;
Max Planck Comments, cit., parr. 5 ss.; LUNNEY, Copyright collectives, cit., p. 320 ss. In
prospettiva di analisi economica del diritto, nonché di bilanciamento con i possibili costi di
monopolizzazione del mercato, cfr. CIRACE, CBS v. ASCAP: an economic analysis of a
political problem, 47 Fordham L. Rev. 277 (1978-1979), p. 293 ss.; SOBEL, The music business
and the Sherman act: an analysis of the “economic realities” of blanket licensing, 3 L.A. Ent. L.
J. 1 (1983), p. 47 ss.; FUJITANI, Controlling the market power of performing rights societies: an
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interesse appare tanto più efficacemente perseguibile quanto minore è il
numero dei gestori collettivi. A un maggior numero di gestori, corrisponde
tendenzialmente un maggiore costo per gli utilizzatori, che per potere
sfruttare ampi repertori di opere senza incorrere nel rischio di contraffazione dovrebbero tendenzialmente concludere licenze separate con tutte le
diverse collecting. In questa prospettiva, sul piano strettamente economico,
la differenza fra gestione collettiva e gestione individuale sfuma per divenire una differenza non tanto qualitativa, ma quantitativa. Quanto maggiore è il numero delle collecting, tanto più il sistema di contrattazione si
avvicina ad un sistema di negoziazioni individuali, e reciprocamente minore diviene il risparmio dei relativi costi.
Nella medesima prospettiva è stata spiegata la tendenza del mercato
delle collecting alla formazione di monopoli quanto meno naturali (11). E
administrative substitute for antitrust Regulation, 72 Cal. L. Rev. (1984) 103, p. 107 ss.;
BESEN and KIRBY, Compensating creators of intellectual property, The Rand corporation, R3751-MF, March 1989, reperibile al sito www.ssrn.com, p. 2 ss.; BESEN, KIRBY,SALOP, An
economic analysis of copyright collectives, 78 Virg. L. Rev. 383 (1992), p. 390 s.; GOLDSTEIN,
Commentary on “An economic analysis of copyright collectives”, 78 Virg. L. R. 413; JOHNSON,
Commentary on “An economic analysis of copyright collectives”, 78 Virg. L. R. 417; HANDKE
and TOWSE, Economics of copyright collecting societies, 38 Int. rev. of int. prop. and comp. law
937 (2007), reperibile al sito www.ssrn.com, da cui traggo i riferimenti, p. 2 ss.; HANSEN and
SCHMIDT-BISCHOFFSHAUSEN, Economic functions of collecting societies. Collective rights management in the light of transaction cost- and information economics, draft reperibile al sito
www.ssrn.com, 2007, p. 4 ss.; ZABLOCKA, Antitrust and copyright collectives. An economic
analysis, in Yearbook of antitrust and regulatory studies, 2008, reperibile al sito
www.ssrn.com, p. 156 ss. In una (discutibile) prospettiva più ampia, tendente ad attrarre
la funzione delle collecting in una più generale funzione di abbattimento dei costi di transazione perseguita anche da diverse tipologie di organizzazioni e accordi, come i patent pools,
cfr. MERGES, Contracting into Liability Rules: Intellectual Property Rights and Collective
Rights Organizations, 84 Cal. L. Rev. 1293 (1996).
In una prospettiva di analisi economica del diritto tendente a considerare le efficienze
della gestione collettiva prevalenti rispetto ai rischi di monopolizzazione cfr. LIEBOWITZ and
MARGOLIS, Bundles of joy: the ubiquity and efficiency of bundles in new technology markets,
reperibile al sito www.ssrn.com, p. 21 ss. In una prospettiva opposta, tendente a negare
queste efficienze e a considerare sempre prevalenti gli effetti negativi di monopolizzazione,
cfr. KATZ, Commentary: is collective administration of copyrights justified by the economic
literature?, in Competition policy and intellectual property, ed. By Vaver, Boyer, Trebilock,
Toronto, 2009, p. 449 ss., reperibile al sito www.ssrn.com. Parte della dottrina ha comunque
rilevato che la funzione di abbattimento dei costi di transazione non può interamente
spiegare la ragion d’essere delle collecting, cfr. KRETSCHMER, The failure of property rules
in collective administration: rethinking copyright societies as regulatory instruments, in EIPR,
2002, p. 133: “the transaction cost argument for collective administration from the cost of
individual contracting may support not a universal rights administration system”. Questa
considerazione offre a mio avviso interessanti spunti di riflessione, non sviluppabili nel
presente lavoro, per un ripensamento della giustificazione “politica” del level playing field.
(11) Anche questo dato è comunemente accettato: cfr. ad esempio OLIVIERI, Sullo
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
cosı̀ pure si spiega altresı̀ la logica sottostante ad alcune legislazioni nazionali che, prendendo atto della spontanea tendenza del mercato alla formazione di posizioni monopolistiche, hanno direttamente riconosciuto ad
un’unica collecting la qualità di monopolista legale, per assoggettarla cosı̀
ad un sistema di controllo pubblicistico. Tanto è in particolare avvenuto in
Italia attraverso il riconoscimento in capo alla SIAE della posizione di
monopolista legale dell’intermediazione dei diritti d’autore (art. 180
l.a.) (12).
In realtà, e più precisamente, le posizioni monopolistiche nell’attività
di collecting si sono storicamente formate su base territoriale e frazionata
per stati nazionali. Anche questo frazionamento territoriale dei monopoli
aveva una spiegazione economica relativamente semplice. Già si è visto che
l’accentramento delle negoziazioni dei diritti d’autore e connessi in tanto è
effettivamente praticabile in quanto sia assistito da un sistema efficace di
repressione delle utilizzazioni non autorizzate; e che questa efficacia dipende a sua volta dall’accentramento (con conseguente abbattimento dei
costi) delle iniziative di enforcement. Quando queste utilizzazioni avvengono nel mondo reale, l’enforcement presuppone la presenza di un’organizzazione di controllo fortemente strutturata a livello locale (si pensi al
personale necessario per i controlli nei pubblici esercizi, ma lo stesso
controllo sulle emissioni radiotelevisive ha storicamente richiesto la presenza di organizzazioni vicine al luogo di emissione). Di qui la tendenziale
statuto concorrenziale delle collecting societies, in Studi dedicati a Libertini, cit., p. 1135 ss.;
Max Planck Comments, cit., parr. 5 ss.; DREXL, Collective Management of Copyrights and the
EU principle of free movement of services after the OSA judgment - in favour of a more
balance approach, in Varieties of European economic law and regulation, ed. by Purnhagen
and Rott, New York, 2014, p. 464 s.; per un’illustrazione delle ragioni e dei costi del
monopolio naturale in termini di analisi economica del diritto cfr. BESEN, KIRBY,SALOP,
An economic analysis of copyright collectives, cit., p. 390 ss. Per una lettura tendente a
ridimensionare fortemente tanto gli effetti di efficienza, quanto la loro riconducibilità al
riconoscimento di posizioni monopolistiche delle collecting, cfr. KATZ, The potential demise
of another natural monopoly: rethinking the collective administration of performing rights, 1
Journal of Comp. L. Ec. 541 (2005), reperibile al sito www.ssrn.com, p. 11 ss. e le conclusioni
di p. 46 ss.
(12) In Italia il monopolio legale di SIAE è stato tradizionalmente giustificato sulla base
di considerazioni apparentemente diverse da Corte cost. 17 aprile 1968, in IDA 1968, p. 143
ss.; Corte cost. 19 aprile 1972, ivi 1972, p. 194 ss., che richiamano l’interesse generale alla
promozione della cultura. Mi pare tuttavia che questo richiamo spieghi in realtà poco e
rischi di mascherare una petizione di principio, se non ulteriormente precisato con l’esigenza
di controllare i monopoli naturali. La spiegazione proposta nel testo mi pare in linea con una
lettura più moderna della norma, che del resto trova riscontro in DREXL, Collective Management of Copyrights, cit., p. 464, proprio con riferimento alla SIAE e alle altre società
monopoliste legali sul mercato europeo.
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formazione di strutture di collecting fisicamente presenti ed operanti su
base nazionale. Le singole collecting nazionali hanno poi predisposto un
sistema reciproco di scambi dei servizi di negoziazione e protezione sul
proprio territorio delle opere dei repertori di collecting estere (cc.dd.
accordi di rappresentanza reciproca) (13).
Secondo la visione delle autorità europee, questo quadro dovrebbe
mutare per effetto della diffusione delle nuove tecnologie, che agevolano
il controllo anche a distanza delle nuove forme di utilizzazione (14). Cosı̀ ad
(13) L’interesse a predisporre strutture di controllo a livello locale è valorizzato da
Trib., 12 aprile 2013, causa T-442/08, CISAC, reperibile al sito curia.europa.eu, in sede di
impugnazione della decisione di Comm., 16 luglio 2008, Comp/C2/38698, CISAC, in AIDA, 2011, 1388. Secondo il tribunale questo interesse può in particolare giustificare il
frazionamento per stati delle licenze di utilizzazione del repertorio (cfr. i punti 140 ss. e
soprattutto 150-151).
(14) Questo interesse emerge in particolar modo dalla politica sottostante alle decisioni
di Comm. 8 ottobre 2002, 2003/300/CE, Simulcast, in GUUE 30 aprile 2003, L 107/58, in
particolare al punto 61; Comm., CISAC, cit., in particolare ai punti 203 ss.; esso è ulteriormente enunciato nella raccomandazione della Commissione 18 maggio 2005, 2005/737/CE,
in GUUE 21 ottobre 2005, L 276/54. L’esame dei contributi dottrinali fa emergere una
visione più articolata. Il superamento delle barriere territoriali nella concessione di licenze è
auspicato ad esempio da CONLEY, The future of licensing music online: the role of collective
rights organizations and the effect of territoriality, reperibile al sito www.ssrn.com, p. 104 ss.
V. però anche le perplessità di POLL, CELAS, PEDL & Co.: Metamorphose oder Anfang vom
Ende der kollektiven Wahrnehmung von Musik-Online-Rechten in Europa?, in GRUR, 2008,
p. 500 ss.; GUIBAULT and VAN GOMPEL, Collective management in the European Union, cit.,
p. 164 ss.; SPOHN und HULLEN, Lizenzierung von Musik zur Online-Verwertung. Statt OneStop-Shop ein Rechte-Puzzle, in GRUR, 2010, p. 1053 ss.; GYERTYÁNFY, Collective management of music rights in Europe after the CISAC decision, in IIC, 2010, p. 79. In generale sulle
problematiche della concessione di licenze multiterritoriali cfr. WOODS, Multi - territorial
licensing and the evolving role of collective management organizations, in Collective management of Copyright and related rights, ed. by Gervais, 2d ed., Austin, Boston, Chicago, New
York, The Netherlands, 2010, p. 105 ss. (l’articolo non è riprodotto nella terza edizione). La
predisposizione di un sistema multiterritoriale di licenze potrebbe in particolare determinare
la prevalenza delle collecting che abbassano maggiormente il livello di royalties: a scapito
dell’interesse degli autori, e con stravolgimento del sistema tradizionale ove il canone di
licenza è autonomamente determinato per ciascuno stato conformemente al proprio sistema
di regolamentazione. A questo problema aveva cercato di rispondere il Santiago Agreement,
concluso fra le collecting più importanti, secondo cui la licenza multiterritoriale doveva
essere richiesta alla collecting stabilita nel territorio di residenza del licenziatario. In tal
modo il canone di licenza avrebbe comunque dovuto rispondere alle scelte “politiche”
del sistema di regolamentazione del paese del licenziatario. La Commissione ha tuttavia
ritenuto che l’accordo di Santiago restringesse illegittimamente la concorrenza in quanto
limitava la libertà di scelta della collecting licenziante; cfr. Commissione, Accordo di Santiago,
COMP/C2/38126, in GUUE 17 agosto 2005, C 200/11. Il sistema dell’accordo di Santiago
è stato perciò successivamente abbandonato; cfr. WOODS, op. cit., p. 115 ss. Il problema è
emerso anche nella vicenda Simulcasting, dove peraltro l’accordo per la concessione di
licenze multiterritoriali non restringeva la libertà degli utilizzatori di scegliere la collecting
licenziante. L’accordo Simulcasting superava il problema “politico” della perdita di controllo
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
esempio, e tipicamente, lo sfruttamento di opere per via telematica è
visibile e controllabile in linea di principio da ogni parte del mondo; e
può corrispondentemente essere negoziato da un gestore collettivo operante a livello transnazionale, indipendentemente dalla vicinanza fisica con
l’utilizzatore (15). Di qui la possibilità di un abbattimento dei monopoli
tradizionali operanti a livello statale, con conseguente maggiore concorrenza transnazionale delle collecting. Di qui anche la necessità di un level
playing field di svolgimento dell’attività concorrenziale delle collecting,
predisposto dalla direttiva 2014/26/UE.
3. Profili critici del level playing field: il problema della discriminazione
delle collecting rispetto a editori e produttori.
Il quadro cosı̀ sommariamente ricostruito consente di chiarire meglio i
termini del problema evidenziato all’inizio del presente lavoro: e cioè il
problema di delimitare i confini del level playing field; e rispettivamente di
giustificare l’applicazione di particolari regole del gioco diverse da quelle
applicabili sul mercato concorrenziale generale. La questione emerge considerando la posizione di alcuni gestori tradizionalmente considerati estranei alla categoria delle collecting e al relativo terreno di gioco: e precisamente la posizione degli editori (tipicamente, librari e musicali) e dei
produttori (tipicamente, fonografici e audiovisivi).
In effetti editori e produttori raccolgono e gestiscono diritti su diverse
opere (il repertorio delle opere letterarie, musicali, audiovisive èdite o
prodotte), appartenenti a numerosi autori, artisti e interpreti, e acquisiti
in virtù di contratti di edizione o produzione fonografica e audiovisiva. La
delle royalties praticate su ciascun territorio uniformando i canoni di licenza ad un livello
corrispondente alla “aggregazione di tutti i diritti determinati a livello nazionale” (id est, alla
somma delle royalties che ciascuna delle collecting avrebbe applicato per una licenza concessa sul proprio territorio, cfr. i parr. 108 ss. della decisione). Sotto questo profilo è
innegabile la restrizione concorrenziale derivante dall’accordo, che tuttavia è stata ritenuta
indispensabile per realizzare un sistema di licenze multiterritoriali, e perciò ritenuta meritevole di esenzione in base all’art. 81.3 Tr. CE vigente all’epoca.
(15) L’evoluzione tecnologica potrebbe inoltre secondo alcuni determinare un superamento della stessa attività di collecting a vantaggio di negoziazioni individuali decentrate in
capo a ogni singolo titolare, e rese possibili dalla predisposizione di piattaforme telematiche
che consentano l’incontro della domanda e dell’offerta di licenze; cfr. GOLDSTEIN, Commentary on “An economic analysis of copyright collectives”, cit., p. 415; GERVAIS, Collective
management of Copyright, cit., p. 22; HANSEN and SCHMIDT-BISCHOFFSHAUSEN, Economic
functions of collecting societies, cit., p. 11 ss.; Comm. 12 agosto 2002, COMP/C2/37.219,
Daftpunk, reperibile al sito ec.europa.eu, p. 11. Le problematiche della negoziazione individuale su piattaforma telematica non sono prese in considerazione nel presente lavoro,
proprio perché costituiscono un fenomeno diverso rispetto all’attività di collecting.
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non riconducibilità di editori e produttori alla categoria delle collecting è
tuttavia data tradizionalmente per pacifica (16), ed è ribadita nel 16˚ considerando della direttiva, che ulteriormente esclude da questa categoria anche le emittenti (17). La previsione del considerando trova poi riscontro
nell’art. 3 della direttiva, che prevede come requisito essenziale della collecting lo svolgimento di un’attività di gestione di diritti “a vantaggio
collettivo” dei titolari “come finalità unica o principale” (18). Ora evidentemente editori, produttori ed emittenti non hanno come finalità principale (o tanto meno unica) quella di gestire (o tanto meno di gestire collettivamente) i diritti dei titolari: perché in primis si propongono di pubblicare, produrre o diffondere opere dell’ingegno. L’esclusione di queste
categorie di soggetti dal level playing field sembra dunque certa. Meno
chiara è tuttavia la giustificazione “politica” della diversità di trattamento.
Un produttore di contenuti audiovisivi potrebbe in particolare essere
interessato a negoziare i suoi diritti in forme del tutto simili a quelle di
(16) Il problema è ben presente alla dottrina tedesca, e unanimemente risolto nel senso
della esclusione di queste categorie di soggetti dall’ambito delle collecting disciplinate nella
relativa legge speciale; cfr. ad esempio REINBOTHE, § 1 WahrnG, in Urheberrecht, cit., Rdn.
4, 7; RIESENHUBER, Die Verwertungsgesellschaft, cit., p. 637 s.; SCHULZE, § 1 UrhWG, cit.,
Rdn. 10; HOEREN und ALTEMARK, Musikverwertungsgesellschaften, cit., p. 17 s.
(17) Questa esclusione pare a prima vista pleonastica, in quanto tradizionalmente e
tipicamente le emittenti radiotelevisive sono utilizzatrici dei diritti d’autore e connessi, e non
ne negoziano ulteriormente lo sfruttamento concedendo licenze a terzi. In realtà la previsione del considerando trova una giustificazione alla luce dell’evoluzione del mercato dell’intermediazione. Si pensi ad una emittente che gestisca un repertorio di opere destinate alla
diffusione in locali commerciali, e che negozi i relativi diritti di comunicazione al pubblico
con una catena di supermercati. La differenza fra questa negoziazione e quella di una
collecting appare sfuggente (cosı̀ come sfuggente è la differenza fra la negoziazione di una
collecting e quella di un produttore audiovisivo che consente la messa a disposizione delle
sue opere su un portale telematico). Il sistema della direttiva ribadisce anche in tali casi
l’inestensibilità del level playing field, ponendo all’interprete il problema di giustificare la
scelta legislativa.
(18) Il requisito è ribadito in termini identici tanto nella lett. a) quanto nella lett. b)
dell’art. 3, e vale perciò tanto tanto per i c.d. “organismi di gestione collettiva” (OGC)
quanto per le “entità di gestione indipendente” (EGI). Il significato della previsione di
questa duplice categoria di intermediari sarà approfondito fra breve.
Le considerazioni del testo rimeditano in parte la tesi che avevo proposto in SARTI, La
categoria delle collecting societies, cit., p. 19 ss., dove avevo ricostruito la nozione di collecting
sulla base del carattere collettivo della gestione di un intero repertorio. Tuttavia a ben
vedere (e come riconoscevo anche nel mio precedente lavoro, dove superavo l’obiezione
sulla base di argomenti ora non più proponibili, per le ragioni esposte infra, paragrafo 10)
questa tipologia di gestione è astrattamente possibile anche per editori e produttori (v.
subito oltre nel testo). Mi pare dunque ora più opportuno ragionare partendo dalla lettera
della norma, e dal dato per cui la gestione collettiva del repertorio non costituisce “finalità
unica o principale” dell’attività di editori e produttori (v. sempre oltre nel testo).
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
una collecting: per consentire ad esempio ad una piattaforma telematica
(si pensi a Youtube) di mettere a disposizione del pubblico frammenti di
opere individuate non singolarmente, ma con riferimento all’intero repertorio, presente e futuro, del produttore (19). È qui difficile immaginare che una negoziazione di questo tipo sia preclusa agli editori e
produttori, e riservata alle collecting. Una riserva del genere determinerebbe infatti proprio gli effetti restrittivi della concorrenza ipotizzati
nell’introduzione del presente lavoro: porterebbe cioè ad una esclusione
“poliziesca” di alcuni soggetti da un importante segmento del mercato
della gestione dei diritti (20). L’opposta conclusione favorevole alla concorrenza delle collecting con editori e produttori porta tuttavia ad ammettere la compresenza di categorie di competitors assoggettate a regole
diverse: non rientrando editori e produttori nel level playing field predisposto per le collecting.
4. Il perimetro del level playing realizzato dalla direttiva: “organismi di
gestione collettiva” (OGC) e “enti di gestione indipendente” (EGI).
Il problema della giustificazione “politica” dei confini del recinto di
gara è reso ulteriormente complesso dalla formulazione dell’art. 3 della
direttiva, che ha avuto una storia particolarmente “sofferta”. Il progetto
iniziale di direttiva (art. 3, lett. a) limitava il level playing field alle collecting
per le quali la gestione dei diritti d’autore e connessi costituisse “finalità
unica o principale”, e che ad un tempo risultassero detenute o controllate
(19) L’eventualità si è storicamente verificata anche in Italia, dove un comunicato
stampa Google / Mediaset del 21 ottobre 2015 dà conto di un accordo per la “presenza
digitale dei contenuti Mediaset attraverso una partnership con YouTube e con Google
Play”. La possibilità per editori e produttori di concedere licenze sui propri repertori è
valorizzata (proprio per contestare le efficienze pretesamente derivanti dal sistema di collecting) da KATZ, The potential demise, cit., p. 13 e p. 22 s.: “it might be possible, however,
that as a consequence of some of the economies of scale and scope discussed earlier, music
publishers would license their respective repertoires on a blanket basis even under competition”.
(20) Il testo volutamente non valorizza in proposito l’art. 180, co. 4, l.a., che consente
agli autori ed ai loro aventi causa di negoziare direttamente i loro diritti. Alcuni potrebbero
forse di qui sostenere la legittimità di una negoziazione diretta da parte di editori o produttori (aventi causa dei diritti) in concorrenza con le collecting, pur nel vigore del sistema
italiano di monopolio legale. Le considerazioni del testo affrontano comunque il problema
in chiave generale di diritto europeo, a maggior ragione in quanto non è dato sapere se e
come le norme italiane resteranno in vigore dopo l’attuazione della direttiva. D’altro canto
l’art. 180 l.a. è una norma per molti aspetti di difficile lettura: che non necessariamente porta
a concludere nel senso della legittimità di negoziazioni genericamente riferite a un intero
repertorio di opere, anziché di opere individualmente determinate.
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dai titolari dei diritti gestiti (21). Questa definizione era chiara nell’escludere dal suo campo di applicazione l’attività degli editori e dei produttori:
che evidentemente non sono controllati dai titolari dei diritti gestiti, ma
sono tipicamente società controllate da soci capitalisti. Coerentemente i
considerando non ritenevano necessario puntualizzare l’esclusione di editori o produttori dalla categoria delle collecting, e non contenevano una
previsione corrispondente a quella dell’attuale 16˚ considerando.
La definizione del progetto di direttiva venne tuttavia criticata da
alcuni osservatori, che la consideravano eccessivamente restrittiva, proprio
in quanto escludeva dal suo campo di applicazione i gestori non controllati
dai titolari dei diritti intermediati (22). La critica ha indubbiamente influenzato la redazione della versione definitiva della direttiva, che ha ampliato
in due direzioni il perimetro di gioco. In particolare il legislatore europeo
ha esteso l’applicazione della direttiva in una prima direzione per ricom-
(21) Più precisamente il progetto di direttiva presupponeva il controllo della collecting
da parte dei “propri membri”, per “membri” tuttavia intendendo i titolari dei diritti (o altre
collecting rappresentative di titolari dei diritti); cfr. la lett. c) dell’art. 3 del progetto.
Il perimetro di applicazione originariamente pensato per la direttiva si ricollegava a
una importante tradizione storica di formazione delle collecting secondo modelli ispirati al
controllo dei titolari dei diritti intermediati. Ho cercato di ripercorrere l’evoluzione di questi
modelli in SARTI, Gestione collettiva e modelli associativi, in Gestione collettiva dell’offerta e
della domanda di prodotti culturali, a cura di Spada, cit., p. 30 ss., dove ho anche tentato di
spiegare le ragioni del passaggio dai modelli riconducibili al libro I del c.c., verso modelli
riconducibili al libro V. Queste ragioni vanno individuate nell’affievolimento della funzione
solidaristica storicamente propria delle collecting, e nella conseguente spinta verso la valorizzazione di interessi capitalistici alla remunerazione di investimenti effettuati (anche) da
soggetti diversi dai titolari dei diritti gestiti. Fra breve nel testo emergerà che la valorizzazione di questi interessi capitalistici è alla base della nascita della categoria di gestori
etichettata dalla direttiva con l’espressione “entità di gestione indipendente”, e parzialmente
attratta nel perimetro del level playing field.
(22) Cfr. Max Planck Comments, cit., punto 29, secondo cui “by this wording the
Proposal excludes other forms of organisations, such as corporations with shareholders,
who are not rightholders themselves, from the scope of application of the Directive. In
particular, the definition runs the risk of allowing circumvention”. In senso analogo sembra
di potere leggere anche il parere di Autorità garante, 24 dicembre 2012, AS 1009, peraltro
espresso in termini più criptici, secondo cui “dato che l’attività di intermediazione può
essere svolta da soggetti strutturati anche in forme diverse da quelle a base associativa,
appare opportuno interrogarsi, come ha fatto codesto Dipartimento, sulle potenziali criticità
concorrenziali derivanti dalla scelta di individuare quali destinatari della direttiva esclusivamente le società di gestione a base associativa” (dove probabilmente l’Autorità intende per
società a base associativa quelle controllate dai titolari dei diritti intermediati). In prospettiva
analoga LIBERTINI, Gestione collettiva dei diritti di proprietà intellettuale e concorrenza, cit., p.
122, ritiene anticoncorrenziale un sistema di regolamentazione dell’accesso all’attività di
gestione collettiva che escluda soggetti non strutturati secondo la fisionomia tradizionale
(id est, non strutturati secondo una governance incentrata sul potere di controllo dei titolari
dei diritti intermediati).
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
prendervi le organizzazioni senza fini di lucro, quand’anche non controllate dai titolari dei diritti (si pensi ad esempio, e tipicamente, a un gestore
organizzato in forma di fondazione, o di ente pubblico non associativo).
Le collecting controllate dai titolari dei diritti e quelle prive di finalità
lucrative formano cosı̀ una categoria di intermediari (ricompresi nell’art.
3, lett. a) che la direttiva etichetta come “organismi di gestione collettiva”
(da cui l’acronimo OGC), per attrarli in un unico level playing field. In una
seconda e più problematica direzione il legislatore europeo ha esteso l’applicazione della direttiva agli intermediari non controllati dai titolari dei
diritti, e ad un tempo costituiti con finalità lucrative. Queste collecting
formano una categoria di intermediari (menzionati nell’art. 3, lett. b) che
la direttiva etichetta come “entità di gestione indipendente” (da cui l’acronimo EGI), ma che io preferisco declinare al maschile sostituendo lo
sgradevole lemma “entità” con il maggiormente accettabile “enti”. Gli
EGI sono soltanto parzialmente attratti nel level playing field degli
OGC: come meglio preciserò fra breve.
Preliminarmente occorre tuttavia osservare che l’allargamento agli
EGI dell’applicazione delle norme della direttiva poneva il problema del
trattamento degli editori e produttori. Mentre nel progetto di direttiva
questi ultimi potevano infatti tranquillamente essere esclusi dalla nozione
di collecting, in quanto non controllati dai titolari dei diritti, nella versione
definitiva sarebbero potuti astrattamente ricadere nella categoria degli
EGI. Non a caso dunque, e proprio per escludere questa conseguenza,
la versione finale della direttiva presenta rispetto al progetto differenze
apparentemente di dettaglio, ma sistematicamente significative. In particolare (come già anticipato) la direttiva contiene un 16˚ considerando (assente nel progetto) che espressamente esclude la riconducibilità di editori
e produttori (nonché emittenti) alla nozione di collecting. La versione
finale dell’art. 3 puntualizza inoltre (tanto con riferimento agli OGC quanto agli EGI) che la collecting deve avere “come finalità unica o principale”
una gestione “a vantaggio collettivo” dei titolari; mentre già si è visto che
editori e produttori, quand’anche negozino diritti su interi repertori e
perciò “collettivamente”, non hanno ad oggetto esclusivo e principale
questa attività e questa modalità di negoziazione. I critici del progetto di
direttiva e fautori dell’allargamento del level playing field previsto nella
versione finale evidenziano poi un ulteriore aspetto: e precisamente il fatto
che OGC e EGI negoziano i diritti “per conto” di più di un titolare. Di
qui gli interpreti deducono il carattere essenzialmente fiduciario dell’attività di collecting: che giustificherebbe la contrapposizione con editori e
produttori (i quali agiscono nell’interesse proprio, non in qualità di fidu-
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ciari di un interesse altrui); e ad un tempo confermerebbe l’impostazione
storica tedesca, secondo cui l’elemento fiduciario qualificherebbe la fattispecie della collecting e varrebbe quindi a determinare i confini del level
playing field (23).
In realtà a me sembra che la costruzione del perimetro di gioco sulla
base della natura (pretesamente) fiduciaria delle collecting risulti fuorviante
sotto almeno due profili. Sotto un primo profilo la ricostruzione trascura
che l’allargamento agli EGI del campo di applicazione della direttiva ha
ulteriormente frammentato il level playing field, ponendo cosı̀ all’interprete
il problema di giustificare “politicamente” non solo i confini del recinto di
gara delle collecting, ma anche i confini che caratterizzano il recinto di gara
degli OGC rispetto a quello degli EGI, secondo quanto emergerà nel
seguente paragrafo. Sotto un secondo profilo la valorizzazione della funzione fiduciaria delle collecting non spiega norme della direttiva assolutamente indifferenti a questa funzione, e che ad un tempo risultano centrali
per ricostruire il fondamento “politico” del level playing field: come mi
propongo di dimostrare nei seguenti paragrafi. Confido che questa dimostrazione elimini una serie di equivoci sottostanti alle interpretazioni tradizionali, e aiuti a ripensare l’intera materia. La complessità dei problemi
che emergeranno non mi consentirà tuttavia allo stato di sviluppare nel
presente lavoro una pars construens consequenziale alla pars destruens.
5. Il level playing field comune a OGC ed EGI si limita alla regolamentazione dei rapporti con gli utilizzatori dei repertori.
La direttiva europea sulla gestione collettiva si compone di due grandi
gruppi di norme. Un primo gruppo (titolo II) uniforma in generale la
disciplina degli organismi di gestione collettiva. Un secondo gruppo (titolo
III) uniforma la disciplina di “concessione di licenze multiterritoriali per i
diritti su opere musicali online da parte di organismi di gestione collettiva”. Le considerazioni del presente lavoro si concentrano sul primo gruppo di norme del titolo II (artt. 4-22): che disciplinano il level playing field
dell’attività di collecting non limitato alle licenze online. La lettura di
queste norme deve essere naturalmente integrata con quella delle disposizioni generali del titolo I e delle misure di esecuzione del titolo IV.
(23) Cfr. DREXL, Collective Management of Copyrights, cit., p. 463 s., in particolare alla
nota 15, secondo cui “fortunately, the final text of the Directive has reacted to this critique”
al progetto iniziale, in quanto “Article 3(a) of the Directive now stipulates that a CMO
needs to manage rights ‘on behalf of more than one rightholder’”.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
In questa prospettiva il level playing field dell’attività di collecting
appare costituito da diciannove norme del titolo II (artt. 4-22), che tuttavia
a ben vedere non livellano affatto il campo di gara di tutti i gestori, ma
livellano solo il terreno di gioco degli OGC, e perciò dunque soltanto dei
soggetti controllati dai titolari dei diritti, od operanti senza fini di lucro. Il
campo di gioco del titolo II comune a OGC ed EGI (comprensivo perciò
dell’attività di collecting lucrative non controllate dai titolari dei diritti) si
riduce a quattro norme: cui rinvia l’art. 2.4 della direttiva, per dichiararne
l’applicabilità anche agli EGI (arttt. 16.1, 18, 20, 21.1, peraltro non applicabile integralmente). Ora un level playing field cosı̀ fortemente circoscritto rispetto al contenuto complessivo della direttiva fa già sorgere il
sospetto che il tanto decantato terreno di gioco comune sia più apparente
che reale. L’impressione è poi ulteriormente rafforzata prendendo in considerazione il contenuto delle norme rispettivamente estensibili o non
estensibili all’attività degli EGI.
La maggior parte delle norme estensibili agli EGI persegue un interesse alla trasparenza dei rapporti con i titolari dei diritti e degli utilizzatori. Cosı̀ precisamente l’art. 18 impone alla collecting di informare i titolari dei diritti delle modalità e soprattutto del risultato della gestione, ivi
comprese le spese sostenute e detrazioni applicate. L’art. 20 impone di
fornire su richiesta di titolari e utilizzatori informazioni relative al repertorio gestito. L’art. 21 impone di divulgare al pubblico una serie di informazioni su statuto, contratti, spese, distribuzione del risultato della collecting. Si tratta di norme certo importanti, ma che assumono ruolo modesto
sul piano dell’interesse alla realizzazione di un level playing field specifico
della gestione collettiva. Le informazioni che OGC ed EGI devono obbligatoriamente fornire non sono molto diverse da quelle che normalmente
danno anche editori e produttori in sede di contrattazione con autori,
artisti e terzi interessati all’utilizzazione dei relativi cataloghi.
La vera chiave di volta del level playing field comune a OGC ed EGI si
ritrova perciò in realtà in un’unica norma: e cioè nell’art. 16.1, secondo cui
gli stati membri devono garantire “che gli organismi di gestione collettiva e
gli utilizzatori conducano in buona fede le negoziazioni per la concessione
di licenze sui diritti”. La norma va letta alla luce dell’ulteriore art. 36 (24), a
sua volta richiamato dall’art. 2.4 e applicabile a OGC ed EGI, che prevede
(24) Non considero qui il successivo art. 42, pur applicabile a EGI e OGC, ma che si
limita a richiamare il rispetto della direttiva privacy, con norma (pleonastica) evidentemente
estranea all’obiettivo di realizzazione di un level playing field specificamente pensato per
l’attività di collecting.
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l’introduzione di meccanismi di enforcement delle “regole del gioco” del
titolo II, e perciò anche dell’art. 16.1. In particolare l’art. 36 impone agli
stati membri di istituire autorità competenti a controllare il rispetto delle
norme di attuazione della direttiva, e sommariamente fissa alcune regole di
procedura e sanzionatorie funzionali a questo controllo.
La lettura coordinata dell’art. 16.1 e dell’art. 36 fa allora emergere un
level playing field specifico alle collecting: che assoggetta la concessione di
licenze sul repertorio ad un controllo pubblicistico di apposite autorità
(istituite dai singoli stati membri); e dunque essenzialmente ad una disciplina di regolamentazione settoriale, non estensibile a soggetti diversi,
quali in primis editori, produttori o emittenti. L’art. 36 d’altro canto
chiaramente impone agli stati membri di introdurre per i gestori collettivi
controlli ulteriori e diversi da quelli previsti dal diritto generale antitrust: e
fra l’altro controlli che prescindono (diversamente da quelli antitrust) dall’esistenza o meno in capo alla collecting di un potere monopolistico (25).
Vero è anche tuttavia che un level playing field definito da un’unica
norma sostanziale (art. 16.1) integrata da una seconda norma di enforcement (art. 36) appare già a prima vista circoscrivere fortemente l’interesse
alla realizzazione di un campo di gioco uniforme. E questa impressione,
ricavata dal rilievo puramente quantitativo delle norme applicabili a tutte
le collecting, appare ulteriormente confermata anche da un primo sommario esame del contenuto della disciplina della direttiva applicabile agli
OGC e non agli EGI.
Qui già è significativo che l’art. 2.4 della direttiva non estende agli
EGI l’applicazione dell’intero art. 16, ma solo l’applicazione dell’art. 16.1.
Con l’ulteriore corollario che da un lato gli EGI, al pari degli OGC,
(25) La scelta del legislatore europeo di costruire un level playing field basato su un
sistema di regolamentazione e controllo della politica di concessione di licenze si ispira ad
un modello noto all’esperienza di diversi paesi europei. In particolare per la Germania cfr. il
§ 11 WahrnG, ed il relativo commento di REINBOTHE, sub § 11, in Urheberrecht¸ hrsg. v.
Schricker und Loewenheim, cit.; per la Gran Bretagna cfr. gli artt. 116 ss. del Copyright,
Designs and Patents Act, ed in dottrina TORREMANS, Collective management in the United
Kingdom (and Ireland), in Collective management, ed. by Gervais, 2d ed., cit., p. 266 ss.
(l’articolo non è riprodotto nella terza edizione). Le collecting italiane non sono state sin qui
assoggettate ad un sistema generale di regolamentazione e controllo delle politiche di concessione di licenze. L’interesse dei terzi all’utilizzazione del repertorio è stato ritenuto
tutelabile, ma solo nei confronti di SIAE, dall’applicabilità dell’art. 2597 c.c. in tema di
obblighi di contrarre del monopolista legale; cfr. Corte cost. 15 maggio 1990 n. 241, in Foro
it., 1990, I, c. 2401. Sotto questo profilo l’attuazione della direttiva aprirà dunque in Italia
nuovi scenari. Un controllo del livello delle royalties praticate nei confronti dei terzi non mi
sembra allo stato previsto nemmeno in Francia, cfr. gli artt. L321-1 ss. code de la propriété
intellectuelle.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
devono condurre “in buona fede le negoziazioni per la concessione di
licenze sui diritti” (art. 16.1); d’altro canto tuttavia gli EGI, diversamente
dagli OGC, non paiono assoggettati all’obbligo (distintamente previsto
dall’art. 16.2) di basare le “condizioni di concessione delle licenze […]
su criteri oggettivi e non discriminatori”. In questa prospettiva nemmeno il
profilo di regolamentazione dei rapporti fra collecting ed utilizzatori sembrerebbe completamente uniformato in un terreno di gioco comune. Certo
la distinzione fra obbligo di negoziazione in buona fede e obbligo di
applicare condizioni oggettive e non discriminatorie appare sfuggente.
Ad un tempo l’intenzione del legislatore di non attrarre gli EGI nel campo
di quest’ultimo obbligo appare difficilmente discutibile: il mancato rinvio
dell’art. 2.4 all’intero art. 16 non sembra attribuibile ad una svista o al
caso.
Più in generale la profonda diversità del level playing field degli OGC
e rispettivamente degli EGI emerge dall’insieme delle norme non richiamate dall’art. 2.4, e perciò applicabili soltanto agli OGC. In questa prospettiva in particolare non risultano applicabili agli EGI le norme relative
ai rapporti fra titolari dei diritti e collecting gestrice (artt. 4-5), ivi compreso il principio che impone agli stati membri di riconoscere al titolare
dei diritti la scelta della collecting cui affidarne la gestione (art. 5.2) (26); il
(26) L’inapplicabilità dell’art. 5.2 comporta a mio avviso l’inesistenza di un obbligo
degli stati membri di riconoscere all’interno dei rispettivi territori la possibilità per gli EGI
di svolgere attività di collecting, anche quando un EGI sia legalmente costituito ed operante
in altri stati; cfr. quanto ho sostenuto in SARTI, Appunti in tema di estensione e legittimità del
monopolio SIAE, in AIDA, 2015, p. 907 s. La contraria soluzione implicitamente accolta da
Trib. Milano, ord. 15 luglio 2014, confermata da Trib. Milano, 12 settembre 2014, in AIDA,
2015, p. 815 e 891 e in Riv. dir. ind., 2015, II, p. 118, con nota parzialmente critica di
AVANZI, appare frutto di un vero e proprio “eccesso di zelo”, in un momento storico in cui
la direttiva non solo non era stata attuata, ma nemmeno vedeva scaduto il termine di
attuazione concesso dagli stati membri.
Nella prospettiva di inapplicabilità dell’art. 5.2 va valutata anche la disciplina attualmente in vigore in Italia relativamente all’attività di collecting dei diritti connessi degli artisti
(art. 39, co. 2, d.l. 1/2012). La norma italiana ha liberalizzato lo svolgimento di questa
attività se ed in quanto svolta da collecting costituite “in una forma giuridica prevista
dall’ordinamento italiano o di altro stato membro dell’Unione europea e che consenta
l’effettiva partecipazione e controllo da parte dei titolari dei diritti”. Essa con ciò sembra
escludere la costituzione di collecting in forma di EGI, che per definizione della direttiva
non sono controllati dai titolari dei diritti. L’inapplicabilità agli EGI dell’art. 5.2 della
direttiva porta comunque a considerare legittima (ancorché evidentemente suscettibile di
ripensamento) la scelta del legislatore italiano. Né in contrario varrebbe richiamare il principio di libertà di stabilimento o di prestazione dei servizi da parte di operatori costituiti in
altri territori. La Corte ha negato che questo principio possa rimettere in discussione la
legittimità dei monopoli legali nazionali sull’attività di collecting: cfr. Corte di giustizia, 27
febbraio 2014, C-351/12, OSA, in AIDA, 2014, 1587 e in Riv. dir. ind., 2015, II, p. 69, con
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principio di non discriminatorietà di accesso alla qualità di membro della
collecting (art. 6); le norme sulla governance (artt. 8-10), sulla destinazione
dei proventi, sulle spese e in generale sulla distribuzione del risultato della
collecting (artt. 11-13). Questa elencazione mi pare sufficiente a dimostrare
che norme pur centrali per la costruzione dello “statuto concorrenziale”
dell’attività di collecting (come il principio di libertà di scelta del gestore, la
partecipazione e il governo della società di gestione) non costituiscono
affatto un level playing field generale: in quanto non si applicano ai gestori
costituiti in forma lucrativa e ad un tempo controllati da soggetti diversi
dai titolari dei diritti gestiti.
6. La problematica ragion d’essere del level playing field comune a OGC
ed EGI, e della sua distinzione rispetto al level playing field esclusivo
degli OGC.
Il problema “politico” generale sottostante alla realizzazione di un
level playing field filoconcorrenziale della gestione collettiva si pone dunque in realtà su due differenti livelli. Un primo livello, già evidenziato fin
dal primo paragrafo del presente lavoro, attiene alla giustificazione di un
sistema di regole applicabili ad alcuni gestori (EGI ed OGC) ma non ad
altri (editori, produttori, emittenti), che pure in concreto parrebbero legittimati ad operare secondo tecniche contrattuali (concessione di licenze
su interi repertori) analoghe a quelle delle collecting in senso tecnico. Un
nota di BIXIO, Ancora una chance per il sistema monopolistico delle collecting societies.
Osservazioni sulla decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea del 27 febbraio
2014 caso OSA. A maggior ragione il principio di libertà di stabilimento o prestazione
dei servizi non può valere per contestare la legittimità delle legislazioni nazionali conformi
alle norme della direttiva che non prevedano monopoli legali. Per il dibattito dottrinale
anteriore alla direttiva collecting cfr. MASTROIANNI, I diritti esclusivi delle collecting societies,
in AIDA, 2001, p. 207 ss.; UBERTAZZI, Illegittimità del monopolio di IMAIE?, in I diritti
d’autore e connessi. Scritti, Milano, 2000, p. 241 ss.; ID., Le collecting degli artisti, in AIDA,
2011, p. 399 ss.; ROSSI DAL POZZO e ALBERTI, Legittimità «comunitaria» e costituzionale del
nuovo IMAIE: può sussistere un «interesse pubblico» a tutela del monopolio?, in AIDA, 2011,
p. 415 ss.; HEINE und EISENBERG, Verwertungsgesellschaften im Binnenmarkt. Die kollektive
Wahrnehmung von Urheberrechten nach der Dienstleistungsrichtlinie, in GRUR int., 2009, p.
277 ss. Valorizza la decisione OSA per riproporre un ripensamento dei princı̀pi della
direttiva collecting DREXL, Collective Management of Copyrights and the EU Principle of
Free Movement of Services, cit., p. 484 ss., secondo cui “it is already time to review the
brand-new Directive on Collective Rights Management and to redefine its relationship with
the principle of free movement of services by more tailor-made rules”. Non vedo tuttavia
perché il legislatore della direttiva collecting dovrebbe rimettere in discussione le proprie
scelte “politiche”, quand’anche queste scelte risultino non strettamente imposte dalla direttiva servizi 2006/123/CE, come interpretata dalla Corte.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
secondo livello attiene alla giustificazione dell’inapplicabilità ad una particolare categoria di gestori (gli EGI) di un insieme di regole pur a prima
vista centrali nella definizione dello “statuto concorrenziale” dell’attività di
gestione collettiva, con conseguente rischio di discriminazioni di trattamento di soggetti (OGC e rispettivamente EGI) istituzionalmente legittimati ad operare sul medesimo mercato.
La questione va a questo punto a mio avviso impostata distinguendo i
differenti profili problematici e partendo dagli aspetti più generali: in
particolare interrogandosi sulla ragion d’essere del level playing field comune a EGI e OGC. Già si è visto che questo terreno di gioco si caratterizza per un unico aspetto fondamentale: e cioè per la presenza di un
sistema di regolamentazione e controllo delle politiche di concessione delle
licenze ai potenziali utilizzatori del repertorio (art. 16.1 della direttiva, e
consequenziale meccanismo di enforcement dell’art. 36). Solo dopo avere
ricostruito il fondamento “politico” del level playing field comune a OGC
ed EGI sarà possibile interrogarsi sulle caratteristiche differenziatrici delle
loro attività: per cercare di dare una giustificazione anche delle rispettive
differenze di disciplina.
Ritengo d’altro canto che gli interrogativi cosı̀ impostati debbano essere affrontati prescindendo dalle normative di attuazione dei singoli ordinamenti nazionali, e in particolare dell’ordinamento italiano. Ciò non
solo e non tanto perché allo stato la direttiva non è stata ancora attuata
nel nostro sistema (27). Credo in realtà che, indipendentemente dall’entrata
in vigore delle norme di attuazione dei differenti stati membri, il fonda-
(27) Il termine è scaduto al 10 aprile 2016, ma non è stato osservato dal legislatore
italiano. Credo che ora debbano comunque essere applicati i princı̀pi della direttiva quanto
meno sotto il profilo del riconoscimento della legittimità delle attività svolte da collecting
costituite in forma di OGC conformemente alle legislazioni di altri paesi membri. Non può
dirsi invece liberalizzata l’attività di EGI costituiti all’estero, per le ragioni esposte nella
precedente nota. Molto problematica è anche la possibilità di disapplicare la parte dell’art.
180 l.a. che prevede il monopolio legale di SIAE. Credo comunque che questo problema
(per quanto forse fortemente avvertito dagli operatori, in particolare da SIAE) possa e
debba essere sdrammatizzato. A mio avviso in particolare: a) non è sicuro che l’attuale
monopolio legale di SIAE sia incompatibile con la direttiva (nel senso della compatibilità
cfr. OLIVIERI, Sullo statuto concorrenziale delle collecting societies, cit., p. 1145); ma in ogni
caso b) una eventuale conferma del monopolio legale di SIAE sulla base del diritto italiano
non potrebbe essere fatta valere (sin da ora, pur in attesa dell’attuazione della direttiva) per
impedire lo svolgimento di attività da parte di collecting costituite all’estero in forma di
OGC. Preciso infine che traggo la conclusione sub b) dai diritti riconosciuti in base all’art.
5.2 della direttiva, non dai princı̀pi sulla libertà di stabilimento o di prestazione transfrontaliera di servizi: princı̀pi che in realtà Corte di giustizia, OSA, cit., ha dichiarato compatibili
anche con monopoli legali.
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mento “politico” dei due diversi livelli di “level playing field” introdotti
dalla direttiva per OGC ed EGI debba comunque essere ricostruito alla
luce dei soli dati offerti dal sistema europeo. Introdurre in questa analisi
considerazioni tratte dalle singole legislazioni anzitutto confonde le scelte
politiche europee con quelle degli ordinamenti nazionali, con ciò “inquinando” la ricostruzione dell’impianto sistematico della direttiva. Inoltre, e
soprattutto, la valorizzazione dei dati desunti dalle legislazioni nazionali ne
presuppone la conformità con le scelte del legislatore europeo. Questa
conformità deve allora essere preliminarmente verificata dall’interprete,
dopo avere ricostruito l’impianto sistematico e le scelte “politiche” delle
norme europee. In quest’ottica le considerazioni che seguono attribuiscono rilievo centrale alla legittimazione degli EGI allo svolgimento dell’attività di collecting e al terreno di gioco comune di EGI e OGC. Nella
medesima ottica mi pare invece irrilevante l’eventualità che il legislatore
nazionale (avvalendosi del mancato richiamo dell’art. 5 da parte dell’art.
2.4 della direttiva) precluda agli EGI la possibilità di accedere al mercato
della gestione collettiva.
7. Il level playing field comune a OGC ed EGI non può giustificarsi: A)
con il carattere (pretesamente) fiduciario della loro attività.
Alla luce delle precedenti considerazioni metodologiche diviene ora
relativamente semplice dimostrare che l’impianto sistematico della direttiva appare incompatibile con tutte le tradizionali giustificazioni date all’introduzione di una disciplina speciale ed uniforme dell’attività di collecting.
Al riguardo già si è visto che una prima giustificazione, particolarmente
cara all’esperienza tedesca, si fonda sulla natura (pretesamente) fiduciaria
di questa attività. Il terreno di gioco dell’attività di collecting dovrebbe
perciò fondarsi sulla presenza di regole che tutelino il fiduciante contro il
rischio di comportamenti opportunistici del fiduciario: ed in particolare
contro comportamenti tendenti a perseguire l’interesse del fiduciario a
scapito di quello del fiduciante (28).
In precedenti lavori ho evidenziato alcuni aspetti contraddittori di
questa impostazione (29). Nel contesto della direttiva la spiegazione della
(28) Cfr. REINBOTHE, § 1 WahrnG, in Urheberrecht, cit., Rdn. 4; RIESENHUBER, Die
Verwertungsgesellschaft, cit., 626; DÖRDELMANN, Gedanken zur Zukunft der Staatsaufsicht
über Verwertungsgesellschaften, in GRUR, 1999, p. 891; in Italia richiama lo schema della
fiducia, anche sulla base dell’esperienza di common law, MERUZZI, I diritti degli artisti ex art.
73, 73bis e 84 l. aut., in AIDA, 2012, p. 63 s.
(29) In particolare in SARTI, La categoria delle collecting societies, cit., p. 7 ss.
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disciplina delle collecting in chiave fiduciaria mi sembra a maggior ragione
insostenibile. Più precisamente, anche a volere ricondurre il rapporto fra
titolari e collecting ad una funzione fiduciaria, questa funzione non potrebbe giustificare “politicamente” il level playing field predisposto dal
legislatore europeo. La versione finale della direttiva ha infatti da un lato
aperto l’attività di collecting agli EGI, ma ad un tempo non ha esteso loro
l’applicazione delle norme sulla governance degli OGC: ed in particolare
non ha esteso tutto il sistema di norme che regolano i rapporti fra titolari
dei diritti gestiti (nella prospettiva tedesca, fiducianti) e gestore (nella
prospettiva tedesca, fiduciario). L’attività degli EGI non è assoggettata
quindi ad alcuna regola speciale a tutela dell’interesse ad impedire comportamenti opportunistici del fiduciario (30). Anche ammesso (ma non
concesso) che gli EGI possano essere qualificati come fiduciari, essi comunque non sono assoggettati ad un level playing field specificamente
relativo alla tutela della funzione fiduciaria delle collecting.
8. B) con l’interesse alla regolamentazione dei mercati caratterizzati dalla
formazione di monopoli naturali.
Una seconda giustificazione del level playing field dell’attività di collecting viene tradizionalmente ricavata dalla tendenza del mercato ad evolversi verso la formazione di monopoli naturali. In questa prospettiva la
disciplina settoriale mira essenzialmente a prevenire le possibilità di abuso
di posizioni monopolistiche (31). Questa spiegazione non è alternativa, ma
è anzi in Germania valorizzata parallelamente alla giustificazione del level
playing field fondata sulla natura fiduciaria delle collecting. Ritengo tuttavia
(30) L’importanza della previsione di regole a tutela dell’interesse del fiduciante è
sintetizzata ad esempio (citando la relazione alla legge tedesca) da RIESENHUBER, Die Verwertungsgesellschaft, cit., p. 626: “die Urheber vertrauten den Verwertungsgesellschaften oft
den wesentlichen Teil ihres Vermögens an, daher müsse sichergestellt sein, ‘dass dieses
Vermögen sachgemäß verwaltet wird und die in Wahrnehmung der anvertrauten Rechte
eingezogenen Vergütungen gerecht verteilt werden’”.
(31) La tesi è stata sempre richiamata per giustificare (già prima della direttiva) il level
playing field predisposto dal legislatore tedesco; cfr. VOGEL, Wahrnehmungsrecht und Verwertungsgesellschaften, in GRUR, 1993, p. 516; RIESENHUBER, Die Verwertungsgesellschaft,
cit., p. 625 s.; REINBOTHE, vor §§ 1ff. WahrnG, cit., Rdn. 7, 11; ID., sub § 11 WahrnG, cit.,
Rdn. 1; DÖRDELMANN, Gedanken zur Zukunft der Staatsaufsicht über Verwertungsgesellschaften, cit., pp. 890, 891, 894. Con particolare riferimento al progetto di direttiva cfr. Max
Planck Comments, cit., par. 6: “law should regulate the monopoly by addressing its anticompetitive effects and, more specifically, act against abuse of the market dominance of
collecting societies”; “accordingly, EU legislation on collective rights management should
build on the practice of European competition law in the field”.
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che nemmeno il riferimento ai problemi di monopolizzazione del mercato
valga a spiegare la direttiva europea.
È anzitutto contraddittorio giustificare la realizzazione di un level
playing field in funzione di uniformazione delle condizioni di concorrenza,
salvo poi spiegarne la ratio alla luce della inevitabile tendenza del mercato
alla creazione di monopoli. D’altro canto la direttiva è comunque applicabile a tutte le collecting, ancorché non dotate di potere di mercato. In
questa prospettiva il dato comparatistico offerto dal confronto con l’ordinamento statunitense, che pure parrebbe interamente reggersi su preoccupazioni antimonopolistiche, non conferma affatto la possibilità di trasporre una analoga ricostruzione nel contesto europeo, ma anzi porta
ulteriormente a dubitarne. Nel sistema statunitense non esiste un level
playing field introdotto da leggi speciali relative all’attività di collecting:
con l’ulteriore corollario che in realtà il problema dell’applicazione del
diritto della concorrenza si pone non in qualsiasi contesto e per qualsiasi
gestore; ma si pone se e nei limiti in cui l’attività dei gestori determina
rischi di monopolizzazione (32). Vero è che negli Stati Uniti le società di
(32) Il dibattito statunitense relativo all’applicazione del diritto generale antitrust all’attività di collecting è vastissimo. Per alcuni riferimenti dottrinali rinvio alle citazioni anglosassoni contenute nella nota 10, cui adde JOHNSON, Considering the source-licensing threat
to performing rights in music copyrights, 6 U. Miami Ent. & Sports L. Rev. 1 (1989), p. 23 ss.
Il dibattito giurisprudenziale statunitense è riepilogato in RIFKIND, Music copyrights and
antitrust: a turbulent courtship, in 4 Cardozo Arts & Ent. L.J. 1 (1985), p. 7 ss.; KORMAN,
U.S. position on collective administration of copyright and anti-trust law, in 43 J. Copyright
Soc’y U.S.A. 158 (1995-1996), p. 161 ss.; ARNOLD, A matter of (anti)trust: the Harry Fox
Agency, the performance rights societies, and antitrust litigation, 81 Temp. L. Rev. 1169
(2008), p. 1178 ss.; LUNNEY, Copyright collectives, cit., p. 328 ss.
I leading cases più significativi si ritrovano tuttora in decisioni relative a modalità
tradizionali di sfruttamento delle opere musicali. Il problema dello sfruttamento di opere
musicali in locali pubblici è stato risolto in senso favorevole alla legittimità concorrenziale
dell’attività delle collecting nel caso Moor-Law, deciso da BMI v. Moor-Law, 527 F. Supp.
758 (D. Del., Nov. 24, 1981).
Il problema dello sfruttamento di opere musicali nelle sale cinematografiche è stato
risolto in senso contrario alla legittimità della gestione collettiva nella vicenda Alden-Rochelle, decisa da Alden-Rochelle v. ASCAP, 80 F. Supp. 888 (S.D.N.Y., July 19, 1948). L’illegittimità della restrizione concorrenziale è stata poi valorizzata per negare azione nei confronti degli esercenti di sale cinematografiche in Witmark v. Jensen, 80 F. Supp. 843 (D.
Minn., Sep. 9, 1948).
Il problema dello sfruttamento delle opere da parte di radio è stato risolto in senso
favorevole alla legittimità dell’attività di collecting nel caso K-91, deciso K-91 v. Gershwin
Publishing Corp., 372 F.2d 1 (9th Cir., Jan. 13, 1967).
Il problema dello sfruttamento delle opere musicali da parte dei grandi network televisivi è stato risolto, sia pur dopo alcune incertezze, in senso favorevole alla legittimità della
gestione collettiva nel caso CBS. Qui in particolare CBS v. ASCAP, 400 F.Supp. 737, ha
ritenuto che CBS non avesse dimostrato l’assenza di alternative disponibili alla gestione
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
gestione collettiva sono assoggettate a consent decrees che ne limitano il
potere monopolistico. I decrees impongono fra l’altro la concessione di
licenze a fronte del pagamento di “reasonable fees”; e sembrano con ciò
a prima vista predisporre un sistema di “diritto speciale” con funzione
speculare a quello del level playing field realizzato a livello europeo. Tuttavia i consent decrees non valgono in via generale per tutte le collecting,
ma sono stati concordati dal dipartimento della giustizia soltanto nei rapporti con le collecting dotate di potere di mercato (33). D’altro canto i
collettiva, e per conseguenza non ne avesse provato il carattere restrittivo. La decisione è
stata in un primo tempo riformata in CBS v. ASCAP, 562 F.2d 130 (2d Cir., Aug. 8, 1977),
secondo cui la gestione collettiva può essere ammessa solo “if ASCAP itself is required to
provide some form of per use licensing” (ed il significato di questa affermazione, estremamente problematico, non può essere ora approfondito). Sulla controversia è tuttavia intervenuta la Suprema Corte in BMI v. CBS, 441 US 1 (Apr. 17, 1979), che ha rimandato la
questione alla corte d’appello imponendo una valutazione secondo rule of reason. Sulla base
di questo rinvio CBS v. ASCAP, 620 F.2d 930 (2d Cir., Apr. 3, 1980) ha sostanzialmente
accolto le conclusioni della originaria decisione di primo grado.
La legittimità della gestione collettiva è stata inizialmente negata nel settore delle
trasmissioni televisive di emittenti locali nel caso Buffalo da Buffalo Broadcasting v. ASCAP,
546 F. Supp. 274 (S.D.N.Y., Aug. 19, 1982); ma in riforma di questa decisione è stata
successivamente ammessa da Buffalo Broadcasting v. ASCAP, 744 F.2d 917 (2d Cir., Sept.
18, 1984). Nel settore televisivo via cavo la legittimità della gestione collettiva è stata
riconosciuta nel caso National Cable Television da NCTA v. BMI, 772 F. Supp. 614
(D.D.C., Aug. 16, 1991).
Il problema dello sfruttamento di opere musicali mediante nuove tecnologie (telefoni
mobili e internet) sembra essersi sin qui posto non tanto in sede di contestazione della
legittimità dell’attività di collecting, quanto di determinazione delle reasonable fees che
ASCAP e BMI devono praticare conformemente ai rispettivi consent decrees (v. subito oltre
nel testo). Cfr. ad esempio US v. ASCAP (In re Youtube), 616 F. Supp. 447 (S.D.N.Y., May
13, 2009); US v. ASCAP (In re MobiTV), 712 F. Supp. 2d 206 (S.D.N.Y., May 11, 2010); US
v. ASCAP (In re Pandora), 6 F. Supp. 3d 317 (S.D.N.Y., Mar. 14, 2014). Il caso Pandora è
particolarmente interessante in quanto la determinazione delle reasonable fees è stata preceduta da un accertamento di illegittimità del tentativo di sottrarre dal repertorio ASCAP i
diritti di sfruttamento delle opere nel settore “New Media”; cfr. US v. ASCAP (In re
Pandora), 2013 US Dist. Lexis 133133 (S.D.N.Y., Sept. 17, 2013). Nel caso Pandora la
gestione accentrata è stata in particolare addirittura considerata procompetitiva in quanto
idonea a diminuire i costi di accesso al mercato dei nuovi media. Sul punto intendo ritornare
in un successivo lavoro di approfondimento della comparazione del sistema europeo e
statunitense.
(33) In particolare risultano attualmente in vigore consent decrees per le collecting
ASCAP e BMI. Nelle più recenti versioni questi consent decrees si ritrovano (con riferimento
ad ASCAP) in U.S. v. ASCAP, 2001 U.S. Dist. Lexis 23707 (S.D.N.Y., June 11, 2011) e (con
riferimento a BMI) in US v. BMI, 1966 U.S. Dist. Lexis 10449 (S.D.N.Y., Dec. 29, 1966)
emendato in US v. BMI, 1994 U.S. Dist. Lexis 21476 (S.D.N.Y., Nov. 18, 1944). Osservazioni sul consent decree attualmente in vigore nei confronti di ASCAP si ritrovano in
KOENIGSBERG, Performing rights in music and performing rights organizations, revisited, 50
J. Copyright Soc’y U.S.A. 355 (2002-2003), p. 383 ss.; TURK, “It’s Been a Hard Day’s Night”
for Songwriters: Why the ASCAP and BMI Consent Decrees Must Undergo Reform, 26
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saggi ed approfondimenti
865
consent decrees assumono natura contrattuale non vincolante per i terzi: e
perciò lasciano spazio all’esercizio di azioni fondate sul diritto generale
antitrust (34), tendenti a lamentare che l’attività di collecting non può essere
tollerata in determinati contesti concorrenziali, e tipicamente in contesti
dove gli utilizzatori non dispongano di ragionevoli alternative d’offerta (35).
Nel sistema europeo al contrario il level playing field sembra presupporre
la legittimità dell’attività di collecting in ogni contesto concorrenziale: indipendentemente ad esempio dal potere di mercato del gestore, o dalla
presenza di offerte di licenza alternative (36).
Ho d’altro canto precedentemente evidenziato che il terreno di gioco
comune a OGC ed EGI si riduce essenzialmente alla regolamentazione dei
rapporti fra collecting e terzi utilizzatori del repertorio. Ammettiamo (ma
io personalmente non concedo) che la realizzazione di questo terreno di
gioco possa spiegarsi per ragioni di Realpolitik: ammettiamo in particolare
che il legislatore europeo, preso atto della tendenza fisiologica alla formazione di monopoli naturali, abbia introdotto una disciplina generale senza
troppo sottilizzare sul presupposto della presenza o meno di pericoli di
restrizioni concorrenziali (sostanzialmente di fatto presunte iuris et de
iure). Questa spiegazione comunque non mi pare giustificare l’inapplicabilità del level playing field a soggetti che pur possono vantare posizioni
dominanti almeno su certi importanti settori del mercato: e ad esempio a
grandi produttori audiovisivi che negozino i diritti di utilizzazione dei loro
repertori su portali telematici. Resta inoltre da chiedersi come nel campo
di gara specifico alle collecting le regole del level playing field si coordinino
con la disciplina generale antitrust: e in particolare con gli artt. 101-102
TFUE e con il relativo sistema di enforcement.
Fordham Intell. Prop. Media & Ent. L.J. 493 (2016); ERCOLANI, Un nuovo consent decree per
la società degli autori USA, in Dir. aut., 2002, p. 145 ss. Per una ricostruzione delle origini
dei consent decrees ed un commento alla precedente versione cfr. TIMBERG, The antitrust
aspects of merchandising modern music: the ASCAP consent judgment of 1950, in 19 Law &
Contemp. Probs. 294 (1954), p. 301 ss. Una terza collecting di minori dimensioni, SESAC,
non risulta allo stato regolata da alcun consent decree, secondo quanto leggo ad esempio in
Meredith Corporation v. SESAC, 2014 U.S. Dist. Lexis 26992 (S.D.N.Y., Mar. 3, 2014).
(34) Cfr. BMI v. CBS, 441 US 1, cit., 13: “a consent judgment, even one entered at the
behest of the Antitrust Division, does not immunize the defendant from liability for actions,
including those contemplated by the decree, that violate the rights of nonparties”.
(35) Come di fatto avvenuto in Alden-Rochelle v. ASCAP, cit.
(36) L’esistenza di alternative di mercato è una chiave di volta delle argomentazioni
delle decisioni statunitensi citate alla precedente nota 32 che hanno legittimato la gestione
collettiva.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Qui sembra difficile sostenere che il level playing field della direttiva
esclude la contemporanea applicazione del diritto generale antitrust. Una
conclusione del genere contrasterebbe con una tradizione che ha costantemente applicato il diritto antitrust europeo alle attività di collecting (37):
tradizione dalla quale la direttiva non sembra volere in alcun modo prendere le distanze (38). Già si è visto d’altro canto che il level playing field
comune a EGI e OGC si riduce essenzialmente alla previsione di un
sistema di regolamentazione destinato all’enforcement di autorità nazionali,
ed incentrato sul principio che obbliga a negoziare “in buona fede” la
concessione di licenze. In questo sistema il rischio di applicazioni difformi
della norma da parte delle autorità degli stati membri è particolarmente
elevato. Parrebbe allora assai strano che, in presenza di una disciplina
completamente uniformata a livello europeo, come è la disciplina generale
antitrust, e di una autorità di enforcement accentrata, quale è la Commissione, la direttiva abbia voluto costruire un level playing field sottratto a
questa uniformazione. Ciò a maggior ragione in quanto le collecting operano in concorrenza con gestori diversi (tipicamente, editori, produttori,
emittenti), che a loro volta possono essere dotati di un potere monopolistico considerevole: come nel caso più volte esemplificato di un grande
produttore audiovisivo che negozi direttamente l’utilizzazione del proprio
repertorio su portali telematici. In questa prospettiva non appare certo in
linea con l’obiettivo del level playing field l’idea di sottrarre le collecting al
diritto antitrust generale e di applicare gli artt. 101-102 TFUE ai gestori
diversi dalle collecting, che ben possono operare in concorrenza con queste
ultime.
Senz’altro preferibile è quindi l’opposta interpretazione secondo cui
l’applicazione del level playing field delle collecting non esclude la contem-
(37) Cfr. Corte di giustizia, 27 marzo 1974, 127/73, BRT, in Racc., 1974, p. 314; Corte
di giustizia, 25 ottobre 1979, 22/79, Greenwich film, in Racc,, 1979, p. 3276; Corte di
giustizia, 2 marzo 1983, 7/82, GVL, in Racc., 1983, p. 483; Corte di giustizia, 9 aprile
1987, 402/85, Basset, in Racc., 1987, p. 1763; Corte di giustizia, 13 luglio 1989, 395/87,
Tournier, in Racc., 1989, p. 2565; Corte di giustizia, 13 luglio 1989, 110/88, 241-242/88,
Lucazeau, in Racc., 1989, p. 2823; Corte di giustizia, OSA, cit.; Corte di giustizia, 11
dicembre 2008, C-52/07, Kanal 5, reperibile al sito curia.europa.eu; Trib., CISAC, cit.;
Comm. 2 giugno 1971, IV/26760, GEMA, in GUCE 20 giugno 1971, L 134/15; Comm.
6 luglio 1972, IV/26.760, GEMA 2, in GUCE 24 luglio 1972, L 166/22; Comm. 4 dicembre
1981, IV/29.971, GEMA Satzung, in GUCE 8 aprile 1982, L 94/12; Comm., Daftpunk, cit.;
Comm. 8 ottobre 2002, COMP/C2/38.014, Simulcast, in GUUE 30 aprile 2003, L 107/58;
Comm. 4 ottobre 2006, COMP/C2/38.681, Cannes agreement, reperibile al sito ec.europa.eu; Comm., CISAC, cit., in AIDA, 2011, 1388.
(38) A maggior ragione in quanto l’applicazione delle norme in materia di concorrenza
è richiamata nei considerando 11˚, 48˚ e nell’art. 32 della direttiva collecting.
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867
poranea applicazione del diritto antitrust generale. Questa soluzione rende
tuttavia fortemente problematico il coordinamento dei due sistemi di norme: e rende in particolare necessario chiedersi perché mai nel mercato
delle collecting la funzione antimonopolistica dovrebbe essere affidata ad
un “doppio binario” di controlli (di diritto generale antitrust e rispettivamente di level playing field specifico). Qui una risposta è stata suggerita
valorizzando la tradizionale giustificazione della regolamentazione nei settori di mercato caratterizzati dalla formazione di monopoli naturali. In
questa prospettiva è stato in particolare evidenziato che la regolamentazione settoriale consente interventi di controllo e determinazione ex ante
delle royalties dovute dagli utilizzatori del repertorio delle collecting: interventi che offrono garanzie di applicazione rapida e generalizzata, nonché possibilità di “arbitraggio” (ad esempio attraverso la promozione di
accordi con categorie di utilizzatori) non consentite nell’ambito di un
controllo caso per caso, necessariamente ex post, delle politiche di prezzo
sulla base della disciplina generale degli abusi di posizione dominante (39).
La spiegazione rimane tuttavia a mio avviso insoddisfacente, per diversi
ordini di ragioni.
(39) Cfr. DREXL, Collective Management of Copyrights and the EU Principle of Free
Movement of Services, cit., 481 s.: “sector-specific regulation is a better basis for an ex
ante authorisation system for the royalty rates of CMOs and may offer more flexible,
process-oriented systems of arbitration between CMOs and users than competition law
based on the prohibition of excessive pricing” (una opposta lettura della norma tendente
a minimizzarne la portata regolamentatrice e perciò la sua effettiva capacità di integrare il
diritto antitrust si ritrova peraltro in PALMIERI, Il mercato della gestione collettiva, in AIDA,
2013, p. 80 s.). L’impostazione di Drexl non esclude tuttavia l’applicazione del diritto
generale antitrust e per questa ragione mi sembra diversa da quella di chi anche negli Stati
Uniti ha proposto di introdurre un sistema di regolamentazione delle collecting sul modello
europeo; cfr. Note, CBS v. ASCAP: performing rights societies and the per se rule, in 87 Yale
L. Jour. 783 (1978), p. 801 ss.; FUJITANI, Controlling the Market Power of Performing Rights
Societies, cit., p. 129 ss., che valorizza in particolare l’esperienza britannica e tedesca;
LUNNEY, Copyright collectives, cit., p. 347. Le proposte statunitensi (a mio avviso coerentemente) suggeriscono una conseguente totale disapplicazione del diritto antitrust generale;
cfr. in particolare le considerazioni di FUJITANI, p. 135, dove secondo l’autore “for the
United States to establish a system of administrative regulation to guard against potential
monopolistic abuses by ASCAP and BMI, Congress would first have to exempt performing
rights organizations from antitrust liability”. Con riferimento al Canada cfr. KATZ, The
potential demise, cit., p. 6, per cui “this specific regulation of PROs probably leaves PROs
outside the ambit of Canadian competition law, at least in the majority of cases.” È del resto
significativo che originariamente l’esenzione delle collecting dall’applicazione delle norme
antitrust in materia di intese fosse stata espressamente prevista dal legislatore tedesco, con
norma poi abrogata in quanto ritenuta non compatibile con l’ordinamento europeo; cfr.
REINBOTHE, sub § 24 WahrnG, in Urheberrecht¸ hrsg v. Schricker und Loewenheim, cit.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Anzitutto anch’essa si espone all’obiezione (a mio avviso decisiva) che
il level playing field della direttiva è applicabile uniformemente a tutte le
collecting, siano esse o meno dotate di un potere dominante sul mercato.
In secondo luogo a ben vedere le norme della direttiva non sembrano
affatto costruire un level playing field caratterizzato da un controllo ex
ante del livello e dell’adeguatezza delle tariffe praticate dalle collecting,
analogo a quello che normalmente caratterizza le discipline di regolamentazione dei monopoli naturali: e tanto meno sembrano attribuire in via
generale alle autorità degli stati membri un potere preventivo di fissazione
autoritativa, approvazione o arbitraggio delle royalties. L’art. 16.1 impone
alle autorità degli stati membri di controllare il rispetto dell’obbligo di
negoziazione “in buona fede”. Ora un controllo sulla “negoziazione” sembra essenzialmente un controllo di “processo”, non di “risultato”: non
sembra in particolare dare poteri di determinare questo risultato attraverso
la fissazione ex ante di royalties. Il controllo di risultato sembra perciò
ancora una volta affidato alla valutazione ex post di eventuali abusi di
posizione dominante, sulla base del diritto generale antitrust. Questa conclusione appare confermata dall’art. 16.2, che impone la concessione delle
licenze sulla base di “criteri oggettivi e non discriminatori”: e che letto in
relazione all’art. 36 forse sottintende un potere degli stati membri di
introdurre controlli autoritativi ex ante dell’oggettività dei criteri di determinazione delle royalties. Già si è visto tuttavia che l’art. 16.2 è applicabile
soltanto agli OGC, e non fa dunque parte del level playing field comune
agli EGI: cosı̀ che di questo terreno di gioco non può fare parte il potere
di determinazione ex ante del livello delle royalties.
9. C) con l’esercizio congiunto di un potere pretesamente fiduciario e
rispettivamente monopolistico.
Non credo infine che le spiegazioni tradizionali del fondamento “politico” del level playing field dell’attività di collecting possano essere valorizzate in una prospettiva unitaria: e cioè in funzione di controllo dell’esercizio congiunto di poteri fiduciari nei confronti dei titolari dei diritti, e
ad un tempo di poteri monopolistici nei confronti dei terzi interessati alla
concessione di licenze. Anche questa ricostruzione si espone all’obiezione,
a mio avviso decisiva, per cui il level playing field realizzato dalla direttiva
non è circoscritto alle collecting dotate di potere di mercato. Più in generale d’altro canto non vedo per quale ragione i poteri monopolistici esercitati da un fiduciario dovrebbero determinare maggiori rischi e giustificare maggiori controlli rispetto ai poteri esercitabili da chi fiduciario non è.
In particolare non comprendo ad esempio perché una collecting (supposta)
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869
fiduciaria dovrebbe essere assoggettata ad uno “statuto concorrenziale”
diverso da quello di un grande produttore audiovisivo: anche quando in
concreto risulti che entrambi questi soggetti dispongano di un analogo
potere di mercato, ad esempio nell’offerta di licenze di utilizzazione di
opere su portali telematici.
10. D) con l’interesse di categoria (ormai non più essenziale) perseguito
dalle collecting.
Resta da considerare un’ultima spiegazione del fondamento del level
playing field dell’attività di collecting: che in contrapposizione alle tesi
tradizionali avevo personalmente suggerito anteriormente all’approvazione
della versione finale della direttiva (40). La proposta di direttiva non contemplava originariamente la categoria degli EGI, e dava una definizione in
parte diversa dei soggetti ora etichettati come OGC. Nel sistema della
proposta avevo allora concluso (pur prendendo atto di alcune criticità)
che il level playing field: a) era circoscritto ai gestori privi di finalità di
lucro (41); b) si caratterizzava per il potere di questi gestori (e soltanto loro)
di agire a tutela di un repertorio complessivamente considerato, senza
necessità di allegare e provare l’utilizzazione delle singole opere; e per la
conseguente possibilità di fare valere danni (o pretese al pagamento di
equi compensi) complessivamente quantificati in relazione al valore dell’intro repertorio, non a quello delle singole opere di fatto concretamente
utilizzate; c) era giustificato politicamente dal riconoscimento del potere
delle collecting (e non degli altri gestori) di fare valere interessi generali “di
categoria” degli autori e titolari dei diritti connessi, non interessi individuali dei singoli aderenti. In particolare il fondamento politico del level
playing field cosı̀ ricostruito mi portava a concludere che la collecting
dovesse essere istituzionalmente aperta all’adesione a tutti i membri della
categoria, anche a costo del sacrificio dell’interesse dei membri attuali a
massimizzare il valore delle royalties ripartite singolarmente a loro favore.
Questa soluzione non mi pare tuttavia più proponibile alla luce della
versione finale della direttiva. L’art. 3 prevede ora chiaramente la possibilità, ma non la necessità, che gli OGC operino senza fini di lucro. La
norma in particolare contempla l’assenza di fini di lucro per attrarre in
(40) In SARTI, La categoria delle collecting societies, cit., p. 19 ss.
(41) I profili maggiormente critici della mia tesi derivavano dalla possibilità di costituire
collecting in forma di società capitalistiche e perciò istituzionalmente lucrative. Contro
questa obiezione cfr. le considerazioni svolte in SARTI, op. ult. cit., p. 33 ss.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
tal caso nella categoria degli OGC gestori pur non controllati dai propri
membri, come fondazioni o enti pubblici non associativi. Ove l’OGC sia
controllato dai propri membri, la direttiva chiaramente gli consente di
operare con fini lucrativi. La finalità lucrativa è poi addirittura contemplata dalla direttiva come caratteristica necessariamente propria degli EGI.
Corrispondentemente e coerentemente il testo attuale della direttiva
preclude la possibilità di giustificare “politicamente” il level playing field
valorizzando un interesse di categoria istituzionalmente perseguito dalla
collecting. Se la collecting dovesse necessariamente perseguire un interesse
di categoria, dovrebbe essere parallelamente e necessariamente aperta all’adesione di tutti i membri della categoria medesima. La direttiva invece
chiaramente nega la necessità di apertura a tutti i membri della categoria
quanto meno quando la collecting è strutturata in forma di EGI. Già si è
visto infatti che gli EGI non rientrano nel level playing field relativo ai
rapporti con i titolari dei diritti gestiti. Tanto meno perciò gli EGI possono essere assoggettati a obblighi di accettare la gestione dei diritti di
categorie più o meno ampie di titolari. Sul piano sistematico la scelta
del legislatore europeo pare d’altro canto pienamente logica. Se l’EGI
opera necessariamente con fini di lucro, sarebbe contraddittorio assoggettarlo ad obblighi di gestione dei diritti che potrebbero pregiudicare l’interesse alla massimizzazione del profitto: tipicamente quando un eccessivo
ampliamento dei diritti intermediati determini aumenti dei costi di amministrazione e controllo superiori all’aumento del valore del repertorio gestito (42).
In questa prospettiva d’altro canto nemmeno gli OGC paiono più
necessariamente obbligati ad accettare la gestione dei diritti di tutti i
membri della categoria. Vero è che la versione finale della direttiva continua a imporre agli OGC “criteri oggettivi, trasparenti e non discriminatori” di adesione, nonché una “spiegazione chiara dei motivi” di un eventuale rifiuto di accesso (art. 6.2). Vero è altresı̀ che nel vigore del progetto
di direttiva avevo valorizzato una norma corrispondente proprio per argomentare la necessaria apertura della collecting a tutti i membri della categoria. Vero è anche tuttavia che il mutato contesto complessivo delle
norme legittima gli OGC a perseguire finalità lucrative. Nell’attuale contesto merita perciò di essere attentamente preso in considerazione l’interesse della collecting a massimizzare i propri profitti rifiutando l’accesso di
(42) Su questo conflitto di interessi v. amplius il ragionamento che ho sviluppato in
SARTI, op. ult. cit., p. 24 ss.
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871
membri della categoria “improduttivi” (tipicamente in caso di aumento di
costi di gestione non compensati da un aumento proporzionale del valore
commerciale del repertorio): e non è affatto da escludere (anche se il tema
meriterebbe ulteriori approfondimenti) che un simile interesse costituisca
un criterio “oggettivo” idoneo proprio a giustificare il rifiuto di accesso.
11. Conclusioni metodologiche: ipotesi di lavoro che ricerchi la giustificazione “politica” del level playing field in funzione legittimante di un
modello concorrenziale non legittimato (ed eventualmente contrario al diritto antitrust) per i soggetti diversi dalle collecting.
Le precedenti considerazioni impongono dunque a mio avviso un
profondo ripensamento della funzione concorrenziale delle collecting e
delle giustificazioni politiche alla base del level playing field predisposto
dalla direttiva: giustificazioni che non possono essere trovate in nessuna
delle impostazioni tradizionali. Il problema non può essere affrontato nei
limiti del presente lavoro, che vuole avere un taglio semplicemente metodologico introduttivo allo studio delle collecting nel contesto della direttiva. Mi limito perciò qui ad alcune considerazioni generali, fra l’altro per
precisare che alcune parti del ragionamento da me sviluppato anteriormente all’approvazione finale della direttiva continuano ad offrire un utile
schema di riflessione.
In particolare tuttora ritengo che il level playing field possa e debba
essere ricostruito andando alla ricerca di norme e princı̀pi non penalizzanti, ma favorevoli all’attività di collecting. Da questo punto di vista le tesi
che ricostruiscono il campo di gioco sulla base dell’interesse a controllare il
rispetto dei doveri del fiduciario, o a circoscrivere i poteri del monopolista,
determinano un unico problema di fondo: assoggettano le collecting ad
una regolamentazione più stringente di quella applicabile agli altri gestori
(in particolare a editori, produttori, emittenti); spingono perciò i gestori ad
uscire dal sistema delle collecting, per potersi cosı̀ sottrarre a un level
playing field penalizzante; non offrono basi sicure di reazione di fronte a
queste spinte. In particolare già si è visto che la reazione “poliziesca” alla
fuga delle collecting dal terreno di gioco comune (reazione ad esempio
fondata sul mancato riconoscimento della legittimità della loro attività,
magari rafforzato dall’applicazione di sanzioni amministrative o addirittura
penali) risulta poco credibile in un contesto di liberalizzazione; essa risulta
inoltre rischiosa, in quanto priva di solide basi per discriminare il trattamento delle collecting rispetto a quello di editori, produttori ed emittenti.
In questo contesto il mio precedente lavoro continua a sembrarmi persuasivo nella parte in cui ricostruisce un level playing field caratterizzato dalla
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
legittimazione ad agire a tutela di un repertorio unitario, anziché dei diritti
su ciascuna opera separatamente considerata. Questa caratteristica dell’attività di collecting può perciò a mio avviso essere mantenuta anche nel
contesto della direttiva, ferma restando la necessità di ripensarne la giustificazione “politica”.
Alla luce del testo finale della direttiva credo tuttavia ora che gli
elementi di favor dello statuto delle collecting possano essere ricostruiti
in senso ancora più ampio: per legittimare il perseguimento di una funzione economica che al di fuori del terreno di gioco potrebbe risultare
contraria all’ordinamento antitrust. Nella medesima prospettiva inoltre
l’attività delle collecting può essere colpita non solo dal diritto antitrust,
ma anche dal sistema generale privatistico (ad esempio, sotto il profilo
della negazione della legittimazione ad agire a tutela del repertorio) quando
in concreto persegua interessi diversi da quelli sottostanti al fondamento
“politico” (tutto da ricostruire) del level playing field. La dimostrazione di
questo assunto richiede peraltro lo sviluppo di una serie di ulteriori argomentazioni critiche a confutazione delle tesi tradizionali, e approfondimenti della funzione economica riconosciuta e protetta dal level playing field
delle collecting, nonché della relativa giustificazione “politica”: argomentazioni e approfondimenti che devono essere rimandati a futuri sviluppi
della riflessione.
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Tania Tomasi (*)
Assegnista di ricerca nell’Università di Ferrara
I POTERI DI VIGILANZA DELLA BANCA D’ITALIA ALLA LUCE
DELLE NUOVE NORME SULLA CRISI BANCARIA. RIFLESSIONI
SULLA DISCIPLINA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL
CASO DELLA CASSA DI RISPARMIO DI FERRARA S.P.A.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo. – 3. Il sistema di vigilanza unico. – 4.
Rapporti tra BCE e Banca d’Italia. – 5. Natura giuridica del rapporto tra BCE e Banca
d’Italia. – 6. I poteri della Banca d’Italia nella gestione anticipata della crisi: le misure
preparatorie (piani di risanamento, piani di risoluzione e misure di intervento precoce).
– 7. I poteri di vigilanza della Banca d’Italia nelle procedure di gestione della crisi: le
misure risanatorie (risoluzione e procedura di amministrazione straordinaria) e l’opzione liquidatoria (liquidazione coatta amministrativa). – 8. Prassi di vigilanza ai primi
sintomi della crisi della banca. – 9. Spunti di riflessione sull’esercizio dei poteri di
vigilanza nel caso CARIFE. – 10. Quid iuris per creditori non garantiti ed azionisti
della “vecchia” Carife?
1. Premessa.
La disciplina nazionale sulla crisi bancaria negli ultimi anni è stata
interessata da una penetrante e progressiva opera di adeguamento alla
normativa europea, che ha introdotto importanti modifiche all’assetto regolamentare delle banche e delle imprese di investimento.
Questo processo si inserisce in un progetto di più ampia portata, volto
a dare vita progressivamente ad un più solido ed efficace quadro normativo ed istituzionale europeo, che va sotto il nome di Unione bancaria (1),
(*) Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
(1) Il riferimento è, in particolare, al Single Supervisory Mechanism e al complementare
Single Resolution Mechanism, introdotti, rispettivamente, mediante: i) il reg. UE n. 1024/
2013, che ha istituito, a partire dal 4 novembre 2014, un meccanismo di vigilanza unico,
costituito dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti dei paesi partecipanti. Cfr. il 6˚
considerando del citato regolamento, secondo cui: “In molti casi la stabilità di un ente
creditizio è ancora strettamente legata allo stato membro in cui è stabilito. I dubbi sulla
sostenibilità del debito pubblico, sulle prospettive di crescita economica e sulla solidità degli
enti creditizi hanno alimentato tendenze di mercato che si rinforzano a vicenda, con possibili
conseguenze in termini sia di rischi per la solidità di alcuni enti creditizi e la stabilità del
sistema finanziario nella zona euro e nell’Unione nel suo complesso, sia di imposizione di
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
nel quale la Banca Centrale Europea (nel prosieguo BCE), in veste di ente
posto al vertice del sistema finanziario dell’Unione (2), è supervisore, in
forza delle nuove competenze assegnatele in merito alla vigilanza degli enti
creditizi dell’Unione.
L’intento del legislatore è quello di contribuire alla correttezza ed alla
solidità degli enti creditizi ed alla stabilità del sistema finanziario, per
realizzare cosı̀ una soluzione strutturale alle frammentazioni e alle distorsioni dei sistemi bancari dei singoli paesi membri che tuttora ostacolano la
creazione di un effettivo mercato unico dei servizi finanziari.
Volendo anticipare alcune considerazioni che saranno meglio trattate
successivamente, si può evidenziare, in via generale, che in questo scenario
la disciplina dell’Unione europea, pur facendo pieno affidamento sulle
capacità e sulla efficienza degli apparati di controllo domestici, che non
vengono eliminati (3), ha assegnato inequivocabilmente alla BCE compiti e
responsabilità preminenti e sovraordinati a quelli delle autorità nazionali.
A tale riguardo, emerge la necessità di un raccordo tra queste ultime e
BCE, procedendo ad una rivisitazione e ad una riorganizzazione di diversi
aspetti degli ordinamenti interni, nonché introducendo, se del caso, opportuni correttivi, volti ad adeguare la configurazione dei sistemi giuridici
pesanti oneri a carico delle finanze pubbliche già in difficoltà degli stati membri interessati”.
Per un approfondimento sul tema, v. ANGELINI, GRANDE e PANETTA, The negative feedback
loop between banks and sovereigns, in Questioni di Economia e Finanza, n. 213, Banca
d’Italia, 2014, passim; ii) il reg. UE n. 806/2014, che ha introdotto, a partire dal 1 gennaio
2016, il meccanismo di risoluzione unico. È altresı̀ prevista l’istituzione di un fondo di
risoluzione unico per il finanziamento dei programmi di risoluzione (Single Resolution Fund)
alimentato dai contributi degli intermediari dei paesi dell’area dell’euro con un piano di
versamenti distribuito in 8 anni, senza utilizzo di denaro pubblico. Il sistema cosı̀ delineato è
formato dalle Autorità nazionali di risoluzione (National Resolution Authority) e dal Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board), un’agenzia europea per l’esercizio delle
funzioni di risoluzione, nel cui board sono presenti anche i rappresentanti delle autorità
nazionali.
(2) Cfr. MANCINI, Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union, in BANCA
D’ITALIA, Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale, Roma, 2013, 73, p. 22 ss.;
CAPRIGLIONE, L’unione bancaria europea, Torino, 2013, p. 37 ss., che ha evidenziato la
“premessa logica della formula ordinatoria” che assegna alla BCE le nuove competenze
riguardanti la vigilanza sugli enti creditizi dell’Unione bancaria, affermando che “la vigilanza
unica trova compendio in un quadro disciplinare caratterizzato dall’orientamento del regolatore di non disperdere il patrimonio conoscitivo delle autorità nazionali di controllo; di
fondo, si individua l’intento di ottimizzare l’attività fino ad oggi svolta da queste ultime. Il
perseguimento della stabilità finanziaria viene incentrato, quindi, su processi cognitivi che
tengano nel debito conto le condizioni degli intermediari sui quali si esercita la supervisione”.
(3) In questo senso, CAPRIGLIONE, L’unione bancaria europea, cit., p. 65.
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dei singoli paesi membri alla funzione partecipativa che sono chiamati ad
esercitare a livello comunitario.
Tornando all’ordinamento bancario italiano e, nella specie, alla disciplina della crisi della banca, oggetto della presente analisi, si può evidenziare che il legislatore nazionale, nell’attuare l’obbiettivo di armonizzare a
livello europeo la materia, ha introdotto norme ed istituti, allo stato parzialmente in fase elaborativa, che incidono significativamente sulle categorie nazionali. Infatti, la nuova disciplina fa propri concetti di derivazione
europea che erano del tutto estranei alla impostazione della disciplina del
testo unico bancario. Il tema è particolarmente rilevante, perché determina
profonde ripercussioni anche sulla concezione del rapporto tra responsabilità e rischio di impresa nelle società bancarie ed in quelle di gruppo.
Inoltre, lo stesso interessa direttamente le norme sul funzionamento della
vigilanza nazionale e, dunque, principalmente, l’attività della Banca d’Italia (4).
Proprio su quest’ultimo aspetto si svolgerà l’indagine che segue, nel
tentativo di delineare questi poteri di vigilanza, nuovi o rivisitati, della
autorità nazionale nel peculiare contesto della patologia bancaria.
Si precisa che si limiterà l’attenzione sulle banche individuali, non
essendo intenzione di questa disamina affrontare il delicato tema dei gruppi bancari che, per importanza e complessità, meriterebbe riflessioni in
una trattazione autonoma.
Prima di dar seguito all’indagine, non si può prescindere da un, seppure breve, inquadramento del tema nel contesto normativo di riferimento.
2. Il quadro normativo.
Seguendo l’impostazione sopra delineata, il ruolo principe è svolto
dalla dir. 2014/59/UE Bank Recovery and Resolution Directive, nel prosieguo Direttiva BRRD (5 ), che istituisce “un quadro armonizzato a
(4) Come noto, la Banca d’Italia, in qualità di banca centrale dello Stato italiano, a
partire dal 1 giugno 1998 è entrata a far parte del Sistema Europeo di banche centrali
(SEBC) a cui, unitamente alla BCE, è stata affidata, dal 1 gennaio 1999, la politica monetaria
dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) ed altre competenze prima spettanti alle banche
centrali degli Stati membri. L’art. 19, comma 1˚, l. n. 262/05, che ha introdotto Disposizioni
per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, dispone che la Banca d’Italia
“è parte integrante del Sistema Europeo di banche centrali ed agisce secondo gli indirizzi e
le istituzioni della BCE”.
(5) La dir. 2014/59/UE, approvata in data 15 maggio 2014 dal Parlamento europeo e
dal Consiglio, è parte di un “pacchetto normativo” complesso, che comprende altresı̀ la dir.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
livello comunitario in tema di risanamento e di risoluzione degli enti
creditizi” (6).
Come è stato rilevato, si tratta del primo concreto tentativo di armonizzazione sul tema, volto, primariamente, ad evitare, o a ridurre al minimo, gli interventi pubblici di salvataggio delle banche che nella storia sono
sempre stati utilizzati (7), ma che, più di recente, hanno implicato un
aggravamento del debito di molti Stati membri, trasferendo cosı̀, in ultima
istanza, il rischio dell’insolvenza bancaria sui contribuenti (8).
La disciplina dell’Unione si prefigge, dunque, una serie di obbiettivi.
Sotto questo profilo rileva, anzitutto, la necessità di affrontare il dissesto
degli istituti di credito tempestivamente. Inoltre, come si evince dalla
stessa lettera della norma, si vuole “garantire la continuità delle funzioni
essenziali degli enti coinvolti, evitare effetti negativi sulla stabilità finanziaria, preservare l’integrità delle finanze pubbliche, nonché tutelare i depositanti e gli investitori c.d. protetti” (9).
2014/49/UE (c.d. Deposit Guarantee Scheme Directive o “DGSD”) sui sistemi di garanzia
dei depositanti e il già menzionato reg. UE n. 806/2014, che istituisce il meccanismo di
risoluzione unico nell’Unione Europea. Per una riflessione sul percorso che, partendo dai
Key Attributes of Effective Resolution Regimes for Financial Institutions elaborati dal Financial Stability Board (FSB) nell’ottobre 2011, ha condotto all’adozione della Bank Recovery
and Resolution Directive, si rinvia a HAENTJENS, Work of International Organizations on Bank
Recovery and Resolution: An Overview, in HAENTJENS e WESSELS (a cura di), Bank Recovery
and Resolution, L’Aja, 2014, p. 3 ss.
(6) L’ambito di applicazione soggettivo della Direttiva BRRD è costituito da: “a) enti
stabiliti nell’Unione; b) enti finanziari stabiliti nell’Unione come filiazioni di un ente creditizio o di un’impresa di investimento o di una società di cui alle lettere c) o d), soggetti alla
vigilanza dell’impresa madre su base consolidata in conformità degli articoli da 6 a 17 del
regolamento (UE) n. 575/2013; c) società di partecipazione finanziaria, società di partecipazione finanziaria mista e società di partecipazione mista stabilite nell’Unione; d) società di
partecipazione finanziaria madri in uno Stato membro, società di partecipazione finanziaria
madri nell’Unione, società di partecipazione finanziaria mista madri in uno Stato membro,
società di partecipazione finanziaria mista madri nell’Unione; e) succursali di enti stabiliti o
ubicati al di fuori dell’Unione secondo le specifiche condizioni previste nella presente
direttiva” (cfr. art. 1, par. 1, Direttiva BRRD). Posto l’oggetto del presente lavoro, si
limiteranno le considerazioni unicamente agli enti creditizi.
(7) VALIGNANI, Manuale di diritto della banca, Padova, 2006, p. 9 ss., che, in particolare,
ha affermato che “la storia della banca in Italia è, per una parte non trascurabile, una storia
di crisi”, richiamando a sua volta l’autore Mario Porzio, che nel suo manuale di diritto e
legislazione bancaria ha preso le mosse dalla crisi della Banca di Sconto.
(8) Cfr. il 1˚ considerando della direttiva in oggetto.
(9) In particolare, l’obbiettivo del legislatore comunitario è stato quello di dare attuazione ai principi in materia di risoluzione delle crisi bancarie elaborati nell’ottobre 2011 dal
Financial Stability Board e sottoposti nel novembre 2011 ai capi di stato e di governo riuniti
nel G-20 a Cannes. Ai fini del recepimento nella normativa interna degli stati membri, la
Direttiva BRRD ha disposto che “gli stati membri adottino e pubblichino entro il 31
dicembre 2014 le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per
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saggi ed approfondimenti
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Traducendo questi obbiettivi in termini law and economics, il nuovo
regime normativo si propone di ridurre al minimo i fenomeni di moral
hazard, rafforzando cosı̀ la disciplina di mercato, nonché contenendo gli
incentivi all’assunzione di un livello eccessivo di rischio da parte di intermediari, azionisti e creditori.
In Italia il recepimento della disciplina comunitaria è avvenuto mediante la cd. “legge di delegazione europea 2014” (10), che include, fra
l’altro, i criteri di delega al Governo per l’attuazione della Direttiva BRRD.
In forza della delega conferita, il Governo italiano ha approvato i dd.lgs.
16 novembre 2015, nn. 180 (11) e 181 (12), in G.U. n 267 del 16 novembre
2015 (13).
conformarsi alla presente direttiva. Essi comunichino immediatamente alla Commissione il
testo di tali disposizioni […] ed applichino tali disposizioni a decorrere dal 1˚ gennaio 2015,
salvo per quanto riguarda le disposizioni adottate per conformarsi al titolo IV, capo IV,
sezione 5 [relative allo strumento del bail-in], da applicarsi al più tardi a decorrere dal 1˚
gennaio 2016” (art. 130, par. 1, Direttiva BRRD). Con particolare riferimento allo strumento del bail-in, l’art. 8, comma 1˚, lett. b, l. n. 144/15 ha disposto che, nell’esercizio della
delega, il Governo è tenuto a prevedere che lo strumento del bail-in “si applichi a partire dal
1˚ gennaio 2016, valutando inoltre l’opportunità di stabilire modalità applicative del bail-in
coerenti con la forma societaria cooperativa”.
(10) Si tratta della l. 9 luglio 2015, n. 144, in G.U. n.176 del 31 luglio 2015 – Delega al
Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione
europea – Legge di delegazione europea 2014.
(11) Cfr. d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180 – Attuazione della dir. 2014/59/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, cd. decreto BRRD, che ha istituito
un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e
che ha modificato la dir. 82/891/CEE del Consiglio, e le dirr. 2001/24/CE, 2002/47/CE,
2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regg.
UE nn. 1093/2010 e 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio. In particolare, il
predetto decreto reca la disciplina in materia di predisposizione di piani di risoluzione, avvio
e chiusura delle procedure di risoluzione, adozione delle misure di risoluzione, gestione
della crisi di gruppi internazionali, poteri e funzioni dell’autorità di risoluzione nazionale e
disciplina del fondo di risoluzione nazionale.
(12) Cfr. d.lgs. 16 novembre 2015, n. 181 - Modifiche del decreto legislativo 1˚ settembre 1993, n. 385 (t.u.b.) e del decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58 (t.u.f.) in attuazione
della dir. 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, che
istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di
investimento e che modifica la dir. 82/891/CEE del Consiglio, e le dirr. 2001/24/CE,
2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/
36/UE e i regg. UE nn. 1093/2010 e 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio. In
particolare, il suddetto decreto modifica il t.u.b. per introdurre la disciplina dei piani di
risanamento, del sostegno finanziario infragruppo, delle misure di intervento precoce, mentre l’amministrazione straordinaria delle banche viene allineata alla disciplina europea. Viene
inoltre modificata la disciplina della liquidazione coatta amministrativa per adeguarla al
nuovo quadro normativo previsto dalla Direttiva BRRD e apportare alcune innovazioni alla
luce della prassi applicativa.
(13) I testi dei decreti legislativi n. 180 e 181 sono stati adottati in esito ad un proce-
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Si deve precisare che, anche a seguito dell’adozione di questi provvedimenti normativi, la disciplina nazionale non può ancora considerarsi
completata, in quanto, in conformità a quanto previsto nella legge di
delega (14), il Decreto BRRD prevede l’intervento della Banca d’Italia
per la definizione della disciplina di attuazione e dettaglio (15).
Nella logica ricognitiva sopra anticipata, un’ulteriore preliminare notazione è doverosa e riguarda l’ambito del diritto della “crisi della banca”.
Occorre infatti precisare che il termine “crisi” viene utilizzato in questa sede senza una connotazione tecnica puntuale, mancandone una definizione normativa non soltanto nel diritto bancario, ma anche, più in
generale, nell’ordinamento (16). Con questa locuzione, “crisi della banca”,
dimento di pubblica consultazione avviato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze –
Dipartimento del Tesoro conclusosi in data 12 agosto 2015. Il testo dei documenti sottoposti a pubblica consultazione è disponibile sul sito Internet del Ministero al seguente link:
http://www.dt.tesoro.it/it/consultazioni_pubbliche/consultazioni_pubbliche_online_storico/
consultazione_pubblica_dirett_2014_59_ue.html.
(14) L’art. 8, comma 1˚, lett. e, l. n. 144/15 dispone che, nell’esercizio della delega, il
Governo è tenuto a “prevedere, ove opportuno, il ricorso alla disciplina secondaria adottata
dalla Banca d’Italia”.
(15) Da ultimo, si pone cronologicamente la Comunicazione Consob del 24 novembre
2015 n. 0090430, recante indicazioni circa gli obblighi gravanti sugli intermediari nella
prestazione dei servizi ed attività di investimento, nonché nella prestazione dei servizi
accessori.
(16) È stato infatti rilevato che il termine “crisi”, di recente acquisizione nella scienza e
nella pratica giuridica, presenta molteplici profili di ambiguità. Sul tema, cfr., per una
generale ricostruzione critica: GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986,
passim; ID., Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Milano, 1995, passim; GUATRI e
VICARI, Sistemi di impresa e capitalismi a confronto. Creazione di valore in diversi contesti,
Milano, 1994, passim; MIGLIETTA, La gestione dell’impresa tra competizione e valore, Milano,
1999, passim; DI MARZIO, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, p. 17 ss.;
ROSSI, Insolvenza, crisi di impresa e risanamento, Milano, 2003, p. 146 ss. Tra i giuristi che
sottolineano il carattere prettamente economico, piuttosto che giuridico, del termine “crisi”,
cfr. SANDULLI, La crisi economica dell’impresa, in Giur. comm., 1985, I, p. 970 ss. Nella
attuale legge fallimentare la situazione di crisi viene meramente indicata all’art. 160 l. fall.
come condizione oggettiva per poter accedere alle soluzioni concordate di superamento
della crisi d’impresa alternative al fallimento. L’apertura della procedura di fallimento ha
invece come presupposto una fattispecie di crisi qualificata, che il diritto riconduce allo stato
di insolvenza ai sensi dell’art. 5 l. fall., e cioè a quello “stato patologico” in cui le disfunzioni
organizzative e gestionali, nonché gli squilibri di tipo economico e finanziario maturati
all’interno dell’organizzazione, si manifestano all’esterno attraverso “l’incapacità di un regolare adempimento delle obbligazioni contratte”. Per un confronto tra situazione di crisi e
stato di insolvenza, v., in giurisprudenza, Cass. 28 giugno 1985, n. 3877, in Giur. it., 1986, I,
1, p. 409 ss., che ha affermato che l’insolvenza “si identifica con uno stato di impotenza
funzionale e non transitoria a soddisfare le obbligazioni contratte dall’impresa e si esprime,
secondo una tipicità desumibile dall’esperienza economica, nella incapacità di produrre beni
con margini di redditività tali da essere sufficienti per la copertura delle esigenze dell’impresa e tra queste, in primo luogo, l’estinzione dei debiti; nonché nella impossibilità di
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che trova esplicita menzione, peraltro al plurale, nella rubrica dell’art. 17
del d.lgs. n. 180/2015, laddove vengono indicati i “presupposti comuni alle
procedure di gestione”, appunto, “delle crisi”, si intende fare riferimento a
quei presupposti oggettivi, oltremodo modificati dagli interventi del legislatore riformatore di cui si discute, che fanno scattare l’adozione di una
delle nuove misure introdotte nel testo unico bancario (nel prosieguo
t.u.b.), ovvero l’apertura di una procedura concorsuale risanatoria o liquidatoria. In questo senso, il perimetro che delimita la disciplina della crisi
della banca è necessariamente più ampio rispetto a quello caratteristico
della normativa previgente (17). Infatti, secondo la formulazione pre-riforma, la gestione della situazione di patologia della banca entrava in gioco
unicamente a partire dal momento in cui veniva verificata la presenza dei
presupposti per l’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria,
e quindi, ai sensi dell’art. 70, comma 1˚, t.u.b., nella formulazione previgente, dinanzi a: i) gravi irregolarità ovvero gravi violazioni di disposizioni
di legge, amministrative o statutarie che regolano l’attività bancaria; ii)
ricorrere al credito in condizioni normali e senza essere costretti a ravvisare decurtazioni del
patrimonio”. Nello stesso senso: Cass. 1˚ dicembre 2005, n. 26217, in Massimario Giust. civ.,
2005, p. 12; Cass. 30 settembre 2004, n. 19611, in Massimario. Giur. it., 2004, p. 1481; Cass.
28 marzo 2001, n. 4455 in Fallimento, 2001, p. 621 ss. In dottrina: STANGHELLINI, La crisi
d’impresa tra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, p. 121; BIONE,
Sub Art. 5, in SCIALOJA e BRANCA (A CURA DI), Commentario della legge fallimentare, Bologna,
1974, p. 196 ss.; BONSIGNORI, Fallimento, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. comm., V,
Torino, 1990, p. 381; CARDINALI, Fallimento, in GHIA, PICCININNI e SEVERINI (diretto da),
Trattato delle procedure concorsuali, Torino, 2010, I, p. 412 ss.; FERRARA e BORGIOLI, Il
fallimento, Milano, 1995, p. 139 ss.; RAGUSA MAGGIORE, Fallimento (Presupposti), in Enc.
giur. Treccani, XIII, Roma, 1989, p. 17 ss.; GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza.
Il diritto fallimentare tra diritto ed economia, Bologna, 2006, p. 23 ss. Per una ricostruzione
dello stato di insolvenza e delle sue manifestazioni, v., ex multis, SATTA, Diritto fallimentare,
Padova, 1990, p. 26 ss.; SANDULLI, La crisi dell’impresa. Il fallimento e le altre procedure
concorsuali, Torino, 2009, p. 34 ss.; SCHIANO DI PEPE, Il diritto fallimentare riformato,
Padova, 2007, p. 15 ss.; GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, Torino, 2015, p. 36 ss.; FIALE,
Diritto fallimentare, Napoli, 2015, p. 75 ss.; cfr., infine, la definizione riportata già da DE
VINCENTIIS, Insolvenza colpevole, in Digesto it., XIII, Torino, 1902-1906, p. 1202.
Da ultimo, si evidenzia che l’esigenza di una definizione di “crisi di impresa” è particolarmente sentita dal legislatore, che ne ha prevista l’introduzione nello schema di disegno
di legge delega del 25 novembre 2015 recante la “Delega al Governo per la riforma organica
delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, elaborato dalla Commissione Rordorf.
Sul tema, cfr. il testo del disegno di legge, che, ai sensi dell’art. 2, comma 1˚, lett. c, del citato
d.d.l., indica tra i criteri direttivi, quello di “introdurre una definizione dello stato di crisi,
intesa come probabilità di futura insolvenza, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza di
cui all’articolo 5, r.d. 16 marzo 1942, n. 267”.
(17) Per una breve disamina dei presupposti di accesso alle procedure, rispettivamente,
di amministrazione straordinaria e di liquidazione coatta amministrativa di cui al t.u.b., cfr.
BONTEMPI, Diritto bancario e finanziario, Milano, 2014, p. 260 ss.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
previsione di gravi perdite del patrimonio; iii) richiesta di scioglimento
degli organi della banca con istanza motivata degli organi amministrativi o
dell’assemblea straordinaria. Come noto, i presupposti per l’eventuale
disposizione della gestione provvisoria, ovvero per l’accesso alla liquidazione coatta amministrativa, erano gli stessi indicati sopra, differendo,
rispettivamente, sotto il profilo della sussistenza di ragioni di assoluta
urgenza, nonché sotto l’aspetto quantitativo in termini di eccezionale gravità (18).
La disciplina attuale, invece, interviene in un momento di gran lunga
anticipato. Si può infatti sostenere che la prima situazione rilevante sia
l’emersione di segnali di “significativo deterioramento delle condizioni finanziarie o patrimoniali della banca” (19) che impone l’adozione di una
misura gestoria, per lo più “interna” all’ente creditizio interessato e che
viene identificata nel riesame e nella modifica della pianificazione dell’esercizio dell’attività bancaria, ex art. 7, comma 4˚, d.lgs. n. 180/15, che
disciplina i piani di risoluzione individuali.
L’anticipazione dell’intervento per riportare in equilibrio fisiologico la
banca non si ravvisa solamente sul terreno dei rimedi interni. Invero,
anche in relazione agli strumenti “esterni” di superamento delle criticità
bancarie, il momento rilevante è precedente alla crisi conclamata, essendo
identificato, ai sensi dell’art. 17 del citato decreto, nel “dissesto” o “rischio
dissesto”. L’intento è quindi quello di volere ricomprendere tutte quelle
situazioni definite dagli autori in termini di “pre-crisi”, ove si presentano
meramente i sintomi di difficoltà non ancora esistenti.
Si aggiunge che il legislatore riformatore ha voluto introdurre una
disciplina di gestione anche nelle ipotesi in cui si prevede che i segnali
di una crisi si presenteranno nel prossimo futuro. Trova dunque spazio
una diagnosi della crisi dell’ente creditizio che, in quanto tale, si articola
nell’attività di rilevazione dei sintomi e di accertamento degli stessi, al fine
di procedere alla scelta del rimedio più efficace ed efficiente. Ma vi è di
più. Infatti, la disciplina sulla crisi della banca cosı̀ riformata è stata pensata per trovare applicazione ancora prima, posto che è stato introdotto un
(18) Il riferimento è all’art. 76 t.u.b. vecchia formulazione, che attribuiva alla Banca
d’Italia il potere di disporre, direttamente ed autonomamente, la gestione provvisoria dell’ente creditizio, qualora dinanzi ai presupposti di cui all’art. 70 t.u.b. sussistessero le
menzionate ragioni di assoluta urgenza; nonché all’art. 80 t.u.b. nella formulazione previgente, che anch’esso richiamava i comuni presupposti di cui all’art. 70 t.u.b., condizionando
l’apertura della liquidazione coatta amministrativa alla qualifica degli stessi in termini di
eccezionale gravità.
(19) Cfr. art. 69 quater t.u.b.
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meccanismo di allerta e prevenzione che deve essere adottato dagli istituti
di credito nel corso della ordinaria e fisiologica attività d’impresa.
Tornando al presupposto oggettivo rilevante ai fini dell’applicazione
delle procedure di gestione della crisi bancaria, è il comma 2˚ del citato art.
17 del d.lgs. n. 180/15 a delinearne il contenuto, disponendo che la banca
è considerata in “dissesto” o a “rischio di dissesto” qualora sussista una o
più delle seguenti situazioni: a) risultano irregolarità nell’amministrazione
o violazioni di disposizioni legislative, regolamentarie o statutarie che regolano l’attività della banca di gravità tale che giustificherebbero la revoca
dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività; b) risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare la banca dell’intero patrimonio o
di un importo significativo del patrimonio; c) le sue attività sono inferiori
alle passività; d) essa non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza;
e) elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni indicate nelle
lettere a), b), c) e d) si realizzeranno nel prossimo futuro; f) è prevista
l’erogazione di un sostegno finanziario pubblico straordinario a suo favore,
ai sensi del successivo art. 18, per evitare o porre rimedio a una grave
perturbazione dell’economia e preservare la stabilità finanziaria.
3. Il sistema di vigilanza unico.
Definito il quadro in cui si situa l’oggetto della presente disamina, si
può ora continuare nell’analisi qui prospettata, addentrandosi quindi in
una lettura della nuova architettura istituzionale della vigilanza sulla crisi
bancaria (20), nonché della normativa secondaria di attuazione, che prevede un sistema complesso di ripartizione delle competenze tra BCE ed
autorità nazionali.
A questo proposito, si procederà, dapprima, tentando di delineare i
criteri utilizzati dal legislatore per individuare i poteri delle due autorità,
BCE e Banca d’Italia, nella gestione della crisi degli enti creditizi, per poi
porre l’attenzione sull’aspetto relativo alla natura del rapporto tra le due
istituzioni.
Quanto al primo profilo, è sostenibile che il discrimen tra le funzioni
della BCE e quelle della Banca d’Italia sia piuttosto complesso, in quanto
definito mediante un criterio di ripartizione per cosı̀ dire misto.
(20) La vigilanza unica trova disciplina nel reg. UE n. 1024/2013. In particolare, per
quanto riguarda la ripartizione delle competenze tra livello europeo e livello domestico, il
riferimento è all’art. 4 del citato regolamento.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Infatti, la competenza della BCE viene individuata, a volte sulla base
della materia, a volte facendo riferimento alle dimensioni del soggetto
vigilato. Nel tentativo di operare una classificazione, è possibile sostenere
l’esistenza, in primo luogo, di materie di competenza esclusiva della BCE.
Seguono poi materie “concorrenti”, nell’ambito delle quali la competenza
è attribuita alla BCE o alla autorità nazionale sulla base di criteri principalmente legati alle dimensioni dell’intermediario interessato. Sotto questo
profilo, si distingue tra ente “di significativa rilevanza” e quello “meno
rilevante”. Qualora si tratti di un ente “of significant relevance” o di un
ente che abbia richiesto l’assistenza finanziaria dello European Stability
Mechanism (ESM), la competenza spetta alla BCE. Nel caso invece in
cui si tratti di un ente “less significant”, l’autorità competente è quella
nazionale. Infine, si ravvisano materie di competenza esclusiva delle autorità nazionali.
Le materie di competenza esclusiva della BCE riguardano poteri che
abbracciano profili particolarmente rilevanti e determinanti dell’azione di
vigilanza, che hanno immediate ripercussioni sulla gestione della crisi
bancaria. Anzitutto, rileva in capo alla BCE il potere decisionale relativo
all’ingresso sul mercato e agli assetti proprietari di tutte le banche e,
quindi, per quanto in questa sede più interessa, è accentrato in capo alla
BCE il potere di revoca (cosı̀ come quello di autorizzazione) all’esercizio
dell’attività bancaria. In queste circostanze alla Banca d’Italia sono affidati
importanti poteri istruttori.
Inoltre, la BCE può, sempre per qualsiasi ente creditizio, adottare
misure specifiche dinanzi ad alcune anomalie. In particolare, la BCE
può intervenire qualora le banche non rispettino i requisiti prudenziali o
vi siano elementi nella situazione finanziaria e organizzativa della banca
che non permettano una gestione solida e la copertura dei suoi rischi. Si
tratta dei provvedimenti che vengono di norma individuati tra le misure di
“early intervention”. In queste ipotesi, tra i provvedimenti che la BCE può
assumere, si segnalano, esemplarmente: l’applicazione di requisiti patrimoniali più stringenti di quelli ordinari, il divieto di distribuzione degli utili e
il potere di rimuovere uno o più amministratori.
Tra le materie c.d. “concorrenti” rientrano quelle che prevedono compiti di ordinaria supervisione. Si tratta di poteri che afferiscono alla verifica
del rispetto della disciplina prudenziale nelle componenti qualitative (organizzazione, governo societario, remunerazioni), in quelle quantitative
(requisiti patrimoniali, concentrazione dei rischi, liquidità, leverage) e di
informativa al pubblico; la conduzione del processo di revisione e valutazione prudenziale e degli stress test; la vigilanza su base consolidata e
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saggi ed approfondimenti
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quella supplementare sui conglomerati finanziari; i piani di risanamento e
le misure di intervento precoce; alcuni compiti in materia di vigilanza
macroprudenziale.
Questi poteri per le banche “of significant relevance” sono attribuiti
alla BCE, che li esercita avvalendosi dei c.d. “Joint Supervisory Teams”, i
cui membri sono selezionati prevalentemente dalla autorità nazionale. Ciò
implica che la Banca d’Italia conserva un ruolo fondamentale, ai fini
istruttori, anche con riferimento alle banche di rilevanza significativa.
Per gli istituti di credito “less significant”, i medesimi poteri spettano
alla Banca d’Italia, che continua quindi a svolgere un’attività volta a verificare il rispetto di un insieme di regole armonizzate a livello europeo che
incidono sull’intera attività e organizzazione degli enti creditizi. Tuttavia,
anche quest’attività deve essere svolta seguendo le modalità stabilite in
modo unitario dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) (21).
(21) L’EBA è stata istituita con il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio
del 24 novembre 2010, n. 1093. Per una riflessione sulla ripartizione di competenze tra BCE
e EBA, v., ex multis, DEL GATTO, Il problema dei rapporti tra la Banca Centrale Europea e
L’autorità Bancaria Europea, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 4, p. 1221 ss.; v. anche FERRAN e
BABIS, The European Single Supervisory Mechanism, in Journal of Corporate Law Studies,
2013, p. 255 ss.; cfr. anche WYMEERSCH, The Single Supervisory Mechanism or «SSM», Part
One of the Banking Union, in NBB Working Paper Research series, aprile 2014, n. 255. L’A.
ha osservato: “in each of the 28 Member States, supervisors operate, on the basis of
harmonised but far from identical regulations. The system results in considerable differences, both in supervisory strictness, authority and methodology, sometimes making the exchange of views and cooperation among supervisors quite difficult and differences of strictness, reliability or even sophistication. If all states followed comparable regulatory provisions this would certainly contribute to supporting confidence, but would still be imperfect
as practices would continue to diverge: therefore, harmonised – or even better integrated –
supervision may be equally or even more important than regulation. Harmonised regulation
would not reduce the risk of regulatory arbitrage and of national bias, two forces that have
undermined the quality of supervision, while producing considerable structural consequences in the European banking and financial system”.
Cfr., inoltre, PEREZ, L’azione finanziaria europea nel tempo della crisi, in Riv. it. dir.
pubbl. comun., 2011, p. 1043 ss.; in argomento anche le considerazioni svolte da OCCHIENA,
La riforma della vigilanza finanziaria dell’Unione europea, in Dir. econ., 2010, p. 637 ss.;
CIRAOLO, Il processo di integrazione del mercato unico dei servizi finanziari, dal metodo
Lamfalussy alla riforma della vigilanza finanziaria, in Dir. econ., 2011, p. 415 ss.; WYMEERSCH,
The Reforms of the Financial Supervisory System - An overview, in European Company and
Financial Law Review, 2010, 7, p. 240 ss.; PELLEGRINI, L’architettura di vertice dell’ordinamento finanziario europeo: funzioni e limiti della supervisione, in Riv. trim. dir. eur., 2012, p.
2 ss.; GUARRACINO, Supervisione bancaria europea. Sistema delle fonti e modelli teorici, Padova, 2012, p. 34 ss. Per la nozione, ormai nota, di «sistema comune» si rinvia, per tutti, a
CHITI, Diritto europeo e diritto amministrativo nazionale nella disciplina procedurale dei
«sistemi comuni», in FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra
omogeneizzazione e diversità culturali, Padova, 2005, p. 65 ss.; cfr., infine, ID., Le trasformazioni delle agenzie europee, in Riv. trim. dir. pubbl., 2010, p. 57 ss.; CERULLI e IRELLI, Dalle
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Infine, si deve evidenziare come la BCE, sentite le autorità nazionali,
possa discrezionalmente decidere di avocare a sé la vigilanza diretta anche
delle banche “less significant”, al fine di “garantire l’applicazione coerente
di standard di vigilanza elevati” (22). La possibilità di esercitare tale potere
condiziona di fatto i comportamenti degli enti creditizi meno rilevanti e
pare perseguire l’ulteriore scopo di incentivare l’allineamento delle prassi
di vigilanza da parte delle autorità nazionali dei diversi paesi membri (23).
4. Rapporti tra BCE e Banca d’Italia.
Come evidenziato nel paragrafo precedente, il criterio di ripartizione
delle competenze tra BCE e autorità nazionale presenta elementi di criticità.
Per cercare di tracciare i confini tra i poteri dell’una e dell’altra, la
BCE ha emanato il cd. framework regulation, che sviluppa e specifica le
procedure di cooperazione tra la BCE stessa e l’autorità nazionale nell’ambito del meccanismo unico di vigilanza, assicurando in tal modo l’efficienza del nuovo sistema di vigilanza.
Risulta necessario, allora, passare ad una disanima di queste procedure, sempre limitandosi all’ambito qui preso in considerazione della gestione della crisi degli enti creditizi, al fine di analizzare le diverse modalità di
collaborazione tra la BCE e la Banca d’Italia.
Per quanto concerne la vigilanza sugli enti “of significant relevance”,
nonostante i poteri di ordinaria supervisione siano prerogativa della BCE,
il “framework” ha previsto il coinvolgimento anche della autorità nazionale. Tale cooperazione si estrinseca nell’obbligo per la Banca d’Italia di
scambiare informazioni con la BCE e di assisterla nella predisposizione
agenzie europee alle Autorità europee di vigilanza, in CHITI e NATALINI (a cura di), Lo spazio
amministrativo europeo, Le pubbliche amministrazioni dopo il Trattato di Lisbona, Bologna,
2012, passim. In termini più generali sull’argomento, si rinvia a TORCHIA, La regolazione
indipendente nell’ordinamento europeo: i nuovi organismi di settore, in BILANCIA (a cura di),
La regolazione dei mercati di settore fra autorità indipendenti nazionali e organismi europei,
Milano, 2012, pp. 32 ss.
(22) In questi termini l’art. 6, par. 5, lett. b, del citato Regolamento.
(23) Per completare il quadro, si ricorda che le materie non ricomprese nel meccanismo
unico di vigilanza (MUV) continuano ad essere di esclusiva prerogativa della autorità nazionale. Il riferimento è all’attività di supervisione in materie che non hanno attinenza con la
vigilanza prudenziale in senso stretto e che l’art. 127, par. 6, del Tratt. UE, non avrebbe
consentito di attribuire alla BCE. In particolare, in tema di: protezione dei consumatori,
contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, servizi di pagamento, vigilanza sui
soggetti non bancari, controlli sulle banche di paesi terzi che intendono operare nell’UE
attraverso succursali o in regime di libera prestazione di servizi.
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e nell’attuazione dei provvedimenti di vigilanza, seguendo le istruzioni
fornite dalla BCE, che mantiene la piena responsabilità dei provvedimenti
assunti.
Inoltre, come anticipato, nello svolgimento delle sue attività la BCE si
avvale dei Joint Supervisory Teams, ovvero di gruppi di vigilanza congiunti
costituiti anche da personale designato dalle autorità nazionali. Questi, in
qualità di responsabili della vigilanza ordinaria sulle banche rilevanti, rappresentano il principale veicolo di cooperazione tra le autorità nazionali e
la BCE e il primo interlocutore degli intermediari.
Quanto ai poteri di vigilanza sugli enti “less significant”, rientranti,
come si è già evidenziato, nella competenza della autorità nazionale, anche
in questo caso, il legislatore ha attribuito alla BCE poteri che, di fatto, le
permettono di ingerirsi nell’attività di supervisione di tali enti. Infatti, in
primo luogo, la BCE è responsabile dell’implementazione degli standard
tecnici dell’EBA a cui la Banca d’Italia deve uniformarsi per l’esercizio dei
poteri di vigilanza. Inoltre, l’autorità domestica, al fine di consentire alla
BCE di supervisionare il buon funzionamento del meccanismo unico di
vigilanza, deve fornire a livello europeo informazioni e progetti di decisioni
relativi a procedure che abbiano un impatto rilevante sull’ente, come, ad
esempio, la procedura di rimozione dei membri del c.d.a. dell’ente. Infine,
la Banca d’Italia è tenuta a presentare annualmente una relazione alla BCE
sull’attività di vigilanza da esse svolta e ad informarla su ogni crisi rilevante
capace di costringere l’ente a ricorrere ad un finanziamento da parte
dell’Unione europea.
Tra gli altri poteri ricollegabili alla gestione della crisi degli enti creditizi si possono enunciare: i poteri di ispezione, quello di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e, più in generale, i poteri
sanzionatori. Per tutti vale un obbligo di cooperazione tra Banca d’Italia e
BCE che è sancito espressamente dal dettato normativo.
In particolare, quanto ai primi poteri menzionati, le ispezioni in loco
sono condotte da gruppi i cui membri sono scelti tra il personale della
BCE e altre persone da esse autorizzate. La BCE, da un lato, è tenuta a
notificare preventivamente all’ente ispezionato i nominativi dei membri del
gruppo ispettivo; dall’altro, deve dare comunicazione dell’ispezione anche
alla Banca d’Italia prima di effettuare la notifica all’ente interessato. Qualora sia necessario per garantire l’efficacia dell’ispezione, la BCE può
svolgere l’attività ispettiva senza previa notifica all’ente vigilato, ma dandone in ogni caso comunicazione all’autorità nazionale. Infine, qualora
l’ente sottoposto a ispezione opponga resistenza, la Banca d’Italia è tenuta
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a prestare al gruppo incaricato dalla BCE l’assistenza necessaria in conformità al diritto nazionale.
Per quanto riguarda il potere di revoca dell’autorizzazione all’esercizio
della attività creditizia, la cooperazione tra Banca d’Italia e BCE si specifica nell’obbligo in capo alla prima di prestare assistenza nella preparazione e nell’attuazione di atti la cui adozione in forma definitiva spetta alla
BCE. Infatti, la relativa procedura può essere avviata sia dalla autorità
nazionale, sia dalla BCE. Nel primo caso, la procedura seguita, analogamente a quanto accade per il procedimento del rilascio dell’autorizzazione,
ha inizio con una domanda rivolta all’autorità nazionale, la quale, verificata
l’esistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge domestica, invia un “progetto di decisione” alla BCE, cui spetta il potere decisionale secondo una
formula di silenzio assenso. Nella seconda ipotesi è previsto l’obbligo per
la BCE di consultarsi preventivamente con la Banca d’Italia.
Quanto ai poteri sanzionatori, si evince a livello di Unione europea un
sistema articolato di sanzioni amministrative, volte a tutelare il rispetto
delle norme previste dal diritto dell’Unione da parte degli enti vigilati.
Cosı̀, per esempio, la BCE può comminare sanzioni pecuniarie fino al
doppio dei profitti ricavati o delle perdite evitate per effetto delle violazioni della normativa o comunque fino al 10% del fatturato complessivo
annuo. In questo contesto, il potere sanzionatorio è suddiviso tra BCE ed
autorità nazionali in modo peculiare. Infatti, la BCE si occupa solamente
degli enti “of significant relevance” e può comminare sanzioni di natura
pecuniaria per violazioni, dolose o colpose, di discipline europee immediatamente applicabili e, quindi, di regolamenti. Negli altri casi, la BCE
può richiedere l’intervento della Banca d’Italia, che ha il potere di irrogare
sanzioni sulla base delle discipline procedurali domestiche. È l’ipotesi, per
esempio, delle sanzioni agli esponenti delle banche, delle sanzioni per
violazione di norme non direttamente applicabili come le direttive, nonché
delle sanzioni diverse da quelle pecuniarie.
Si possono infine riscontrare i cd. poteri di supervisione della gestione
delle crisi bancarie, riconducibili alla vigilanza macro-prudenziale. Sul
punto, il regolamento sul meccanismo unico di vigilanza ha introdotto
nuovi strumenti, volti a prevenire ed a fronteggiare i rischi alla stabilità
complessiva del sistema, in cui si ravvisa similmente una condivisione di
poteri tra BCE ed autorità nazionali. Il riferimento è, ad esempio, alla
possibilità di imporre agli enti creditizi di costituire riserve supplementari
di capitale in aggiunta ai fondi propri ordinari, in modo tale da assicurare
l’accumulo di una base di capitale sufficiente a coprire le perdite nelle fasi
di crisi economica. La regola è che la competenza ad applicare simili
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strumenti spetta alla Banca d’Italia. Tuttavia, vi è un temperamento, in
quanto il framework regulation (24) prevede che l’autorità nazionale debba
notificare, con almeno dieci giorni di anticipo, alla BCE l’intenzione di
utilizzare tali misure. In questo caso, la BCE può sollevare, entro cinque
giorni, un’obiezione, formulando un parere vincolante per la Banca d’Italia. Si aggiunge che la BCE può in ogni caso avocare a sé tale funzione,
previo unicamente preavviso di almeno dieci giorni alla autorità nazionale.
Anche in questa ipotesi inversa, si segue lo stesso procedimento per l’adozione della misura, che necessita della adesione da parte della Banca
d’Italia.
5. Natura giuridica del rapporto tra BCE e Banca d’Italia.
Una volta delineate le modalità di interazione tra BCE e Banca d’Italia,
si pone in rilievo una riflessione sulla natura giuridica di questo rapporto
tra autorità comunitaria ed autorità nazionale. Il tema è particolarmente
delicato per le dirette ripercussioni pratiche ad esso collegate, in quanto
incide sull’imputazione degli atti adottati e, quindi, sulla relativa responsabilità.
Partendo dal ruolo della Banca d’Italia nell’ambito delle materie di
competenza esclusiva della BCE, pare evidente come la stessa sia, di fatto,
priva di autonomo potere decisionale. A questo proposito, si può parlare
di esercizio di poteri che si esplicano, sostanzialmente, in una attività di
assistenza non avente contenuto decisorio, equiparata a quella di uffici
periferici ausiliari della BCE. Ne consegue che, in questo caso, gli atti
adottati da Banca d’Italia devono essere considerati emanazione di un
potere della BCE e vanno, pertanto, ad essa imputati, anche sul piano
dell’impugnazione. Ciò non significa che sia completamente escluso qualsiasi margine di discrezionalità della autorità nazionale nei procedimenti di
vigilanza di competenza della BCE. Sotto questo profilo, si può affermare
che, in generale, nell’attività di vigilanza non pare possibile una distinzione
netta fra attività istruttoria e attività decisionale. Il provvedimento finale è
il frutto di un’attività e scelte che implicano un margine di discrezionalità
(24) Cfr. reg. UE n. 468/2014, “che istituisce il quadro di cooperazione nell’ambito del
Meccanismo di vigilanza unico tra la Banca centrale europea e le autorità nazionali competenti e con le autorità nazionali designate (Regolamento quadro sull’MVU)”, in G.U.U.E. L
141 del 14 maggio 2014, p. 1 ss. V., anche reg. UE n. 1024/2013, “che attribuisce alla Banca
centrale europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale
degli enti creditizi”, in G.U.U.E. L 287 del 29 ottobre 2013, p. 63 ss.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
tecnica (25) nella fase istruttoria molto rilevante. Per queste ragioni è stato
rilevato come l’accentramento della vigilanza nelle mani della BCE “non si
configuri come una mera devoluzione di poteri, ma come un nuovo sistema di esercizio congiunto [seppure peculiare] dei poteri di vigilanza” (26).
Anche nell’ambito degli enti “less significant”, che ricadono nella competenza esclusiva della vigilanza della Banca d’Italia, sono previsti una
serie di penetranti poteri in capo alla BCE. Quest’ultima, come si è già
accennato, può impartire regolamenti ed istruzioni, può richiedere informazioni e, soprattutto, può decidere di assoggettare alla propria vigilanza
diretta una o più banche “less significant”. Emerge, pertanto, che pure i
poteri esercitati direttamente dalla Banca d’Italia sono soggetti a controllo
preventivo, attraverso l’emanazione di regole e istruzioni per il loro esercizio, e successivo, considerato che la BCE può avocare a sé l’esercizio
della vigilanza anche su questi soggetti.
Alla luce delle considerazioni svolte, si può constatare che il meccanismo di vigilanza unico rappresenta un modello di integrazione operativa
ed organizzativa tra apparato nazionale ed europeo complesso, che si
fonda su un dovere di cooperazione, in eguale misura, tra BCE e Banca
d’Italia. Tuttavia, non si può negare come questo obbligo di cooperazione
(25) MANCINI, Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union, in Quaderni di
ricerca giuridica della Banca d’Italia, settembre 2013, passim. Come noto, le scienze amministrativistiche distinguono la discrezionalità tecnica da quella amministrativa. In breve, e
senza pretese di completezza, si può rilevare che il primo tipo di discrezionalità menzionato
richiede l’uso e l’applicazione di determinate cognizioni tecniche, pure se l’esito di tali
operazioni conduce a risultati opinabili. Ne consegue che il sindacato giudiziario può vertere
sull’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a
criterio tecnico e a procedimento applicativo. A questo punto, secondo parte degli autori si
tratterebbe di un sindacato intrinseco cd. debole, non essendo consentito al giudice sostituirsi alla p.a. In questo senso, cfr. Cons. Stato 9 aprile 1999, n. 601, in Foro it., 2001, III, c.
9 ss., con nota di TRAVI; di diverso avviso i sostenitori del sindacato intrinseco cd. forte, e
quindi del prevalente potere giudiziale sulla valutazione della p.a., anche qualora questa sia
risultata comunque attendibile e corretta. Cosı̀ Cons. Stato 4 dicembre 2012, n. 6219, in Dir.
proc. amm., 2013, p. 509 ss., con nota di DE ROSA. Per un approfondimento su tale
distinzione, cfr. VILLATA e RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2007, p.
117 ss.; LIGUORI, La funzione amministrativa. Aspetti di una trasformazione, Napoli, 2013,
p. 137 ss. Diversamente, il secondo tipo di discrezionalità, e cioè quella amministrativa,
concerne l’esercizio del potere discrezionale di valutazione circa l’opportunità di compiere
una scelta tra più opzioni disponibili, tutte ugualmente valide per l’ordinamento, purché in
funzione del perseguimento di un determinato interesse o fascio di interessi, il cui apprezzamento è in ogni caso di competenza esclusiva della p.a.
(26) Cfr. BARBAGALLO, L’unione bancaria europea, intervento alla tavola rotonda organizzata dal NIFA (New International Finance association), in Verso l’Europa Unita Gli
obiettivi raggiunti, gli ostacoli da superare, le nuove sfide, 6 maggio 2014, consultabile sul
sito di Banca d’Italia.
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sia quantomeno asimmetrico (27), dato che è soprattutto l’autorità nazionale a svolgere un’attività di assistenza e di supporto alla BCE nell’esercizio dei suoi compiti (28).
6. I poteri della Banca d’Italia nella gestione anticipata della crisi: le
misure preparatorie (piani di risanamento, piani di risoluzione e misure di
intervento precoce).
L’applicazione dei criteri di ripartizione sopra delineati tra le competenze della BCE e quelle della Banca d’Italia si specifica nelle singole
discipline degli strumenti di gestione della crisi bancaria, delineando ulteriori peculiari poteri in capo alle due autorità.
Non è certo questa la sede per una disamina completa ed approfondita
delle diverse procedure (vecchie, nuove e rivisitate) previste nel testo unico
bancario rinovellato. Senza alcuna pretesa di completezza, si vuole unicamente evidenziare alcuni aspetti della normativa che si reputano particolarmente significativi nella indagine circa i poteri della Banca d’Italia ed
esemplificativi di quel sistema di cooperazione tra autorità sovranazionale
ed autorità domestica sopra menzionato.
A questo proposito, si può anzitutto rilevare che nella nuova disciplina
della gestione della crisi alla Banca d’Italia vengono attribuiti poteri penetranti. Infatti, ai sensi della Direttiva BRRD, la Banca d’Italia riveste il
ruolo della cd. autorità di risoluzione, cioè quella istituzione nazionale alla
quale è affidata la conduzione e la vigilanza sulla (nuova) attività, preparatoria e continua, della gestione di una (possibile) crisi degli enti creditizi.
Al fine di comprendere la portata di questa affermazione, è necessaria
una precisazione, richiamando un aspetto già evidenziato circa la definizione di “crisi” di una banca.
Come noto, nella disciplina nazionale pre-vigente, la crisi bancaria era
affrontata sostanzialmente con due strumenti disciplinati dal t.u.b., ossia
l’amministrazione straordinaria, eventualmente preceduta dalla gestione
provvisoria, e la procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tali
(27) Cfr. CLARICH, I poteri di vigilanza della Banca centrale europea, relazione al XX˚
Congresso Italo-Spagnolo dei professori di diritto amministrativo, in I servizi pubblici economici tra mercato e regolazione, Roma, 27 febbraio-1˚ marzo 2014, consultabile sul sito di
Banca d’Italia.
(28) Cfr. BARBAGALLO, op. ult. cit., pp. 4 ss., che ha rilevato come questo ruolo di vertice
in capo alla BCE sia comprensibile non già per giustificare un indebolimento delle amministrazioni nazionali a vantaggio di quelle europee, ma trova la propria ratio nella evidenza
che, pur in un contesto di integrazione di apparati, la responsabilità del funzionamento
efficace e coerente del MVU è attribuita alla BCE.
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procedure sono state pensate per intervenire in un momento in cui la
banca si trova già in una grave situazione patologica.
La Direttiva BRRD scardina questa impostazione, anticipando i doveri
gestori della (eventuale) crisi alla fase fisiologica dell’attività bancaria. A tal
fine, nei periodi di ordinaria operatività della banca è imposta quella
attività preparatoria di continuo monitoraggio e, si può dire, di prevenzione dei sintomi di una crisi. È in questa fase di gestione preventiva della
crisi che la Banca d’Italia, in veste di autorità di risoluzione, svolge una
funzione essenziale, coadiuvata dai singoli enti creditizi interessati. In particolare, secondo la nuova disciplina, le singole banche devono predisporre (29) un piano di risanamento (“recovery plan”) individuale, contenente
(29) Cfr. art. 5, par. 2, Direttiva BRRD. Questo piano deve essere riesaminato periodicamente ed aggiornato, se del caso, con cadenza almeno annuale. Ai sensi del novellato
art. 69 quater, comma 5˚, t.u.b. “si procede comunque al riesame e all’eventuale aggiornamento del piano in caso di significativo mutamento della struttura giuridica o organizzativa
della banca o della sua situazione patrimoniale o finanziaria”.
L’Allegato A della Direttiva BRRD elenca le seguenti informazioni che devono essere
inserite nei piani di risanamento:
1) una sintesi degli elementi fondamentali del piano e una sintesi della capacità globale
di risanamento;
2) una sintesi delle modifiche sostanziali apportate all’ente dopo l’ultimo piano di
risanamento;
3) un piano di comunicazione e informazione che delinea in che modo l’impresa
intende gestire le eventuali reazioni potenzialmente negative del mercato;
4) una gamma di azioni sul capitale e sulla liquidità necessarie per mantenere o ripristinare la sostenibilità economica e la situazione finanziaria dell’ente;
5) una stima dei tempi necessari per l’esecuzione di ciascun aspetto sostanziale del
piano;
6) una descrizione dettagliata degli eventuali impedimenti sostanziali all’esecuzione
efficace e tempestiva del piano, tenuto conto anche dell’impatto sul resto del gruppo, sulla
clientela e sulle controparti;
7) l’individuazione delle funzioni essenziali;
8) una descrizione dettagliata delle procedure per determinare il valore e la commerciabilità delle linee di business principali, delle operazioni e delle attività dell’ente;
9) una descrizione dettagliata delle modalità con cui la pianificazione del risanamento è
integrata nella struttura di governance dell’ente, nonché delle politiche e procedure che
disciplinano l’approvazione del piano di risanamento e l’identificazione delle persone responsabili della preparazione e dell’attuazione del piano all’interno dell’organizzazione;
10) dispositivi e misure per conservare o ripristinare i fondi propri dell’ente;
11) dispositivi e misure intesi a garantire che l’ente abbia un accesso adeguato a fonti di
finanziamento di emergenza, comprese le potenziali fonti di liquidità, una valutazione delle
garanzie reali disponibili e una valutazione della possibilità di trasferire liquidità tra entità
del gruppo e linee di business, affinché l’ente possa continuare a svolgere le proprie funzioni
e rispettare i propri obblighi allo loro scadenza;
12) dispositivi e misure intesi a ridurre il rischio e la leva finanziaria;
13) dispositivi e misure per ristrutturare le passività;
14) dispositivi e misure per ristrutturare le linee di business;
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misure idonee a fronteggiare un deterioramento significativo della situazione patrimoniale e finanziaria della banca, piano che deve essere basato
su assunzioni realistiche e relative a scenari che prevedano situazioni di
crisi anche gravi.
Segnatamente, il piano di risanamento:
– non deve assumere come possibile l’accesso a forme di finanziamento pubblico straordinarie;
– comprende eventualmente un’analisi delle modalità e delle tempistiche con le quali, nelle situazioni contemplate dal piano, la banca può
domandare il ricorso ai meccanismi previsti dalla BCE;
– identifica le attività che possono essere considerate idonee come
garanzie;
– comprende sia condizioni e procedure atte a garantire la tempestività
delle azioni di risanamento, sia “una vasta gamma di opzioni di risanamento” (30);
– contempla una serie di scenari di grave stress macroeconomico e
finanziario attinenti alla specifica situazione della banca e riconducibili ad
eventi di natura sistemica e stress specifici per ogni ente creditizio.
I poteri della Banca d’Italia rilevano sotto il profilo del controllo di
questa attività di programmazione e pianificazione volta ad evitare una
crisi. Infatti, ai sensi dell’art. 5, paragrafo 9, della Direttiva BRRD, nonché
del novellato art. 69 quater, comma 5, del TUB, il piano, dopo essere stato
esaminato ed approvato dall’organo di amministrazione dei singoli istituti
di credito, deve essere sottoposto alla valutazione della Banca d’Italia.
Questo potere valutativo, che deve essere esercitato in conformità ai criteri
indicati in sede comunitaria, si estrinseca sotto il profilo della completezza
e dell’adeguatezza del piano sottopostole.
15) dispositivi e misure necessari per assicurare la continuità dell’accesso alle infrastrutture dei mercati finanziari;
16) dispositivi e misure necessari per assicurare la continuità del funzionamento dei
processi operativi dell’ente, compresi infrastrutture e servizi informatici;
17) dispositivi preparatori per agevolare la vendita di attività o di linee di business in
tempi adeguati per il ripristino della solidità finanziaria;
18) altre azioni o strategie di gestione intese a ripristinare la solidità finanziaria nonché
effetti finanziari previsti di tali azioni o strategie;
19) misure preparatorie che l’ente ha attuato o intende attuare al fine di agevolare
l’attuazione del piano di risanamento, comprese le misure necessarie per consentire una
ricapitalizzazione tempestiva dell’ente;
20) un quadro degli indicatori nel quale siano identificati i punti in cui possano essere
adottate le azioni opportune riportate nel piano.
(30) Cfr. art. 5, par. 6, Direttiva BRRD.
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Un’ulteriore potere (ed anche dovere) della Banca d’Italia in veste di
autorità di risoluzione è quello di elaborare preventivamente, in via generale, piani di risoluzione per ciascuna banca non sottoposta a vigilanza su
base consolidata da attivare per gestire le situazioni di crisi (31). Il piano
prevede le modalità per l’applicazione alla banca delle misure e dei poteri
da attivare in caso di risoluzione. Inoltre, all’interno del piano la Banca
d’Italia deve identificare gli eventuali ostacoli rilevanti per la risoluzione e
stabilire le modalità di intervento per superarli, in conformità alla disciplina di vigilanza comunitaria.
Infine, spettano alla Banca d’Italia ampi poteri di adozione di misure di
intervento precoce (32). Sotto quest’ultimo profilo, ai primi segnali di deterioramento delle condizioni finanziarie o patrimoniali della banca, la Banca
d’Italia può adottare strumenti di intervento rapido, al fine di evitare che il
peggioramento della situazione finanziaria di un determinato ente sia tale
da non lasciare alternative agli strumenti di risoluzione. Queste misure si
diversificano in relazione alla più o meno gravità della situazione da fronteggiare. Cosı̀, in particolare, ai sensi dell’art. 69 noviesdecies t.u.b., la
Banca d’Italia ha il potere di chiedere all’ente creditizio interessato di dare
attuazione, anche parziale, al piano di risanamento adottato o di preparare
un piano per negoziare la ristrutturazione del debito con tutti o alcuni dei
creditori secondo il piano di risanamento, ove applicabile. Ancora, l’autorità di vigilanza può imporre all’ente creditizio interessato di modificare la
propria forma societaria. Inoltre, nell’esercizio delle suddette funzioni, la
Banca d’Italia può richiedere l’aggiornamento del piano di risanamento,
quando le condizioni che hanno condotto all’intervento divergono rispetto
alle ipotesi contemplate, ovvero, fissare un termine per l’attuazione del
piano e l’eliminazione delle cause che formano presupposto dell’intervento
precoce. Nel caso in cui la situazione di dissesto sia particolarmente grave,
queste misure di intervento rapido comprendono anche la possibilità di
rimuovere i vertici della banca e di nominare amministratori straordinari,
con il compito di affrontare le difficoltà finanziarie della banca medesima (33).
(31) Cfr. art. 7, d.lgs. n. 180/15.
(32) Cfr. Artt. 69 octiesdecies ss. t.u.b.
(33) In questa fattispecie, ex art. 69 vicies semel, comma 2˚, t.u.b., la Banca d’Italia
convoca l’assemblea dell’ente creditizio con all’ordine del giorno il rinnovo degli organi di
amministrazione e controllo. Ai sensi dei successivi commi della richiamata disposizione, la
Banca d’Italia può inoltre ordinare la rimozione di uno o più componenti dell’alta dirigenza
della banca, nominandone di nuovi. Resta ferma la possibilità in ogni momento per Banca
d’Italia di disporre l’amministrazione straordinaria, ai sensi dell’art. 70 t.u.b.
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7. I poteri di vigilanza della Banca d’Italia nelle procedure di gestione
della crisi: le misure risanatorie (risoluzione e procedura di amministrazione
straordinaria) e l’opzione liquidatoria (liquidazione coatta amministrativa).
Ulteriori veri e propri poteri di gestione sono attribuiti alla Banca
d’Italia in presenza di uno stato di dissesto, anche solamente prospettico
(cd. rischio di dissesto).
Come già rilevato, il “dissesto” o il suo rischio sono ravvisabili in
molteplici situazioni, tra loro eterogenee, che vanno dalle irregolarità nell’amministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o
statutarie (“di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell’autorizzazione
all’esercizio dell’attività”) alle perdite patrimoniali di eccezionale gravità.
Sono altresı̀ comprese nella nozione di “dissesto” le ipotesi di attività
inferiori alle passività, nonché l’incapacità di “pagare i propri debiti alla
scadenza”, ai sensi dell’art. 17, comma 2˚, d.lgs. n. 180/15. Queste contingenze rilevano sia che esse siano in atto, sia allorché “elementi oggettivi”
indichino che una o più delle dette situazioni “si realizzeranno nel prossimo
futuro”. Viene in tal modo equiparato lo stato di effettivo “dissesto” al
rischio, realisticamente valutato, in virtù di segnali “oggettivi”. A questo
proposito, si è notato come l’estensione dei presupposti ampli ulteriormente il novero delle condizioni critiche, che determinano il (potenziale)
“dissesto” bancario, estendendo cosı̀ il potere della Banca d’Italia in misura di gran lunga superiore rispetto ai confini segnati dall’accertamento
dei presupposti della liquidazione coatta amministrativa, procedura, quest’ultima, ormai riservata a situazioni di crisi irreversibile (34).
In queste ipotesi, accertate senza la necessità di un provvedimento
giurisdizionale, spetta all’autorità di vigilanza domestica valutare la possibilità di utilizzare la procedura amministrativa di risanamento tradizionale,
e cioè l’amministrazione straordinaria, ovvero se sussistano gli ulteriori
(34) Cfr. DI BRINA, Il bail-in (L’influenza del diritto europeo sulle crisi bancarie e sul
mercato del credito), contributo al VII˚ Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei
professori Universitari di diritto commerciale “Orizzonti del diritto commerciale” – “L’influenza del diritto europeo sul diritto commerciale italiano: valori, principi, interessi”, Roma,
26-27 febbraio 2016, che ha affermato che la previsione di un’ampia gamma di criticità e,
soprattutto, l’introduzione tra i presupposti del fattore “rischio” (come elemento probabilistico, sia pur desunto da indicazioni di carattere “oggettivo”) collocano la “risoluzione”,
quale intervento di gestione e risanamento delle crisi bancarie, in una fase antecedente
rispetto a quella dell’emersione non solo di un effettivo stato di “insolvenza” o di perdite
(gravi o di eccezionale gravità), ma anche rispetto allo stato di semplice illiquidità o temporanea difficoltà o incapacità patrimoniale.
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presupposti necessari per avviare la speciale procedura di risoluzione, o
invece se optare per la liquidazione coatta amministrativa.
Diviene a questo punto opportuno porre l’attenzione, seppure brevemente, su ciascuno di questi tre strumenti di gestione della crisi bancaria.
Quanto alla prima ipotesi, si può constatare che l’apertura dell’amministrazione straordinaria non avviene più con decreto governativo, su proposta della Banca d’Italia, essendo quest’ultima a disporre l’avvio della
procedura con proprio provvedimento.
A tale provvedimento sono ricollegati sempre i due effetti caratterizzanti la disciplina previgente, e cioè: i) il possibile scioglimento degli
organi amministrativi e di controllo della banca; ii) la sospensione dell’assemblea e degli organi diversi dal consiglio di amministrazione e dal collegio sindacale (la sospensione comporta che tali organi rimangono in vita
e sono convocabili solamente dal commissario straordinario).
Restano sostanzialmente invariati i poteri gestori dell’autorità di vigilanza nel corso della procedura. Ciò in quanto la volontà del legislatore
riformatore è stata quella di dare attuazione al meccanismo unico di vigilanza anche nell’ambito di questo rimedio “tradizionale” di gestione della
crisi bancaria. Pertanto, il ruolo ridimensionato è unicamente quello governativo.
In questo senso, si possono indicare alcuni esempi. Cosı̀, in caso di
gravi irregolarità o di sospetto di gravi irregolarità, il titolare del potere di
intervento, rispettivamente, necessario o eventuale, è la Banca d’Italia. Allo
stesso modo, gli organi della procedura (commissari straordinari e comitato di sorveglianza) sono nominati dalla Banca d’Italia. Fino all’insediamento degli organi straordinari, la Banca d’Italia, per ragioni di urgenza,
può nominare un commissario provvisorio, che viene scelto tra i propri
funzionari e che assume i medesimi poteri dei commissari straordinari.
Ancora, la Banca d’Italia ha la facoltà, eventualmente, di limitare i poteri
dei commissari straordinari. Anche nelle ulteriori fasi della amministrazione straordinaria, come nella disciplina previgente, il tutto avviene sotto lo
stretto controllo dell’autorità di vigilanza, che è preposta all’intera procedura, come si desume anche da una serie di poteri autorizzativi che la
legge le riconosce per procedere al compimento di determinati atti: è il
caso dell’azione di responsabilità dell’ente creditizio contro gli amministratori e i sindaci revocati, delle azioni civili contro i commissari straordinari
o i membri del comitato di sorveglianza, della revoca o sostituzione dei
commissari o dei membri del comitato di sorveglianza, dell’autorizzazione
alla sospensione dei pagamenti e della restituzione di strumenti finanziari,
della convocazione dell’assemblea da parte dei commissari. Infine, l’inci-
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sivo potere di vigilanza permane anche negli adempimenti finali. Infatti,
esaurita l’attività di risanamento, la chiusura della procedura è condizionata alla redazione del bilancio finale, che deve essere approvato dalla
Banca d’Italia (35).
Dinanzi alla impossibilità di disporre l’amministrazione straordinaria o
altra misura di intervento di tipo risanatorio di cui al testo unico bancario (36), si dà luogo alla liquidazione coatta amministrativa.
Circa la fase di apertura, a parte l’adeguamento alla disciplina europea
dei presupposti di accesso, restano ferme le norme previgenti. Quindi, la
procedura può essere aperta su richiesta motivata dell’organo amministrativo o dell’assemblea straordinaria dell’ente creditizio interessato, ovvero
dei commissari straordinari o dei liquidatori. L’opportunità di aprire questa procedura deve essere valutata discrezionalmente dalla Banca d’Italia, a
meno che non vi sia già stata la dichiarazione di insolvenza giudiziale, nel
qual caso l’apertura della procedura è un atto dovuto. In questo contesto,
l’unica differenza sostanziale operata dall’intervento riformatore è l’eliminazione del potere del ministero di revocare l’autorizzazione all’esercizio
dell’attività bancaria, potere che, come si è già evidenziato, rientra nella
competenza della Banca d’Italia.
Gli organi della procedura (i commissari liquidatori ed il comitato di
sorveglianza) sono nominati dalla Banca d’Italia con provvedimento che
viene pubblicato non più in gazzetta ufficiale, bensı̀ sul sito web dell’autorità di vigilanza. Questo aspetto non fa che sottolineare la volontà legislativa di accentrare il controllo amministrativo, in attuazione del meccanismo unico di vigilanza, anche sotto il profilo informativo.
Le successive fasi della liquidazione coatta amministrativa restano
scandite senza particolari modifiche da parte del legislatore riformatore
(35) Si precisa che la procedura di gestione provvisoria non trova più ragion d’essere a
seguito dell’intervento del legislatore riformatore, che ha abrogato l’art. 76 t.u.b. Sotto
questo profilo, si può osservare che la funzione di intervento immediato dinanzi alla crisi
tipica della gestione provvisoria confluisce oggi tra quelle funzioni proprie delle nuove
misure di gestione anticipata della crisi bancaria che, per le loro caratteristiche intrinseche,
si prefiggono di intervenire precocemente, evitando il verificarsi di quella “assoluta urgenza”
che costituiva il presupposto di attivazione della abrogata procedura.
(36) L’art. 80, comma 1˚, t.u.b., modificato ai sensi dell’art. 1, comma 23˚, d.lgs. n. 181/
15, dispone che: “Il Ministero dell’economia e delle finanze, su proposta della Banca
d’Italia, può disporre con decreto la liquidazione coatta amministrativa delle banche, anche
quando ne sia in corso l’amministrazione straordinaria ovvero la liquidazione secondo le
norme ordinarie, se ricorrono i presupposti indicati all’art. 17 del decreto legislativo [di
recepimento della direttiva 2014/59/UE], ma non quelli indicati nell’art. 20, comma 2˚, del
medesimo decreto per disporre la risoluzione”.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
sino al momento della liquidazione dell’attivo, dove è stato mantenuto il
ruolo di vigilante in capo alla Banca d’Italia, che deve autorizzare le
modalità di liquidazione. Si precisa che, nell’esercizio di questo potere,
l’autorità di vigilanza domestica deve tenere conto della (nuova) opzione
relativa alla possibilità di intervento dei sistemi di garanzia dei depositanti.
Inoltre, è la Banca d’Italia a disporre la cancellazione di eventuali vincoli
su beni iscritti in pubblici registri.
La chiusura, anche mediante concordato, della procedura rispecchia lo
schema previgente e, dunque, spetta alla Banca d’Italia, destinataria delle
relazioni conclusive degli organi della procedura, autorizzare, in ultima
istanza, il deposito presso il tribunale della documentazione necessaria
per ottenere il decreto giudiziale finale.
Da ultimo, si menziona l’art. 92 bis t.u.b., introdotto per l’ipotesi di
procedura li liquidazione coatta amministrativa priva di risorse liquide o
con risolse insufficienti, nell’ambito della quale viene riconosciuto un ulteriore potere in capo alla Banca d’Italia, che anticipa le spese prededucibili sorte in funzione della procedura.
In presenza dei presupposti di accesso all’amministrazione straordinaria o a strumenti alternativi di gestione anticipata della crisi, qualora non
sia possibile “prospettare misure alternative” (37), ex art. 17 d.lgs. n. 180/
15, la Banca d’Italia, oltre alla possibilità sopra delineata di dare impulso
alla l.c.a., ai sensi dell’art. 80, comma 1˚, t.u.b., ha l’ulteriore opzione,
rappresentata dalla procedura di risoluzione. Questa trova spazio, in particolare, quando la Banca d’Italia, in veste di autorità di risoluzione, ha
accertato la sussistenza di uno o più interessi pubblici come identificati
dall’art. 21 del citato decreto (38). È in questo contesto che si inserisce il
(37) Per un approfondimento sulle alternative misure di “risanamento” ed una riflessione sul concetto di “risanamento”, interpretato in una prospettiva sistematica, comparato,
in particolare, con le disposizioni e le elaborazioni giurisprudenziali in tema di concordato
preventivo, cfr. DONATI, Il bail-in bancario: spunti per un nuovo diritto societario della crisi,
contributo al VII˚ Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei professori Universitari di
diritto commerciale “Orizzonti del diritto commerciale” – “L’influenza del diritto europeo
sul diritto commerciale italiano: valori, principi, interessi”, Roma, 26-27 febbraio 2016. L’A.,
a sostegno della sua tesi circa l’avvicinamento del termine “risanamento bancario” a quello
utilizzato nel contesto del concordato preventivo, ex artt. 160 ss. l.fall., ha richiamato la
sentenza della Cass. 20 ottobre 2015, n. 21286, inedita, con la quale la Suprema Corte ha
statuito che “il concordato preventivo è strumento volto alla risoluzione della crisi dell’impresa”.
(38) Tali obbiettivi sono identificati nella stabilità finanziaria, nel contenimento degli
oneri a carico delle finanze pubbliche, nella tutela dei depositanti e degli investitori protetti
da sistemi di garanzia o di indennizzo, nonché dei fondi e delle altre attività della clientela. Il
tutto, avendo riguardo al mantenimento della continuità delle funzioni essenziali dell’ente
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cd. meccanismo unico di risoluzione, cioè un sistema di coordinamento
entro la cornice di regole armonizzate che, similmente al meccanismo
unico di vigilanza e utilizzando gli stessi criteri, prevede una ripartizione
di competenze tra la BCE (autorità di risoluzione dell’Unione, che opera
mediante un proprio ufficio, il Comitato Unico di Risoluzione, cd. Single
Resolution Board) e la Banca d’Italia (autorità di risoluzione nazionale).
Pertanto, i poteri di vigilanza della Banca d’Italia in veste di autorità di
risoluzione si esplicano nei confronti delle banche di dimensioni meno
significative. Più precisamente, la decisione di applicare una misura di
gestione della crisi risolutoria si basa su una valutazione “equa, prudente
e realistica delle attività e delle passività” dell’ente creditizio interessato (39). Questa valutazione, che costituisce parte integrante della decisione
circa lo strumento di risoluzione adottato, è effettuata da un esperto
indipendente su incarico della Banca d’Italia (40).
Il provvedimento che dispone l’avvio della resolution, che contiene, in
particolare, l’indicazione dei presupposti ed il programma di risoluzione,
ex art. 32, comma 1˚, d.lgs. n. 180/15, previamente approvato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, viene pubblicato in gazzetta ufficiale,
sul sito della Banca d’Italia e su quello dell’ente sottoposto a risoluzione,
nonché nel registro delle imprese e in eventuali altri mezzi di comunicazione indicati dall’autorità di vigilanza. Infine, tale provvedimento viene
trasmesso alla BCE e agli altri enti del meccanismo unico di vigilanza, ai
sensi del richiamato art. 32, comma 4˚, d.lgs. n. 180/15. Eventuali modifiche del programma di risoluzione seguono lo stesso iter procedurale e di
pubblicità.
Nel merito della disciplina, quando l’ente creditizio viene sottoposto a
risoluzione, ha inizio un processo di ristrutturazione gestito interamente,
appunto, dalla Banca d’Italia. A questo fine, i poteri attribuiti all’autorità
di risoluzione mirano ad evitare interruzioni nella prestazione dei servizi
essenziali offerti dalla banca, a ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e a liquidare le parti restanti. A questo
fine, il legislatore ha previsto diversi strumenti di risoluzione, espressamente indicati nella Direttiva BRRD. Cosı̀, ad esempio, la Banca d’Italia può
provvedere a trasferire i rapporti della banca in crisi a terzi o a veicoli
creditizio e tenendo conto altresı̀ dell’esigenza di minimizzare i costi della risoluzione e di
evitare, per quanto possibile, distruzione di valore.
(39) Cfr. art. 23 d.lgs. n. 180/15.
(40) In caso di urgenza, la stessa Banca d’Italia ha il potere di procedere in via autonoma alla valutazione, seppure questa debba definirsi provvisoria.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
appositamente costituiti, con l’obiettivo di preservare la continuità delle
funzioni essenziali (in questo caso si parla di bridge bank), ovvero gestire le
procedure di realizzo delle attività deteriorate attraverso una società veicolo che ne esegua la liquidazione in tempi ragionevoli (bad bank). Infine
occorre considerare le misure di bail-in, consistenti nell’imposizione di
perdite a carico degli azionisti e dei creditori chirografari con un ordine
di priorità secondo una serie di norme di contenuto molto complesso, che
riguardano le finalità dello strumento, l’ambito di applicazione, la valutazione dell’importo del bail-in, il trattamento degli azionisti, la sequenza
della riduzione e della conversione nel bail-in, gli effetti dello strumento e
l’eliminazione di ostacoli procedurali al bail-in; peraltro misure di risanamento e piani di riorganizzazione aziendale possono essere adottate contestualmente allo strumento di bail-in, con l’obiettivo di evitare o contenere
eventuali esigenze di sostegno pubblico, che potranno dunque verificarsi
solo in casi eccezionali (41). A questo proposito, gli autori hanno distinto
un bail-in inteso nell’accezione più debole, che attribuisce alla Banca d’Italia un potere di svalutazione, da quello invece più forte o bail-in in senso
stretto, che attribuisce alla Banca d’Italia un potere di conversione (42). Le
(41) Cfr. ANTONIAZZI, L’Unione Bancaria Europea: i nuovi compiti della BCE di vigilanza
prudenziale degli enti creditizi e il maccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, in Riv.
it. dir. pubbl. comun., 2014, 3-4, p. 717 ss.
(42) L’art. 3, comma 1˚, n. 33 del reg. UE n. 806/2014 del 15 luglio 2014, che fissa
“norme ed una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese
di investimento nel quadro del meccanismo unico di vigilanza europea”, dispone che per
“strumento del bail-in” si intende “il meccanismo per l’esercizio dei poteri di svalutazione e
di conversione in relazione alle passività di un ente soggetto a risoluzione”, la Direttiva
BRRD lo riconduce ad un meccanismo “di svalutazione e di conversione”. Sul punto, cfr.
artt. 43 e 59 ss., e art. 63, par. 1, lett. da e a i.
Per un approfondimento sul bail-in, cfr. RULLI, La vigilanza sul sistema finanziario
europeo tra le riforme, in LENER (a cura di), Crisi dei mercati finanziari e corporate governance: poteri dei soci e tutela del risparmio, in Riv. Minerva bancaria, 2014, p. 435 ss.;
DONATI, op. cit., passim, e in particolare la nt. 19, nella quale l’A., sulla scorta di precedenti
interpretazioni, ha attribuito la “paternità” del termine bail-in ad un articolo apparso nel
gennaio 2010 su The Economist. Sul punto, cfr. CALELLO e ERVIN, From bail-out to bail-in, in
The Economist, 28 gennaio 2010, reperibile all’indirizzo www.economist.com/node/
15392186. Tuttavia, è stato rilevato come tale termine fosse già in precedenza di comune
utilizzo, nell’ambito delle crisi sovrane, per indicare i meccanismi di coinvolgimento dei
creditori. In questo senso, cfr. RUBINI, Bail-in, burden-sharing, private sector involvement
(PSI) in crisis resolution and constructive engagement of the private sector. a primer: evolving
definitions, doctrine, practice and case law, 2000, reperibile all’indirizzo people.stern.nyu.edu/
nroubini/papers/psipaper.pdf; cfr. anche EICHENGREEN e RUEHL, The bail-in problem: systematic goals, ad hoc means, in Economic Systems, 25, p. 3 ss. Per una nozione dello strumento
in termini di “salvataggio”, v. anche BOCCUZZI, L’Unione bancaria europea, Milano, 2015, p.
22 ss.
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norme europee prevedono anche l’istituzione di un fondo unico per il
finanziamento della risoluzione (Single Resolution Fund) alimentato dai
contributi delle banche dei paesi dell’area 4 dell’Euro, senza utilizzo di
denaro pubblico (43).
In tutte le diverse fasi, dalla scelta del rimedio di risoluzione alla sua
esecuzione, emerge il potere direttivo della Banca d’Italia. Non è questa la
sede per evidenziare nello specifico le singole misure, che peraltro hanno
suscitato diversi interrogativi non ancora risolti tra gli interpreti.
A questo riguardo, l’art. 55, par. 3, Direttiva BRRD, ha demandato
l’adozione di progetti di norme tecniche di dettaglio all’Autorità Bancaria
Europea. Quest’ultima, in conformità a tale delega ed a seguito di specifico procedimento di consultazione, in data 3 luglio 2015 (44) ha elaborato
i “progetti di norme tecniche di regolamentazione” (“draft regulatory technical standards”) (45). Questi progetti risultano attualmente sottoposti alla
Commissione, alla quale spetta il potere formale di adottare le suddette
norme tecniche (46), che saranno poi immediatamente applicabili agli Stati
membri dell’Unione Europea, senza necessità di ulteriori atti o provvedimenti di ratifica.
Anche l’art. 5, par. 10, della Direttiva BRRD demanda all’Autorità
Bancaria Europea l’adozione di progetti di norme tecniche di dettaglio
volte a precisare il contenuto dei piani di risanamento. Durante il processo
legislativo, il mandato contenuto nella Direttiva BRRD è stato emendato e
l’Autorità europea è stata incaricata di predisporre specifici orientamenti.
Cosı̀, in data 18 luglio 2014, a seguito di pubblica consultazione, sono state
pubblicate le guidelines sulla “serie di scenari da utilizzare nei piani di
risanamento”. (47)
(43) Per un approfondimento su questi differenti strumenti è possibile consultare il sito
http://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/2015/gestione-crisi-bancarie/index.html.
(44) La consultazione è stata avviata dall’EBA in data 5 novembre 2014 e si è conclusa
in data 5 febbraio 2015. Il testo sottoposto a pubblica consultazione può essere consultato
sul sito Internet dell’Autorità al seguente link https://www.eba.europa.eu/documents/10180/
882606/EBA-CP-2014-33+%28Draft.
Le disposizioni attuative delle Guidelines prevedono che le autorità competenti e gli
enti dovrebbero attenersi ai predetti orientamenti alla data che si verifica prima tra le
seguenti: a) 1˚ gennaio 2015; b) la data alla quale lo Stato membro dell’autorità competente
applica le disposizioni attuative dell’art. 5, par. 6, e dell’art. 7, par. 6, della Direttiva BRRD.
(45) Il testo di tale documento è disponibile sul sito Internet dell’Autorità al seguente
link https://www.eba.europa.eu/documents/10180/1132911/EBA-RTS-2015-06+RTS+on.
(46) Cfr. artt. 10 ss. reg. UE n. 1093/2010 del Parlamento Europeo e del Consiglio del
24 novembre 2010, regolamento che ha istituito l’Autorità Bancaria Europea.
(47) Le suddette disposizioni della Direttiva BRRD prevedono, rispettivamente, che
“Gli Stati membri prescrivono che i piani di risanamento comprendano le condizioni e
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Un’ulteriore riflessione sul potere della Banca d’Italia in veste di autorità di risoluzione merita menzione. Invero, all’autorità di vigilanza domestica è rimessa la responsabilità di un’analisi ex ante avente ad oggetto la
“ragionevole prospettazione” circa l’inadeguatezza di ogni misura diversa
dalla risoluzione (48). Il provvedimento di risoluzione pare quindi inserirsi
nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’ente, come confermato dall’art. 95 del d.lgs. n. 180/2015, sulla tutela giurisdizionale, che rinvia alle
modalità di impugnazione del processo amministrativo, ma con una sorta
di “correttivi”, che sembrano in qualche modo limitare la sindacabilità
delle decisioni adottate dalla Banca d’Italia. Esemplare in tal senso è il
comma 3˚ della richiamata disposizione, che introduce una presunzione,
seppure relativa, secondo cui la sospensione dei provvedimenti della Banca
d’Italia è contraria all’interesse pubblico (49).
8. Prassi di vigilanza ai primi sintomi della crisi della banca.
Si conclude l’indagine in questa sede prospettata, segnalando una
prassi, seguita dalla Banca d’Italia nel precedente assetto normativo, che
si ritiene possa essere letta come espressione dei poteri dell’autorità di
vigilanza domestica, dinanzi ai segnali o ai sintomi della crisi degli enti
creditizi, adottata, appunto, per colmare la mancanza della previsione di
quelle che ora sono le “misure anticipatorie” di gestione della crisi o
altrimenti detti “strumenti precoci”.
procedure atte a garantire la tempestività delle azioni di risanamento, cosı̀ come una vasta
gamma di opzioni di risanamento. Gli Stati membri prescrivono che i piani di risanamento
contemplino una serie di scenari di grave stress macroeconomico e finanziario attinenti alla
specifica situazione dell’ente e comprendenti eventi di natura sistemica e stress specifici per
singole persone giuridiche e per i gruppi” (cosı̀ l’art. 5, par. 6) e che “I piani di risanamento
di gruppo comprendono una serie di opzioni di risanamento che illustrino le azioni adatte
agli scenari previsti all’articolo 5, paragrafo 6” (cosı̀ l’art. 7, par. 6).
(48) Cfr. RULLI, “Dissesto”, “risoluzione” e capitale nelle banche in crisi, contributo al
VII˚ Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei professori Universitari di diritto commerciale “Orizzonti del diritto commerciale” – “L’influenza del diritto europeo sul diritto
commerciale italiano: valori, principi, interessi”, Roma, 26-27 febbraio 2016.
(49) Sotto questo profilo, sono stati sollevati dubbi di costituzionalità della previsione
in commento. Sul punto, cfr. RULLI, op. ult. cit., p. 9, che ha ulteriormente rilevato, tra i
connotati peculiari dell’impugnazione del provvedimento di risoluzione, che si esclude la
possibilità per il giudice amministrativo di disporre consulenze tecniche. Inoltre, i successivi
commi 3˚ e 4˚ dell’art. 95 del d.lgs. n. 180/15 introducono la facoltà, per il giudice, di:
- annullare i provvedimenti di risoluzione con efficacia ex nunc, lasciando impregiudicati gli atti amministrativi e i negozi posti in essere dalla Banca d’Italia o dai commissari
speciali;
- disporre la sospensione del giudizio su istanza della Banca d’Italia per un periodo
congruo al perseguimento degli obiettivi della risoluzione.
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Questa considerazione emerge, in particolare, a seguito dell’intervento
attuato dalla Banca d’Italia per gestire la crisi di quattro enti creditizi,
culminato poi, in data 22 novembre 2015, nell’adozione della procedura
di risoluzione, entrata in vigore proprio pochi giorni prima, il 16 novembre
2015 (50).
In particolare, per tutti i quattro enti creditizi, in primo luogo, l’emersione dei segnali di una situazione problematica è avvenuta a seguito di
una vigilanza di tipo ispettivo, disposta, oltre che in via ordinaria, anche
per ragioni diverse, quali l’esito negativo di analisi “a distanza”, eventi
giudiziari, nonché informazioni esterne. A fronte delle serie criticità di
vario tipo riscontrate (ad es., cattiva organizzazione, pratiche inadeguate
o violazioni di norme e regolamenti nel valutare le richieste di credito), la
Banca d’Italia ha provveduto ad effettuare una comunicazione formale al
consiglio di amministrazione di ogni banca interessata. È la cd. “lettera di
intervento”, contestuale alla consegna del rapporto ispettivo, in cui sono
stati elencati i provvedimenti correttivi da adottare, quali: misure di contenimento del rischio (limiti all’erogazione del credito e all’espansione
territoriale, maggiori requisiti di capitale, etc.), richieste di sostituzione
degli esponenti aziendali, di revisione del piano industriale, di aumento
del capitale, di aggregazione con un’altra banca.
Poiché le misure correttive non sono state efficacemente attuate dalle
banche interessate o comunque sono risultate insufficienti a superare le
criticità, di fronte al rischio di un ulteriore peggioramento, la Banca d’Italia ha dato luogo ad una vigilanza ispettiva più incisiva, che ha consentito
di verificare la sussistenza dei presupposti che la legge stabilisce per avviare la procedura di amministrazione straordinaria: previsione di gravi
perdite patrimoniali e/o gravi irregolarità/violazioni normative. Di conse-
(50) Con i provvedimenti numero 553/2015, 554/2015, 555/2015 e 556/2015 del 21
novembre 2015, approvati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreti in data 22
novembre 2015, la Banca d’Italia ha disposto, ai sensi dell’art. 32 d.lgs. n. 180/15, l’avvio
della risoluzione, rispettivamente: (i) della Banca delle Marche S.p.A., in amministrazione
straordinaria; (ii) della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio - società cooperativa, in
amministrazione straordinaria; (iii) della Cassa di risparmio di Ferrara S.p.A., in amministrazione straordinaria; e (iv) della Cassa di risparmio della Provincia di Chieti S.p.A., in
amministrazione straordinaria.
Con decisioni del 22 novembre 2015, la Commissione europea ha dichiarato: - la
conformità di ciascuna delle predette procedure di risoluzione alla direttiva 2014/59/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014 in materia di risanamento e
risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento, nonché - la compatibilità
dell’intervento del fondo nazionale di risoluzione istituito presso la Banca d’Italia, in data 18
novembre 2015, ai sensi dell’art. 78 d.lgs. n. 180/15, con i provvedimenti e la disciplina
dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato.
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guenza, la Banca d’Italia ha richiesto al Ministro dell’Economia e delle
Finanze di disporre, con proprio decreto (51), il commissariamento: il c.d.a.
e il collegio sindacale di ciascun ente creditizio sono stati sciolti e sostituiti
da commissari straordinari e da un comitato di sorveglianza appositamente
nominati.
Alla luce di queste, seppur brevi e necessariamente generiche considerazioni, si può evidenziare che, con questo intervento, collocabile nella
fase per cosı̀ dire di “pre-adozione dello strumento” della amministrazione
straordinaria, la Banca d’Italia ha ricostruito una sorta di “modello gestorio” della vigilanza per il monitoraggio delle criticità dei quattro istituti di
credito interessati. Ci si potrebbe chiedere se lo stesso possa rappresentare
una sorta di rimedio precursore della successiva disciplina attuativa della
direttiva europea sul risanamento e la risoluzione della banche o se, invece,
sia con la stessa incompatibile. A questo proposito, utile potrebbe essere il
riferimento, in particolare, alle nuove procedure di allerta e monitoraggio,
nonché ai provvedimenti di risoluzione fatti propri dal legislatore nazionale con il d.lgs. n. 180/15 che, per la loro duttilità e eterogeneità di
contenuti, pare non smentiscano la prassi dei poteri di vigilanza sopra
evidenziata.
In conclusione, è sostenibile che tali interventi precoci siano avvenuti
sulla base di una valutazione preventiva da parte di Banca d’Italia che non
si discosta, per lo meno per la funzione ad essa sottesa, da quella valutazione di cui agli artt. 23 ss. d.lgs. n. 180/15 che deve essere posta a
fondamento di un provvedimento di risoluzione.
Si può ulteriormente affermare che questa attività valutativa, esplicazione senza dubbio del potere di vigilanza della Banca d’Italia, è continuata sino all’adozione del d.lgs. n. 180/15 e si è concretizzata anche
nell’applicazione del criterio della “soluzione migliore” per azionisti e
creditori dell’ente interessato rispetto alle “alternative concretamente praticabili” ai fini della scelta dello strumento più adatto ed efficace, criterio
poi indicato esplicitamente nel decreto legislativo menzionato agli artt. 8789. Infatti, la Banca d’Italia ha preso in esame tre diverse “alternative”
soluzioni della crisi delle quattro banche, tutte, valutate come impraticabili: la prima, basata sull’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei
Depositi (FITD), in quanto incompatibile con la disciplina sugli aiuti di
Stato dalla Commissione europea; la seconda, cioè l’apertura di una liqui-
(51) Si è già detto che il potere decisorio circa l’apertura dell’amministrazione straordinaria secondo la disciplina previgente non era in capo alla Banca d’Italia, che aveva
unicamente il potere di dare impulso al MEF.
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dazione coatta amministrativa, non efficiente per le conseguenze estremamente penalizzanti ad essa collegate; la terza, fondata sull’intervento volontario da parte delle banche italiane, irrealizzabile per mancanza di
adesioni degli enti creditizi nazionali.
La soluzione della risoluzione adottata il 22 novembre 2015 è quindi
stata quella che, considerati i vincoli e le norme esistenti, l’Autorità di
vigilanza ha ritenuto potesse consentire di minimizzare l’onere dell’intervento, salvaguardando al meglio i diritti dei depositanti e dei creditori,
appunto, secondo quel criterio di comparazione rispetto alle alternative
concretamente praticabili, pocanzi richiamato. La Banca d’Italia ha cosı̀
disposto l’adozione di diversi strumenti di risoluzione, quali: la banca
ponte (bridge bank), la società veicolo per la gestione di attività (bad bank),
nonché il ricorso al fondo di risoluzione finanziato dalle banche, il cui
intervento ha permesso di colmare le perdite non poste a carico di azionisti
e creditori subordinati. Le perdite imposte agli azionisti e ai creditori
subordinati ammontano, infatti, a circa euro 870 milioni, ma ulteriori
perdite pari a circa euro 1.700 milioni sono state assorbite dal fondo di
risoluzione. Questa manovra, secondo la Banca d’Italia, ha consentito di
evitare il sacrificio di molti altri creditori, in particolare degli obbligazionisti e degli altri creditori non subordinati.
Più precisamente, con d.l. 22 novembre 2015, n. 183, i cui effetti sono
stati fatti salvi dall’art. 1, comma 854˚, l. 28 dicembre 2015, n. 208, in
G.U. n. 302 del 30 dicembre 2015, s.o. n. 70 sono state costituite, con
effetto dalla data di pubblicazione del decreto legge medesimo, avvenuta il
23 novembre 2015, quattro società per azioni bancarie denominate Nuova
Cassa di risparmio di Ferrara S.p.A., Nuova Banca delle Marche S.p.A.,
Nuova Banca dell’Etruria e del Lazio S.p.A. e Nuova Cassa di risparmio di
Chieti S.p.A., tutte con sede in Roma, via Nazionale 91, aventi per oggetto
lo svolgimento dell’attività di “ente-ponte” ai sensi dell’art. 42 d.lgs. n.
180/15, con riguardo rispettivamente alla Cassa di risparmio di Ferrara
S.p.A., alla Banca delle Marche S.p.A., alla Banca popolare dell’Etruria e
del Lazio S.p.A. - Società cooperativa e alla Cassa di risparmio di Chieti
S.p.A., in risoluzione, con l’obiettivo di mantenere la continuità delle
funzioni essenziali precedentemente svolte dalle medesime banche e, al
verificarsi di adeguate condizioni di mercato, cedere a terzi le partecipazioni al capitale o i diritti, le attività o le passività acquistate dalle banche in
risoluzione, in conformità con le disposizioni del medesimo d.lgs. n.
180/15.
In particolare, con provvedimento della Banca d’Italia del 22 novembre 2015, a decorrere dal 23 novembre 2015, ciascun ente ponte è dive-
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nuto cessionario, ai sensi dell’art. 43, comma 4˚, d.lgs. n. 180/15, di tutti i
diritti, le attività e le passività costituenti l’azienda bancaria della rispettiva
banca in risoluzione, con l’esclusione delle passività, diverse dagli strumenti di capitale, come definiti dall’art. 1, lett. p, d.lgs. n. 180/15, in essere alla
data del 23 novembre 2015, non computabili nei fondi propri, il cui diritto
al rimborso del capitale è contrattualmente subordinato al soddisfacimento dei diritti di tutti i creditori non subordinati della rispettiva banca in
risoluzione.
In conformità con le disposizioni del d.lgs. n. 180/15, l’intero capitale
sociale di ciascun ente ponte è detenuto dal fondo nazionale di risoluzione,
del quale la Banca d’Italia è gestore.
La Banca d’Italia ha cosı̀ avviato una procedura competitiva nei confronti di potenziali acquirenti, a condizioni di mercato, al fine di massimizzare il prezzo di vendita, nel rispetto di quanto previsto dalle disposizioni nazionali ed europee applicabili e, in particolare, dal d.lgs. n. 180/15,
fermo restando il necessario rispetto delle previsioni in materia di presupposti per il rilascio delle autorizzazioni all’acquisizione di partecipazioni
rilevanti in banche e altri soggetti vigilati, ivi compresi quelli in materia di
qualità del potenziale acquirente e di solidità finanziaria del progetto di
acquisizione e fermo altresı̀ restando che la Banca d’Italia si riserva la
possibilità, con l’obiettivo di massimizzare il valore di realizzo della dismissione degli enti ponte, di avviare la cessione di attività, beni e rapporti
giuridici, anche individuabili in blocco, di proprietà dei medesimi in modo
distinto dalla cessione degli enti ponte, ivi incluse le partecipazioni detenute dagli enti ponte in Banca Federico del Vecchio S.p.A., Cassa di
Risparmio di Loreto S.p.A., Oro Italia Trading S.p.A., BAP Assicurazioni
S.p.A., BAP Vita e Previdenza S.p.A., Cedacri S.p.A. e CARIFE S.E.I.
S.r.l. (le cd. “non-core entities”).
In conclusione, si può constatare che il menzionato provvedimento di
risoluzione costituisce la prima applicazione pratica del nuovo modello
gestorio di soluzione della crisi bancaria. Per questo motivo, si ritiene
opportuno svolgere alcune ulteriori considerazioni. Nella specie, nel prosieguo si è scelto di porre l’attenzione su uno dei quattro casi di risoluzione
bancario, quello che ha interessato la realtà ferrarese.
9. Spunti di riflessione sull’esercizio dei poteri di vigilanza nel caso
CARIFE.
I poteri di vigilanza della Banca d’Italia di cui si discute hanno trovato
la loro prima esplicazione presso la Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.a.
(nel prosieguo Carife) nella primavera del 2009, quando una ispezione ha
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fatto emergere, oltre a vari specifici problemi e irregolarità, l’insostenibilità
di un programma di espansione territoriale troppo ambizioso e non attuato con la dovuta prudenza. In quell’occasione gli ispettori hanno espresso
un giudizio intermedio, corrispondente a un “parzialmente sfavorevole”
nella nuova scala (da 1 a 6) all’epoca in via di introduzione.
Successivamente all’ispezione, l’intervento dell’autorità di vigilanza ha
dato l’impulso per la nomina di un nuovo direttore generale. A seguire,
nell’aprile 2010, la Carife ha rinnovato sette degli undici membri del c.d.a.,
fra i quali il presidente e il vice presidente.
Dinanzi all’erosione continua del patrimonio di Carife, si evince un
nuovo potere di intervento della Banca d’Italia, che nell’ottobre del 2010
ha richiesto all’ente creditizio di realizzare un aumento di capitale per 150
milioni.
In più occasioni nel 2011 e nel 2012 la Vigilanza è intervenuta per
ribadire l’esigenza di razionalizzare il gruppo, nonché per richiedere rafforzamenti organizzativi e delle funzioni di controllo. In relazione ai ritardi
nelle iniziative richieste e al peggioramento ulteriore della qualità del credito, la Banca d’Italia ha disposto nuovi accertamenti ispettivi.
Una ulteriore ispezione condotta dal settembre 2012 al febbraio 2013,
inviata a causa della evidente insufficienza dell’azione correttiva posta in
essere dalla banca sotto l’egida dell’autorità di vigilanza e del deteriorarsi
della situazione, ha determinato un giudizio sfavorevole (6 su una scala da
1 a 6) e la constatazione di un elevato rischio di credito, di una compromissione della capacità di generare reddito e della insostenibilità della
controllata Commercio & Finanza. L’accertamento ha altresı̀ rilevato un
patrimonio al di sotto dei minimi regolamentari. Alla Consob sono cosı̀
stati forniti dati in merito alle maggiori rettifiche su crediti quantificate in
esito agli accertamenti ispettivi.
A seguito delle conclusioni dell’ultima ispezione, il commissariamento
è stato disposto il 27 maggio del 2013 per gravi irregolarità e gravi perdite
del patrimonio (52). Quindi, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, su
proposta della Banca d’Italia, ha decretato lo scioglimento degli organi con
(52) Si segnala che un primo procedimento sanzionatorio, avviato a seguito dell’ispezione del 2009, si è concluso nel 2010 con l’applicazione di sanzioni per un totale di 340.000
euro nei confronti di 14 esponenti. Per carenze accertate nel corso dell’ultima ispezione,
nell’aprile 2014 sono state irrogate nei confronti di 15 esponenti della Cassa di Risparmio di
Ferrara sanzioni pecuniarie per un ammontare complessivo pari a 1,1 milioni. A conclusione
dell’ultima ispezione, alla procura di Ferrara è stata trasmessa copia del relativo rapporto; ai
magistrati inquirenti era stata già inviata, nel giugno 2010, la documentazione concernente
l’ispezione del 2009.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
funzioni di amministratore e di controllo della Carife e la sottoposizione
della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli
artt. 70, comma 1˚, lett. a e b, e 98, t.u.b. (53).
Nella situazione patrimoniale ed economica intermedia, redatta, con
l’applicazione di metodi civilistici e nella prospettiva della continuità aziendale, per il periodo 1/2/2013-31/3/2015, oggetto di revisione contabile, è
emersa una perdita lorda di circa 376 milioni di euro, anche a seguito delle
svalutazioni resesi necessarie nei comparti del credito e delle partecipazioni.
Conseguentemente, si è accertato un deficit di fondi propri, rispetto ai
requisiti minimi di legge, che ha imposto il ricorso ad una ricapitalizzazione della banca. L’iniziativa possibile si è sostanziata nell’intervento del
Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD): e a tal fine i commissari, all’esito della relativa delibera di FITD, hanno, con l’autorizzazione
dell’autorità di vigilanza, convocato un’assemblea straordinaria di Carife
che, sulla base della situazione patrimoniale al 31 marzo 2015, ha deliberato l’aumento di capitale riservato al FITD nella cifra necessaria per il
ripristino dei ratios patrimoniali di vigilanza.
La delibera di aumento di capitale è stata sospensivamente condizionata, ai sensi di legge, e in virtù di conforme espressa deliberazione assembleare, all’autorizzazione da parte dei competenti organi di BCE. Inoltre,
nell’ambito della delibera stessa si è dato altresı̀ atto che alla data dell’assemblea non risultava “ancora attuata in Italia la direttiva 2014/59/UE del
15 maggio 2014, che istituisce un nuovo quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento: ciò che ha indotto
necessariamente i commissari straordinari ad articolare l’operazione in
esame senza considerare le possibili incidenze della stessa, particolarmente
innovative rispetto alla disciplina oggi vigente, e salvo ogni ulteriore e
diversa rappresentazione che immediatamente si esporrà nelle sedi competenti, qualora, nelle more, ciò accadesse, con eventuali interferenze con
quanto in questa sede illustrato e proposto”.
Il competente organo di controllo bancario comunitario ha espresso
orientamento sfavorevole a tale progetto, che pertanto non si è presentata
percorribile. In sede di verifica operata dai commissari straordinari sulla
situazione patrimoniale al 30 settembre 2015 di Carife è stato accertato un
deficit patrimoniale pari a circa 24,5 milioni di euro: il deficit di fondi
(53) Più precisamente, con d.m. 27 maggio 2013, n. 151, il Ministero dell’Economia e
delle Finanze, su proposta formulata dalla Banca d’Italia con delibera n. 257 del 16 maggio
2013, ha disposto il suddetto scioglimento degli organi della governance di Carife.
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propri individuale di Carife pari a 224 milioni di euro, il deficit di fondi
propri consolidato pari a 263 milioni di euro.
La previsione per la fine anno 2015 ha dato atto di ulteriori perdite in
corso di maturazione, stimate in 11,9 milioni di euro, per un complessivo
deficit patrimoniale contabile di circa 36,4 milioni di euro.
Il capitale sociale, al momento dell’assunzione del provvedimento di
risoluzione del 22 novembre 2015, si era, dunque, integralmente perduto.
La situazione di comprensibile allarme derivata dalla situazione dell’istituto di credito ha comportato nei mesi di ottobre e novembre 2015 un
aumento significativo di: prelievi da parte dei clienti, liquidazioni dei
rapporti e dei conti correnti, richiesta di estinzione delle obbligazioni
ordinarie. Tali circostanze hanno inciso negativamente sulla situazione di
liquidità, oltre che patrimoniale, della banca.
Nelle more, come si è già precisato, è stato approvato il d.lgs. n. 180/
15, attuativo della direttiva sul risanamento e la risoluzione degli enti
creditizi e delle imprese di investimento.
Con provvedimento del 21 novembre 2015, approvato dal Ministro
dell’Economia e delle Finanze con decreto del 22 novembre 2015, è stato
disposto, ai sensi dell’art. 32 del citato d.lgs. n. 180/15, l’avvio della
risoluzione della Carife. Ciò, in quanto è stata verificata la presenza dei
presupposti di cui all’art. 17 d.lgs. n. 180/15, in quanto per la Carife in
amministrazione straordinaria:
– si era verificata la situazione di dissesto;
– non sussistevano misure alternative di vigilanza ovvero di mercato,
attuabili in tempi adeguati, per superare tale situazione;
– ricorreva l’interesse pubblico, atteso che la risoluzione era necessaria
e proporzionata al perseguimento dei relativi obiettivi e che la procedura
di liquidazione coatta amministrativa era inidonea a conseguirli nella medesima misura.
La risoluzione è stata attuata sulla base di un programma di risoluzione che si caratterizza per l’adozione, tra l’altro, della misura della riduzione
integrale delle riserve e del capitale rappresentato da azioni, anche non
computate nel capitale regolamentare, e del valore nominale degli elementi
di classe 2, computabili nei fondi propri, ai sensi e per gli effetti dell’art.
27, comma 1˚, lett. b, e dell’art. 52, comma 1˚, lett. a, punti i) e iii),
richiamato dall’art. 28, comma 3˚, d.lgs. n. 180/15, al fine di assicurare
la copertura di una parte delle perdite quantificate sulla base delle risultanze della valutazione provvisoria di cui ai commi 1˚ e 2˚ dell’art. 25 del
medesimo decreto.
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Tali risultanze costituiscono l’esito dell’applicazione alla fattispecie
concreta delle metodiche peculiari previste in sede comunitaria per queste
situazioni di risoluzione.
Esse hanno determinato l’individuazione di ulteriori perdite per complessivi 492,6 milioni di euro dalle quali, detratte le obbligazioni subordinate computabili, per 25,6 milioni di euro, si perviene ad un deficit complessivo lordo pari a 467 milioni di euro. Si aggiunge che, stante la permanenza delle obbligazioni subordinate non computabili nei fondi propri,
pari a 34 milioni di euro circa, una volta considerate anche quest’ultime,
per evidenti ragioni di rispetto della parità di trattamento di creditori tutti
subordinati, il deficit patrimoniale diventa in conclusione riconducibile a
circa 433 milioni di euro.
Con separato provvedimento la Banca d’Italia, in veste di autorità di
risoluzione, ha altresı̀ stabilito la cessione dell’azienda da parte della Cassa
di Risparmio di Ferrara S.p.A. in risoluzione, all’ente ponte “Nuova Cassa
di Risparmio di Ferrara S.p.A.”, ai sensi dell’art. 43, comma 1˚, lett. b,
d.lgs. n. 180/15. Più precisamente, la decisione dell’autorità di vigilanza si
è espressa in questi termini, disponendo: “la cessione di tutti i diritti, le
attività e le passività costituenti l’azienda bancaria Cassa di Risparmio di
Ferrara S.p.a., in amministrazione straordinaria, con sede in Ferrara, posta
in risoluzione con provvedimento della Banca d’Italia del 21 novembre
2015 – approvato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con d. del 22
novembre 2015 – (ente in risoluzione) a favore della Nuova Cassa di
Risparmio di Ferrara S.p.a., con sede in Roma (ente ponte). Restano
escluse dalla cessione dell’azienda soltanto le passività, diverse dagli strumenti di capitale, come definiti dall’art. 1, lettera p), del d.lgs. n. 180/2015,
in essere alla data di efficacia della cessione, non computabili nei fondi
propri, il cui diritto al rimborso del capitale è contrattualmente subordinato al soddisfacimento dei diritti di tutti i creditori non subordinati
dell’ente in risoluzione. L’ente ponte succede, senza soluzione di continuità, all’ente in risoluzione nei diritti, nelle attività e nelle passività ceduti ai
sensi dell’art. 43, comma 4˚, del d.lgs. n. 180/2015. La cessione ha efficacia
dalle ore 00.01 del giorno di costituzione dell’ente ponte”.
Lo sbilancio di cessione, pari ad appunto a 433 milioni di euro, è stato
coperto dal fondo di risoluzione, sempre istituito nelle more presso la
Banca d’Italia, che si è cosı̀ surrogato al credito altrimenti vantato dalla
Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.a. per effetto della cessione.
Successivamente, con d.m. n. 566 del Ministero dell’Economia e delle
Finanze del 9 dicembre 2015, Carife in risoluzione è stata sottoposta alla
procedura di liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’art. 38, com-
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ma 3˚, d.lgs. n. 180/15 e degli artt. 80 ss. t.u.b. Con provvedimento del
successivo 14 dicembre, la BCE ha disposto, su proposta della Banca
d’Italia, la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria nei
confronti della stessa Carife, ai sensi degli artt. 4, par. 1, lett. a, e 14, par.
5, reg. UE n. 1024/2013, dell’art. 83 reg. UE n. 468/2014 della BCE,
dell’art. 18, lett. c, d, e e, dir. 2013/36/UE del Parlamento Europeo e
del Consiglio (CRD IV), nonché dell’art. 38, comma 3˚, d.lgs. n. 180/15
e dell’art. 14 t.u.b.
È dunque constatabile che la Carife in liquidazione coatta amministrativa non ha la titolarità di alcun elemento attivo, ed è invece esclusivamente titolare di passività costituite dal debito verso il Fondo di risoluzione
sopra menzionato, provvisoriamente pari ad euro 433 milioni, dal debito
residuo nei confronti di portatori di obbligazioni subordinate, per euro 34
milioni, oltre eventuali ratei di interessi, come risulta dalla situazione extracontabile provvisoria predisposta all’atto dell’insediamento degli organi
della procedura di l.c.a.
Stante la irreversibilità dell’ente creditizio da questo assetto e la definitiva incapacità, assente ogni forma di cespite attivo, di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, è stato dichiarato lo stato di insolvenza
della banca in data 10 febbraio 2016.
Nel frattempo, la Banca d’Italia, con provvedimento del 26 gennaio
2016, ha disposto che i crediti in sofferenza risultanti dalla situazione
contabile individuale di Carife al 30 settembre 2015, detenuti da Nuova
Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. per effetto del provvedimento n.
1241120 del 22 novembre 2015 di cessione delle attività e passività, siano
ceduti a REV – Gestione Crediti S.p.A., ai sensi degli artt. 46 e 47 del
d.lgs. n. 180/2015. Restano esclusi dalla cessione disposta e, in conformità
al programma di risoluzione, sono oggetto di successivi trasferimenti alla
REV – Gestione Crediti S.p.A.: (i) i crediti in sofferenza, risultanti dalla
situazione contabile individuale di Carife al 30 settembre 2015, interessati
da operazioni di cartolarizzazione; (ii) i crediti in sofferenza, risultanti dalla
situazione contabile consolidata di Carife al 30 settembre 2015, di titolarità
della controllata Commercio e Finanza Leasing & Factoring S.p.A. in
amministrazione straordinaria, che saranno ceduti solo a seguito del trasferimento delle attività e passività di Commercio e Finanza Leasing &
Factoring S.p.A. a Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A.
La cessione è divenuta efficace dal 1˚ febbraio 2016.
Ponendo di nuovo l’attenzione specificamente sulla procedura di resolution, si può evidenziare che la risoluzione è stata attuata sulla base di
un programma che ha previsto l’adozione delle misure di seguito indicate:
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– la sottoposizione della Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.a., in amministrazione straordinaria, a risoluzione, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. n.
180/15, con conseguente chiusura della procedura di amministrazione
straordinaria in essere e cessazione degli incarichi dei commissari straordinari e del comitato di sorveglianza; la disposizione della permanenza in
carica presso la banca in risoluzione dell’alta dirigenza;
– la nomina del commissario speciale e dei membri del comitato di
sorveglianza della Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.a., in risoluzione, ai
sensi dell’art. 37 del d.lgs. n. 180/15, i cui atti tengono luogo di quelli dei
competenti organi sociali degli azionisti e dei titolari di altre partecipazioni, con conseguente sospensione dei diritti di voto in assemblea e degli
altri diritti derivanti da partecipazioni che consentono di influire sulla
banca;
– la riduzione integrale delle riserve e del capitale rappresentato da
azioni, anche non computate nel capitale regolamentare, e del valore nominale degli elementi di classe 2, computabili nei fondi propri, ai sensi e
per gli effetti dell’art. 27, comma 1˚, lett. b, e dell’art. 52, comma 1˚, lett. a,
punti i) e iii), richiamato dall’art. 28, comma 3˚, d.lgs. n. 180/15, al fine di
assicurare la copertura di una parte delle perdite quantificate sulla base
delle risultanze delle valutazioni provvisorie di cui all’art. 25 del medesimo
decreto;
– l’adozione dello statuto della banca ponte (ente-ponte), con l’obiettivo di assicurare la continuità dei servizi creditizi e finanziari della banca
in risoluzione e la sua collocazione sul mercato; l’approvazione della strategia e del profilo di rischio; la nomina dei componenti degli organi di
amministrazione e controllo, l’approvazione dell’attribuzione delle deleghe
e delle remunerazioni; l’individuazione delle eventuali restrizioni all’attività
dell’ente ponte ai sensi dell’art. 42, comma 3˚, lett. c, d.lgs. n. 180/15;
– la cessione dell’azienda da parte della Carife in risoluzione, all’ente
ponte “Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A.”, ai sensi dell’art. 43,
comma 1˚, lett. b, d.lgs. n. 180/15, con esclusione dei debiti subordinati
non computabili nei fondi propri emessi dalla banca in risoluzione; la
detenzione del capitale sociale dell’ente ponte da parte della Banca d’Italia
a valere sul patrimonio autonomo del fondo di risoluzione;
– la costituzione di una società veicolo per la gestione delle attività, ai
sensi dell’art. 45 del d.lgs. n. 180/15, con capitale sociale detenuto dalla
Banca d’Italia a valere sul patrimonio autonomo del fondo di risoluzione,
l’approvazione dell’atto costitutivo e dello statuto della società, della strategia e del profilo di rischio; la nomina dei componenti degli organi di
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amministrazione e controllo della società nonché l’approvazione dell’attribuzione delle deleghe e delle remunerazioni;
– la cessione alla società veicolo per la gestione delle attività delle
sofferenze detenute dall’ente ponte, ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. n.
180/15;
– la sottoposizione della Carife in risoluzione, a liquidazione coatta
amministrativa.
In tale contesto, il fondo di risoluzione nazionale, istituito dalla Banca
d’Italia con provvedimento del 18 novembre 2015, ai sensi dell’art. 78 del
d.lgs. n. 180/15, è intervenuto per:
a) sottoscrivere il capitale dell’ente ponte, assicurando il rispetto dei
prescritti requisiti patrimoniali; b) fornire un contributo allo stesso ente
ponte al fine di coprire il deficit di cessione;
c) sottoscrivere il capitale della società veicolo per la gestione delle
attività, assicurando il rispetto dei prescritti requisiti patrimoniali;
d) fornire una garanzia per il credito vantato dall’ente ponte verso la
società veicolo.
10. Quid iuris per creditori non garantiti ed azionisti della “vecchia”
Carife?
Alla luce del complesso programma di risoluzione che si è cercato,
seppure sommariamente, di delineare, un tema molto sentito è la tutela dei
creditori subordinati e degli azionisti che hanno subito l’effetto dell’esecuzione di queste nuove regole e, in particolare, del bail-in.
Sotto questo profilo si possono svolgere alcune riflessioni.
In primo luogo, si tratta di capire se un rapporto bancario quale è, per
esempio, quello che l’obbligazionista subordinato ha concluso con Carife
prima dell’introduzione del bail-in, quando neppure veniva prospettata
astrattamente la possibilità per l’istituto di credito di adottare una simile
misura, possa subire le conseguenze, appunto, di una disciplina peggiorativa entrata in vigore successivamente. Pare infatti che mediante l’attuazione del programma di risoluzione della Carife sia stata attribuita alle
norme interne di recepimento della disciplina comunitaria una efficacia
retroattiva, con conseguenti dubbi di legittimità, per lo meno sotto il
profilo della carenza di conoscenza e trasparenza delle condizioni contrattuali, nonché di correttezza, per non dire di costituzionalità. Peraltro, se il
provvedimento di risoluzione è di novembre 2015, l’operatività della falcidia del bail-in è prevista dal 1˚ gennaio 2016.
Seguendo comunque la strada percorsa dal legislatore, e quindi non
ponendosi problemi temporali di applicabilità della nuova normativa sulla
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gestione della crisi bancaria, l’unico strumento di tutela per il creditore,
comune anche all’azionista, è, ai sensi dell’art. 89 del d.lgs. n. 180/15, il
diritto ad un indennizzo, a carico del fondo di risoluzione, che può essere
concesso se “sulla base della valutazione di cui all’art. 88, risulti aver
subito perdite maggiori di quelle che avrebbe subito in una l.c.a. o altra
analoga procedura concorsuale”. Applicando la normativa, si tratterebbe
quindi di verificare se, al momento della valutazione della Banca d’Italia
circa l’adozione del provvedimento di risoluzione, gli obbligazionisti non
garantiti e gli azionisti che si sono visti azzerare il valore delle loro partecipazioni a seguito dell’applicazione del bail-in, avrebbero ottenuto una
soddisfazione maggiore se fossero stati liquidati secondo la disciplina della
l.c.a. Orbene, è di tutta evidenza che, riconducendo il momento della
valutazione alla data dell’adozione del provvedimento di risoluzione di
novembre 2015, nessun dubbio può permanere circa la possibilità per i
possessori di partecipazioni o titoli subordinati di avere un’alternativa più
vantaggiosa rispetto al programma risolutorio.
Quindi, nessun indennizzo troverebbe giustificazione.
Tuttavia, seguendo il ragionamento sin qui svolto, e cioè riconoscendo
che nel caso della risoluzione di Carife, posto che la disciplina ha trovato
un’applicazione “sui generis” rispetto al dettato normativo, entrando in
gioco le nuove regole quando già da diversi anni la gestione della crisi e i
poteri di vigilanza della Banca d’Italia erano in corso, non pare si possa
obbiettare che quella valutazione “equa, prudente e realistica delle attività
e passività” e, quindi, circa le misure da adottare, sia stata compiuta dalla
Banca d’Italia in epoca molto precedente a novembre 2015. In altri termini, pare potersi sostenere che il momento di applicazione del criterio
che condiziona la possibilità di ottenere un indennizzo, ex art. 89 del d.lgs.
n. 180/15, sia riconducibile per lo meno al provvedimento di apertura
della amministrazione straordinaria. Ancora di più. Viene da chiedersi
se, utilizzando la stessa convincibile argomentazione, tale dies a quo possa
essere retrodatato al vero primo intervento valutativo della Banca d’Italia
che voleva essere risolutorio, ma che poi nei fatti non lo è stato, e cioè alla
data del primo aumento di capitale di 150 milioni di euro nell’anno 2010.
Se cosı̀ fosse, si aprirebbero nuovi scenari per la tutela dei risparmiatori e
degli azionisti della vecchia Carife.
Del resto, la ratio del sistema di “salvaguardia” di cui al d.lgs. n. 180/
15 non può che essere quella di prevedere un “correttivo” che, insieme alle
regole che garantiscono la conoscenza e la trasparenza, va a bilanciare il
potere discrezionale della Banca d’Italia e del meccanismo unico di vigilanza, cosı̀ riequilibrando i “costi” della gestione della crisi. Si aggiunge
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che, se si precludesse questa strada, non si vede come si potrebbe sindacare l’operato dell’autorità di vigilanza in quel periodo di “limbo”, tra
l’adozione del primo provvedimento di gestione della crisi, rectius il menzionato aumento di capitale del 2010, e la formale decisione della messa in
risoluzione del 22 novembre 2015. Questa fase, pertanto, non può che
costituire parte integrante di quella valutazione dell’organo di vigilanza,
adottata sulla scorta dell’operatività del meccanismo unico di vigilanza, che
costituisce elemento imprescindibile della decisione di risoluzione.
In ogni caso, emerge un tema più generale, sul quale si ritiene opportuno svolgere le ulteriori considerazioni che seguono.
La situazione fattuale sopra descritta è quella di un potere di vigilanza
che è intervenuto in modo incisivo nella gestione della crisi della Carife,
imponendo l’adozione di misure interne all’ente creditizio: l’aumento di
capitale, il cambio dei vertici della governance e il commissariamento sono
solamente esempi di questo penetrante potere di controllo esercitato dalla
Banca d’Italia e che viene confermato nel nuovo quadro normativo di
recepimento della Direttiva BRRD, dove viene inserito nel più ampio
scenario del meccanismo unico di vigilanza.
Si deve precisare che l’esperienza bancaria italiana ha da sempre conosciuto questo tipo di interventi da parte dell’autorità di vigilanza. La
differenza rispetto al passato non sta nella condotta, ma va ricercata altrove, e cioè nelle conseguenze che la stessa comporta. Infatti, la storia
bancaria nazionale ha messo in luce come in precedenza la gestione della
crisi degli istituti di credito fosse espressione degli interna corporis del
sistema creditizio stesso. Infatti, ogni esternalizzazione del controllo dell’autorità di vigilanza, dall’atto di intervento, alla scelta della strada da
percorrere, all’attuazione dello strumento adottato, sino alle conseguenze
in termini di costi e responsabilità, venivano sostenuti dal sistema finanziario, coadiuvato dai mezzi di volta in volta concessi dallo Stato (54).
(54) Per tutti, cfr. VALIGNANI, Manuale di diritto della banca, cit., p. 69 ss.; CERCONE,
L’importanza della prospettiva comparatistica nello studio della gestione dell’insolvenza: il caso
delle crisi bancarie in Europa, in BONFATTI e FALCONE (A CURA DI), La legislazione concorsuale
in Europa, Milano, 2004, passim; BOCUZZI, La crisi dell’impresa bancaria, Milano, 1998,
passim; BONFATTI, La liquidazione coatta delle banche e degli intermediari in strumenti finanziari, Milano, 1998, passim. Per una disamina su alcune crisi bancarie, cfr., ex multis,
VALIGNANI, Crisi e risanamento del Banco di Napoli nella legislazione italiana e nelle decisioni
comunitarie, in Dir. banca e merc. fin., 2000, passim; MINERVINI, La crisi del Banco di Napoli e
gli interventi della Fondazione, in Dieci anni dell’Istituto Banco di Napoli, Quarto, 2001,
passim; PANTALEONI, La caduta della Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, a cura di
Ercolani, Roma, 1998, passim; DRAMMATICO, Sicilcassa: una morte annunciata, Palermo,
1998, passim; BELLI e MACCARONE (a cura di), Le crisi bancarie: il caso del Banco Ambrosiano,
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
Allo stato attuale, la stessa condotta della Banca d’Italia, che esercita la
stessa funzione di vigilanza, ha dirette conseguenze nei confronti di soggetti che non sono mai appartenuti al sistema bancario, in primis, azionisti
e creditori non garantiti (55).
Milano, 1985, passim; ancora, sulle ricorrenti crisi del Banco di Roma nei primi decenni del
novecento, cfr. DE STEFANI, Baraonda bancaria, Edizioni del Borghese, Milano, 1961, passim.
(55) Sul punto, benché questa non sia la sede per una compiuta descrizione del
composito sistema interventistico delineato con gli strumenti della resolution, si deve precisare che la normativa indica un ordine di priorità tra passività assoggettabili al bail-in
fondato sulla logica della nuova regolazione, in base alla quale chi ha investito in strumenti
finanziari rischiosi deve, prima degli altri, subire le conseguenze del dissesto dell’istituto di
credito. Cfr. CAPRIGLIONE e CAPRIGLIONE e TROISI, L’ordinamento finanziario dell’Ue dopo la
crisi. La difficile conquista di una dimensione europea, Torino, 2014, p. 210 ss., secondo i
quali il regolatore europeo ha “preferito limitare gli effetti di una probabile mala gestio a
coloro i quali (in primis) avrebbero dovuto identificare (rectius: minimizzare) le eventuali
distorsioni operative che, per solito, precedono il manifestarsi della crisi dell’intermediario”.
Pertanto, in prima battuta, soggiacciono alla procedura in discorso gli “strumenti del patrimonio di vigilanza” della banca. Soltanto nell’eventualità della loro insufficienza, l’autorità
di risoluzione può applicare la misura in parola nei riguardi dei debiti subordinati non
ricompresi nel capitale e, poi, nei confronti dei creditori non garantiti. È importante osservare, tuttavia, che, assorbita la quota dell’8% delle passività totali, può soccorrere in aiuto, a
certe condizioni, per un ulteriore ammontare pari al 5% delle medesime, il fondo unico di
risoluzione, ai sensi dell’art. 76 del reg. UE n. 806/2014. Cfr., per una riflessione sulla
misura dell’8%, assunta come coerente con il livello di perdite sperimentate dalle banche
in crisi a partire dalle esperienze del 2007, FORESTIERI, L’unione bancaria europea e l’impatto
sulle banche, in Banca impr. soc., 2014, 3, p. 496 ss. Va chiarito che il Comitato unico di
risoluzione può utilizzare il menzionato fondo soltanto nella misura necessaria ad assicurare
l’efficace applicazione degli strumenti di risoluzione e, dunque, non per assorbire direttamente le perdite. In ogni caso, alla luce della comunicazione della Commissione europea del
30 luglio 2013, relativa all’applicazione “delle norme in materia di aiuti di stato alle misure
di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria”, visionabile sul sito della Commissione europea, “prima di concedere aiuti per la ristrutturazione a favore di una banca, gli
stati membri dovranno [...] garantire che gli azionisti e i detentori di capitale subordinato di
detta banca provvedano a fornire il necessario contributo”. Sul tema, v. anche SABATINI,
Schemi di d.lgs. relativi all’attuazione della direttiva 2014/59/UE, che istituisce un quadro di
risanamento e risoluzione degli enti creditizi (Atto 208 e Atto 209), audizione del 27 ottobre
2015, presso il Senato della repubblica, VI˚ Commissione, consultabile sul sito dell’ABI, p. 5
ss. Va, infine, evidenziato che i depositi delle persone fisiche e delle PMI superiori ad euro
100.000, come anche il fondo di garanzia dei depositi, verranno aggrediti soltanto in ultima
istanza. Di contro, la Direttiva BRRD esclude talune passività dall’assoggettamento alla
procedura in parola; ciò per il rischio di contagio sistemico che il loro utilizzo potrebbe
produrre. Il riferimento è alle passività derivanti dalla partecipazione a sistemi di pagamento
(con una durata residua inferiore a sette giorni), ovvero a quelle verso altri istituti di credito
(con una scadenza originaria inferiore a sette giorni). A tale logica sembra ispirato, inoltre,
l’esonero, dall’applicazione dello strumento in parola, delle passività garantite (inclusi i
covered bonds). Inoltre, sono esclusi i debiti commerciali o quelli verso i dipendenti; ciò
al fine di favorire la continuità delle funzioni essenziali dell’istituto in difficoltà; analoga
sorte è prevista per i depositi protetti ovvero per quelli aventi ammontare inferiore ad euro
100.000 (riconducibili alla sfera di intervento del sistema di garanzia dei depositi). Per un
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Con ciò non si vuole denunciare che cosı̀ facendo il legislatore nazionale, avallato da quello europeo, abbia inteso anteporre l’interesse delle
banche a quello dei risparmiatori, ponendo il primo al vertice della scala
dei valori tutelati dall’ordinamento.
Infatti, il contesto in cui si inserisce il controllo fattuale della Banca
d’Italia, nonché la nuova procedura di risoluzione e degli altri neo-strumenti di gestione della crisi dell’ente creditizio, è quello di un intervento
legislativo che ha voluto cosı̀ impedire agli Stati membri di utilizzare fondi
pubblici per salvare gli istituti di credito e, quindi, in ultima istanza, che ha
preso a cuore la tutela della categoria dei contribuenti (56). Inoltre, l’innegabile ed altrettanto lodevole pregio della soluzione adottata con la nuova
disciplina è l’intento, che si rinviene già nel commissariamento e nella
ricapitalizzazione di Carife, di evitare conseguenze ancor più drammatiche
e drastiche per il sistema-Paese, quali perdite talmente gravi da prosciugare i conti correnti e, quindi, tali da coinvolgere anche i titolari di pretese
non subordinate (57). Lo stesso articolo 21 del d.lgs. n. 180/15 indica tra
gli obbiettivi della procedura di resolution la stabilità finanziaria ed il
contenimento degli oneri a carico delle finanze pubbliche. Si affianca
poi la tutela dei depositanti e degli investitori protetti da sistemi di garanzia o di indennizzo, nonché dei fondi e delle altre attività della clientela.
È del tutto assente la tutela dei risparmiatori, degli azionisti in genere,
e dei creditori non garantiti. E non poteva essere altrimenti. Anzi, ciò è
perfettamente in linea con gli scopi istituzionali e le funzioni dell’ente di
vigilanza domestica, nonché con il quadro dell’Unione europea.
La tutela del risparmio, infatti, non è compito del sistema di vigilanza
bancaria, a nessun livello. Il controllo di vigilanza ed i poteri che ne sono
esplicazione operano in parallelo, ma non toccano il risparmio, o non
inquadramento più generale, cfr. anche, JOOSEN, Bail in mechanisms in the bank recovery and
resolution directive, in Annual Conference 6/11/2014 – Netherlands association for comparative and international insolvency law.
(56) Cfr. ROSSANO, Nuove strategie per la gestione delle crisi bancarie: il bail-in e la sua
concreta applicazione, in Federalismi.it, 2016, 1, p. 4 ss., che ha sottolineato come il legislatore abbia cosı̀ voluto evitare che le perdite bancarie vengano “socializzate”, salvo i casi
eccezionali indicati dalla normativa europea. Al riguardo, cfr. gli artt. 37, 18, comma 4˚, lett.
d, e 27, comma 9˚, reg. UE n. 806/2014. Cfr. anche CAPRIGLIONE e TROISI, L’ordinamento
finanziario dell’Ue dopo la crisi, cit., p. 106 ss.; LEMMA, The shadow banking system, London,
2016, p. 156 ss.
(57) Il favor per la nuova normativa è sottolineato, con ampie riflessioni, alle quali si
rinvia, da GARDELLA, Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni bancarie nel contesto del
meccanismo unico di risoluzione, traduzione italiana consultabile sul sito www.iusexplorer.it,
p. 44 ss., di BUSCH e FERRARINI (a cura di), Bail-in and the Financing of Resolution within the
SRM Framework, European Banking Union, Oxford, 2015.
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
dovrebbero farlo. Ciò in quanto la tutela degli investitori è affidata dal
legislatore nazionale ad un altro sistema, presieduto da un altro ente, la
Consob, autorità che si fa garante della efficienza, della trasparenza e dello
sviluppo del mercato mobiliare.
Ebbene, il punto che si vuole evidenziare è che la prassi utilizzata con
il modello gestorio di vigilanza adottato per Carife e le nuove norme sulla
gestione della crisi bancaria di recepimento del meccanismo unico di
vigilanza hanno creato un disallineamento: da un lato, hanno consentito
ad un soggetto “terzo” rispetto al mercato del risparmio, e cioè all’autorità
di vigilanza sull’attività bancaria, che, si ripete, non ha alcun potere in
materia di tutela degli investitori, di assumere decisioni, quali, l’aumento di
capitale, il commissariamento, prima dell’introduzione delle norme di matrice europea, la risoluzione ed il collegato meccanismo del bail-in e,
quindi, l’azzeramento delle azioni e delle obbligazioni non garantite, poi,
che impattano direttamente sui risparmiatori. Dall’altro lato, però, nessuna
(necessariamente nuova) funzione è stata attribuita all’autorità di vigilanza
per legittimare il suo intervento in un campo alla stessa esterno. Non vi è
traccia, per esempio, di ulteriori nuovi elementi di valutazione che la
Banca d’Italia deve prendere in considerazione nell’operare una scelta
che si ripercuote sugli azionisti e sui creditori non garantiti. Si può allora
pensare che questo punto di equilibrio possa essere raggiunto per altra via,
riconoscendo ai risparmiatori stessi una “voce” diretta. Tuttavia, allo stato,
nessun diritto di voice, né forte, come il diritto di voto circa la valutazione
a fondamento del provvedimento di risoluzione, o di opposizione alla
decisione prima che sia eseguita dalla Banca d’Italia, né debole, in termini,
per esempio, di coinvolgimento anche solamente con un parere non vincolante, è previsto nel sistema per la categoria degli investitori. Non vi è
traccia neanche di un loro rappresentante, né è riconosciuto loro un diritto
di controllo sulla decisione relativa alla gestione della crisi bancaria. Ancora, neppure un diritto di informazione è stato pensato, posto che in
relazione alle notizie e ai flussi informativi del circuito di vigilanza la Banca
d’Italia può opporre il segreto, confermato dall’art. 5 del d.lgs. n. 180/
15 (58). Si aggiunge che il medesimo provvedimento normativo, discipli-
(58) Cfr. SCIARRONE e ALIBRANDI, Prodotti “misti” e norme a tutela del cliente, in AA.VV.,
Società, banche e crisi d’impresa, Torino, 2014, p. 2420 ss., hanno evidenziato come in un
quadro normativo nel quale le passività bancarie diverse dai depositi protetti presenteranno
“grandi rischi del tutto sconosciuti in passato”, le Autorità europee richiedono “un rafforzamento di tutela per i creditori bancari, ritenendo l’informativa attuale del tutto inadeguata”.
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nando la procedura per l’adozione dei provvedimenti di risoluzione, prevede alcune deroghe alle norme applicabili in via ordinaria in materia di
pubblicità dei procedimenti amministrativi. Queste deroghe alla disciplina
garantista sono giustificate dalla delicatezza della materia e dal carattere di
urgenza delle misure da adottare, al fine, tra l’altro, di non pregiudicare gli
obbiettivi della risoluzione ed evitare reazioni ingiustificate che potrebbero
minare la stabilità del sistema finanziario, coinvolgendo le banche sane. Si
è già accennato poi agli strumenti per impugnare le decisioni della Banca
d’Italia previsti sempre dal d.lgs. n. 180/15 e che attribuiscono un diritto
ad un indennizzo ad azionisti e creditori, sulla base di quel criterio già
ricordato secondo cui, in sostanza, nessuno deve tollerare perdite maggiori
rispetto a quelle che avrebbe sostenuto se l’ente fosse stato liquidato con
una procedura ordinaria di insolvenza. Tuttavia, si tratta di un’arma spuntata già per la sua stessa natura di rimedio ex post, per non parlare poi
della difficoltosa probatio ricollegata ad un giudizio prognostico, da effettuarsi sulla base di informazioni delle quali non si ha la disponibilità, in un
contesto di presunzioni pro autorità di vigilanza.
Insomma, il sistema cosı̀ delineato non consente un’equilibrata ripartizione dei costi della crisi bancaria tra i vari soggetti coinvolti, rectius, tra
azionisti e creditori non garantiti coinvolti unicamente come destinatari di
scelte altrui, e cioè della decisione finale proveniente dal sistema di vigilanza bancario.
Si deve prendere atto che il legislatore nazionale, uniformandosi alla
disciplina dell’Unione europea, ha scelto di distribuire i costi della crisi
degli enti creditizi (anche) tra nuovi soggetti, che non erano mai entrati nel
quadro del sistema di vigilanza. Tuttavia, se questi nuovi soggetti vengono
chiamati a partecipare, devono entrare in gioco sin dal principio, non
solamente nel finale e a partita chiusa, come una dei possibili esiti dell’esecuzione dell’intervento della Banca d’Italia.
Si deve altresı̀ tenere conto che l’impianto disciplinare cosı̀ delineato
non può non influenzare, seppure indirettamente, le decisioni degli investitori (59). Il compito del regolatore nazionale, allora, in sede di regola-
(59) Per una prima riflessione sulle scelte di investimento a seguito del bail-in nella
realtà italiana, cfr. ROSSANO, Nuove strategie per la gestione delle crisi bancarie, op. cit., p. 10
ss., che ha sottolineato come i vincoli stringenti imposti dal legislatore sovranazionale,
unitamente ai dati che confermano il buono stato della stragrande maggioranza degli istituti
di credito nostrani, inducano ad escludere forti preoccupazioni e rischi in Italia. Se ne
deduce che “la linea comportamentale di detenere presso più banche conti corrente di
ammontare inferiore alla soglia bail-inizzabile, rappresenta una possibilità che, oltre ad
essere, poco conveniente (in termini di costi), appare ingiustificata”. Si aggiunge che, nono-
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le nuove leggi civili commentate 4/2016
mentazione attuativa della normativa europea cosı̀ recepita, implica necessariamente una delicata analisi di questo profilo, pena, il rischio di condizionare gli investimenti all’ordinamento maggiormente competitivo circa la
convenienza rispetto al “sistema del bail-in”, in spregio all’obbiettivo primario dell’Unione europea volto a garantire un’effettiva armonizzazione
delle discipline tra gli stati membri (60).
In altri termini, emerge una evidente interrelazione della normativa
sulla crisi bancaria in esame con la disciplina preposta alle corrette scelte
di investimento della clientela bancaria (61). Collegamento che il legislatore
nazionale deve per lo meno tenere in considerazione, peraltro approfittando anche di quell’autonomo ambito di operatività, seppure ben circoscritto, che la stessa Direttiva BRRD riconosce ai legislatori nazionali in sede
attuativa (62). A questo riguardo, il tema si sposta sulla misura in cui sia
possibile intervenire sul trattamento destinato ai soggetti coinvolti nel
salvataggio delle banche.
In sintesi, alla luce delle considerazioni svolte, pare necessario ripensare il ruolo dei soggetti investitori, che forse dovrebbero, in primo luogo,
essere rappresentati da un soggetto che già tutela loro a livello istituzionale, quale, per esempio, la Consob, e consentire loro di intervenire dal
momento di quella valutazione della vigilanza che precede l’intervento
stante il conforto dei predetti dati, non deve escludersi, invece, l’eventualità che i risparmiatori, in prospettiva, sentendosi maggiormente protetti, preferiscano far confluire i propri
risparmi in istituti creditizi di ampie dimensioni, penalizzando, per tale via, quelli piccoli. È
appena il caso, poi, di ricordare che il Financial Stability Board ha pubblicato un documento
di consultazione che prescrive un requisito di passività minimo (Tlac) che dovrebbero
detenere le banche sistemiche per far fronte alle perdite. Cfr., anche, CAPRIGLIONE, L’Unione
bancaria europea. Una sfida per un’Europa più unita, Torino, 2013, p. 109 ss.; PANETTA,
Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea in
riferimento all’esame degli Atti del Governo n. 208 e n. 209 relativi al risanamento e risoluzione degli enti creditizi e imprese di investimento, Audizione del Vice Direttore Generale
della Banca d’Italia presso il Senato della Repubblica in data 29 ottobre 2015, p. 11 ss.,
consultabile sul sito ufficiale della Banca d’Italia.
(60) Questo obbiettivo è espressamente indicato nel 4˚ considerando della Direttiva
BRRD.
(61) È di tutta evidenza, infatti, che una scelta di investimento consapevole non possa
prescindere dalla conoscenza dei rischi connessi all’acquisto di strumenti finanziari potenzialmente suscettibili di poter essere assoggettati a procedura di risoluzione secondo le
regole di bail-in. Sugli obblighi di correttezza e di trasparenza delle condotte degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, cfr., ex multis, PELLEGRINI, Le regole di
condotta degli intermediari finanziari nella prestazione dei servizi di investimento, in CAPRIGLIONE (a cura di), Manuale di diritto bancario e finanziario, Padova, 2015, p. 547 ss. Al
riguardo, cfr. la Comunicazione n. 0090430 del 24 novembre 2015 della Consob, consultabile sul sito ufficiale dell’Autorità.
(62) Il riferimento è all’art. 1, comma 2˚, Direttiva BRRD.
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della Banca d’Italia e prelude alla scelta dello strumento da adottare e poi
da eseguire. Cosı̀ facendo, peraltro, si eliminerebbero in via preventiva
eventuali dubbi e responsabilità per errori di intervento, ovvero per una
scelta del rimedio di salvataggio non adeguata o non legittima, o ancora
per una non corretta esecuzione dello strumento adottato, con beneficio
per l’efficienza del sistema complessivo, non solamente per le finanze
pubbliche. Tutto questo, in linea con quel proposito, che pure si legge
nella relazione di accompagnamento alla nuova disciplina (63), di tutelare
anche gli azionisti ed i creditori.
(63) Il riferimento è alla relazione illustrativa ai più volte menzionati d.lgs. nn. 180 e
181 del 2015, consultabile sul sito della Camera dei deputati. Sul tema, cfr. anche ROSSANO,
Nuove strategie per la gestione delle crisi bancarie, op. cit., p. 3 ss.; PRESTI, Il bail-in, in Banca
impr. soc., 2015, 3, p. 339 ss.
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