«Similmente le donne, sottomesse ai propri uomini» (1Pt 3,1): quale

L’arte dell’accompagnamento
nell’universo delle relazioni.
Famiglia, sessualità, omosessualità,
convivenze, unioni civili
«Similmente le donne, sottomesse ai propri
uomini» (1Pt 3,1): quale interpretazione per
l’uomo d’oggi?
MASSIMILIANO ZUPI
[La presente bozza di relazione deve ancora essere rivista e corretta dall’Autore per gli Atti. NdR].
1.
Che cosa ha da dire il vangelo sulla famiglia all’uomo d’oggi?
1.1 La famiglia oggi: tempo di crisi e/o chance inedita?
Cosa ha da dire la Chiesa sulla famiglia oggi? Quale, più in generale, la situazione in cui versa
questo istituto? Per rispondere, potremmo prendere a prestito l’affermazione con la quale Eberhard Jüngel inizia uno dei suoi saggi più noti: «Una cosa sembra certa: noi viviamo nell’epoca in
cui Dio non ha posto nel linguaggio». Basterebbe sostituire la parola di Dio con famiglia. «Un tono
lacrimevole - prosegue Jüngel - domina la teologia contemporanea». In effetti, si sente dire da più
parti che la famiglia sia un’istituzione in crisi. I dati sui divorzi e le coppie di fatto sembrerebbero
confermarlo. Ora, però, conclude il grande teologo evangelico, «nelle pagine seguenti alla teologia
dai toni lacrimevoli verrà contrapposto il tentativo di pensare»1: questo medesimo intento guida
1.
EBERHARD JÜNGEL, Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa tra teismo e ateismo,
Brescia 1991 (ed. or. Tübingen 1978), p. 16.
anche la presente relazione.
Per il vangelo, ogni tempo è un καιρός (cairòs), un tempo opportuno e unico. Nella mitologia
greca, Kρόνος (Cronos), era il simbolo del tempo: padre di Zeus, aveva il terribile difetto di mangiare i suoi stessi figli. È l’esperienza primordiale che gli uomini fanno del tempo: scorrere inarrestabile della sabbia nella clessidra, che inesorabilmente viene fagocitata dalla risacca del mare. Il
tempo toglie, mangia appunto, gli istanti che ci offre, nel momento stesso in cui li porge: madre
matrigna, che ci dà la vita per poi toglierla. Per la teologia cristiana, però, il tempo inaugurato da
Cristo non è più κρόνος, ma καιρός: tempo qualificato, differenziato, unico. Pastore dei viventi
non è più la morte, bensì l’Agnello che dà la sua vita per le pecore: per questo ogni tempo è un'opportunità nuova per realizzare qui e ora il regno dei cieli, anticipazione di quel cammino infinito
che sarà la vita eterna. Ecco: è importante annunciare che anche per la famiglia l’oggi, il momento
presente, anziché essere un tempo di crisi di cui lamentarsi, rappresenta piuttosto un’occasione inedita, per fare una cosa nuova, che proprio ora germoglia. Del resto, nella stessa vita di Gesù
proprio il momento di massima crisi, la croce, non ha forse costituito il tempo di gestazione per la
manifestazione della sua gloria, la risurrezione?
1.2 Il magistero della Chiesa sulla famiglia: quale il sì sotteso ai no?
Che cosa ha da dire dunque la Chiesa sul matrimonio oggi? Sembrerebbe che essa abbia da dire
innanzitutto dei recisi no: al divorzio, alle unioni omosessuali, e così via. Si tratta di una prospettiva fuorviante! Il fatto è che se si fa delle norme disciplinari il punto di inizio, si cade inevitabilmente in un moralismo che è sempre schiavizzante: mentre il vangelo è liberante, è una buona notizia
che serve a rendere l’uomo pienamente uomo. Così, ad esempio, partire dalla condanna del divorzio significa semplicemente non capire il senso della norma: la norma sancisce un divieto, un no;
ma un divieto acquista valore solo a partire da una dimensione positiva: dal sì a esso sotteso. Cos’è
dunque il matrimonio per la Chiesa? Ovvero, quale la sua bellezza? Partire da qui significa respirare a pieni polmoni: presentare ciò che di bello il vangelo ha da annunciare all’uomo di oggi.
2.
Chi è l’uomo oggi? Un παρεπίδηµος (1Pt 1,1): colui che sta sulla soglia
Ecco, l’uomo di oggi. Il cristianesimo è religione dell’incarnazione: in ogni tempo e in ogni
luogo, si rivolge a quel determinato uomo, parla il suo linguaggio. Qual è dunque il linguaggio
dell’uomo post-moderno? È qui che si colloca il compito della filosofia: aiutarci a comprendere chi
siamo, esplicitare e rendere intellegibile il nostro stesso modo di interpretarci, di pensare e di sentire. La filosofia assolve un compito analogo a quello della poesia: ci consegna le parole per dire
quello che viviamo. In questo senso, la filosofia diventa mezzo di evangelizzazione: strumento per
far sì cioè che il vangelo sappia parlare oggi.
L’intento di queste pagine è appunto il seguente: assumere una determinata concezione antropologica e alla sua luce ridire l’annuncio del vangelo sulla famiglia. La prospettiva antropologica
che verrà utilizzata è quella di un’ontologia cristiana in chiave post-moderna, che pensi cioè l'essere come relazione, come originario inter-esse. È quella che Klaus Hemmerle, quasi quarant’anni fa,
ha proposto di chiamare ontologia trinitaria. Non è questa la sede per legittimare e presentare una
simile ontologia; semplicemente, sarà applicata alla visione cristiana della famiglia. Più nello specifico, alla sua luce verrà letto un testo neotestamentario sul matrimonio.
È nota la predilezione della Bibbia nei confronti della metafora sponsale al fine di dire l’amore
2
tra Dio e uomo; tuttavia pochi sono i testi esplicitamente dedicati all’interpretazione dell’unione
tra uomo e donna: uno di questi è contenuto all’interno della Prima Lettera di Pietro. La Prima Petri è
un testo bellissimo, particolarmente in sintonia con la sensibilità dell’uomo post-moderno. È indirizzata infatti «agli eletti pellegrini della diaspora del Ponto, …»2. «Pellegrini» nell’originale greco
è παρεπιδήµοις (parepidemois). Ἐπιδήµιος (epidemos) significa etimologicamente «colui che sta
ἐπί, nel suo δῆµος, nel suo popolo, nella sua patria, nella sua casa»; παρεπίδηµος pertanto è invece «colui che sta παρά, presso, intorno, ai margini della patria, della casa»: è il pellegrino, il forestiero, l’esule, il viandante. Ebbene, l’uomo in generale, ma specialmente l’uomo di oggi si riconosce in questo stato di straniamento, di pellegrino, homo viator che desidera una casa, un popolo, ma
poi è destinato a rimanere inesorabilmente ai margini della città, ai sobborghi, sulla soglia: uomo
senza fissa dimora, sempre e di nuovo in viaggio, verso una meta agognata e mai completamente
raggiunta (nella Vulgata, «ai pellegrini» è advenis: letteralmente, «coloro che si approssimano»). Se
Deleuze e Guittari, proprio a partire da questo sentimento comune di straniamento, hanno potuto
definire l’uomo un rizoma, vegetale senza radici né fusto, in quanto essere ormai privo del senso
sia della tradizione, dell’appartenenza a un passato, sia della trascendenza, dell’anelito a un'ulteriorità, un post-historic man quindi, da una prospettiva più squisitamente cristiana invece, alla luce
della Prima Lettera di Pietro, si potrebbe forse definire il medesimo uomo piuttosto un παρεπίδηµος: colui-che-è-sulla-soglia.
3.
«Similmente le donne, sottomesse ai propri uomini» (1Pt 3,1): è possibile accettare oggi un’esortazione simile?
L’Epistola fu scritta tra il 60 e il 70, da Pietro, o più presumibilmente da un suo discepolo, magari dal suo segretario Silvano, o forse meglio dei entrambi. Dal versetto 1,13 a 4,11 è con ogni probabilità la trascrizione di un’antica catechesi battesimale. In effetti esordisce trattando il tema della
rigenerazione (1Pt 1,3: ἀναγεννήσας [anaghennésas]; 1,23: ἀναγεγεννηµένοι), quella che Gregorio
di Nissa avrebbe definito seconda creazione: il battesimo, certo, è la rinascita attraverso la quale diventiamo creature nuove, resi capaci per grazia di vincere il peccato e di recuperare il nostro essere
a immagine e somiglianza di Dio (1,16: «Sarete santi, perché io sono santo»); ma, più in generale,
l’uomo stesso è esigenza di rinnovarsi costantemente, di rinascere continuamente: vivere è una generazione permanente. Ora, secondo Pietro, una simile rigenerazione, dopo il battesimo, è possibile grazie al nutrimento della Parola, autentico latte (2,2: τὸ λογικὸν γάλα [to logikòn gala]), che fa
crescere fino a renderci pietre vive di quell’edificio spirituale (2,5) che è la Chiesa, corpo mistico di
Cristo. Dal versetto undicesimo del capitolo secondo inizia quindi la sezione centrale, parenetica,
della Lettera, nella quale viene descritto come i cristiani debbano comportarsi. Pietro passa in rassegna le diverse categorie sociali del tempo e a ciascuna indica come vivere il vangelo: per la precisione, tratta dei cristiani di fronte ai pagani e nei confronti delle istituzioni, poi degli schiavi verso i
loro padroni, e ancora delle mogli e dei mariti, e dei fratelli tra di loro, infine dei cristiani nella
prova della persecuzione. Ma veniamo senz’altro indugio al brano che ci interessa.
Subito dopo aver parlato agli schiavi, l’Apostolo si rivolge alle mogli e scrive: «Similmente le
donne, sottomesse (ὑποτασσόµεναι [ypotassòmenai], subditae nel latino della Vulgata) ai propri
uomini» (1Pt 3,1). Il testo ci lascia senz’altro in imbarazzo. Una simile esordio - «Sottomesse»! - tanto più in quanto è messo in parallelo - «Similmente» - con la condizione degli schiavi, è a dir poco
anti-modernista. Cosa dire? Si può certo ricorrere all’espediente ermeneutico che giustifica una si2.
Dei passi citati dalla Prima Lettera di Pietro fornisco una mia traduzione, che cerca di essere un calco fedele
dell’originale greco.
3
mile posizione come storicamente determinata: Pietro scrive all’interno di una società nella quale
la condizione della donna era de iure e de facto di sottomissione, così come del resto era previsto anche l’istituto della schiavitù. Oggi per fortuna le cose sono cambiate: Pietro perciò semplicemente
non scriverebbe più alle donne di stare sottomesse! Questa interpretazione ha una sua legittimità.
Ciò nondimeno, la Parola di Dio trascende altresì il contesto storico nel quale pure fu scritta: in
questo senso, l’esortazione di Pietro conserva comunque una sua validità, anzi forse oggi ancora
più di allora.
Come anticipato, nelle pagine seguenti verrà dunque offerta una rilettura di questa pericope biblica alla luce di un’antropologia filosofica trinitaria. Più nello specifico, si farà riferimento a un
breve testo nel quale Klaus Hemmerle definisce quali siano i quattro tratti distintivi dell’unità intesa in senso cristiano3. La scelta è giustificata dal fatto che il matrimonio cristiano è evidentemente il
sacramento dell’unità: «i due saranno un’unica carne» (Gn 2,24). Qual è dunque la via cristiana per
realizzare l’unità, anche nel matrimonio?
4.
I quattro tratti distintivi dell’unità intesa in senso cristiano secondo
Klaus Hemmerle
Klaus Hemmerle, insieme a Bernhard Casper, è stato discepolo e successore di Bernhard
Welte sulla cattedra di filosofia della religione a Friburgo. L’impegno intellettuale comune a maestro e discepoli fu lo sforzo di ripensare il cristianesimo alla luce del nuovo orizzonte culturale
post-moderno. Hemmerle fu anche amico intimo di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei
Focolari, il cui carisma è la costruzione di un mondo più unito: si comprende perciò la sua particolare attenzione rivolta al tema dell’unità.
Il vescovo di Aquisgrana indica un quadruplice sentiero:
1)
relazionalità: l’unità cristiana si dà come relazione. In ambito cristiano, è proprio il
dogma trinitario a esigere di pensare Dio non come monolitica unità, bensì come
unità relazionalmente vivificata. Da accidenti, la relazione deve assurgere perlomeno a categoria co-originaria insieme alla sostanza, se non addirittura arrivare a
identificarsi con la sostanza stessa, la quale anziché come id quod est, va pertanto
pensata come soglia, come limite. Filosoficamente, nel Novecento, la relazione ha
assunto un ruolo di primo piano: oltre ovviamente che nella filosofia della relazione neoebraica di Buber e nella versione cattolica di Mounier, anche nell’etica
come filosofia anteriore di Lévinas, nella forma-di-vita del secondo Wittgenstein,
nell’intersoggettività dell’ultima delle Meditazioni cartesiane di Husserl. Non a caso, l’esperienza antropologica fondamentale di relazionalità, il linguaggio, è venuta a essere, secondo la felice formula proposta da Gianni Vattimo4, la koiné filosofica del Novecento. Ora, sul piano antropologico, natura relazionale dell’uomo
significa che la propria identità è ricevuta solamente nella relazione con l’altro:
così, ad esempio, mi chiamo Massimiliano solo nella misura in cui gli altri mi
chiamano così. Il proprio volto lo si può trovare soltanto nella relazione con
l’altro. Nel matrimonio, l’altro è evidentemente il coniuge: è possibile trovare sé
3.
KLAUS HEMMERLE, L’Uno distintivo. Note sull’interpretazione cristiana dell’unità (tit. or. Das unterscheidend Eine. Bemerkungen zum christlichen Verständnis von Einheit, Freiburg 1994), pubblicato in ID., Tesi di ontologia trinitaria, Roma
1996 (tit. or. Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, Freiburg 1992), pp.103-106.
4.
Cfr. G. Vattimo, Postilla 1983, in H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 2000, p. LIX.
4
2)
3)
solo nella relazione con colei/colui che si è sposata/o. Come scrive Pietro rivolgendosi agli uomini, le mogli per voi sono «coeredi della grazia della vita» (3,7):
il dono della vita, della vita eterna, lo si riceve insieme! Il matrimonio dunque è
essenzialmente esperienza della radicale non autosufficienza dell’uomo: egli solo
nella relazione con l’altro trova e salva sé stesso.
storicità: l’unità cristiana si dà come evento, è cioè sempre storicamente determinata. Il Dio biblico interviene nella storia degli uomini e la guida; più specificamente, il cristianesimo è religione dell’incarnazione, dell’inculturazione. A livello
filosofico, colui che ha rappresentato il punto d’arrivo della modernità e l'anticipazione del post-moderno, Hegel, interpreta la storia niente meno che come il
luogo del farsi stesso dell’essere; per tutti, poi, nel Novecento, Heidegger qualifica l’essere temporalmente, o, se si preferisce, il tempo ontologicamente. A livello
antropologico, storicità significa che non esiste un uomo generico e ideale, puro e
universale: si tratta piuttosto sempre di questa determinata persona, con tutti i
suoi limiti e la sua concretezza. Anche il matrimonio è un’unione di due carni:
unione che si realizza nella determinatezza, nel limite che ciascuno è. La storicità,
la determinatezza è il luogo in cui si realizza il matrimonio. Non solo, ma in
quanto storico, il matrimonio è sempre anche di là da venire: è proteso in avanti.
Che l’uomo sia animale storico, filosoficamente, significa che è caratterizzato dal
divenire: egli è ciò che diventa. Cristianamente, poi, il divenire è declinato come
generazione: l’essere è generazione, Dio è Padre e Creatore. Biblicamente, la creazione non è soltanto un atto puntuale, avvenuto all’inizio: è piuttosto una creazione permanente. Analogamente l’uomo, per essere, ha bisogno di essere costantemente rigenerato e ricreato5. Ciò vale anche per il matrimonio e per questo lo
strumento principe per fare del matrimonio una cosa sempre nuova è il perdono:
il perdono infatti è l’esperienza di poter essere sempre nuovamente rigenerati. Il
perdono realizza un autentico miracolo: la nostra nascita non è più fissata in un
determinato giorno nel passato, il compleanno, bensì è nel futuro; paradossalmente il futuro è la nostra origine.
pericoresi: termine tecnico greco della teologia trinitaria, tradotto in latino della
scolastica con circuminsessio o circumincessio, indica la circolarità, la reciprocità caratteristica dell’amore intradivino6; Padre, Figlio e Spirito Santo si donano e si accolgono mutuamente. Come magistralmente espresso nell’icona della Trinità di
Rüblev, il contorno delle tre figure forma un calice: ciascuna delle tre Persone infatti si riversa totalmente nelle altre, così che infine, paradossalmente, i tre hanno
il medesimo volto! In modo paradigmatico, nel Vangelo di Giovanni, ai piedi della
croce, si trovano Maria, la madre di Gesù, Giovanni, il discepolo che egli ama, e
Maria di Magdala. Sono le icone delle tre forme fondamentali di amore: amore
materno, amore filiale, amore sponsale; rispettivamente, dono offerto, dono ricevuto, dono scambiato vicendevolmente: asimmetricità dell’amare e dell’essere
amato nel rapporto tra la madre e il figlio, reciprocità dell’amore tra lo sposo e la
sposa. Ecco, il matrimonio è il sacramento della reciprocità dell’amore, come emblematicamente dichiarato all’inizio, nel mezzo e alla fine del libro biblico dell'amore per eccellenza, il Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua […]
5.
In questa sede, si può trascurare senza danno la differenza ontologica, in altri contesti altrimenti fondamentale, tra
creazione e generazione, tra γένεσις e γέννησις.
6.
Sulla storia di questi vocaboli, si possono leggere le belle pagine contenute in P. CODA, Dalla Trinità. L’avvento di Dio
tra storia e profezia, Roma 2011, pp. 397-400.
5
4)
4.
Io sono del mio amato / e il mio amato è mio […] Io sono del mio amato» (Ct 2,16;
5,3; 7,11). In questo senso, il matrimonio è immagine dell’amore intratrinitario:
circolarità d’amore, pericoresi appunto, tra Padre e Figlio nello Spirito Santo; circolarità non chiusa in sé stessa, ma che, quanto più è piena, tanto più genera
un’eccedenza, un sovrappiù: nel matrimonio, generativa di una vita assolutamente altra, i figli. Ora, però, la reciprocità, la sincronia sono un miracolo raro su
questa terra: non si è mai amati e non si ama mai abbastanza e al momento opportuno. Eppure la pienezza dell’amore è solo nella reciprocità: cosa fare dunque?
ecco allora il quarto tratto distintivo dell’unità intesa in senso cristiano: il carattere
chenotico. Per primo Dio, pur di essere corrisposto nell’amore per le sue creature,
è arrivato infine a svuotarsi (nel greco di san Paolo, ἐκένωσεν appunto: Fil 2,7):
folle d’amore, pur di incontrare l’uomo, che fin dal giorno del peccato originale
fugge e si nasconde, ha infine rinunciato alla propria divinità, si è fatto uomo, fino a morire sulla croce. La chenosi, - lo svuotamento di sé, la trasgressione della
propria natura, il rinnegamento di sé, la croce, - è la misura infinita dell’amore: là
dove manca la circolarità, essa è raggiunta con l’unilaterale dono di sé. La croce è
la trasgressione dei propri limiti: superamento di sé per farsi definitivamente vicino all’amato. Hemmerle però, giustamente, sottolinea che la chenosi non è conseguente solamente al peccato, alla mancata reciprocità nell’amore; attiene piuttosto alla circolarità stessa dell’amore: se infatti l’uno trova sé stesso solamente
nella relazione con l’altro da sé, allora deve superare sé stesso, oltrepassarsi e
svuotarsi per trovarsi; se amore è la reciprocità del dono, allora esige da ognuno
il totale dono di sé.
La sottomissione regale: la via migliore proposta dal vangelo
Ecco dunque, alla luce di un’antropologia cristiana in chiave post-moderna, cosa ha da dire la
sapienza evangelica all’uomo d’oggi: il matrimonio risponde al desiderio profondo di ogni uomo,
di trovare sé stesso nella relazione, in una reciprocità d’amore, sempre di là da venire, con una
persona unica e determinata. Ora, però, una simile reciprocità è raggiungibile soltanto attraverso la
chenosi: come dice Pietro, attraverso la sottomissione.
La sottomissione, l’obbedienza, è l’unica forma credibile di amore, capace di generare vita. In effetti, attraverso la sottomissione, nell’accettazione di sacrificare il proprio figlio Isacco, Abramo divenne padre dei credenti e Maria, nel pronunciare il suo fiat all’angelo, madre. Ancora di più, attraverso la sottomissione Gesù ha realizzato il suo essere Figlio e Signore. Del resto, non a caso Pietro, tra l’esortazione rivolta agli schiavi e quella rivolta alle donne, inserisce uno splendido cantico
cristologico (1Pt 2,21-25): attraverso una catena di citazioni tratte dal Quarto Canto del Servo di Iahweh (Is 52,13-53,12), Cristo viene mostrato quale exemplum da imitare da parte di tutti, unico criterio di comportamento; il suo specifico consiste nell’aver rotto la catena di peccato e aver così realizzato l’amore, non rispondendo più agli oltraggi con oltraggi, al male con la vendetta, ma al contrario prendendo nel suo corpo i nostri peccati: sottomettendosi appunto, «facendosi obbediente –
come avrebbe scritto san Paolo – fino alla morte / e a una morte di croce» (Fil 2,8).
È innegabile che di fronte all’esortazione di Pietro si provi una reazione di sospetto e di imbarazzo. Essa è giustificata dal fatto che sottomissione è termine eminentemente equivoco: espressione
tanto della logica del peccato, di un dominio e di un possesso esercitato o subito, quanto della logica dell’amore, espressione credibile di un incondizionato dono di sé. Le due possibilità si collocano
6
agli estremi dell’intera storia della salvezza. Essa è scandita da due grandi notti. All’inizio, la
grande notte della creazione: nelle tenebre e nell’abisso dell’origine, risuona la prima parola di
Dio, «Fiat lux», «Sia la luce!» (Gn 1,3), che tutto porta all’esistenza, dall’alternanza di giorno e notte
fino alla differenza tra maschio e femmina. Ora, però, l’uomo, appena creato, cade; il peccato è il
suo allontanarsi da Dio, il suo volgergli le spalle e nascondersi al suo sguardo: «Dove sei?» (Gn
3,9). Da allora in poi, entra nel cuore dell’uomo l’istinto di dominio e di omicidio, tra marito e moglie, tra fratello e fratello: è il tentativo, fallimentare, di trovare un fazzoletto di terra sul quale
poggiare i piedi e fare presa, per sfuggire al nulla dal quale proviene e al quale è destinato. La sottomissione della donna entra nella storia dell’umanità come conseguenza del peccato, di questa sete di dominio: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, / ed egli ti dominerà» (Gn 3,16). Nell’esegesi biblica,
per primo Gregorio di Nissa distinse non tra Antico e Nuovo Testamento, quanto piuttosto tra prima
del peccato originale, i primi due capitoli della Bibbia, e dopo il peccato originale, il resto della Bibbia. Con un gioco di parole suggestivo, egli spiega quindi che se Dio fece la carne dell’uomo nella
prima creazione, alla fine si fece carne7: l’incarnazione viene a essere così la seconda creazione. Credo si possa ulteriormente specificare che essa si compie nel Getsemani: è lì che si consuma la seconda grande notte della creazione, quando al primo fiat di Dio corrisponde il secondo e definitivo
fiat di Gesù. Finalmente, al sì di Dio all’uomo corrisponde il sì dell’uomo a Dio: Gesù si sottomette
alla volontà del Padre, si abbandona nelle sue mani, perché sa che all’origine e alla fine non c’è il
nulla, bensì l’amore di Dio. Con lui la sottomissione diventa dono di sé, espressione del modo di
essere di Dio: «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la
propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Oggi giustamente si insiste sull’importanza del dialogo all’interno del matrimonio. Tuttavia
l’esperienza di tanti fallimenti sta a dimostrare che il matrimonio non può reggersi sul dialogo. Il
vangelo indica una via migliore: la sottomissione. Certo, c’è una sottomissione servile, per paura, o
imposta con la violenza o per costrizione sociale: essa è sempre e comunque da stigmatizzare e
combattere. Ma vi è anche una sottomissione regale: manifestazione suprema d’amore, capace di
rompere la catena di ingiustizia e infedeltà e di guarire dal peccato. In effetti, alle donne Pietro
chiede di essere sottomesse ai propri uomini, «affinché anche se alcuni non si lasciano persuadere
dalla Parola, saranno guadagnati senza Parola per mezzo della condotta delle donne» (1Pt 3,1): là
dove non arriva la Parola del vangelo, riesce la sottomissione, testimonianza credibile d’amore, capace di vincere il male con il bene, la divisione con l’oblazione.
5.
Perché l’esortazione è rivolta anzitutto alle donne? Sulla necessità di
riscoprire oggi una specifica identità di genere per realizzare sé stessi
Certo, resta un interrogativo: perché l’esortazione di Pietro è rivolta solo alle donne? Verrebbe
da rispondere con una nota battuta di Carlo Carretto: semplicemente perché nell’amore e in santità
le donne ci stanno sempre davanti, ci superano! Le donne nella capacità d’amore sono superiori
agli uomini: del resto, l’attributo di Dio per antonomasia, la misericordia, in ebraico è rahamím, vocabolo che denota l’uterinità di Dio, che ha a che fare quindi con un organo, l’utero, squisitamente
femminile. Resta tuttavia aperta un’altra ipotesi: e cioè che nel modo diverso di rivolgersi alle une
e agli altri da parte dell’Apostolo sia possibile rintracciare una diversa fisionomia, una diversa identità di genere, di uomo e di donna.
Delle donne Pietro scrive: «Guardando alla vostra condotta casta (ἁγνὴν) […] nell'incorruttibili-
7.
Cfr. GREGORIO DI NISSA, Contro Eunomio, III,2,52-54.
7
tà dello spirito mite e quieto (πραέως καὶ ἡσυχίου)» (1Pt 3,2.4). Le due virtù caratteristiche della
femminilità sarebbero la castità e la mitezza. Nell’immaginario collettivo, in effetti, la mitezza attiene alle donne (si pensi alla dolcezza materna verso i figli e alla docilità della sposa nei confronti
dello sposo), come pure la castità (si pensi alla donna velata, timida, pudica). D’altro canto, tuttavia, è vero pure che in letteratura tanto spesso la donna è raffigurata come bisbetica, instabile, aggressiva, tutt’altro che mite; nella Bibbia, poi, accanto a esempi di castità, le donne sovente sono
rappresentate dalla figura delle prostitute. Ora, la prostituzione, da una parte, è espressione di una
cultura biecamente maschilista: le donne, in fondo, si piegano a essere prostitute in obbedienza a
un becero istinto degli uomini. Dalla parte delle donne, però, la prostituzione, non intesa tanto
come intemperanza e disordine nei rapporti sessuali, bensì come infedeltà, come venir meno all'esclusività di un rapporto d’amore, diventa paradossalmente perfino espressione di un desiderio
profondo: segno di una ferita d’amore indelebile; se la donna è fragile rispetto a un corteggiamento, a un’attenzione a lei rivolta, è a causa del suo bisogno di essere amata, curata: è probabilmente
per questo che nei Vangeli le prostitute sono particolarmente attratte da Gesù, dalla sua capacità di
amare appunto. Ecco allora che proprio nei Vangeli quello che è il punto di debolezza si capovolge
in massimo punto di forza: chi è suscettibile di tradimento può divenire capace di una fedeltà assoluta, può arrivare ad avere la castità bella di un cuore circonciso. Là dove abbonda il peccato, può
sovrabbondare la grazia: se nella loro ferita d’amore trovano il medico, se nella loro sete d’amore
trovano la sorgente cui abbeverarsi, se trovano il Cristo exemplum, le donne proprio nella castità e
nella mitezza, come scrive san Pietro, possono diventare formidabili testimonianze d’amore.
Anche rivolgendosi agli uomini l’Apostolo esordisce dicendo: «Gli uomini similmente» (1Pt
3,7): unica ovviamente è la vocazione ad amare, e quindi a sottomettersi reciprocamente. A questo
proposito, del resto, vale la pena ricordare un criterio esegetico-spirituale fondamentale nella lettura della Bibbia: ciò che essa dice è sempre finalizzato alla conversione di sé, mai degli altri, va utilizzato cioè per correggere sé e togliere la trave dal proprio occhio, non per puntare il dito contro
gli altri; detto più esplicitamente: se Pietro alle donne dice di essere sottomesse, in nessun modo di
questa esortazione possono servirsi gli uomini per correggere o fare rivendicazioni nei confronti
delle donne! Del resto, la sottomissione è sapienza evangelica e non precetto morale: come qualunque parola dei Vangeli, non va intesa come norma rigida da applicare indiscriminatamente, bensì
come luce per l’intelligenza e sapienza per il cuore da usare come guida nel discernimento sempre
particolare, caso per caso.
Comune dunque è la vocazione ad amare e a essere sottomessi; tuttavia probabilmente ciascuno
secondo una specifica modalità: così degli uomini è detto «vivendo insieme con consapevolezza
come con un vaso, quello della donna, alquanto fragile» (ibidem). Se la via propria delle donne è la
castità e la mitezza, il proprium degli uomini è la cura premurosa. Cura e premura sono le due virtù
maschili per eccellenza; tuttavia vale per gli uomini quanto detto precedentemente a proposito delle donne: non vi è forse virtù più difficile per un uomo della premurosità. Gli uomini infatti sembra che per natura tendano a diventare orsi, duri, aridi; anche questa attitudine poi probabilmente
è la reazione a una loro ferita profonda, alla perdita dell’abbraccio tanto amato della madre. Ma
ancora una volta, là dove abbonda il peccato, può sovrabbondare la grazia: quale formidabile potenziale d’amore v’è in un uomo che sia un padre con viscere di misericordia!
Dando per scontata la bontà degli effetti sociali della rivoluzione femminista, forse è altresì tempo di
tornare ad annunciare questa sapienza al mondo: la realizzazione della donna consiste nel diventare
mite e casta, quella dell’uomo nel diventare premuroso e attento. Due virtù distinte, in sintonia del resto con due conformità fisiche innegabilmente differenti: l’accoglienza, virtù femminile, conforme alla
specificità fisica delle donne, dotate di utero e di seno, e la custodia, virtù maschile, conforme alla specificità fisica dell’uomo, caratterizzato da spalle robuste e braccia muscolose; vie complementari che
conducono a essere a immagine dell’unico pastore e agnello, primogenito della nuova creazione.
8
6.
Conclusioni: due annunci e un’ipotesi di lavoro
Il matrimonio dunque è l’esperienza meravigliosa della reciprocità nell’amore: è il primo annuncio che la Chiesa può rivolgere agli uomini di oggi. Questa meta però è raggiungibile solo attraverso la chenosi, obbedienza e sottomissione regale: è questo il secondo annuncio, sapienza del
vangelo rivelata ai piccoli. Infine, nella comune vocazione all’amore attraverso la chenosi, uomo e
donna si distinguono forse per due differenti e specifiche vie per realizzarla: che vi siano due distinte identità di genere, e quali esse precisamente siano, è ipotesi su cui vale ancora la pena confrontarsi e cercare di comprendere meglio8.
8.
Ecco un esempio. Un’interlocutrice mi ha fatto giustamente notare che la donna oggi può mostrarsi dolce e vivere
in questo modo la sua femminilità all’interno del nucleo familiare, nella cura del marito e dei figli; per lo più, tuttavia, non le è possibile però mostrarsi altrettanto dolce sul luogo del lavoro: a livello sociale, si esige infatti una certa
dose di aggressività per affermarsi. È un’osservazione assolutamente verosimile. Ciò nondimeno, si aprono a questo proposito due piste di approfondimento. La prima: l’opposizione intuita tra ambito domestico e ambito lavorativo non ricalca quella evangelica tra Gesù e mondo? Sarà allora vero che sul lavoro deve necessariamente abbracciarsi la logica del mondo, dell’affermarsi dominando e primeggiando? La seconda: se in certi lavori è richiesta una
certa forma di affermazione di sé, pur non necessariamente intesa come dominio e sopraffazione, è possibile dedurne che alcuni lavori siano più prettamente maschili?
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