Un`alleanza più forte in un mondo che cambia

SPEECH/04/90
Romano Prodi
Presidente della Commissione europea
Un’alleanza più forte in un mondo che
cambia
ISPI
Milano, 20 febbraio 2004
Signore e signori,
Mi fa molto piacere essere con voi oggi, non solo perché sentimenti e ricordi speciali
mi legano alla città di Milano, dove ho frequentato l’università, ma anche perché si
celebrano i 70 anni di uno degli istituti più prestigiosi d’Europa.
Non è facile trovare un luogo altrettanto pieno di energia intellettuale, un luogo in cui
centinaia di persone di tutte le età assistono a conferenze pubbliche e tavole
rotonde, un luogo in cui si sente l’eco della storia.
L’ISPI è un centro di eccellenza e, in questi tempi di grandi sfide internazionali, deve
continuare a impegnarsi per l’eccellenza, soprattutto nel settore della ricerca. Sarà
così una risorsa ancora più grande per l’Italia e per l’Europa.
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Credo che la conferenza di oggi arrivi al momento giusto e che sia necessaria.
Tutti, europei e americani, dobbiamo moltiplicare le occasioni di dialogo franco e di
discussione per aprire nuove opportunità e rinnovare la cooperazione.
Mi sembra che le cose stiano cambiando e oggi siano possibili nuovi sviluppi: la
situazione è certamente molto diversa rispetto a un anno fa.
Nei primi mesi del 2003 si guardava alle prospettive delle relazioni transatlantiche
con preoccupazione. In effetti, non mancavano certo i punti di divergenza.
Alcuni di essi, pur importanti, facevano parte del normale rapporto tra partner e
alleati. Penso ad esempio a certi aspetti delle relazioni economiche e commerciali, o
ai nuovi prodotti alimentari e alle biotecnologie.
Altre erano più serie. Mi riferisco alla disputa su come affrontare il degrado
dell’ambiente a livello mondiale (il cambiamento climatico) o a quella sulla Corte
Penale Internazionale.
A questa situazione si è aggiunta la crisi irachena che ha davvero scosso le nostre
consolidate relazioni e ha avuto un impatto notevole anche sugli affari interni
europei.
Quella crisi si è sviluppata su vecchi stereotipi, senza tener conto dei grandi
progressi compiuti negli ultimi anni da entrambe le parti, né delle sfide aperte
davanti a noi.
Stereotipi raramente corretti, e mai utili nelle relazioni internazionali, soprattutto
innanzi a questioni importanti come la crisi e il conflitto in Iraq.
Tale controversia ha inciso su stati d’animo particolari in entrambe le parti
dell’Atlantico.
Gli Stati Uniti stavano e stanno ancora cercando di adattarsi a un mondo che dopo
l’11 settembre del 2001 è diventato più pericoloso.
Da parte nostra, noi europei abbiamo forse sottovalutato le preoccupazioni
americane sulla possibile connessione tra terrorismo, minaccia delle armi di
distruzione di massa e Stati fuorilegge.
Allo stesso tempo la crisi ha inciso sui sentimenti e sulla percezione dell’opinione
pubblica europea.
Tra il settembre 2001 e l’inizio del 2003, l’orientamento della maggioranza
dell’opinione pubblica in Europa si è spostato dall’espressione “Siamo tutti
americani” a un diffuso rifiuto della guerra, mentre i governi restavano divisi.
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Allo stesso modo, mentre l’UE era impegnata in un allargamento senza precedenti e
in una riflessione indispensabile sul suo futuro in seno alla Conferenza
intergovernativa, i tentativi americani di giocare su presunte divisioni tra una “nuova”
e una “vecchia” Europa non hanno certo contribuito ad allentare le tensioni e a
favorire il ravvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico.
Vi era una sensazione diffusa tra gli europei che l’amministrazione statunitense
vedesse un’Europa integrata come una minaccia alla supremazia americana.
Questa posizione ha destato sorpresa e delusione, soprattutto perché, con
l’allargamento, gli europei si stanno unendo pacificamente dopo tutta la violenza
della prima metà del XX secolo, e sono ormai un esempio di stabilità e di prosperità
condivisa unico al mondo.
Quest’unità è sempre stata anche un obiettivo americano al quale gli USA hanno
dato un grande contributo dopo la Seconda guerra mondiale.
Come ha detto il vicepresidente Cheney recentemente a Davos, il successo
dell’Europa moderna “è anche la storia di una grande e duratura alleanza fra i popoli
liberi delle due sponde dell’Atlantico... gli Stati Uniti e l’Europa hanno affrontato
insieme sfide fuori dal comune e le hanno superate insieme...”.
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Oggi dobbiamo superare le polemiche dell’anno scorso.
Nel rapporto transatlantico dobbiamo concentrarci esclusivamente sulla realtà, non
sulla retorica, e sui tre pilastri che lo sostengono: la cooperazione economica, la
cooperazione politica e quella di sicurezza.
La realtà è un’economia transatlantica che rappresenta circa il 50% del PIL e il 40%
del commercio del mondo. Quest’economia transatlantica è più integrata che mai.
Per quanto riguarda gli scambi, gli USA sono di gran lunga il principale partner
commerciale dell’UE, come l’UE è il primo partner dell’economia nordamericana
(USA + Canada).
Le stesse relazioni privilegiate caratterizzano gli investimenti diretti dall’estero.
Un comune patrimonio politico sta alla base di questi legami economici. I principi
fondamentali della democrazia liberale - le libertà d’espressione, di coscienza e di
religione e una stampa libera - sono così solidi che li diamo ormai per scontati.
Essi consentono un livello di dialogo e di comprensione reciproca tra Europa e Stati
Uniti che non ha pari al mondo.
I valori di libertà, giustizia e democrazia sono i nostri valori comuni. Eppure, questi
stessi valori vengono negati in altre parti del pianeta e ci sono forze che li
minacciano.
Nella seconda metà del XX secolo, l’Europa e gli USA hanno lavorato insieme per
sostenere e diffondere la democrazia nel nostro continente.
Oggi, americani ed europei stanno lavorando insieme per sostenere le neonate
democrazie dei Balcani e dell’Afghanistan.
Anche in Iraq, l’Unione si sta progressivamente impegnando per agevolare il
processo di ricostruzione e di normalizzazione.
Proprio la situazione in Iraq ha dimostrato la nostra capacità di offrire una soluzione
ai vecchi disaccordi.
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Grazie ai nostri sforzi comuni abbiamo creato un’atmosfera positiva e costruttiva e
speriamo in un dialogo più intenso nei prossimi mesi.
Apprezzo in particolar modo gli sforzi americani per garantire un rapido passaggio
dei poteri agli iracheni e voglio salutare con soddisfazione i colloqui che si stanno
svolgendo col governo provvisorio e le Nazioni Unite in questa prospettiva.
Più in generale, dobbiamo agire rapidamente per limitare i pericoli del terrorismo in
Iraq. I responsabili dei recenti attacchi terroristici sanno che la loro sola possibilità di
successo consiste nel distruggere la speranza degli iracheni.
Ma solo una prospettiva politica di lungo termine, oltre che un livello più alto di
sicurezza, consentiranno di costruire il nuovo Iraq su fondamenta solide e durature.
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Per queste ragioni, dobbiamo continuare la lotta al terrorismo rafforzando la nostra
cooperazione, in particolare in tutta l’area mediorientale.
Dobbiamo lanciare nuove azioni specifiche nella regione per affermare e rafforzare
principi e valori fondamentali. Pensiamo ad esempio ai problemi dell’istruzione, della
parità uomo-donna e a come colmare i tanti vuoti di democrazia.
Sulla base del processo di Barcellona e grazie alle nuove opportunità offerte dalla
politica di prossimità, dobbiamo moltiplicare le sedi e gli strumenti di dialogo e
dobbiamo lanciare nuove iniziative in un’area cruciale per la stabilità mondiale.
Naturalmente, questa strategia di ampio respiro non deve farci sottovalutare
l’importanza della questione israelo-palestinese, da cui dipende in larga misura il
successo di ogni nuova strategia nella regione.
Certamente però oggi possiamo lanciare un’iniziativa politica nuova che prenda
esempio dalle esperienze che abbiamo fatto insieme in Europa centrale e orientale.
I nostri successi recenti, del resto, come l’ottima cooperazione nei Balcani
occidentali, e soprattutto in Bosnia, ci devono spingere a cercare nuove forme di
cooperazione anche in Medio Oriente.
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Stiamo collaborando anche in settori meno appariscenti ma altrettanto importanti. Si
pensi alla tutela della sicurezza dei trasporti aerei e marittimi, alla lotta contro il
traffico di materiali destinati alla produzione di armi di distruzione di massa e contro
il flusso dei finanziamenti ai gruppi terroristici.
Il vertice UE-USA del giugno 2003 ha dimostrato la validità del nostro approccio
equilibrato e pratico.
Quel vertice si è svolto all’insegna di una saggia combinazione di accordi concreti e
di progetti congiunti di lungo termine.
Allo stesso modo, credo che in futuro potremo fare passi in avanti in altri settori,
come l’accordo finale sulla cooperazione tra i sistemi satellitari Galileo e GPS, il
futuro spazio aereo senza frontiere e una nuova cooperazione per promuovere la
crescita economica.
Sono sicuro che anche nel campo commerciale potremo lavorare insieme per
arrivare ad una conclusione positiva del “development round” di Doha.
Dobbiamo però anche imparare la lezione del fallimento dei negoziati di Cancún, lo
scorso dicembre.
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Cancún ci insegna che, per raccogliere le sfide del XXI secolo, un buon rapporto fra
l’UE e gli USA è necessario ma non sufficiente.
Non basta dichiarare nei nostri contatti bilaterali che dobbiamo fare di più per capire
e interpretare i bisogni e gli interessi reali di tutta la comunità internazionale.
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Nonostante le voci di crisi che circolavano l’anno scorso, non c’è mai stata
comunque una vera rottura nel rapporto transatlantico.
Piuttosto, le nostre relazioni e i meccanismi che le sostengono sono così forti che
hanno dato prova della loro tenuta anche in un anno difficile.
Ciò detto, non possiamo neppure indulgere nell’autocompiacimento. Le tensioni
dell’anno scorso non sono solo il risultato di una polemica esagerata da parte della
politica o della stampa. Dobbiamo riflettere sulle reali divergenze di punti di vista tra
europei e americani.
Queste divergenze riguardano in particolare l’approccio nei confronti della guerra e
dell’uso della forza nelle relazioni internazionali.
Ci sono opinioni diverse su come regolare il rapporto tra le libertà individuali e la
riservatezza della vita privata da una parte e la sicurezza dall’altro.
La sfida più difficile è armonizzare le necessarie misure di sicurezza con lo sviluppo
di una società aperta.
Alcuni osservatori hanno persino messo in dubbio che si possa ancora parlare di
una comunità di valori fra le due rive dell’Atlantico e si sono chiesti se, nella ricerca
di un nuovo modello di governance mondiale, non stiamo in realtà prendendo strade
diverse.
Si tratta di differenze importanti, che non si possono cancellare a comando o
risolvere con dichiarazioni aggressive o altisonanti come quelle dei primi mesi del
2003.
Abbiamo bisogno di un dialogo sereno e strutturato e dobbiamo riconoscere la
legittimità delle opinioni altrui anche quando non siamo d’accordo.
In questo dibattito, l’elemento chiave è il ruolo del “multilateralismo efficace” come
principio guida delle relazioni internazionali e fonte di legittimità degli interventi.
Nonostante le obiezioni di qualcuno, il multilateralismo non è mai stato uno slogan
o, peggio, un espediente per rimandare le decisioni e l’azione.
In Europa, grazie al multilateralismo abbiamo posto fine a conflitti secolari sul nostro
continente e abbiamo aperto una nuova era di cooperazione politica ed economica.
Andiamo orgogliosi del nostro modello e siamo convinti che esso sia un modello
valido anche per le altre regioni del pianeta.
Non deve sorprendere quindi la fiducia che riponiamo nelle Nazioni Unite come
cardine di un nuovo sistema multilaterale.
Per noi, multilateralismo significa:
- prendere sul serio le regole della politica internazionale,
- aiutare tutti i paesi ad attuare e a rispettare queste regole,
- impegnarsi attivamente negli organi multilaterali vecchi e nuovi e
- promuovere un’agenda di pace e di stabilità che vada oltre la semplice difesa
degli interessi nazionali.
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Tutto questo fa ormai parte del patrimonio genetico dell’Europa.
Dobbiamo anche garantire che i nostri interessi siano correttamente rappresentati
nei vari organi decisionali internazionali, in particolar modo nell’Organizzazione delle
Nazioni Unite.
Per rafforzare l’ONU, del resto, occorre anche rafforzare l’azione comune
dell’Europa al suo interno, soprattutto dopo l’allargamento, con paesi membri delle
Nazioni Unite che entrano nell’Unione europea e altri che, dai Balcani, li seguiranno
fra pochi anni.
Soprattutto se, come spero, la nuova governance mondiale dovrà essere
organizzata attorno ad alcuni poli regionali, dovremo pensare a come questi poli
potranno coesistere e cooperare.
Per questo, occorrono organizzazioni e trattati internazionali efficaci e occorrono
azioni multilaterali decise contro ogni minaccia della sicurezza internazionale.
Nel dire questo, penso anche allo sviluppo e all’allargamento delle organizzazioni
internazionali. Basti pensare all’importanza della presenza della Cina e della Russia
nell’Organizzazione mondiale per il commercio.
In questo nuovo contesto, la questione della legittimità dell’azione internazionale
diventa centrale.
Si tratta di una legittimità politica e morale che la crisi irachena ha messo in
discussione come mai prima. E questo è un elemento che gli Stati Uniti non
possono ignorare.
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Con la crisi irachena, poi, si è creata per la prima volta una spaccatura profonda
all’interno della NATO. È quindi dalla NATO che dobbiamo ripartire per creare la
partnership necessaria e per favorire un consenso internazionale più ampio.
La legittimità dipende soprattutto da questo consenso e dal rispetto delle regole
internazionali.
Ne deriva la necessità di un nuovo concetto di alleanza atlantica, organizzata su
due pilastri solidi, alla quale gli europei dovranno apportare un contributo più attivo e
più concreto.
Dal punto di vista europeo, infatti, è solo grazie a una integrazione politica più forte
che potremo fare la nostra parte in questo nuovo quadro.
Se prendiamo le decisioni insieme possiamo avere un ruolo maggiore e dare più
legittimità ai suoi risultati pratici.
Questo sarebbe un grande contributo per relazioni internazionali più solide e più
affidabili.
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Ma voglio essere chiaro: l’UE non si considera in concorrenza con la NATO, né
desidera creare un doppione delle sue strutture e delle sue funzioni.
La nostra politica di difesa vuole che l’Europa contribuisca di più alla propria difesa.
Con 25 Stati membri dobbiamo prendere con più decisione l’iniziativa e dobbiamo
promuovere azioni più coerenti e più efficaci.
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La nuova Strategia di sicurezza europea va incontro alle preoccupazioni degli Stati
Uniti e condivide con loro la stessa percezione di minaccia riconoscendo che la
nostra sicurezza è qualcosa che si pone a livello globale e non si limita alla difesa di
uno spazio geografico limitato.
Abbiamo anche accettato l’idea che, in certi casi, la forza può essere una risposta
appropriata.
Inoltre siamo coscienti che se si assumono certi impegni occorre essere
conseguenti nel preparare la strategia per raggiungerli.
In cambio ci aspettiamo che gli Stati Uniti riconoscano alcune delle nostre priorità e
dimostrino il loro impegno nei confronti del sistema internazionale e delle istituzioni
multilaterali che essi stessi hanno contribuito a creare nel corso dei decenni.
Dobbiamo affrontare insieme le nuove minacce comuni, dal terrorismo e dalla
criminalità organizzata alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, dai
conflitti regionali al fallimento degli Stati.
Non credo però che la sicurezza sia solo o soprattutto una questione di imporre
soluzioni militari a chi potrebbe minacciarci.
Non credo che si possano proteggere i nostri cittadini solo moltiplicando i controlli
alle frontiere e negli aeroporti, o con un controllo sempre più invadente dei dati
personali.
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Per questo, continuo a battermi per rafforzare l’impegno dell’Unione europea verso
la cosiddetta “soft security”.
Si tratta di una sicurezza dalla mano leggera che diffonde le regole del buon
governo, favorisce lo sviluppo economico e combatte la povertà.
Una sicurezza che promuove il dialogo interculturale, combatte le epidemie e
affronta le conseguenze del cambiamento climatico.
Intervenendo in tutti questi campi investiamo in realtà nella nostra sicurezza di lungo
termine.
Il contributo dei paesi europei alla cooperazione allo sviluppo è il triplo di quello
degli Stati Uniti e quello al bilancio delle Nazioni Unite è il doppio.
Ci viene spesso ricordato il divario che separa le capacità militari dell’Europa e degli
Stati Uniti. Ma perché non ricordare il divario dei fondi per lo sviluppo del terzo
mondo?
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In conclusione, solo una discussione aperta e sincera potrà risolvere le divergenze
transatlantiche. Sono sicuro che ciascuno di noi continuerà a fare la propria parte
per risolvere i problemi e promuovere un’agenda transatlantica costruttiva.
E resto ottimista. È chiaro ormai che gli europei non si troveranno mai a scegliere
tra una vocazione europea e una transatlantica, perché queste marciano di pari
passo.
Un’Europa forte e integrata è ovviamente anche nell’interesse degli Stati Uniti.
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Ne sono così convinto che non mi sorprende affatto leggere nelle conclusioni di un
sondaggio, sia pure non recentissimo, che “la maggioranza degli americani vuole
che l’Unione europea diventi una superpotenza capace di condividere le
responsabilità globali con gli Stati Uniti” (Sondaggio sulle tendenze transatlantiche
del German Marshall Fund, settembre 2003).
Un’Europa più forte darà un contributo maggiore alle battaglie che portiamo avanti
insieme da 50 anni: contro il totalitarismo e per la democrazia, per lo Stato di diritto,
per l’economia di mercato e per nuove istituzioni internazionali.
La nostra collaborazione si fonda su valori comuni, sull’interdipendenza e
sull’interesse reciproco. La nostra collaborazione è indispensabile.
Su questa base dobbiamo affrontare insieme le grandi sfide che figurano, oggi, tra
le priorità dell’agenda internazionale.
Grazie
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