UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN DISCIPLINE ETNO-ANTROPOLOGICHE SEMINARE BUONE PRATICHE. ANALISI DI UNA FATTORIA SOCIALE IN IRPINIA, TRA AGRICOLTURA E DECRESCITA Tesi di laurea: Stefano Porrazzo Relatore: Chiar.mo prof. Luciano Li Causi Anno accademico 2011/2012 1 Indice Introduzione……………………………………………………………….. 3 1. Storia della Fattoria Sociale e Storia dell’Irpinia...................... .. 6 1.1. Irpinia: storia e agricoltura……………………………….... 6 1.2. Storia umana e politica alla base della Fattoria Sociale……………………………………….…..... 13 1.3. La nascita della Federazione Italiana Città Sociale………………………………………….…….. 16 2. 1.4. Sviluppo sostenibile e decrescita…………………….….…. 19 1.5. Politiche integrate………………………………….………. 27 1.6. La Fattoria Sociale e il Territorio………………….…….… 29 Buone pratiche. Tra assistenza e produttività…………………... 36 2.1. Caratterizzazione della Fattoria Sociale…………………... 36 2.2. La Fattoria Sociale Isca delle Donne…………………..….. 38 2.3. Un’impresa fondata sulla sostenibilità e sulla produttività………………………………………..... 41 2.4. L’agricoltura sociale…………………………………….… 43 2.5. Parco etologico e zoo-antropologia……………………….. 54 2 3. Analisi della Fattoria Sociale Isca delle Donne………………. 56 3.1. L’antropologia politica: definire politica e potere …………………………………………………. 56 3.2. L’antropologia anarchica e la rivoluzione……………… 61 3.3. James C. Scott. “Il dominio e l’arte della resistenza” ……………………………………..…. 64 3.4. Peter Lamborn Wilson. Agricoltura e resistenza……….. 68 3.5. Resistenza e politica nella Fattoria Sociale…………….. 71 Conclusioni……………………………………………………………. 76 Appendice Iconografica………………………………………………. 79 Materiale………………………………………………………………. 84 Bibliografia………………………………………………………….… 90 Sitografia……………………………………………………………… 92 3 Introduzione Spesso i periodi di crisi sociale ed economica rappresentano l’occasione per interessarci/avvicinarci a questioni prima ignorate o forse date semplicemente per scontate. La dimostrazione evidente di questa dinamica si vive in questi ultimi anni (2008-2012), attraversati trasversalmente da una fra le più grandi recessioni economiche e politiche dei Paesi occidentali. Un lessico “tipico” dei momenti di crisi ha iniziato a riempire i “contenitori” della comunicazione mediatica invadendo specularmente anche le “chiacchiere” dei cittadini. Parole come “crisi, declassamento, spread, crescita economica” non sono utilizzate soltanto sui teleschermi e dai giornali ma anche da larghe fasce della popolazione, consapevoli o meno del loro significato. Vocaboli e tecnicismi di cui era difficile (e forse ritenuto non necessario) conoscere il significato, entrano nel bagaglio linguistico e semantico non solo di politici, economisti e giornalisti, ma pervadono le coscienze e le conoscenze di molti cittadini. L’abitudine e forse anche la stanchezza per un uso-abuso di questi concetti in maniera statica e improduttiva da parte di politici, politicanti, cronisti e amici, unita alla conoscenza di nuove esperienze sociali, insoliti termini politici ed economici provenienti da terre a me familiari, hanno attirato la mia curiosità “giovanile” e stimolato un forte interesse; il tutto si è incrociato e “fuso” con i miei studi antropologici. Ascoltavo nozioni inusuali come qualità dello sviluppo, sostenibilità, innovazione, qualità del lavoro, inclusione sociale, zooantropologia. Approfondendo la mia conoscenza ho incontrato autori come Serge Latouche che teorizza ed individua la “decrescita” come una vera e propria cura delle patologie prodotte dallo sviluppo invasivo e distruttivo del nostro mondo. Ricordo di aver vissuto come un incentivo alla mia curiosità su queste tematiche il corso di Antropologia Politica A tenuto dal professore Umberto Pellecchia nell’anno accademico 2011/12. E’ stato un produttivo confronto/studio con il docente su argomenti politici e “contro-politici”, a motivare la mia curiosità e a portarmi ad approfondire la conoscenza della Fattoria Sociale. 4 Il docente mi ha offerto la possibilità, insieme ad altri studenti del corso, di preparare un elaborato su una associazione politica da frequentare e studiare per un sufficiente periodo, presentandogli i risultati della mia osservazione in sede d’esame. E’ così che ha inizio il mio lavoro di ricerca sulla Fattoria Sociale che, grazie all’esperienza sul territorio, ha l’obiettivo di far emergere il valore politico delle attività in essa avviate. La preparazione di uno sfondo antropologico, in questo caso identificabile con parte dei territori irpini della Campania, la conoscenza diretta degli operatori e dei loro ruoli nella gestione di questo piano di lavoro, l’esame delle “buone pratiche” agricole e sociali portate avanti, mi permettono di considerare questa Fattoria come una nuova “visione” dell’associazionismo. La Fattoria Sociale Isca delle Donne di Avellino e quindi la F.I.C.S. (Federazione Internazionale Città Sociale), che ha sede a Napoli e gestisce nel territorio campano molte cooperative tra cui proprio la Fattoria, tratteggiano e percorrono nelle loro pratiche l’idea di un nuovo modello di cittadino, di stato e di bisogni. E’ innovativo oggi parlare in Italia di Agricoltura Sociale, di nuove tecniche d’inclusione, di qualità delle relazioni e della vita. Il loro lavoro è focalizzato su questo, riguadagnare “potere” con la partecipazione e con le “buone pratiche” sul territorio, senza contrapporsi allo Stato. L’iniziativa è partita dal territorio campano, dove indubbiamente ha proposto innovazione individuando nuove prospettive e coinvolgendo/collaborando sempre con i “piani” regionali e nazionali. Una collaborazione, che si può esprimere anche come compensazione di “distrazioni politiche”. Mentre “fuori” continuavano a imperversare linguaggi tecnici e in televisione era possibile vedere soltanto diagrammi economici di crescita e sviluppo, sono andato, grazie alla conoscenza della Fattoria, al di là degli slogan che dominano la comunicazione, ottenendo il significato concreto di alcune parole come sviluppo, crescita e consumo. Di grande importanza è stato il rapporto maieutico che ho stretto con Salvatore Esposito, presidente della FICS e Direttore generale della Fattoria Sociale. Si è reso molto disponibile nel guidarmi alla scoperta di nuove prospettive nel mondo del sociale interessandosi alla mia ricerca sul campo, iniziata nel dicembre 2011. Un reciproco coinvolgimento quindi, perché lui è ben consapevole che un’osservazione di questo genere può essere utile ad alimentare la diffusione di buone pratiche. 5 La sua intervista mi ha permesso inoltre di cogliere gli aspetti essenziali del progetto, aiutandomi a ricostruirne il valore politico e sociale. Di grande aiuto per inquadrare l’Irpinia, cioè il contesto storico, sociale ed economico nel quale si inserisce la Fattoria Sociale, è stato l’incontro con lo scrittore irpino Franco Arminio. La sua interpretazione dei luoghi e degli avvenimenti, mi ha permesso una visione non superficiale e distante dei luoghi, consentendomi di “sentire” nel profondo la storia e le tradizioni irpine. Con l’aiuto e il soccorso (per eventuali sbandamenti metodologici) del docente ho proseguito la mia ricerca attraverso un continuo confronto con l’opera “Cultura e Poteri” di Stefano Boni, “Frammenti di un’antropologia anarchica” di Graeber e “Il dominio e l’arte della resistenza” di James C. Scott, accompagnando la mia analisi con alcune riflessioni di Peter Lamborn Wilson. Ho quindi cercato di cogliere, dopo un attenta analisi complessiva dell’orizzonte teorico proposto, dei metodi di lavoro, e dei risultati ottenuti, la Fattoria Sociale in quanto organizzazione strutturata che mira ad interventi con valenza politica e sociale. 6 Primo Capitolo Storia della Fattoria Sociale e Storia dell’Irpinia «L’idea è stata quella di collegare l’economia no-profit del mezzogiorno con un’attività produttiva che si poteva realizzare con l’agricoltura sociale. Nasce così una cosa che abbiamo chiamato Fattoria Sociale»1. Ricostruire la storia della Fattoria Sociale Isca delle Donne implica un’attenta analisi in primo luogo dell’area regionale in cui s’instaura, propedeutica alla comprensione dei legami e delle continuità che la Fattoria Sociale conserva con il territorio; inoltre necessita un’adeguata ricostruzione del background umano, lavorativo, sociale e politico che è alla base di questo singolare e innovativo progetto. 1.1 L’Irpinia: storia e agricoltura. Ripercorrendo la storia della regione Campania complessivamente, emerge la natura eterogenea di questa realtà, che ha sempre dovuto fare i conti con delle endemiche difformità. A queste discordanze intrinseche al territorio si sommano appunto numerose e differenti radici storiche. Napoli non riesce mai ad essere una metropoli regionale dando forma ad un territorio omogeneo; «oltre il 1860, resta o aspira ad essere un centro sovra-regionale, sebbene in progressiva crisi»2: fondamentalmente la regione è considerata «povera di radici unitarie»3. Per quanto riguarda l’esperienza dell’agricoltura in Campania, è «spezzata anch’essa fra il paesaggio monoculturale e demograficamente debole delle fasce interne 1 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista Paolo Macry e Pasquale Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania. Giulio Einauidi Editore, Torino, 1990 pp. XIX 3 Op. cit. 2 7 e la ricca produzione dell’area costiera e vesuviana»4. Ciò testimonia le difficoltà e i limiti di crescita del centro della regione; la complessità, nonostante la forte stabilità di società rurali, è amplificata dalle asperità del territorio montuoso. Questo esempio è rivelatore dell’eterogeneità strutturale della Campania, dove si distingue una zona costiera, denominata “Campania felix” (la prosperosa Campania) dai Romani per la fertilità, coincidente precisamente con il territorio del comune di Capua e quello limitrofo, e la zona dell’entroterra, molto meno produttiva e decisamente più arretrata5. L’Irpinia (Fig. 1), corrispondente all’area appenninica interna e costituita da montagne e colline tra nord-ovest e sud-est della regione, era storicamente abitata dai Sanniti e dai Lucani. E’ stata attraversata da molti popoli, Etruschi, Greci, Romani, Goti, Longobardi, arricchendosi di un patrimonio di arte e cultura vastissimo. L’etimologia della denominazione Irpinia risale al termine “Hirpus”, cioè il lupo nella lingua parlata dalla stirpe degli Osci, antica popolazione insediata su queste terre intorno al VI Secolo A. C.; è in questo periodo che il lupo diventa simbolo del territorio, originariamente proprio a causa della sua presenza massiccia tra questi monti. Con la conquista di queste terre, Longobardi e Normanni si sovrappongono ai presenti sostrati etnici dando una nuova conformazione alla regione: con i Longobardi si assiste alla nascita di numerosi borghi medievali, affermandosi così nel tempo il carattere policentrico della regione. Questa connotazione è destinata però ad attenuarsi con lo sviluppo “solitario” di Napoli, divenuta capitale del nuovo regno. Soltanto a cavallo tra il quinto e il sesto secolo A. C. si consolida l’unità etnica degli Irpini, prima minacciata dalla dispersione soprattutto nell’area sud orientale; si unirà alla Lega Sannitica per combattere i Romani invasori, ma poi, con il crollo dell’impero romano l’Irpinia sarà ancora attraversata da diversi invasori6. Il crescente polo d’attrazione napoletano prevaleva su tutti i più deboli richiami delle altre città, e questo predominio, costituito dal 1200 al 1400, si consolida poi nel 1500. La peste del 1656 portò una decimazione catastrofica della popolazione della regione che ritroverà vigore tra il 1600 e il 1700. Con l’avvento di Carlo di Borbone inizia un nuovo periodo di splendore, crescita e di grande sviluppo anche demografico; questa espansione formatasi nel corso di alcuni secoli e consolidatasi nel settecento è a mio parere un importante punto di partenza per 4 Ibidem, pp.XX Paolo Macry e Pasquale Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania. 6 ibidem 5 8 la considerazione delle successive linee di sviluppo. Emerge, come preliminarmente precisavo, il dato di una già accentuata differenzazione tra la zona costiera e collinare intorno a Napoli, e la zona montuosa dell’entroterra: «la profonda divaricazione, il contrasto tra la cosiddetta zona costiera e la zona interna della regione»7. Nella seconda metà del 700 si diffonde la coscienza delle differenze e cresce il desiderio di conoscere anche la realtà provinciale e il mondo delle campagne: Giuseppe Maria Galanti viene incaricato di visitare le provincie del regno. Egli descrive il territorio tra Napoli e Capua come «ancora la porzione più nobile e ferace di tutto il regno»8; il suo giudizio sulla zona interna descrive le numerose difficoltà: «le maremme piane della Campania sono quasi tutte sotto le acque, ed in conseguenza sono senza coltura e senza abitatori»9. Nelle pagine di Nicola Onorati, tra la fine del settecento e i primi anni dell’ottocento, troviamo una precisa distinzione di alcune zone agrarie del territorio campano: l’autore, definito scrittore di “cose rustiche” dopo aver descritto l’agricoltura praticata nelle zone di Capua, Salerno e Cilento, identifica un altro territorio corrispondente alla provincia di Avellino e alle altre provincie del regno, che sono rappresentate da una «agricoltura ancor barbara»10. I sistemi agrari della Campania furono condizionati dall’idrografia e, soprattutto, dall’orografia della regione; ci fu bisogno dell’opera dell’uomo e di una organizzazione sociale capaci di modellare nel profondo le varie zone per modificarne ed abolirne i contorni e per mutarne il contenuto. Certamente ha un importante valore per la comprensione della natura della regione, il giudizio di Giuseppe Galasso: «Attraverso tante alternanze di condizioni e di vicende appare una caratteristica peculiare della regione quella di aver mantenuto forte, per ininterrotta tradizione, il fondamento essenzialmente agrario della sua vita economica e civile, col quale si affaccia alla luce della storia, benché il mare sia tanta parte del suo paesaggio e delle sue vicende»11. 7 Pasquale Villani, L’eredità storica e la società rurale, cit. in P. Macry e P. Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania, pp. 9 8 Maria Galanti Nella cultura del settecento napoletano, Napoli, 1984, cit. in P. Villani, L’eredità storica e la società rurale, cit. pp. 12. 9 Op. cit. 10 Nicola Onorati, Delle cose rustiche, prima edizione Napoli 1791, cit. in P. Villani, L’eredità storica e la società rurale, cit. pp. 19 9 Con queste parole l’autore desidera chiarire preliminarmente che la fisionomia complessiva della regione non è caratterizzata dal mare; l’elemento peculiare e costante di queste terre, nonostante siano attraversate da differenze storiche e naturali, è la natura fondamentalmente agricola dell’economia. Anche la “regione” Irpinia, all’interno dell’eterogenea Campania, presenta al suo interno alcune differenze, su cui voglio concentrarmi dopo un breve esame complessivo del territorio. Nell’opera “Cinquant’anni di bonifica"12, l’intellettuale napoletano Manlio Rossi Doria, rappresenta l’Irpinia distinguendo le sue tipicità e caratteristiche. Riportando le parole della rivista “Nord e Sud” del giugno ’68, individua infatti nel complesso del territorio alcune aree ad economia montana, ed altre con agricoltura tradizionale. Inoltre considerava l’ampio gruppo di aree ad agricoltura intensiva diviso a sua volta in piccole aree di pianura a prevalente indirizzo ortofrutticolo (soprattutto nelle zone di Valle di Lauro, Valle Caudina e Piana di Montoro) e aree arborate con prevalente coltura del nocciuolo (zona Avellinese). L’alta Irpinia, denominazione attribuita alla parte più meridionale ed interna della provincia di Avellino, comprende nei suoi confini il comune di Pratola Serra: complessivamente l’area si estende su una superficie di oltre 175.000 ettari dei quali più di 135.000 rappresentano la superficie agraria utilizzata13. Il territorio è di carattere prevalentemente montuoso e collinare, tuttavia è provvista di terreni vallivi e pianeggianti coltivabili, corrispondenti a circa il 17% della superficie totale. E’ fornita di cospicue risorse idriche, utilizzate anche per sistemi idrici esterni come l’Acquedotto Pugliese e dell’Alto Calore. Sono presenti importanti infrastrutture sia principali che secondarie: la viabilità basilare e secondaria è sufficientemente sviluppata, inoltre è attraversata dall’autostrada Napoli-Bari e dalla Ferrovia Napoli-Avellino. Il distretto, così superficialmente descritto, si articola in sei “zone” distinte: l’Alta valle del Sele, l’Alta Valle d’Ofanto, l’Altopiano Irpino, Montagna del Terminio, Valle del Calore, Baronia; ciascuna di queste presenta specifiche caratteristiche14. 11 Giuseppe Galasso, Storicità della struttura regionale, Citato in Cesare Deseta e Alfredo Buccaro (a cura di) Iconografia delle Città in Campania. Le Provincie di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno, Napoli, Electa, Napoli, 2007 pp. 13 12 Manlio Rossi-Doria, Cinquant’anni di bonifica, Bari, Laterza, 1989 13 Università di Napoli: centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno. Progetto di studio operativo sull’emigrazione meridionale nelle zone di esodo. Parte seconda: risultati dell’indagine condotta nei comuni pilota dell’Alta Irpinia. Portici, giugno 1975. 14 ibidem 10 La Montagna del Terminio e l’Alta Valle del Sele sono zone a prevalente economia montana, con rispettivamente il 51% e il 43% della superficie complessiva occupata dal bosco, e soltanto 8,5% e il 19,5% occupata dal pascolo e dall’incolto. Dispongono entrambe comunque di una piccola area pianeggiante e insieme formano il grosso complesso montano del Terminio-Cervialto, attrezzato per un consistente sviluppo turistico15. L’Alta Valle dell’Ofanto, l’Altopiano Irpino e Baronia sono le più estese e popolate. Di conformazione collinare permettono, su circa l’80% del territorio, orientamenti agricolo-cerealicoli-zootecnici estensivi. Sono caratterizzati da molti insediamenti in campagna e dalla diffusione delle colture arboree, in particolare vite, olivo e fruttiferi su circa il 10% della superficie. Le macchie boscose coprono anch’esse un’area di circa il 10% della superficie complessiva ed è molto presente in questo territorio, in cui è situato Pratola Serra, la corilicoltura, cioè la coltivazione degli alberi di nocciuolo16. L’ultima zona, la Valle del Calore, anche se in parte montuosa, è caratterizzata da un’agricoltura promiscua o arborata che sulle terre più fertili raggiunge una certa intensità; poco territorio è destinato al pascolo e all’incolto17. Quest’esame del luogo è a mio parere molto importante, perché chiarisce importanti aspetti morfologici ed economici del territorio in cui nasce l’esperienza che analizzo. Emergono in questo modo l’assetto paesaggistico predominante, tipicamente montano, ed accanto ad esso l’utilizzo del territorio improntato sulla coltivazione della vite, del nocciuolo e dell’ulivo. Certamente è un territorio che ha conosciuto recenti momenti di depressione, caratterizzati dallo squilibrio economico e sociale. Ha subito infatti nella seconda metà del XX secolo il grave fenomeno dell’emigrazione, costituito soprattutto dalla partenza di giovani. Manlio Rossi-Doria considera proprio la bonifica e l’emigrazione, i due principali processi che hanno incentivato la trasformazione della società e dell’economia della Campania. Si calcola che nel ventennio tra 1951 e 1971, periodo di massima intensità del fenomeno, siano partite circa 110.000 unità. Lo scarso sviluppo del reddito agricolo e la mancanza effettiva di qualsiasi altra sostanziale fonte di reddito ed occupazione sono le cause determinanti individuate da Manlio Rossi-Doria per spiegare l’emigrazione da queste aree. Lo scrittore afferma che soltanto un’azione di radicale riorganizzazione dell’agricoltura, per accrescere la produzione e per rendere 15 ibidem ibidem 17 ibidem 16 11 maggiori le dimensioni aziendali e migliorare la struttura delle campagne, può portare ad una più efficiente pianificazione dei mercati e consentire l’arresto della degradazione di questa provincia favorendone la ripresa. Manlio Rossi Doria riprende una tematica a mio parere centrale per il rilancio della regione, valida ancora oggi, cioè l’immediata e tempestiva valorizzazione delle risorse del territorio, finora lasciate praticamente inerti. Sostiene che sia necessario, preliminarmente, un sistematico completamento di tutte le infrastrutture mancanti sia per aumentare l’ efficienza della produzione agricola sia per migliorare la condizione di vita della popolazione agricola e individua, poi, tra le azioni importanti da svolgere sul territorio, la ricostituzione viticola specializzata e l’incremento della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti tipici, favorendo un’attenta conservazioni delle loro caratteristiche tradizionali. Manlio RossiDoria incentiva inoltre un rinnovamento e potenziamento del patrimonio zootecnico, pilastro essenziale dell’economia della zona. Considero questi aspetti molto interessanti perché coincidono con molte linee progettuali della Fattoria Sociale. Un avvenimento tristemente di rilievo nella storia prossima dell’Irpinia è stato il terremoto che il 23 novembre 1980 scosse la Campania centrale e la Basilicata centrosettentrionale. Caratterizzato da una forte scossa di magnitudo 6,5 sulla scala Richter, con epicentro nei territori della provincia di Avellino, la scossa causò 280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti. Lungo la fascia epicentrale furono danneggiati, e alcuni completamente distrutti, circa centotre comuni avellinesi, sessantasei di Salerno e quarantacinque potentini. Moltissimi i danni causati dalla scossa; danneggiamenti e rovine colpirono le città di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli, Salerno e Potenza. Inoltre furono molti i comuni interessati e interi nuclei urbani risultarono addirittura cancellati.18 Un elemento che aggravò gli effetti della scossa fu l’estremo ritardo dei soccorsi, causato dalla difficoltà di raggiungere con i pesanti mezzi di soccorso la zona montuosa dell’entroterra. Il ventisette novembre di quell’anno, in un’edizione straordinaria del Tg2, Sandro Pertini denunciava proprio il ritardo e l’inadempienza dei soccorsi: 18 http://terremotoirpinia.ilcannocchiale.it/ 12 «Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si 19 levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi» . Gli errori continuarono anche nella fase di ricostruzione, uno dei peggiori esempi di speculazione sulla tragedia; le inchieste e le sentenze della magistratura testimoniano i loschi interessi e lo spreco dei fondi per la ricostruzione. In Irpinia la ricostruzione venne imperniata sul rilancio industriale e, nonostante il territorio non presentasse le caratteristiche opportune, la pioggia di contributi fu una tentazione irrefrenabile per molti imprenditori. Queste terre divennero centro di speculazione edilizia, riciclaggio di soldi e di forzature dell’equilibrio ambientale preesistente. Lo scrittore Franco Arminio durante l’intervista mi racconta come lui, da abitante di queste terre, ha vissuto questo infelice episodio: «Il terremoto è chiaro che ha segnato una specie di spartiacque, come un prima e dopo Cristo»20. Agli endemici problemi caratterizzanti della realtà meridionale italiana, si aggiungono quindi le conseguenze post-terremoto. Effetto immediato di questo avvenimento, «sempre comunque una disgrazia»21, è stato: «la nascita di una serie di speranze nella popolazione che si potesse cambiare marcia portando l’industria in montagna. (…) L’idea che i paesi si sarebbero ingranditi, che l’emigrazione si sarebbe interrotta, che si sarebbe un po’ cambiato il segno della storia. (…) C’era disillusione nel territorio che andava ad aggiungersi agli elementi di crisi di tutto l’Appennino e nel territorio meridionale in particolare. (…) E’ come se questi posti avessero tutti i mali dell’occidente senza avere raggiunto i benefici dell’occidente. Per cui noi abbiamo la solitudine tipica dell’occidente, l’alienazione…Ma non abbiamo i servizi sanitari tipici delle realtà più avanzate dell’occidente. Ecco un po’ questa mi sembra la contraddizione»22. L’altalena tra illusioni e delusione è stata favorita senz’altro dalle molte promesse politiche e oggi l’Irpinia paga anche questo: lo sviluppo non c’è stato, e la crescita portata dallo sviluppo si è concretizzata nella realizzazione di paesi di “manica larga”23, 19 http://www.youtube.com/watch?v=o1WChq0gQcA Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista 21 ibidem 22 ibidem 23 ibidem 20 13 quelli dove puoi trovare più case che abitanti effettivi, dove l’ingrandimento ha causato elevata dispersione urbanistica e frammentazione. Franco Arminio ha vissuto in prima persona queste conseguenze: queste frenetiche trasformazioni, «cambia un po’ il metabolismo del luogo»24, creano quelle che lui definisce «desolazioni: cioè passare dal mondo contadino alla desolazione della modernità incivile»25. Un prezzo carissimo, soprattutto in termini relazionali in quanto muta il modo in cui le persone «usano il paese: è stata un po’ una beffa perché al cittadino è stata data la casa ed è stato tolto il paese»26. Politicamente sono di certo stati fatti degli errori è l’esplicito commento dell’intellettuale. L’idea quantitativa per cui ingrandendosi il paese diventava città si è dimostrato un modello sbagliato, perché «in realtà il paese deve funzionare come un paese e la piccola città come una piccola città»27. Lo scrittore è convinto che però queste terre, prima tradizionalmente di retroguardia e duramente colpite dagli sversamenti della criminalità, adesso, se la storia cambia segno, «si trovano a diventare posti d’avanguardia in qualche modo»28. Ci sono stati certamente degli errori: «il valzer delle betoniere, la cementificazione, l’Irpinia resta una terra bellissima e conserva il prezioso capitale del paesaggio; la terra, proprio nel momento in cui tutto l’occidente è in crisi, torna ad essere l’elemento cruciale delle politiche di sviluppo»29. 1.2 Storia umana e politica alla base della Fattoria Sociale In varie occasioni ho sfruttato il tempo che mi ha concesso Salvatore Esposito, sempre disponibile ad essere testimone privilegiato nel mio studio. Ho così potuto ricostruire il suo percorso umano e lavorativo, e questo mi ha certamente aiutato a comprendere il significato e la portata del progetto sostenuto dalla Fattoria Sociale Isca Delle Donne. 24 Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista ibidem 26 ibidem 27 ibidem 28 Ibidem 25 14 Salvatore Esposito nasce a Napoli nel 1957. Negli anni ’70 studia psicologia all’Università di Roma. La psicologia dell’età evolutiva è il ramo degli studi che lo interessa maggiormente in quegli anni. Questo settore disciplinare studia il processo di sviluppo e organizzazione psicologica dei bambini nell’arco della loro crescita. Si presta particolare attenzione ai processi cognitivi e maturativi, nel periodo di tempo che intercorre dalla nascita fino all’età della piena maturazione sessuale e la piena integrazione nell’ambiente sociale. Consegue la laurea con una tesi sulla Psicologia clinica e studia per essere abilitato come psicoterapeuta, psicologo esperto nel trattamento sanitario di pazienti colpiti da psicopatologie. In questi anni il suo lavoro lo conduce ad occuparsi principalmente di bambini affetti da disabilità. A mio parere è evidente quanto proprio in questo periodo maturi una certa attenzione e sensibilità per alcune problematiche. L’impegno nel suo lavoro e su certi temi sociali, ritengo segnino una continuità con il progetto e la mission della Fattoria. Nell’ ’80 decide per una maggiore responsabilità del suo lavoro, di occuparsi dell’organizzazione dei servizi sociali territoriali, ripetendomi diverse volte quanto fossero confusi in quegli anni. Si affronta per la prima volta il problema dei diritti universalistici e si emanano le prime leggi quadro sui Servizi Sociali. Nel 1978 ricordiamo che fu approvata la legge 180, legge quadro detta anche legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentali pubblici30. L’attenzione di Salvatore Esposito durante l’intervista è indirizzata sempre sulla difesa e sulla promozione dei diritti sociali dei cittadini, in quegli anni poco garantiti. Investe infatti molto nella ricerca in prima persona e per incentivare i percorsi di recupero inventa nei primi dell’ ’80 i “Centri Socio Educativi Regionali della Campania”31. Sono strutture a carattere semiresidenziale articolati in spazi polivalenti qualificati da una pluralità di servizi e attività. Lo scopo dei centri è di ridurre i fenomeni di emarginazione favorendo il sostegno individuale della persona disabile. È un tentativo di affermare il principio di “normalizzazione” e valorizzazione dei diversamente abili, sostenendo il loro ruolo sociale, la partecipazione attiva ed il senso di appartenenza al territorio. Anni chiave nel percorso che lo porterà a ragionare e praticare per la Fattoria Sociale sono il 2006/07, quando svolge il ruolo di Coordinatore 29 Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista http://www.legge180.it 31 http://www.pianosociales4.it/ViewCategory.aspx?catid=e18a4e22093c46d5be66d4f7c30b0387 30 15 delle politiche sociali della regione Campania. Nella posizione di Direttore Generale aveva un compito di programmazione strategica, e infatti promuove alcuni progetti a suo parere molto importanti. Tra questi ricorda anzitutto la Legge Regionale sulle politiche sociali; la Legge 11 del 2006, che recepiva la 328, porta la sua firma. L’importanza innovativa della legge 328, detta “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”32, è segnare il passaggio dalla concezione di utente, quale portatore di un bisogno specialistico, a quella di persona considerata nella sua totalità complessiva. Quindi il soggetto è costituito anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale, passando ad un servizio di protezione sociale attiva, per rimuovere il disagio e favorire il reinserimento sociale della persona incrementando percorsi accompagnati ed interventi articolati svolti da una pluralità di attori tra cui quelli del terzo settore. L’affermazione di un’idea sistematica dei servizi sociali sul territorio è la preoccupazione maggiore di Salvatore Esposito: «Ancora una volta affronto l’esigenza dei bisogni sociali come una risposta organica, di sistema»33. La Legge regionale 11 è il primo tentativo di organizzare sistematicamente una rete di servizi sociali territoriali. Contemporaneamente a questo progetto si confronta con un altro problema, durante l’intervista definito “tipico” della cultura del mezzogiorno. Il riferimento è al cattivo utilizzo, allo spreco di soldi sul territorio. I fondi trasferiti agli enti locali per i servizi sociali erano sprecati perché «la tradizione della classe politica del mezzogiorno era una tradizione tipica d’invadenza rispetto alle competenze dei servizi»34. Un forte peso clientelare grava sulla gestione dei servizi, che considera in continuità con la “tradizione clientelare assistenzialistica”35. Quindi in risposta al problema, promuove l’idea che i progetti socio-sanitari formativi siano individualizzati, favorendo ed incentivando così l’idea che le risorse dovevano essere legate alla reale presa in carico delle persone: «Tanti soldi ti porto quanti disabili prendi in carico»36. Si prevede un perfetto allineamento delle risorse con i bisogni dei singoli; si delineano così le condizioni per cui il comune, associazione, Ente locale pubblico e privato garantisca una presa in carico complessiva dei bisogni del paziente in cura. L’orizzonte di senso della ricerca e del lavoro proposto nasce da una preoccupazione definita “prioritaria” 32 http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00328l.htm Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 34 ibidem 35 ibidem 36 ibidem 33 16 dall’intervistato: l’aiuto ed il soccorso ai nuclei familiari di ogni fascia sociale, perché non siano abbandonate le famiglie a sostenere da sole il peso che impone una disabilità grave. Nella necessità umana e professionale di creare una rete strutturale di servizi integrati per il sostegno e l’aiuto delle fasce deboli della popolazione, si possono a mio parere desumere chiaramente molti aspetti che sono oggi propri del progetto della Fattoria: mi riferisco alle strategie inclusive e partecipative promosse dalla Fattoria Sociale, in quanto sistema integrato d’intervento. Un solo esempio, il parco etologico: il parco è inclusivo perché da opportunità lavorative a persone che altrimenti sarebbero escluse dal mercato del lavoro; il parco “alleggerisce il carico” dello Stato perché risparmia in termini di assistenza verso il mondo della disabilità; i diversamente abili impegnati trovano nelle attività oltre ad un impegno produttivo, anche un mondo di relazioni ed affettività dal quale altrimenti sarebbero esclusi (questa attività, a valenza sociosanitaria, di solito è svolta all’interno di interventi medicalizzati a carico dello Stato). Proprio per questo motivo ho deciso di dedicare spazio a raccontare alcuni momenti da me considerati rilevanti per la comprensione. Approfondirò la tematica riguardo le tecniche di lavoro, le attività e le progettualità della Fattoria Sociale nel capitolo successivo, dedicato in parte proprio alle “buone pratiche” 37 d’inclusione sociale ed ai diritti delle fasce deboli della cittadinanza. 1.3 La nascita della Federazione Internazionale Città Sociale E’in questi anni che il progetto della Fattoria è sempre più attuale, perché Salvatore Esposito ed altri operatori del terzo settore riflettono a proposito di come riuscire a «legare i diritti sociali alla questione ambientale»38. Il 2006 è un anno decisivo per l’implementazione del progetto della Fattoria: nasce a Napoli la F.I.C.S (Federazione Internazionale Città Sociale), rete di Enti no-profit 37 Per “buone pratiche” si intende tutte quelle attività svolte dalla federazione verso il sociale. Sono buone pratiche se riescono a garantire oltre che l'assistenza e la cultura anche entrate economiche, riuscendo a sostenersi autonomamente. 38 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 17 (Onlus ,Cooperative e Imprese Sociali) della Campania, coesi da una tradizione scientifica e culturale laica, e promotori degli ideali di giustizia, legalità e libertà intese come buone pratiche territoriali e di cittadinanza39. Salvatore Esposito è il presidente nazionale dell’impresa, che conta ben più di 120 cittadini operatori, ancor più di mille utenti e circa quaranta unità operative complesse solo in Campania. Anche la Fattoria Sociale Isca delle Donne, rientra in questa rete ed elabora e pratica molte considerazioni della Federazione. La prima associazione Onlus della rete nasce negli anni ’80 a Somma Vesuviana (Na), quando padre Ernesto Santucci40 converte una fabbrica di cartucce in una comunità per tossicodipendenti. S’incrementa l’impegno di un gruppo di operatori i cui servizi di accoglienza e consulenza ora si estendono in generale a tutto il mondo dell’esclusione sociale. Negli anni ’90 questo volontariato laico ed anticipatore diventa una larga rete di servizi integrati. S’incentiva un costante impegno auto formativo ed una forte apertura per la ricerca teorica, in quanto le buone pratiche si nutrono proprio di approfondimento giuridico e filosofico, di una profonda riflessione epistemologica e di un permanente confronto con esperienze sociali e culturali europee. Salvatore Esposito spiega così l’attività svolta con l’associazione: «La F.I.C.S. sta promuovendo una riflessione sul rapporto fra buone pratiche sociali e crisi del modello di sviluppo»41. La F.I.C.S. segue l’attività di ogni singola cooperativa investendo molto, come testimonia Salvatore Esposito, «in termini di supervisione, di ricerca e di formazione»42. La novità consiste nel continuo esame di modelli organizzativi, indagati in una riflessione scientifica e culturale. Ha valorizzato diversi approcci, il presidente nel parlarmene inizia proprio da quello etologico ed ecologico. Certamente, è attento a precisare, questo non è l’unico percorso innovativo della F.I.C.S., ma negli ultimi anni si sono aperte molte linee di ricerca. Ne individua allora quattro principali, il cui nucleo centrale è sempre una considerazione profonda sui diritti, la loro esigibilità ed 39 http//:www.cittàsociale.eu Prete napoletano molto attivo in iniziative di solidarietà. E’ tra i primi missionari a giungere in Albania alla fine della dittatura comunista ed è autore anche di articoli e libri come “Sullo stretto marciapiede della terra”. 41 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 42 ibidem 40 18 indivisibilità. Molta importanza è attribuita alla condizione del lavoro operaio, considerata una delle evidenti contraddizioni del sistema industriale del Paese. Durante la mia partecipazione come osservatore alle riunioni della F.I.C.S., ho avuto occasione di conoscere Antonio DeLuca, operaio in cassa integrazione del direttivo Fiom di Napoli43, che portava nelle riunioni la voce densa di paura e orgoglio lavoratore degli operai dello stabilimento: «L’impressione è di essere in presenza di qualcosa di molto preoccupante per il nostro paese, che rischia di incidere direttamente non solo sulla qualità del lavoro in fabbrica, ma sulla società tutta. È il toyotismo che esce dalle mura alte e grigie dello stabilimento e diventa parte della vita quotidiana di tutti. A leggere le denunce degli operai sembra di essere di fronte a una struttura autoritaria aziendale che si organizza, come ai tempi di Valletta, secondo le leggi della discriminazione e secondo la disciplina e i principi della caserma»44. Un’altra linea di pensiero e di ricerca, che ho spesso visto ribadire e difendere soprattutto dalle donne vicine al progetto della Fattoria e della F.I.C.S, è il pensiero della differenza tra donna e uomo dentro i sistemi di lavoro capitalistici. Soprattutto nella riunione antecedente l’arrivo di Serge Latouche a Napoli, Adriana Maestro, filosofa napoletana e presidente dell’associazione Giancarlo Siani45, ha sostenuto l’importanza di riservare a questo tema ampio spazio nell’incontro con il pensatore francese. E’ importante ricordare a mio parere anche l’attenzione dedicata al terzo settore, che è la base in cui molti operatori della Fattoria si sono formati. Infine, specialmente nelle riunioni cui ho partecipato antecedenti i convegni di Serge Latouche, la discussione ruotava completamente intorno al pensiero di decrescita proposto dall’autore francese. Ognuna delle attività perseguite dalla F.I.C.S. rispetta sette parole d’ordine o principi, che possiamo considerare lo scheletro profondo della rete e dei suoi programmi. La difesa dei diritti delle donne e degli uomini, è il nucleo centrale del pensiero, cui deve associarsi l’etica di responsabilità verso i beni comuni. I diritti e l’etica sono propedeutici a mio parere alla comprensione del significato del lavoro, 43 http://www.fiom.cgil.it/ http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/15/pomigliano-dossier-fiom-accusa-discriminati-operai-iscrittisindacati/177433/ 45 Associazione culturale di Napoli, impegnata su iniziative per l’educazione alla legalità, finalizzate alla lotta contro la criminalità organizzata. http://www.giancarlosiani.it 44 19 inteso in quanto dignità del lavoratore e come forza creatrice di benessere e, emancipazione e libertà. Altra parola chiave è ambiente, inteso come ecosistema da salvaguardare e proteggere valorizzando le risorse rinnovabili e il capitale sociale46, animale e del territorio naturalmente presente. In più occasioni ho sentito ripetere il concetto di partecipazione, intesa come una personale consapevolezza ed una collettiva responsabilità politica di tutte le persone, e quindi di intere comunità, verso i beni comuni, la libertà e la democrazia. Di rilevante importanza antropologica e politica sono anche le ultime due parole, infatti tra le parole chiave c’è la differenza, interpretata nella sua dinamica di scambio produttivo, quindi differenza per imparare e conoscere l’altro e l’altra. Tutti questi concetti necessitano infine (e in partenza) della pace, scelta come vera e propria condizione irrinunciabile e indispensabile del confronto e del conflitto47. 1.4 Sviluppo sostenibile e decrescita Durante la mia ricerca ho constatato quanto molte dinamiche e parole prodotte nella Fattoria Sociale dagli operatori siano connesse con il lavoro di Serge Latouche. Scopro che tra la Fattoria Sociale e il pensatore francese esiste un reciproco rapporto entusiasta sia dal punto di vista teorico che personale. Gli operatori della Fattoria hanno avuto occasione di confrontarsi personalmente con lo studioso francese, e infatti conoscono molto bene la sua opera e il suo pensiero. Salvatore Esposito lo definisce «un rapporto di grande fecondità»48. Serge Latouche nasce in Francia nel 1940. Filosofo ed economista, è professore emerito all’università di Paris XI e all’Institut d’Etudes du devoloppement économique et social (IEDS). E’ considerato il principale promotore dell’idea della decrescita ed è tra gli 46 Con il termine “capitale sociale” sono intese le relazioni, le interazioni e i reticoli che si formano nella comunicazione e nello scambio tra soggetti appartenenti ad una determinata area, gruppo o comunità. L’appartenenza di un individuo ad una comunità presuppone la condivisione di norme, valori, obbligazioni, mutuamente riconosciute tra i partecipanti. Nelle aree rurali l’idea di capitale sociale è spesso legata alla presenza di reti di relazioni organizzate su basi di reciprocità tra famiglie e gruppi e su un’attitudine alla collaborazione e alla presa in carico dei problemi della località, spesso dettata dalle necessità. (Massimo Rete e Paolo Scarpino, Associazioni rete Fattorie Sociali) 47 http://www.cittàsociale.eu 48 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 20 oppositori più noti della globalizzazione occidentale del pianeta. Contrariamente sostiene la decrescita conviviale e il localismo. La prefazione all’opera “Il tempo della decrescita”, compendio del pensiero di Serge Latouche, è scritta dall’antropologo Italiano Marco Aime. In questo breve testo esamina analiticamente il concetto di sviluppo e crescita, «parole chiave legate a filo doppio da un legame apparentemente indissolubile»49. Fondamentalmente, osserva lo studioso, «l’idea di sviluppo dominante nella nostra cultura intende mostrare ciò che distingue le società moderne da quelle che le hanno precedute»50. In una prima definizione lo sviluppo è costituito da quelle insieme di pratiche che assicurano la riproduzione sociale, costringendo però a trasformare e distruggere l’ambiente naturale e i rapporti sociali, finalizzata alla produzione sfrenata di merci: «Letto in questi termini, lo sviluppo, come lo conosciamo noi, non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato»51. Secondo Aime però lo sviluppo non è solo questo, anzi esso costituisce il mito fondante della nostra società senza il quale tutto crollerebbe. Lo sviluppo è quindi l’elemento principale della moderna religione economista. «La credenza nello sviluppo è paragonabile, dunque, ai miti delle società non occidentali»52. L’idea di sviluppo/crescita è conforme a tutti gli effetti ad una religione, inscritta nell’immaginario collettivo occidentale, a cui si crede, e si deve credere per fede. Lo sviluppo, inteso come inevitabile progresso, attecchisce ad un’idea di evoluzione sociale ricavata da una forzata esegesi delle teorie darwiniane, circoscritte dallo scienziato naturalista al regno animale: «Il termine sviluppo come lo concepiamo noi appartiene al mondo della natura, è la metafora di un processo naturale, che noi applichiamo ai fenomeni sociali, facendo come se quel che è vero dell’uno dovesse esserlo necessariamente dell’altro»53. L’evoluzionismo sociale è stata così la chiave per giustificare sul piano politico schiavismo e colonizzazione. 49 Marco Aime, Prefazione, in Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, Eleutera, Milano, 2011 pp. 7 50 Ibidem, pp. 8 51 Op. cit. 52 Op. cit. 21 La contraddizione di questa comparazione, chiarisce Marco Aime, è che un organismo naturale nasce, cresce fino a raggiungere un apice e poi inizia naturalmente a declinare fino a terminare inevitabilmente la sua vita; quest’ultima parte viene dimenticata nella trasposizione della metafora natura società, e quindi «lo sviluppo, così come è concepito dai suoi sostenitori, non finisce mai»54. Secondo il pensatore non si tiene conto della storia, perché mentre la natura segue criteri regolari, naturalizzare la storia significa non tener conto di quegli eventi di natura umana come migrazioni, guerre e conquiste, che determinano cambiamenti di rotta nelle strategie delle società umane: «lo sviluppo non è un aspetto inevitabile della storia»55. In un esame del concetto di sviluppo nel corso della storia, Serge Latouche evidenzia quanto la nostra era costituisca un’eccezione storica per il particolare dinamismo della crescita, basandosi su modelli di crescita esponenziale. Lo sviluppo e la crescita sono quindi connessi in un binomio strutturale. Gli ecologisti hanno però sostenuto, contraddicendo così molti economisti, che è possibile ipotizzare uno sviluppo senza crescita. Nuove etichette collegate al concetto di sostenibilità, umanità e compatibilità, hanno continuato ad incentivare la crescita senza realmente considerare le capacità dell’ecosistema terra. Si tende a considerare lo «sviluppo durevole un invito a far durare la crescita e non la capacità dell’ecosistema terra a sostenerlo»56. Serge Latouche considera ipocrite queste aggettivazioni dello sviluppo, e invita considerare accanto ai possibili e numerosi vantaggi offerti dalla modernizzazione, anche ciò che è andato perduto. In una breve rassegna etnografica proposta da Marco Aime intorno al concetto di sviluppo, si registra che molte società non considerano la loro sopravvivenza legata all’accumulazione continua di beni e saperi, svincolandosi da principi fondamentalmente economici. La decrescita proposta da Serge Latouche quindi, mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo, che è argomento chiave per la critica al capitalismo e alla globalizzazione. Il pensatore, partendo da questa riflessione, «procede a una vera e propria “decostruzione” del pensiero economico»57. Una riflessione che riesamina le nozioni di crescita, povertà, bisogno, scambio. Viene rimesso in discussione il concetto di sviluppo 53 ibidem, pp. 10 Marco Aime, Prefazione, in Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, 2011 pp. 11 55 Op. cit. 56 ibidem pp. 13 57 http://www.decrescita.it 54 22 realizzando una “sovversione cognitiva”, condizione preliminare per un sovvertimento politico, sociale e culturale, indirizzato alla realizzazione di una società realmente alternativa a quella di mercato. La globalizzazione, considerata «il trionfo planetario del mercato»58, ci obbliga a concepire una società nella quale i valori economici non siano più unici. La vita dell’uomo deve riguadagnare lo spazio sottratto dall’economia e dalla folle ricerca di un consumo sempre maggiore. La realizzazione di questo progetto prevede due effetti immediati: scongiurare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla terra, ma soprattutto la possibilità di «fare uscire l’umanità dalla miseria psichica e morale»59. La necessità è la decolonizzazione del nostro immaginario e quindi di una diseconomicizzazione delle menti, indispensabile per cambiare il mondo prima che lo stesso mondo lo imponga traumaticamente. «Bisogna cominciare a vedere le cose in altro modo perché possano divenire altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici»60. Decolonizzare le nostre menti significa mettere al centro della vita umana significati diversi dalla produzione e dal consumo. E’ necessaria quindi l’emancipazione da quella impresa distruttiva e dissennata che costituisce l’ideologia dello sviluppo. Serge Latouche nell’introduzione del libro “Il tempo della decrescita” comincia con un’analisi precisamente sul tempo; una riflessione tragica, «(…) è troppo tardi»61, la dinamica degli effetti della devastazione dell’ecosistema sono inevitabili: «se riducessimo la nostra impronta ecologica fino a raggiungere un livello sostenibile, avremo due gradi in più prima della fine del secolo»62. In termini disillusi scrive che la catastrofe è arrivata, stiamo vivendo la sesta estinzione di massa della specie, contrassegnata dalla velocità del fenomeno: «le specie (vegetali e animali) scompaiono a una velocità tra le cinquanta e le duecento al giorno»63, un ritmo molto superiore rispetto quello delle ere geologiche passate. La nostra crescita, che ha significato la devastazione e la trasformazione degli ecosistemi ha provocato la scomparsa, secondo la FAO, di circa tre quarti delle diversità genetiche delle colture. Il sovrasviluppo e 58 http://www.decrescita.it ibidem 60 ibidem 61 Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, pp 21 62 Op. cit. 59 23 l’iperconsumo hanno dimostrato avere un costo largamente maggiore rispetto ai benefici: «Paradossalmente, è come se la prospettiva di un suicidio collettivo ci sembrasse meno insopportabile della rimessa in discussione delle nostre pratiche e del cambiamento dei nostri stili di vita»64. Lo sviluppo e la crescita, non possono essere infinite, questo è impossibile perché il pianeta è costituito da risorse finite, il pianeta in sé è un mondo finito. Alcuni studi prevedono il collasso della società della crescita in relazione a tre variabili: intorno al 2020, la prima crisi in seguito alla fine delle risorse non rinnovabili, seguita nel 2040 con la crisi prodotta dall’inquinamento, e infine nel 2070 dalla crisi alimentare. Serge Latouche sostiene quindi l’arrivo imminente se non tardivo del tempo della decrescita: «La società della frugalità per scelta, (..), avrà come presupposto quello di lavorare meno per vivere meglio, di consumare meno ma meglio, di produrre meno rifiuti, di riciclare di più»65. Questo significa ritrovare il senso della misura, che è il valore della frugalità, nei criteri di un’impronta ecologica sostenibile. Questo processo presuppone una seria decolonizzazione dei nostri immaginari, e per realizzare questa rottura è necessario capire come siamo arrivati a questo punto. Serge Latouche propone il programma delle 8 R per prevenire gli effetti negativi della crescita, e per attivare circoli virtuosi legati alla decrescita. La riduzione del saccheggio sfrenato della biosfera corrisponde ad un miglior modo di vivere, ma questo programma comporta otto obiettivi interdipendenti, le otto R, che possono condurre alla decrescita felice: occorre innanzitutto rivalutare, ripensare ai nostri valori fondamentali, passaggio a mio parere possibile solo ricontestualizzando, cioè modificando il contesto emozionale e concettuale della propria vita, così da mutarne il senso. L’autore poi prevede una ristrutturazione per adattare le strutture economiche, i modelli di consumo e i rapporti sociale alla decrescita. Invita a rifocalizzare, cioè a sostenere l’economia locale consumando essenzialmente prodotti locali, evitando così i costi legati ai trasporti e riguadagnando in termini di relazioni 63 64 Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, 2011 pp. 23 Ibidem, pp. 24 24 sociali e con il territorio. E’ necessario inoltre garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali, con una ridistribuzione della ricchezza. Ridurre l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare, per tornare ad un’impronta ecologica sostenibile del pianeta, quindi riutilizzare e riciclare per recuperare gli scarti superando l’ossessione a usare e gettare funzionale intrinsecamente alla società dei consumi66. La Fattoria Sociale ha assunto come riferimento pratico e teorico della sua attività, la teoria della decrescita di Serge Latouche, ritrattando così in parte la concezione di sviluppo sostenibile e modellandola sugli insegnamenti del pensatore francese. In generale quindi persegue e valorizza l’attenzione per un’impronta etologica ed ecologica sostenibile. A mio parere è molto interessante sottolineare la continuità e la corrispondenza dell’impianto teorico latoucheano con gli obiettivi e le pratiche per raggiungerli impiegati della Fattoria: la Fattoria propone di valorizzare la filiera corta nelle produzioni di comunità, come modo di affrontare la globalizzazione e le sovraproduzioni dannose, tramite un’agricoltura sostenibile. Questo è, a mio parere, in linea con il passaggio in cui Serge Latouche scrive: «la priorità va data ai circuiti brevi di distribuzione, alla rilocalizzazione delle attività produttive e soprattutto al ripristino di un’agricoltura contadina»67. La Fattoria tenta di promuovere un nuovo approccio alla terra, rispettando i bisogni di tutti gli abitanti del pianeta, determinando il passaggio radicale ma necessario dallo sfruttamento invasivo, depauperante e velenoso, ad un uso rispettoso della fertilità e delle risorse naturali. Anche questo credo possa essere letto con le parole di Serge Latouche, quando afferma: «La sostituzione di un’agricoltura industriale con una contadina, molto più ricca di posti di lavoro, orientata esclusivamente verso i mercati di prossimità, può diventare il nuovo modello capace di ispirare i produttori del Nord come quelli del Sud»68. Infine l’impegno della Fattoria, a promuovere tramite il Parco Etologico, attività di tutela e protezione degli animali con un approccio etologico di difesa della biodiversità nell’ecosistema locale, e rispettoso del rapporto uomo-animale. Questo messaggio è rintracciabile nelle parole di Serge Latouche quando scrive: «L’alternativa che cerco di offrire sarebbe la bioregione, 65 Ibidem, pp. 26 http://www.terraemadre.com/2010/08/8-r-per-la-decrescita-secondo-serge-latouche/ 67 Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, pp. 74 68 Ibidem, pp. 77 66 25 ovvero una regione naturale in cui i greggi, le piante, gli animali, le acque e gli uomini formino un insieme unico e armonioso»69. La Fattoria Sociale riconosce sicuramente il debito teorico al pensatore francese, da cui, come ho voluto chiarire, riprendono principi e obiettivi della loro esperienza. All’impronta ecologica ed etologica sostenibile, legano un’impronta sociale sostenibile. Sperimentano un modello innovativo che coniuga agricoltura sociale (multifunzionalità e sostenibilità dell’approccio), con il Welfare di comunità, cioè una strategia territoriale integrata dei servizi sociali, sanitari e formativi, su un distretto territorialmente governabile, per raggiungere un’esclusione uguale a zero. Obiettivo è anche la produzione di Economia Civile70, vale a dire una missione sociale dotata di un’alta qualità produttiva al servizio dei territori e delle popolazioni. La Fattoria Sociale dunque promuove “dal basso” la diffusione di stili di vita in linea con la decrescita, e perciò contro lo spreco. A mio parere assume un grande valore simbolico la coltivazione di piante grasse nella Fattoria perché, come mi risponde Adriana Maestro 71 sul perché di questa scelta, la pianta grassa ha l’intrinseca capacità di “lavorare quotidianamente” a tutela della risorsa naturale-acqua (vedi fig. 2). Gli operatori della Fattoria Sociale considerano Serge Latouche un maestro, un grande personaggio anche dal punto di vista umano e dello stile di vita. Serge Latouche è stato ospite della F.I.C.S. dal 16 al 21 gennaio 2012. La rete infatti ha voluto invitare il teorico della decrescita a Napoli per poter promuovere un confronto ed una riflessione sui temi della crisi dello sviluppo e sulla connessione scientifica, culturale e pratica fra ecologia sostenibile, equità sociale e partecipazione. il concetto di decrescita quindi si contrappone a quello dello sviluppo distruttivo fondato sul PIL72. Il ruolo chiave che il pensatore francese assume all’interno del percorso pratico e teorico per Salvatore Esposito e per la F.I.C.S, obbliga un ripensamento ed una ridefinizione degli obiettivi di base. 69 Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano. 2007, pp. 177-178. Economia civile significa ridare al nostro sistema capitalistico, la sana capacità sociale di redistribuzione degli utili. L'utile della tua impresa deve avere una redistribuzione che non è solo finalizzata al profitto. 71 Vedi pp. 11 72 http://www.cittasociale.eu-latouche-a- napoli 70 26 Non si può credere più, dopo questa critica estrema, neanche «all’impostura dello sviluppo sostenibile»73, proprio per il paradosso che secondo Serge Latouche è veicolato dall’accostamento di queste due parole. Il problema dello sviluppo sostenibile non è tanto nella parola sostenibile quanto nella tossicità della parola sviluppo intesa con le connotazioni individuate dal pensatore francese. Il significato storico e pratico della parola sviluppo, intrinsecamente unito al programma della modernità, è estremamente contrario al concetto di sostenibilità. Sviluppo indica lo sfruttamento, la ricerca continua del profitto dalle risorse naturali e umane, proprio ciò che secondo il pensatore domina il pianeta da almeno due secoli. L’aggiunta dell’aggettivo sostenibile accanto al concetto di sviluppo, evidentemente non rimette veramente in discussioni i paradigmi fondamentali dello sviluppo; al massimo lo scopo è di edulcorare la definizione con una parzialmente fittizia componente etologica. Serge Latouche ha certamente il merito di segnalare questi dubbi, svalutando l’approssimativo accostamento delle nozioni di sostenibilità e sviluppo. Non ha più valore credere nell’ossimoro, nella chimera dello sviluppo sostenibile. Nella mia ricerca ho infatti potuto osservare la “dinamica di rottura” segnata da momenti di dibattito importanti tra diversi operatori, il cui cardine era il concetto di decrescita contrapposto a quello di sviluppo. La decrescita come medicina, unica medicina per un corpo sociale, economico e per una struttura politica affetti da uno stato avanzato di malattia, patologia dello stato declinante del capitalismo. Nel corso della riunione organizzativa per l’incontro con Serge Latouche, ricordo l’emozione e la consapevolezza nelle parole di tutti i partecipanti. Fu affrontato il tema dello sviluppo e dell’intrinseca distruzione/devastazione ad esso associata, e le risultanze della riunione, condivise da tutti i presenti, erano amare e pessimistiche. Infatti il senso dell’incontro era incentrato sul futuro che ci attende, cioè sulla fine delle risorse non rinnovabili e sul disastro ambientale connesso. A mio parere si potrebbe riassumere il senso della discussione con una frase espressa durante l’incontro: «siamo un’umanità di cannibali, stiamo mangiando i nostri figli»74; fu il concetto espresso nella riunione e condiviso da tutti i membri dell’incontro. Non bisogna secondo me interpretare erroneamente l’avvicinamento al pensiero della decrescita, come un totale abbandono delle 73 http://www.decrescita.it 27 prospettive di sviluppo, ma intendere quest’ultimo in una dimensione di significato diverso. Serge Latouche ha senza dubbio insegnato molto sul progresso, e quindi segnato il principio fondamentale alla base dell’azione della Fattoria. Molto importante è stata la capacità di ripensare anch’essa lo sviluppo sostenibile, in una chiave latouchana, e quindi correggere le eventuali derive di questa strategia. La parola chiave accanto a sviluppo non è più soltanto sostenibile, ma i concetti di qualità, di etologia ed ecologia sono diventati allo stesso modo centrali. Nel corso della mia ricerca ho sperimentato il valore umile e dinamico di quest’associazione, capace di rimettere in discussione i propri paradigmi e ricominciare la ricerca e lo studio di altre opportunità. Nell’intervista infatti Salvatore Esposito riconosce di aver imparato da Serge Latouche ad avere un approccio più radicale, più riformista ma «più attento agli inganni delle trasformazioni capitalistiche»75. L’approccio sostenibile si dimostra allora incompatibile con le oggettive distruzioni del pianeta, e ora pretendono da loro stessi e dai governi che ci siano vere politiche di rispetto della natura e dell’ambiente. Dunque la F.I.C.S., presieduta da Salvatore Esposito, è descritta e tratteggiata come un vero laboratorio di nuove vie di ricerca, di nuovi stimoli, che prova però a trasformare il suo impegno in pratiche economiche, culturali, educative e formative: «E’ come inventare un prodotto nuovo, è come inventare una strategia produttiva nuova»76. 1.5 Politiche integrate Su questo background ideologico e culturale si sedimenta sempre più l’idea di reagire all’insufficienza infrastrutturale delle politiche sociali. Salvatore Esposito coglie il limite delle politiche sociali, e afferma: «Sono sempre state considerate politiche deboli per i deboli, politiche marginali»77. Nonostante riconosca l’esistenza di alcune sperimentazioni considerevoli e la forza innovativa della legge quadro 328, critica il sistema di politiche sociali che nel nostro paese è assolutamente marginale, spiegando 74 Riunione F.I.C.S., Gennaio 2011, Pollica (SA) Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 76 ibidem 75 28 che «non siamo riusciti a passare dalle politiche familistiche a una dimensione universalistica»78. Ciò che il presidente della F.I.C.S. contesta è l’incapacità di «muovere da un Welfare poggiato solo sulla posizione familiare a un Welfare associato alle politiche sociali»79. Afferma che questa incapacità pesa di più sul mezzogiorno dell’Italia, riconoscendo che nell’Italia centro-settentrionale esiste comunque una rete di servizi socio-sanitari che copre i bisogni delle persone, e sicuramente c’è un investimento maggiore sui servizi sociali da parte degli Enti locali. «Le quote capitarie dedicate ai servizi sociali nel mezzogiorno sono assolutamente inutili»80, è la condanna di Salvatore Esposito durante l’intervista, e la stessa regione Campania non ha finanziato la legge regionale sulle politiche sociali. Per quota capitaria s’intende il finanziamento necessario per assicurare la copertura economica relativa agli specifici livelli di assistenza sociale e sociosanitaria. La pervasiva inadeguatezza dei servizi sociali sul territorio campano, derivano secondo Salvatore Esposito, «da una cultura istituzionale che non dà priorità a questi diritti»81, cui aggiunge un punto che abbiamo già affrontato, cioè l’incapacità di programmazione strategica sul piano sociale. Sostiene che ciò che non è stato fatto è proprio una programmazione strategica integrata sul territorio che veda agricoltura, turismo, artigianato e formazione connesse tra loro. E’ stata fatta una «politica separata»82. Lo psicologo è convinto che nel tempo si sono perseguite troppo spesso logiche di potere clientelare e di appartenenze ed è questo che ha inquinato nel tempo la politica su questo territorio. Nella sua esperienza lavorativa si è dovuto confrontare spesso con l’insufficienza dei finanziamenti regionali per le politiche sociali: ciò ha significato non finanziare i diritti fondamentali dei cittadini. Fa notare come è mancata una reazione adeguata anche dalle forze sindacali perché, a suo parere, «nel Mezzogiorno del nostro Paese la cultura dei diritti sociali non c’è, è molto carente o considerata marginale»83. Con il suo lavoro, e insieme a lui gli altri operatori e lavoratori della Fattoria Sociale, vuole cambiare proprio quest’idea. 77 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista ibidem 79 ibidem 80 ibidem 81 ibidem 82 ibidem 83 ibidem 78 29 L’obiettivo dunque, come sostengono diversi operatori con cui ho parlato, è trasformare le politiche sociali in politiche forti, superando «questa debolezza culturale»84. 1.6 La Fattoria Sociale e il territorio «Il punto era trasformare il quadro legislativo in un’esperienza reale sul territorio»85. Salvatore Esposito spiega ed esemplifica la sua idea basilare di Fattoria Sociale scomponendone il nome, e analizzando i due distinti frammenti concettuali da cui è composto. Quindi Fattoria indica il suo essere un’attività agricola, estesa su un aria territoriale piccola media; alla multifunzionalità dell’agricoltura si connettono i prodotti agricoli e la zootecnia, e ancora attività di microcultura e di filiera corta. Certamente è un’attività produttiva, ma si propone anche una mission culturale e sociale. Quindi l’inclusione delle fasce deboli della popolazione tramite agricoltura sociale, ma anche programmi di ricerca e formazione sui temi riguardanti ambiente e società. L’intero progetto si emancipa dalla consueta logica economica di guadagno profit, servendosi di strategie no-profit. Al centro dell’azione politica senza dubbio la conservazione dell’equilibrio etologico ed ecologico, soprattutto in un territorio come quello campano distrutto dagli sversamenti della camorra, dalla mancanza di difesa del territorio da un punto di vista urbanistico, dalla mancanza di un piano regolatore e infine da un’insufficienza di valorizzazione delle risorse della terra. Una buona consapevolezza della consistenza di queste problematiche nel territorio è importante per cogliere il valore che conserva il “luogo regionale” per la Fattoria. Al registro delle Fattorie Sociali della Regione Campania risulta iscritta, con il nr. 18FS01, la società operativa Gea Irpina Impresa Sociale Onlus, soggetto gestore sul piano giuridico e operativo della Fattoria Sociale “Isca delle Donne”, ubicata nel comune di Pratola Serra (AV); aderente al circuito della Federazione Internazionale Città Sociale e ai relativi principi etici, scientifici, produttivi e di legalità che guidano 84 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 30 l’intera rete territoriale di attività e servizi connessi all’implementazione di un modello integrativo di welfare e territorio alternativo. Salvatore Esposito racconta la nascita della Fattoria Sociale come «una particolare contingenza»86. S’incontrano la sensibilità locale della Caritas Diocesana di Avellino che crede nella voglia e le idee di un gruppo di operatori del terzo settore. Quindi la Caritas disponendo di un bene agricolo e di una struttura inutilizzata e senza progetto, accoglie il programma avanzato da Salvatore Esposito e altri lavoratori e proprio su questi terreni s’innesca l’idea della Fattoria Sociale. Prende così avvio il lungo lavoro, non ancora concluso, di implementazione strutturale. Viene creata dunque l’esperienza numero uno di Fattoria Sociale della Regione Campania, e Salvatore Esposito, tra i principali promotori, sceglie di abbandonare i ruoli pubblici e dedicarsi «come terzo settore a costruire dal basso questa esperienza sul territorio»87. Nasce nell’entroterra della Campania, lungo la catena dell’Appennino che attraversa la Provincia di Avellino. Questa zona è compresa all’interno della vasta aria geografica denominata Irpinia. Oggi l’Irpinia è immediatamente identificata con l’area provinciale di Avellino ma tale identità è menomante, perché storicamente questa “regione” era molto più vasta: ne fanno parte anche luoghi oggi appartenenti alla provincia di Benevento, Foggia, Salerno e Potenza. L’Irpinia è descritta da Salvatore Esposito come «un’area rurale provinciale interna alla regione che conserva una serie di potenzialità e tradizioni assai importanti»88. Sottolinea il forte carattere di questa terra, che custodisce molti valori e un grande impegno dal punto di vista meridionalista, contando personalità come Manlio Rossidoria impegnato per una valorizzazione del genius loci dell’Irpinia. Tra le figure di rilevo attualmente in Campania considero anche lo scrittore Irpino Franco Arminio, che ho avuto modo d’intervistare. Ero ospite in Alta Irpinia proprio nel suo paese natale Bisaccia, piccolo comune di circa quattromilacinquanta abitanti appartenente alla provincia di Avellino. Vengo invitato a casa sua, situata nella parte nuova della città. Il violento terremoto dell’ottanta che distrusse parte dell’Irpinia, aveva colpito il paese distruggendolo totalmente. Questa 85 ibidem Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 87 ibidem 88 ibidem 86 31 parte di paese è appunto chiamata Bisaccia vecchia. Avevo effettuato delle ricerche precedenti all’incontro, approfondendo il suo testo “Terracarne, viaggio nei paesi giganti dell’Irpinia” e provando a capire le motivazioni e gli obiettivi della sua opera letteraria. L’autore è attento a precisare, sin dall’inizio dell’intervista, la sua personale visione riguardo questo territorio: «Il concetto d’Irpinia è abbastanza vago, nel senso che forse dopo il terremoto e con la squadra di calcio è venuta un po’ fuori questa categoria d’Irpinia. Poi negli anni successivi pure io sono stato uno di quelli che la messa più in circolazione»89. Sottolinea perciò quanto per lui “Irpinia” sia una nozione relativamente nuova motivando con due spiegazioni questa idea: «Perché geograficamente la regione, più che una provincia è una regione, cioè è molto grande ma soprattutto è molto divisa da un sistema di valli che spesso si danno le spalle. Per cui quello che accade, che so a Senerchia è molto lontano rispetto a quello che accade a San Martino Valle Caudina. (…) in realtà anche da un punto di vista agricolo. Sono territori molto diversi, perché noi abbiamo il territorio della castagna, questo è il territorio del grano, poi c’è il territorio del vino, poi c’è il territorio della nocciola»90. Nelle sue parole si evince l’eterogenea struttura dell’Irpinia, contraddistinta al suo interno da precise peculiarità ambientali e agricole. Franco Arminio nel 2003 si presentò al suo pubblico come “paesologo”, creando una nuova branca della scienza moderna. Questa innovativa (e per alcuni discutibile) disciplina sconfina nell’antropologia, nella psicologia, nell’etologia e nell’etnologia, occupandosi di studio del folklore, di tradizioni popolari, del paesaggio, dell’architettura rurale, e quindi della civiltà contadina e di quella post-moderna. Lo stesso autore definisce la paesologia come «scrivere col corpo dei luoghi in cui si vive o dei luoghi che si attraversano»91. Afferma che la prerogativa della paesologia è l’educazione ad 89 Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista ibidem 91 Cit. internet intervista Franco Arminio di Alberto Saibene www.doppiozero.com 90 32 una «forma di attenzione in cui l’osservazione del mondo esterno e quella del mondo interno s’intrecciano continuamente»92. Un impegno ed una concentrazione quindi non unilaterale ma complessa ed “inquieta”, pronta a lasciarsi trasportare dall’osservazione. Nella sua opera “Terracarne” lo scrittore descrive il lavoro del paesologo come quello di colui che va in giro per i paesi, utilizzando «il punto di vista del cane»93. Questa riflessione è successiva ad un’importante distinzione in cui identifica coloro che «vengono dalla città, (…) , pensano di essere sempre in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla conquista di chissà che»94, ed il “Paese” a cui si attribuisce, a mio modo di vedere un peculiare spirito; un paese vitale che coloro che abitano devono scegliere di vivere, un paese «che parla se accogli la sua lingua, ti dice che devi dismettere l’arroganza di chi pensa di essere padrone della Terra»95. Un metodo di osservazione e di scrittura che non abbraccia stili o poetiche particolari, ma una «scrittura sgretolata (…) ed un’osservazione del territorio fatta da un animale affratellato ai suoi pericoli, al suo sgomento»96. La profondità del suo sguardo si propone di cogliere «il funzionamento di quei particolari organismi che sono i paesi»97. Nel raccontare questi paesi, ripercorre frammenti di storia personale e collettiva scoprendo i numerosi protagonisti anonimi, dai cittadini, alle case fino agli edifici pubblici, che insieme intrecciano parte della trama esistenziale della comunità, piccola o media che essa sia. Attraverso il suo percorso il paesologo affronta temi diversi «quali il tramonto della civiltà contadina e la nascita di un’incompiuta civiltà post-industriale, la contrapposizione città-campagna, centro-periferia, la politica e i suoi fallimenti, le fughe degli emigranti e dei giovani, i ritorni e la nostalgia»98, e ancora le sconfitte e la rassegnazione, il conflitto tra Napoli e le provincie, le ostilità e le difficoltà, «e la speranza di una rinascita e di una nuova umanità attraverso la proposizione di un’alter-nativa meridiana al processo industriale del capitalismo post-moderno»99. 92 ibidem Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011 pag 9 94 Op. cit. 95 Op. cit. 96 Paolo Saggese, Crescita zero. L’Italia del terzo millennio vista da una provincia del sud, Delta 3 edizioni, Nusco (AV), 2011 pag 103 97 Ibidem, pp. 104 98 Ibidem, pp. 105 99 Op. cit. 93 33 Salvatore Esposito ha avuto modo di conoscerlo personalmente durante l’incontro con Serge Latouche organizzato dalla Fattoria Sociale. Considera lo scrittore un buon interprete del genius loci dell’Irpinia, perché è impegnato a «difendere le tradizioni ed i valori senza essere un conservatore»100 ed a promuovere l’innovazione culturale con la creazione di nuove reti. Condivide poi essenzialmente la chiave ermeneutica utilizzata dall’autore, che interpreta il «paesaggio come risorsa e non come natura morta»101. Il presidente della F.I.C.S. enumera alcune caratteristiche tipiche dell’Irpinia, iniziando con un’ eccellenza tipica della zona come il vino, poi considerando la disposizione storica per determinate coltivazione e produzioni, e ancora la bellezza “malinconica”102 dei piccoli centri portatori di grandi tradizioni culturali. L’interesse maturato da Salvatore Esposito per l’Irpinia è nelle potenzialità intrinseche del territorio, ma probabilmente non uniche a questo. Al centro della riflessione c’è perciò l’Irpinia intesa come “bene relazionale”, contrapposto e certamente «diverso da quello dei grandi centri urbani, delle metropoli. L’Irpinia e il Sannio conservano una qualità relazionale e una potenzialità molto più etologicamente sostenibile»103. Credo che questa distinzione si adegui ad una macro analisi del rapporto tra città, intesa in quanto dispersione di alcuni legami e rapporti umani, diversa dal paese considerato come culla e vivaio per questo insieme di relazioni. A mio parere Arminio nella sua opera “Terracarne” affronta precisamente questa problematica, inserita in un discorso sul significato della modernità non solo in termini generali ma specificatamente adattati al territorio dell’Irpinia. La Fattoria Sociale è inclusa in un quadro di relazioni territoriali, sociali ed economiche che etologicamente sono molto più sostenibili, meno distrutte di quelle con cui Salvatore Esposito e gli altri operatori si confrontano nelle aree metropolitane. Lo stesso Salvatore Esposito ripercorre il suo percorso esistenziale e lavorativo trascorso a Napoli e nella sua Provincia dove i «rapporti sono molto danneggiati dall’urbanistica disordinata, dalla pressione della distruzione ambientale»104. Sannio e Irpinia a differenza delle zone urbane e periurbane delle metropoli conservano un’enorme potenzialità di relazioni e di territorio. Nell’intervista Salvatore Esposito afferma che 100 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista ibidem 102 Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia 103 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 104 ibidem 101 34 appunto questo si cerca di valorizzare dell’Irpinia, ma precisa più volte la loro consapevolezza nell’evitare sterili estremismi e nel correre rischi d’isolarla. L’obiettivo è costruire «percorsi etologici ed ecologici che proteggano il bene relazionale senza isolarlo, proteggendolo e proponendolo come modello»105. Senza alcun dubbio questa “regione geografica” conserva un patrimonio storico, culturale e politico che richiede un’attenta analisi. L’Irpinia è descritta come una terra piena di luoghi, uno diverso dall’altro e perciò prezioso patrimonio di socio-diversità. Lo scrittore Franco Arminio chiama “umanesimo delle montagne”106 il valore di capitale sociale e di qualità ecologica che il paese, in quanto cellula elementare della società, conserva. Rispetta la città e non considera il paese come la soluzione ai mali del nostro tempo, ma il suo obiettivo e valorizzare e risemantizzare il paese, abbandonando una prospettiva minimalista che lo individua come un luogo vuoto e in cui mancano le cose. Il suo ragionamento sovverte il paradigma secondo cui al piccolo paese coincidono piccole cose, ma associa un valore aggiunto al paese. Riconosce il valore e ammira il progetto della Fattoria Sociale, anche se ammette di conoscerla poco. Sostiene comunque che ciò che s’impianta nella realtà contadina, nella terra, non per depredarla ma per riscattarla dallo sviluppo modernista distruttivo e invasivo, è degno di merito. «Il vero arcaismo è la modernità ed il vero futuro è invece l’antico, la terra»107. Incoraggia quindi la diffusione sulla rete delle buone pratiche perché tutti le conoscano, una dinamica che unisca «il computer al pero selvatico»108. La Fattoria Sociale promuove questi aspetti. Si costruiscono percorsi che integrano complessivamente le varie funzioni descritte. Quindi le Fattorie, piccole e medie attività produttive, valorizzano le tradizioni del territorio, mantenendo una buona qualità relazionale e facendo inclusione di persone fragili, cosa che secondo i promotori del progetto non si realizza con sistemi di welfare chiusi, separati, sanitarizzati, ma con sistemi di accoglienza, di emancipazione, di promozione dell’autonomia delle persone: «Infatti il disabile alla Fattoria Sociale lavora, realizza le sue potenzialità stando a contatto con la terra e gli animali, non viene parcheggiato»109. 105 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista 107 ibidem 108 ibidem 109 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 106 35 La Fattoria Sociale s’inserisce dunque in un territorio molto complesso dal punto di vista ecologico ed etologico. Come ho già avuto modo di sottolineare la Campania è uno sfondo antropologico e sociale difficile da immaginare come esempio e nelle vesti di paladina delle virtù etologiche ed ecologiche. La Regione situata nel meridione d’Italia, è appartenente alla fittizia categoria socio-economica delle Regioni del Mezzogiorno, che preliminarmente la caratterizza in negativo. I fattori sottintesi in questa definizione e connessi dunque all’accezione di meridione sono diversi e la Campania rappresenta alcuni di questi: sicuramente l’avvelenamento ambientale e culturale del territorio emerge con maggior evidenza dalle immagini che vediamo. Vari problemi endemici come quello del traffico di rifiuti, dell’edilizia abusiva, e dei limiti politici problematizzano la realtà di questa regione. La zona urbana e peri-urbana del capoluogo Napoli e della provincia Caserta, sedi e basi di molti dei suddetti traffici, evidenziano in diversi aspetti lo stato di degrado e abbandono della Regione. L’Irpinia, come la Fattoria Sociale si propone di segnalare, conserva molte potenzialità etologiche ed ecologiche, ma è un territorio che nella storia del terzo millennio è stato messo a dura prova. 36 Secondo Capitolo Buone pratiche. Tra assistenza e produttività. La Fattoria Sociale Isca delle Donne è un’impresa no-profit impegnata nell’agricoltura sociale, e gestita dalla Fics. Il nome, Isca delle Donne, fa riferimento a un luogo collinare vicino Pratola Serra, dove anticamente le donne si recavano per lavare i loro vestiti presso un ruscello. 2.1 Caratterizzazione della Fattoria Sociale «Definizioni delle caratteristiche funzionali della Fattoria Sociale per la promozione di programmi di sviluppo sostenibile nella Regione Campania»110. La Fattoria Sociale è definita come: «impresa no profit economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta con etica di responsabilità verso la comunità e verso l’ambiente ... che utilizza fattori di produzione locali e svolge attività agricola e zootecnica ... che nel proprio statuto prevede l’inserimento socio-lavorativo di giovani appartenenti alle fasce deboli, oltre che eventualmente la fornitura di servizi culturali e/o educativi e/o assistenziali e/o formativi a vantaggio di soggetti con fragilità sociale beneficiari del Welfare locale ... che soprattutto attraverso l’inserimento lavorativo nell’ambito di attività coerenti con il modello di sviluppo sostenibile è disponibile a collaborare con le istituzioni pubbliche e con gli altri organismi del terzo settore in modo integrato, attivando sul territorio reti di relazioni, creando mercati di beni relazionali, aumentando la dotazione di capitale sociale e offrendo risposte a bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono in grado di soddisfare ... [che] laddove ciò 110 Delibera della Giunta regionale su Fattorie Sociali. Seduta 6 luglio 2007. Vedi pp. 84 37 è possibile, riutilizza i beni sottratti alle organizzazioni criminali e quindi promuove quale ulteriore valore aggiunto la cultura della legalità»111. In conformità alle direttive del Piano Sociale Regionale, la Fattoria Sociale propone quindi azioni nel campo dell’agricoltura sostenibile e del sociale. La deliberazione N. 1210, presa nella seduta della Regione Campania il 6 luglio 2007, articola in 5 punti le funzioni distintive della Fattoria Sociale112: il concetto fondamentale, che a mio parere garantisce maggiore coerenza al progetto, è il carattere no profit dell’impresa, che è economicamente e finanziariamente sostenibile, teorizzata e condotta con un etica di responsabilità verso la comunità e il territorio. La continuità con il territorio prevista nel secondo punto della delibera, come ho avuto modo di provare nel corso della mia ricerca è sostenuta anche con l’utilizzo di fattori locali e svolgendo attività agricola e zootecnica. Nello statuto è previsto inoltre la fornitura di servizi culturali e assistenziali rivolti a vantaggio di soggetti con fragilità sociale beneficiari del Welfare locale, quindi un’attenzione secondo me di rilievo per le fasce deboli della popolazione. Coerentemente con il modello di sviluppo sostenibile ecologicamente proposto da Latouche, si impegnano anche per l’inserimento lavorativo e per la collaborazione con istituzioni pubbliche ed altri organismi del terzo settore in modo integrato, attivando così reti di relazioni e aumentando il capitale sociale del territorio. Si soddisfano con queste pratiche il terzo e il quarto punto della delibera, occupandosi di tematiche legate al lavoro e alla valorizzazione del capitale sociale e relazionale. Rispettando l’ultimo punto del decreto, laddove sia possibile, queste imprese riutilizzano beni sottratti alle organizzazioni criminali promuovendo quale valore aggiunto la cultura della legalità. La rete FICS, che come dicevo gestisce la Fattoria Sociale, collabora con l’associazione “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”113, che dal 1995 promuove la cultura della legalità e della giustizia, ed 111 ibidem ibidem 113 Nata nel 1995, Libera ha lo scopo di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Ora Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, le attività antiusura, sono concreti impegni di Libera. E’ riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è l'Eurispes la inserisce tra le eccellenze italiane. Nel 2012 la rivista The Global Journal la comprende nella classifica delle cento migliori Ong del mondo: è l'unica organizzazione italiana di "community empowerment" che figuri in questa lista, la prima dedicata all'universo del noprofit. (www.Libera.it) 112 38 è centrale nella lotta a tutte le mafie. Da questa delibera si tracciano quindi le cinque funzioni principali sopra riportate, ma questo scenario poteva già prefigurarsi in diversi decreti regionali. E’ tra il 2006 e il 2007 che la giunta regionale emana le norme istitutive della Fattoria Sociale. Il D.D.L regionale del novembre 2006, occupandosi di dignità e cittadinanza sociale, disciplina la programmazione e la realizzazione di un sistema organico di interventi e servizi sociali, che implica il concorso di istituzioni pubbliche e di formazioni sociali. Inoltre, la già citata Legge quadro n. 328 per la realizzazione del sistema integrato d’interventi e servizi sociali del 2000, prevede la realizzazione degli interventi e dei servizi sociali, in direzione di una politica integrata e unitaria. 2.2 La Fattoria Sociale Isca delle Donne La Fattoria Sociale Isca delle Donne, come detto, nasce nel Comune di Pratola Serra nel 2007, e si estende su un area di circa 300.000 quadrati (fig. 3). Pratola Serra è un piccolo paese in prossimità del fiume Sabato distante circa 21 km da Avellino, che ospita poco più di 3200 abitanti. Dal 2007 i lavori d’implementazione strutturale proseguono incontrando nel loro completamento soltanto ostacoli di carattere naturale. Superando l’ingresso alla struttura si ha accesso ad un ampio parcheggio “naturale”, coperto di terra battuta e privo di cementificazioni di qualsiasi tipo. Alla sinistra si apre un’ampia parte del complesso adibita alla coltivazione degli ulivi, pianta tipica della vegetazione Campana, presente in buona parte della zona appenninica. Poco dopo è visibile l’imponente serra, destinata alla coltivazione di piante grasse. Questo fabbricato, costato alla Fattoria inizialmente 15.000 euro, una volta attivo sarà un importante contributo per la sussistenza economica del progetto, producendo articoli inseriti in filiere corte del mercato. Il suo completamento è stato ritardato da incidenti causati dalle intense nevicate di febbraio 2012. La neve, appesantendone criticamente il 39 rivestimento superiore, ha causato alcuni crolli nell’edificio114. Le spese complessive della costruzione in totale sono più ingenti. Continuando sulla sinistra troviamo l’entrata del Parco etologico, che si estende per circa 5.000 metri quadrati all’interno dell’area complessiva. Poco più avanti arriviamo all’ex casa rurale ora adibita a sede degli uffici della Fattoria (fig. 4). Quest’edificio, formato da diverse stanze funzionali, permette di ospitare l’archivio cartaceo dei progetti della Fattoria, di essere sede delle riunioni tra gli operatori e anche di accogliere all’interno di un’ampia stanza incontri ufficiali con istituzioni o con altri enti del terzo settore. Superati alcuni piccoli recinti per animali di piccola taglia, troviamo la porzione di terreno più estesa della Fattoria fittamente coperta da piante di vite, in quest’aria sono stati prodotti quattromila litri di Fiano di Avellino D.O.C.G115. La Fattoria Sociale è sostanzialmente un luogo nel quale gli spazi e le coltivazioni vengono gestiti e coltivati da gruppi misti di operatori e persone svantaggiate, che si prendono cura della terra e delle aree laboratoriali privilegiando un metodo di produzione biologico, con attenzione a proteggere l’ambiente e il paesaggio, nel rispetto etologico delle specie animali e rispettando i processi naturali di trasformazione dei prodotti. Non vuole essere solo un luogo di produzione sostenibile, ma anche un luogo di relazioni e di formazioni. La responsabilità verso tutti gli organismi viventi, e quindi di tutta la natura, è la sintesi della responsabilità e della riflessione riguardo il futuro del pianeta. Ogni diversa abilità, capacità e risorsa acquista quindi un profondo significato e una precisa funzione nella rete integrata dei rapporti, 114 Irpinia ancora nella morsa della neve e del ghiaccio. E' la quarta giornata di emergenza. Purtroppo dalla Protezione civile non arrivano notizie confortanti. E' previsto da stanotte e fino a domani un nuovo peggioramento. In arrivo una nuova precipitazione nevosa che potrebbe portare altri 10-15 centimetri di neve. (Emergenza neve in Irpinia. Situazione ancora drammatica. www. Irpiniaoggi.it) 115 Zona di produzione: intero territorio dei comuni Avellino, Lapio, Atripalda, Cesinali, Aiello del Sabato, S. Stefano del Sole, Sorbo Serpico, Salza Irpina, Parolise, S. Potito Ultra, Candida, Manocalzati, Pratola Serra, Montefredane, Grottolella, Capriglia Irpina, S. Angelo a Scala, Summonte, Mercogliano, Forino, Contrada, Monteforte Irpino, Ospedaletto D'Alpinolo, Montefalcione, Santa Lucia di Serino e San Michele di Serino, in provincia di Avellino. Il ruolo dell'Irpinia nella storia della viticoltura campana era talmente rilevante che alla linea ferroviaria Avellino Rocchetta Sant'Antonio venne dato il nome di "Ferrovia del vino". Completamente circondata da vigneti, la provincia di Avellino offre vini di fama internazionale come il Greco di Tufo, il Taurasi e il Fiano. Quest'ultimo prende il nome dal vitigno omonimo, che i latini chiamavano Vitis apiana, grazie alle api, particolarmente ghiotte della dolcezza di queste uve. Questo vino molto apprezzato già nel Medioevo, ha un'origine millenaria. Nel registro di Federico II di Svevia, vissuto nel XIII secolo, è annotato un ordine per tre "salme" di Fiano. Anche Carlo d'Angiò doveva amare il buon vino, al punto da impiantare nella propria vigna reale ben 16.000 viti di Fiano. (www. Agraria. Org) 40 quindi nella qualità dell’ordinamento produttivo fondata sul rispetto delle risorse personali e sulla responsabilità dei compiti condivisi. Gli obiettivi principali che sono perseguiti sono la produzione di qualità sostenibile, connessa ad una costante lotta al mondo dell’esclusione sociale. La funzione di orientamento e formazione di giovani si collega con quella fondamentale della responsabilità sul progetto di formazione e lavoro. Dopo quanto detto intorno all’organizzazione dello spazio e ai progetti avviati, possiamo affermare e descrivere la Fattoria Sociale come luogo aperto sia da un punto di vista strutturale, sia come comunità formativa. Viene valorizzato il radicamento territoriale, con un programma d’integrazione dello sviluppo locale che promuove reti nazionali ed internazionali di solidarietà. La base su cui si fonda la Fattoria Sociale sono i principi di autogestione e le potenzialità pubbliche di finanziamento di servizi necessari alla garanzia dei diritti di cittadinanza delle persone. In termini giuridici per cittadinanza s’intende la condizione della persona fisica, appunto il cittadino, alla quale lo Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici. Il concetto di cittadinanza si ricollega quindi alla titolarità indiscutibile di determinati diritti che sono enunciati nella Costituzione, quindi diritti civili, politici e sociali. Il termine Welfare è riferito allo Stato Sociale e rappresenta quell’insieme di provvedimenti che uno stato adotta per promuovere l’uguaglianza sociale, fornendo alla popolazione quei servizi concepiti come diritto di ogni cittadino. L’ispirazione e l’impegno solidaristico non intendono sostituire le funzioni istituzionali pubbliche, ma proporre, in territori socialmente complessi come quello campano, sistemi di assistenza alle politiche pubbliche. La proposta avanzata dalle pratiche promosse dalla Fattoria Sociale, è di un patto di cittadinanza fondato su un Welfare rigenerativo116. La qualità del Welfare di comunità è l’orizzonte teorico e di senso, cui si dà risposta con una agricoltura socialmente responsabile per rispondere ai nuovi bisogni della collettività, delle persone, e del futuro delle generazioni. A mio parere la Fattoria Sociale concretizza attivamente molte di queste linee guida indicate nella costituzione. Incentivando nelle sue pratiche l’inclusione e la partecipazione, anche per fasce deboli della popolazione, 116 welfare rigenerativo nelle aree rurali, in quanto si tratta di attualizzare le reti di mutuo-aiuto e i valori della reciprocità, che da sempre hanno costituito i caratteri peculiari del mondo rurale. (Rete Fattorie Sociali) welfare rigenerativo, cioè capace di rivitalizzare l'autenticità delle risorse rurali per soddisfare i bisogni reciproci che legano città e campagna (Alfonso Pascale Forum delle Fattorie Sociali della Provincia di Roma) 41 ritengo importante riconoscere una validità fortemente politica al progetto. La sua funzione sociale nel contesto territoriale mi sembra indubitabile, dato l’impegno a garantire servizi e prestazioni sociali ai cittadini, non esclusivamente quelli che usufruiscono del sistema di Welfare nazionale. Ritengo inoltre, nel momento in cui si riconosce il valore del pensiero di Latouche, che le attività e le progettualità della Fattoria siano inserite in una riflessione molto attenta ai bisogni del cittadino, alla sua felicità e al suo futuro. Infatti la promozione di un programma produttivo, con una marcata impronta etologica ed ecologica, garantisce nel territorio in questione molti elementi di positività e benessere. 2.3 Un impresa sociale fondata sulla sostenibilità e sulla produttività Un’impronta etologica ed ecologica coerente ha richiesto un sostanzioso processo di auto-formazione per stare attenti a non utilizzare metodi, tecniche di lavoro che sono assimilabili all’agricoltura intensiva e distruttrice della terra. «E’ come inventare un prodotto nuovo, è come inventare una strategia produttiva nuova»117. Salvatore Esposito, sottolinea che da questo punto di vista: «Non abbiamo trovato molti maestri sul territorio»118. La Fattoria Sociale Isca delle Donne è un’impresa economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta in forma associata da una rete di soggetti del terzo settore, che svolge l’attività produttiva agricola e zootecnica proponendo i suoi prodotti sul mercato, in modo integrato con l’offerta di servizi culturali, educativi, assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio di soggetti deboli (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani, bambini e adolescenti) e di aree fragili (montagna e centri isolati), in collaborazione con istituzioni pubbliche e aziende private. Alcune delle funzionalità che ho descritto e mi propongo di descrivere, non sono ancora attive proprio perché il processo d’implementazione strutturale e logistico ancora non è del tutto completato. Negli ultimi mesi del 2012, sarà già riconoscibile il profilo definitivo del complesso: tra i mesi di settembre e novembre è prevista la conclusione 117 118 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista ibidem 42 della costruzione del Parco Etologico, e ritengo che poco dopo la fine dei lavori esso possa essere attivo. E’ prevista la riparazione della serra adibita alle piante grasse nell’arco dei prossimi tre mesi, e anche questa come il Parco sarà centrale nei processi d’inclusione sociale ed educazione/formazione all’ambiente. Il lavoro nella vigna è invece già attivo. Nei progetti prossimi della Fattoria è prevista anche l’apertura di un centro per la vendita dei prodotti della Fattoria, sottoforma sia di commercio dei beni, sia di ristorante sociale, cioè un’attività economica che prevede il consumo delle merci stesse della Fattoria. La vendita e i ricavi del commercio, naturalmente saranno investiti nel progetto della Fattoria. Il piano di lavoro centrale della Fattoria è di carattere pratico, vuole produrre e fare scelte produttive funzionali al mercato e funzionali alla buona vita delle persone. La valorizzazione commerciale dei prodotti potrà avvenire sia mediante la vendita diretta, sia rifornendo i gruppi di acquisto solidale da promuovere nelle Unità Operative della rete solidale di riferimento mediante l’etichettatura etica. Cruciale è il contatto diretto dei consumatori con l’azienda. Le attività sociali della fattoria si potranno estendere a tutte quelle persone che possono e vogliono, responsabilmente, contribuire allo sviluppo delle attività laboratoriali dell’impresa sociale. La mia analisi deve fare i conti quindi con un progetto ancora non del tutto avviato, che si sta costruendo e rafforzando grazie ad una rete di impegno, da parte di operatori, di sindaci e cittadini sempre più vasta. Parlare di alcune delle progettualità che si stanno lentamente concretizzando, a mio parere è molto utile per avere un quadro più completo della Fattoria Sociale. Sono previsti per il futuro anche soggiorni periodici che potrebbero coincidere con le visite scolastiche, e dar luogo a forme organizzate di trasmissione delle esperienze dalle generazioni più mature ai ragazzi. Si potranno insediare ludoteche e centri di produzione artistica. Si potranno installare servizi internet e postali, punti vendita di libri, giornali e materiale multimediale, sportelli di enti ed associazioni, soprattutto nei piccoli centri dispersi dove queste attività non sono economicamente sostenibili se svolte in via principale. La fattoria sociale, in sostanza, dovrà essere intesa come centro di servizi sociali, ma anche di aggregazione delle aree rurali, dove la comunità si potrà ritrovare, con le persone che vi operano, nelle più svariate iniziative, da quelle culturali a quelle ricreative e turistiche. 43 E’ per questo motivo che nell’agricoltura sociale praticata dalla Fattoria Sociale, la responsabilità sociale d’impresa non è un nobile orpello etico, un “habitus” per edulcorare il lavoro di un’attività che invece ha la sua ragion d’essere nella realizzazione di valore economico. Ma anche solo per rimanere sul piano economico, la responsabilità sociale in agricoltura è un investimento dal quale aspettarsi ritorni non solo per l’impresa agricola ma anche per tutta la società, verso la quale i suoi obiettivi sono finalizzati. In sostanza, investire in responsabilità sociale per un’azienda agricola significa non solo produrre consenso e reputazione, ma "beni pubblici": più qualità, più tutela ambientale e paesaggistica, più utilizzo virtuoso ed efficiente delle risorse energetiche, più relazioni improntate al mutuo aiuto, più sviluppo che tenga conto dello spirito civico. E ciò giustifica e pretende la piena considerazione dell’agricoltura nelle politiche economiche e sociali ad ogni livello di governo, dal Municipio all’Unione europea. 2.4 L’agricoltura sociale Molte delle informazioni e definizioni riportate in questo capitolo sono contenute nel libro “Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese”, scritto da diversi operatori e studiosi della Fattoria Sociale e a cura di Salvatore Esposito. Sarà pubblicato nei prossimi mesi. L’agricoltura sociale è uno dei principi che a mio parere esemplifica al meglio il progetto della Fattoria Sociale, perché racchiude intrinsecamente la maggior parte degli aspetti caratterizzanti di questo innovativo modello di Welfare e di cittadino. Credo perciò sia necessario concentrarsi ora sul concetto di agricoltura sociale, coglierne il significato articolato e complesso. La relazione che lega i due concetti veicolati nell’espressione agricoltura sociale, fornisce una chiave d’interpretazione determinante per la piena comprensione del progetto, perciò ho deciso di dedicare parte del mio lavoro ad una riflessione ampia su questo tema. La “innovativa” connessione valorizza 44 la funzione sociale dell’agricoltura tradizionale. Si è cercato di racchiuderne l’ampio significato in questa definizione: «attività che impiega le risorse dell’agricoltura e della zootecnia, la presenza di piccoli gruppi, famigliari e non, che operano in realtà agricole per promuovere azioni terapeutiche, di riabilitazione, di inclusione sociale e lavorativa, di ricreazione, servizi utili per la vita quotidiana e di educazione»119. Ciò nonostante, il ragionamento intorno ai suoi caratteri, alle sue potenzialità e ai suoi limiti resta, ovviamente, del tutto aperto. Come palesemente evidenziato dalla mancanza, ad oggi, di una sua definizione puntuale ed unanimemente condivisa. Da quando, nel 2001, le Università della Tuscia e di Pisa e l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione nel settore agricolo-forestale della Regione Toscana avviarono i primi studi sull’argomento, quello dell’“agricoltura sociale” ha smesso di essere un tema sconosciuto al dibattito scientifico ed istituzionale italiano120. Da allora il crescente interesse di enti di ricerca, attori politici ed associazioni, ne ha fatto l’oggetto di un confronto significativo, favorendo non poco la diffusione delle pratiche e la condivisione delle esperienze. Gli operatori della Fattoria Sociale con cui ho affrontato questa riflessione, più che di una tematica consolidata mi parlano ancora d’una «ipotesi di lavoro» che necessita di un’attenta analisi per essere assunta come effettivo strumento d’intervento. Pertanto, sottolineano i miei informatori, possiamo riferirci ad essa solo in quest’ampia e alquanto generica prospettiva. Ho riportato prima la definizione che prova a racchiudere l’ampio significato. Approfondendo queste tematiche si comprende come a rendere ulteriormente complesso il quadro del ragionamento scientifico e delle prospettive concrete dell’agricoltura sociale sta la natura multidisciplinare e per alcuni versi ambivalente che innegabilmente la caratterizza. Quando si parla di intervento sociale attraverso le risorse dell’ambiente agricolo è infatti possibile utilizzare almeno 119 F. Di Iacovo, Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, FrancoAngeli, Milano, 2008, pp. 14. cit. in AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese, in corso di pubblicazione 120 Cfr. F. Di Iacovo, L’agricoltura sociale: nicchia o pratica inclusiva, in A. Ciaperoni (a cura di), Agricoltura biologia e sociale, strumento del welfare partecipato, Quaderni AIAB, Roma, 2008, pp. 63. 45 tre differenti approcci, che afferiscono ad altrettante tematiche “forti” e particolarmente attuali121. L’approccio più comune riguarda il carattere articolato dell’agricoltura, che i miei intervistati sono soliti descrivere come la «multifunzionalità dell’agricoltura»122. Con questa espressione s’intende la capacità dell’impresa di «erogare, accanto ai tradizionali beni agroalimentari e agro-industriali, una pluralità di servizi in prevalenza indirizzati alle persone e alle comunità locali»123. L’offerta delle suddette prestazioni sociali era ed è spesso tralasciata dal dibattito sull’argomento, ma ora il suo valore si sta affermando sempre di più come risposta ideale alle esigenze che sottendono la stessa idea di multifunzionalità. Ciò consente innanzitutto una diversificazione dell’offerta altamente sostenibile e incidente in modo significativo sullo stesso contesto nel quale l’impresa opera, contribuendo così a garantire la riproduzione di quel capitale sociale la cui scomparsa è avvertita quale conseguenza diretta dell’egemonia dei processi di “industrializzazione” del settore. Un ulteriore approccio preme invece più direttamente sulla questione dell’evoluzione delle forme di Welfare dello Stato contemporaneo. La crisi del welfare state, il conseguente passaggio a forme di welfare community e la valorizzazione dei percorsi di sussidiarietà orizzontale all’interno del sistema dei servizi sociali pongono infatti per le campagne questioni ulteriori rispetto a quelle delle aree urbane, dove la difficoltà nel reperire ed utilizzare le risorse territoriali si presenta in maniera senz’altro meno impellente. L’ultima, non meno importante questione concerne il nuovissimo tema dell’economia civile, una «concezione che guarda all’esperienza della socialità umana e della reciprocità all’interno di una normale vita economica»124. Le pratiche di agricoltura sociale appaiono, per l’alta sostenibilità e la forte capacità di generare beni relazionali che in genere le caratterizzano, una frontiera estremamente promettente alla quale rivolgersi. 121 S. Senni, L’agricoltura sociale tra welfare e mercato, in A. Ciaperoni (a cura di), Agricoltura biologia e sociale, strumento del welfare partecipato, Quaderni AIAB, Roma, 2008 pp. 42 cit. in AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese 122 AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese 123 http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=912 124 L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile: efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 18 cit. in AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese 46 L’agricoltura ha posseduto sempre intrinsecamente un aspetto sociale. Mi riferisco al valore di solidarietà e reciprocità che ha sempre caratterizzato le aree rurali: quindi i legami di scambio tra le famiglie agricole; l’inserimento lavorativo delle persone marginalizzate; il rapporto maieutico che si stringeva tra gli anziani e i giovani della comunità perché spesso, le donne e gli anziani, si facevano carico dell’educazione dei più giovani. L’agricoltura, nella sua dimensione sociale e relazionale, è stata già al centro di un dibattito psichiatrico ottocentesco. Riporto un sunto di alcune considerazioni di psichiatri vissuti a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, periodo in cui la psichiatria era ancora stagnata su discorsi sulla malattia mentale rinnegati dalla psichiatria moderna. Alcuni psichiatri comunque, come l’americano Benjamin Rush, l’illuminista Philippe Pinel e Wilhelm Griesinger colsero il ruolo pervasivo dell’agricoltura per il trattamento delle malattie mentali. Il giardinaggio, il lavoro agricolo e complessivamente il contatto con la natura e gli animali risultarono già allora una efficace terapia nella lotta contro le malattie mentali125. Un primo embrionale tentativo di conciliazione strutturale uomo-natura-animale per scopi sociali è avvenuto nel 1872 in Inghilterra, quando William Tuke studia e sperimenta delle cure per malati mentali attraverso il contatto con gli animali di piccola taglia e il giardinaggio. Capisce che queste tecniche sono fonte di stabilità ed equilibrio, al contrario dell’assoluta inattività e della mancanza di coinvolgimento delle persone con problemi, che così peggiorano la loro situazione. L’attività manuale a contatto con la terra e con la natura favorisce il processo di guarigione. L’Europa rurale aveva sperimentato quindi, già nel passato, le possibilità offerte dall’agricoltura, dall’allevamento e dalla cura di animali nelle pratiche d’inclusione sociale. Ricordiamo esperienze simili anche a Gheel, cittadina Belga vicina ad Anversa, dove persone con problemi psichici venivano affidate alle famiglie dei contadini, che li ospitavano nelle loro fattorie. Storicamente importante anche la colonia agricola di Clermont-Ferrand126 in Francia, dove prende piede il modello della fattoria distaccata dall’ospedale psichiatrico. Anche a York si verifica una vicenda simile, permettendo a diversi soggetti affetti da disturbi psichici di vivere in una casa in campagna, con la possibilità di coltivare orti e giardini e a contatto con il mondo esterno. 125 126 http://www.psicoterapie.org/451.htm http://www1.inea.it/pdf/AgricolturaSociale.pdf 47 Soltanto in tempi recenti l’agricoltura sociale ha attirato l’attenzione delle istituzioni europee e nazionali, maturando consapevolezze e ottenendo successi in alcuni paesi particolarmente, come nel caso dei Paesi Bassi che l’hanno riconosciuta attraverso una normativa apposita. La Fattoria promuove un’idea di agricoltura sociale che travalicando i confini dell’agricoltura tradizionale trova la sua forza nell’ottica della multifunzionalità del contesto rurale, inteso come luogo produttore di benessere. Certamente durante il ventesimo secolo si sono sperimentate ed hanno acquisito valore alcune terapie che prevedono attività connesse alla natura. Osserviamo adesso il dibattito contemporaneo su alcune funzioni terapeutico-riabilitative. Una di queste diffusasi a partire dagli anni trenta del ‘900 è la terapia assistita dalle piante (horticultural therapy127). Si sviluppò nei paesi anglosassoni come vera e propria disciplina curativa che coniuga competenze mediche con quelle botaniche. Può applicarsi a numerose tipologie di disagio, e consiste nel coinvolgere il singolo individuo in operazioni di giardinaggio che promuovono il suo benessere, e ciò che produce diventa prodotto stesso del suo processo di guarigione. Quando si parla invece dell’healing gardens128, i giardini che curano, ci riferiamo ad una pratica della medicina olistica, quel settore della disciplina che considera il malato dal punto di vista fisico e psichico caricandolo della responsabilità delle scelte per la sua salute. Questo approccio terapeutico si collega strettamente al rapporto uomo-natura e, in particolare, al giardino come utile complemento della cura. Durante gli anni ’50 si sono sviluppate negli Usa anche cure e terapie basate sull’interazione tra uomo e animali, concrete esperienze di zooantropologia. Comunque è dall’inizio degli anni ’60 che si è identificato l’utilizzo di animali da compagnia con il termine “pet therapy”, sostituito sempre più dalle più appropriate locuzioni “Animal Assisted Therapy” (A.A.T.) e “Animal Assisted Activities” (A.A.A.)129. Da oltre trent’anni nel nostro paese si pratica l’ippoterapia, che, combinandosi virtuosamente con l’equitazione, ha contribuito alla diffusione dell’equitazione sociale. Concludiamo con l’onoterapia, diffusa negli ultimi anni, che si basa sulle relazioni particolarmente intense ed empatiche che l’asino riesce a stabilire con le persone. 127 http://attraversogiardini.it/2006/08/26/agriverde-venti-anni-di-horticultural-therapy/ http://www.healingarden.it/healing%20gardens.html 129 http://www.pettherapyitalia.it/?page_id=307 128 48 Questo tipo d’agricoltura inevitabilmente s’intreccia con il Welfare, tramite il principio di sussidiarietà, interagendo con l’economia civile, stabilendo una rete di relazioni nuove al suo interno ed all’esterno, e soprattutto ponendo al centro del suo agire l’uomo. Da questa prospettiva l’agricoltura sociale si connette strettamente ad altri settori quali la sanità, l’assistenza sociale, l’istruzione e lo sviluppo territoriale sostenibile. Le Nazioni appartenenti alla comunità europea hanno affrontato la questione dell’agricoltura, tentando di valorizzarne i benefici. Ogni stato membro della comunità europea infatti ha l’obbligo di presentare il Piano Strategico Nazionale (PSN)130. Il PSN per lo sviluppo rurale ha la finalità di garantire la coerenza strategica tra i piani comunitari, nazionali e regionali, e gli obiettivi sono la valorizzazione delle risorse ambientali, quindi biodiversità, paesaggio, suolo, clima e poi l’interazione tra le attività agricole e gli altri settori dell’economia dei territori rurali, tra cui anche il turismo. Per quanto riguarda il PSN italiano 2007-2013131 i punti principali sono il miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale, favorendo la competitività del settore agricolo forestale, e puntando ad un incremento della qualità della vita nelle zone rurali. Questo Piano di lavoro nasce dalla necessità di uno stretto collegamento tra l’impostazione strategica comunitaria e quella locale, quindi la necessità di una maggiore coerenza nelle scelte strategiche che seguono un filo rosso tra i vari livelli di programmazione. Questo PSN pubblicato nel 2009 non dedica all’agricoltura sociale una sufficiente attenzione. L’ultima versione del 2010 ha ampliato lo sguardo sull’agricoltura sociale includendola così in un programma ampliato di sviluppo. Quindi al miglioramento del settore agricolo e forestale si accompagna la promozione dell’ammodernamento e dell’innovazione nelle imprese rurali e dell’integrazione nelle filiere. Si punta inoltre ad avvalorare l’attrazione dei territori rurali per le imprese e la popolazione. Le mie ricerche evidenziano quanto tutto questo programma si stia concretizzando senza essere ancora pervenuti ad una definizione ufficiale di agricoltura sociale. La definizione più autorevole europea è quella fornita dalla “Green Care in agricolture”, secondo la quale l’agricoltura sociale fa riferimento all’«utilizzo delle 130 Nel modello programmatorio delineato dal nuovo Reg. Ce 1698/2005, il Piano Strategico Nazionale per lo Sviluppo Rurale ha, come noto, lo scopo di rendere coerente la pianificazione agricola regionale con gli obiettivi di settore stabiliti a livello comunitario 131 http://www.esportareilterritorio.coldiretti.it/Documenti/PSN%20maggio%202006.pdf 49 attività agricole come base per promuovere salute mentale e fisica e migliorare la qualità di diverse tipologie di utenti»132. A mio parere la definizione scientifica di agricoltura sociale soffre ancora una certa fragilità, prodotta dalla mole di esperienze e risultati diversificati da contesto a contesto. Per questo motivo gli operatori della Fattoria Sociale la considerano ancora un’ipotesi di lavoro, ma si comprende quanto una normativa scientifica condivisa renda più semplice un’analisi e uno studio di questo fenomeno. La Fattoria Sociale e i suoi stessi operatori considerano la multifunzionalità dell’agricoltura sociale uno dei cardini strategici sul quale implementare un modello equo e sostenibile di sviluppo capace d’interpretare i nuovi output dei processi agricoli non strettamente connessi allo specifico mercato. Infatti i valori enucleati dall’agricoltura sociale, istruzione, benessere dei singoli, bellezza dei contesti rurali e promozione di pratiche a basso impatto ambientale, sono elementi imprescindibili e importanti quanto il bene materiale. Si può affermare in ultima istanza che la finalità è quella di utilizzare il processo produttivo agricolo per produrre cibo qualitativamente ottimo, ma allo stesso tempo generare benessere individuale e sociale. Non è senza dubbio marginale inoltre l’aiuto offerto a persone svantaggiate in termini occupazionali e d’integrazione in un contesto di vita dove possano esprimere al meglio le loro capacità personali. La risorsa terra così ottimizzata torna ad essere l’elemento principale con cui interagire con tecniche che riducano al minimo l’impatto ambientale e dove la ricerca del bene primario e si collega si connette con l’importanza del bene relazionale. Per relazione s’intende non solo il mero aspetto produttivo o esclusivamente il rapporto con i soggetti svantaggiati, ma la sua portata si deve estendere alla totalità dei rapporti con il territorio circostante che interagisce nelle varie fasi della produzione. Mi sono già occupato di sottolineare il ruolo centrale che il territorio acquista nell’impegno teorico e nelle attività pratiche della Fattoria Sociale presa in considerazione. Ritengo molto importante l’impegno nel mercato della filiera corta, concentrandosi su una vendita a chilometro zero, ri-cerca e simultaneamente tenta di ri-creare relazioni umane sia esterne che interne. A mio parere si coglie il valore sociale di questo tipo di agricoltura, con il suo contributo alla coesione sociale della collettività. Tramite l’esperienza di questo nuovo ruolo dell’agricoltura, si supera la prima ristretta 132 AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese 50 definizione di multidimensionalità che è concentrata solo sulla produzione di servizi ambientali e sulla fruibilità turistica delle arie rurali. Si afferma quindi il fine sociale delle risorse biologiche, e cioè un vero e proprio sviluppo innovativo delle arie rurali verso un aumento dei servizi e una redistribuzione della ricchezza. In tutti i Paesi europei si possono rilevare forme di utilizzo dell’agricoltura a fini integrativi, terapeutici e riabilitativi di disabili o altri soggetti in situazione di disagio sociale. Manca in ogni caso uniformità d’azione e si registrano realtà organizzative e forme d’intervento assai diverse da paese a paese. L’Olanda è sicuramente il Paese oggi più avanzato in termini di sviluppo e diffusione dell’attività agricolo-sociale. Le Social Care Farms, letteralmente “fattorie sociali assistenziali” nascono negli anni ’90 come modello di auto-organizzazione. E’ possibile ripercorrere l’incremento esponenziale di questa pratica in Olanda, che è passata da 75 unità attive sul territorio nel1998 ad oltre 800 oggi. Oggi inoltre l’attività terapeutica fornisce entrate superiori rispetto al ramo agricolo dell’impresa. Storicamente le care farms hanno ospitato diverse tipologie di clienti: infatti partendo con l’assistenza alla disabilità mentale e psichica, oggi il sostegno è garantito anche ad anziani, soggetti con dipendenze, disadattati, disoccupati stabili, ex-detenuti, immigrati e profughi con difficoltà d’inserimento sociale, adolescenti e bambini difficili133. Anche in Francia esistono diverse reti d’iniziative a finalità sociale. Le più note sono sicuramente quelle dei Jardins de Cocagne, attività che riunisce aziende impegnate in progetti agricoltura sociale, gestite da organizzazioni non a fini di lucro la cui primaria finalità è di promuovere inclusione sociale e fornire impiego a persone caratterizzate da difficoltà sociale, professionale e personale. Il lavoro è caratterizzato dalla gestione sostenibile dei giardini attraverso la produzione di prodotti biologici venduti a gruppi di cittadini organizzati. Le percentuali di questi anni testimoniano il successo dei jardins per quanto riguarda il reinserimento di soggetti deboli nel mercato del lavoro con circa 133 Nel solo 2006 le attività “sociali” in fattoria hanno generato circa 600 nuovi posti di lavoro. È stato inoltre dimostrato come la percentuale di imprese che resistono al passaggio fra generazioni all’interno dello stesso nucleo familiare è molto più alta (79% contro 60%) nei casi delle care farms rispetto alle fattorie tradizionali, mentre ben il 35% agricoltori non potrebbe più proseguire l’attività primaria senza il reddito proveniente dai servizi di cura. F. Di Iacovo, D. O’ Connor (a cura di), Supporting Policies for Social Farming in Europe: Progressing Multifunctionality in Responsive Rural Areas, ARSIA, Sesto Fiorentino (FI), 2009, p. 123. 51 il 33% di riuscita, e con i restanti 2/3 in cui si riscontrano comunque buoni risultati in termini di capacità di relazione134. Esperienze di questo genere in Europa sono rintracciabili anche in altri stati europei come la Norvegia, il Belgio e la Germania. Da questa breve analisi storica possiamo far emergere i tre punti principali a cui l’agricoltura sociale oggi dovrebbe aspirare. Uno è l’impulso alla multifunzionalità e alla diversificazione, cui si unisce la possibilità di creare economia civile e infine di fornire servizi sociali, contribuendo alla creazione di un Welfare innovativo. Le prime esperienze Italiane di utilizzo dell’agricoltura a fini sociali sono tradizionalmente collocate alla fine degli ’60 del secolo scorso, stagione di consistente mobilitazione collettiva che investì larga parte della società italiana e che ebbe come obiettivo anche il superamento delle forme tradizionali di trattamento della marginalità. Contemporaneamente alla lotta per l’abolizione delle istituzioni manicomiali, cominciarono a costituirsi senza nessun supporto istituzionale cooperative sociali ante litteram, con lo scopo di favorire il reinserimento lavorativo di persone fragili o svantaggiate. Dopo una lunga fase di sperimentazione “dal basso”, solo all’inizio degli anni ’90 si giunge ad un esplicito riconoscimento di queste realtà. Infatti la Legge 381 del 1991 prefigurava un quadro normativo certo con il quale confrontarsi e nuove opportunità lavorative a quanti già operavano nel settore135. Esperienze più evolute di questo tipo, con il coinvolgimento delle aziende tradizionali, che hanno cercato d’introdurre nella prospettiva più ampia la multifunzionalità dell’agricoltura, la ricerca di servizi che integrassero l’offerta di beni alimentari con 134 Tra le strutture associative che legano i diversi jardins una menzione particolare merita, per dimensioni e caratteristiche assunte, la Reseau de Cocagne. Si tratta di infatti una rete che tiene assieme 125 realtà (110 delle quali già attive e 15 ancora in fase di realizzazione) provenienti prevalentemente dal mondo del no profit e coinvolge oltre 26 mila fra “giardinieri”, famiglie dei soggetti presi in carico, lavoratori e volontari. Il suo scopo è la conciliazione del reinserimento socio-lavorativo delle fasce deboli (soprattutto disoccupati di lunga durata) con la produzione e vendita di agricoltura biologica, realizzata attraverso un sistema di filiera corta che si affida alla distribuzione settimanale di “panieri” a gruppi di acquisto solidale che aderiscono all’iniziativa. Numerosissime indicazioni sono contenute nel sito, all’indirizzo www.reseaucocagne.asso.fr. 135 La Legge n. 381 dell’8 novembre 1991 disciplina, come noto, la cooperazione sociale in Italia, indicando all’articolo 1 due grandi aree di intervento per il settore: la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (cooperative di tipo A) e lo svolgimento di attività produttive finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (cooperative di tipo B). Sebbene anche il primo presenti esperienze di conciliazione fra dimensione agricola e intervento sociale, è stato tuttavia il secondo ambito ad offrire negli anni le opportunità più interessanti in questo senso. L’impegno in agricoltura delle cooperative di tipo B realizza infatti la condizione più nota, e probabilmente più diffusa, di agricoltura sociale nel nostro paese. http://www.uil.it/cooperazione/legge381-1991.pdf 52 prestazioni di carattere sociale, si è comunque avuta solo in anni più recenti. Anche per queste, come per le iniziative precedenti, si è trattato di un processo nato in maniera pioneristica, animato spesso da spinte individuali dei singoli imprenditori. Differentemente a quanto avvenuto in altre parti d’Europa, in Italia il terzo settore è stato a lungo il solo protagonista della sperimentazione e della diffusione delle pratiche di agricoltura sociale. Per terzo settore s’intende tutto ciò che si differenzia sia dalla sfera pubblica (stato, regioni, enti locali, altri enti) che da quella privata, ossia dal mercato (o dall’impresa così come definita dalla legge). Al contrario di quello che si potrebbe pensare, ciò che rimane dopo l’individuazione dei primi due settori è un universo molto vasto, composto da soggetti disomogenei che hanno però in comune la capacità di sviluppare nuove offerte per rispondere alla domanda di servizi che né lo Stato né il privato sono in grado di soddisfare: è questa la nuova economia sociale, che non ha una forma giuridica consolidata, un modello univoco di riferimento, ma è un ambito in cui sono presenti strutture organizzate di tipo sociale con forme giuridiche molto differenti. Comunque quale diretta conseguenza della recente diffusione dell’agricoltura sociale, il settore pubblico è venuto ad assumere un ruolo più importante, limitandosi per ora a funzioni di supporto e monitoraggio delle iniziative nate in ambito privato e, molto più raramente, come promotore di esperienze dirette nelle proprie strutture. Anche gli enti di ricerca sembrano acquisire un peso crescente in questo settore. Sono le espressioni del volontariato e dell’associazionismo relativo al mondo agricolo, particolarmente attivo nella promozione di esperienze di questo genere e nella creazione di strutture di rete. La presenza di numerosi attori qualificati con proprie caratteristiche e motivazioni, rende ulteriormente complesso e diversificato il quadro dei soggetti coinvolti. L’insieme degli ambiti di intervento è oggi assai vasto ed eterogeneo, ma si tende a suddividerlo in “grandi aree di lavoro” quali la riabilitazione e la cura, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo, la ricreazione e la qualità della vita, l’educazione e i servizi sociali utili alla vita quotidiana. La prima funzione riguarda strutture riconosciute, tanto pubbliche quanto del privato sociale, che operano sovvenzionate da alcune convenzioni. Sono soprattutto cooperative sociali di servizi alla persona, e sono identificate dalla legislazione nazionale come cooperative di tipo A. In 53 questi casi le attività agricole hanno valore di “laboratorio socio-terapeutico”, ma si stanno diffondendo pratiche di “inserimento socio-terapeutico” per utenti in uscita da stadi acuti di disagio. Per quanto concerne la formazione professionale e l’inserimento nel mondo del lavoro, sono per lo più cooperative sociali d’inserimento lavorativo, definite cooperative di tipo B. La formazione si realizza attraverso la promozione di specifici progetti dalla durata definita, in direzione di un inserimento lavorativo stabile, e talvolta può prevedere borse-lavoro per gli utenti che partecipano direttamente alle attività dell’impresa. Quando si parla di “ricreazione e qualità della vita” si includono tutte quelle esperienze che puntano alla semplice creazione di beni relazionali e che spesso utilizzano spazi pubblici nelle aree urbane e periurbane. Un esempio chiaro è quello degli “orti sociali”. L’ambito dei servizi all’educazione e alla vita quotidiana è composto da iniziative molto diverse ed emerge con maggiore evidenza l’incertezza definitoria che ancora caratterizza l’argomento. Nonostante le differenze tra le varie aree lavorative, e che la loro gestione sia di imprese private o privato-sociali, le ricerche svolte dagli operatori, hanno evidenziato come queste esperienze ripropongano spesso caratteristiche ben definite. utili a costruire uno stabile punto di partenza per provare a prospettare interventi comuni. Queste affinità sono le dimensioni medio-piccole delle attività, che si collocano solitamente in strutture abbandonate e utilizzano fondi inutilizzati. Poi un’elevata diversificazione dei servizi con una particolare attenzione per le produzioni tipiche del territorio, il biologico o comunque per tecniche di produzione eco-compatibile. Ricordiamo l’utilizzo di forme di vendita diretta e i numerosi contatti con gruppi d’acquisto solidale Si contraddistinguono infine per una forte apertura verso l’ambiente esterno e la vocazione all’integrazione in reti locali o sovra locali. Come ho modo spesso di notare nella mia ricerca,molti di questi aspetti toccano l’essenza stessa della “buona pratica” della Fattoria Sociale, intesa come nuovo modo di concepire l’intervento sociale impiegando le caratteristiche migliori della dimensione rurale, dai suoi ritmi di lavoro, al contatto con la natura fino alle forme di solidarietà spontanea che questa è capace di generare. Altri trovano la loro giustificazione nel fondamento etico che accompagna l’avvio e lo sviluppo di queste iniziative. Alcuni aspetti si spiegano soprattutto nel bisogno, nella necessità di spezzare e sanare condizioni di isolamento e marginalità che circondano certe realtà. 54 2.5 Parco Etologico e zoo-antropologia La ricerca e lo studio di pratiche alternative spinge gli operatori della Fattoria Sociale a sperimentare nuovi metodi d’inclusione e produttività sostenibile. Nel quadro della promozione di attività e progetti innovativi il parco etologico ha un grande valore per la sua natura complessa rispetto ad un “normale” parco naturale. Con il termine Etologia si indica quella Scienza biologica che studia il comportamento degli animali, uomo compreso. L’idea di un parco etologico, primo nel meridione, ricopre nell’ottica della Fattoria diverse funzioni sociali. L’idea di un canile vissuto e gestito come un parco, nasce da un’intuizione di Adriana Mastro, animalista che ha sempre agito contro il maltrattamento degli animali e, come risulta dalla nostra conversazione, soprattutto contro lo sfruttamento operato dalla camorra che arriva a condannare i cani al “mercato” dei combattimenti clandestini: «Impegno animalista che si è tradotto con un’ipotesi di costruzione di un canile demaniale»136. Il lavoro su questo progetto dura circa da dieci anni, finché non è stato «intercettato un fondo europeo della regione Campania. E’ da qui che nasce l’idea di un Parco Etologico regionale, primo Parco Etologico del meridione»137. Il parco etologico deve connettersi con le strategie della Fattoria, in quanto le «funzioni integrate garantiscono una discreta autonomia produttiva e significativi programmi d’inclusione territoriale»138. Il Parco, struttura dai caratteri fortemente innovativi, primo esempio in Campania e nel Mezzogiorno del Paese di canile sanitario/rifugio e parco etologico, è stato ideato quale luogo per l’accoglienza di cani e animali d’affezione abbandonati e/o randagi, rispettoso dell’ambiente e finalizzato a promuovere la qualità del rapporto uomo/animale secondo i moderni principi della zooantropologia, della vivibilità degli spazi e della sostenibilità delle attività. La zooantropologia ha come obbiettivo di ricerca lo studio del rapporto uomo-animale negli eventi interattivi e relazionali, valutandone i contributi apportati all’uomo. Il fondamento di questo tipo di analisi è il ritenere che non sia possibile comprendere l’uomo nelle sue caratteristiche ontogenetiche e culturali prescindendo dal contributo offerto dall’alterità animale. La 136 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista ibidem 138 ibidem 137 55 referenza animale è pertanto il presupposto più importante e l’obiettivo focale della ricerca zooantropologica. Oltre ad accogliere i piccoli randagi, il Parco promuoverà la pet therapy e i processi di inclusione sociale delle persone tramite il lavoro e l’impegno di cittadinanza. Ciò al fine di tramutare in realtà, nell’approccio culturale ed economico innovativo che la Fattoria sta promuovendo per contrastare l’attuale crisi strutturale del Welfare, l'aspirazione al lavoro di giovani disabili in una struttura etologica ed etica, sociale e produttiva, dunque in aperta rottura con i ricoveri-lager della camorra. L’idea di questo parco, si sposa anche con un’idea di formazione di relazioni dal basso, perché si vuole utilizzare la relazione con l’animale per ottenere effetti positivi sull’uomo. I servizi di pet therapy, realizzati secondo l’approccio zooantropologico, si basano sull’interrelazione con l’animale, promuovendo il benessere della persona, una sua integrazione sociale e affettiva, una possibile facilitazione di processi riabilitativi e quindi il supporto alle attività terapeutiche vigenti. I possibili fruitori di questi servizi infatti sono molteplici, e varie le condizioni problematiche che trovano giovamento con questo tipo di attività: autismo, Alzheimer, deficit dell’attenzione, tossicodipendenza, anoressia e bulimia, disturbi mentali, schizofrenia, problemi d’integrazione sociale, disagio affettivo, depressione, sindromi ansiogene, disturbi ossessivo-compulsivi. Si offre una singolare ma qualitativa risposta ad una “vasta gamma” di problematiche psicologiche e sociali. Credo personalmente che il valore del parco etologico, non si limiti solo a quei vantaggi terapeutico-sanitari sopracitati, ma possa comprendere in una visione olistica l’intera esperienza dell’uomo-cittadino rispetto alla natura e al suo territorio. Infatti l’apertura del Parco prevista per la fine del 2012 offrirà anche uno spazio ricreativo e relazionale importante al centro del territorio irpino. Un progetto innovativo che credo possa avere una buona risonanza anche e non solo nel territorio, favorendo così la diffusione del programma sostenuto dalla Fattoria. (Fig. 5) 56 Terzo Capitolo Analisi della Fattoria Sociale ISCA delle Donne In questo capitolo propongo di analizzare la Fattoria Sociale e le sue pratiche innovative attraverso un costante confronto con la visione politica di David Graeber, autore dell’opera “Frammenti di un’antropologia anarchica”, con il libro “Cultura e Poteri” di Stefano Boni, e ancora con il “Dominio e l’arte della resistenza” di James C. Scott. Bisognerà preliminarmente ripercorrere parte dell’opera di Balandier “Antropologia Politica”, connessa alla riflessione di Boni sul potere, utile ad un rigoroso inquadramento metodologico e necessario per collocare la mia ricerca nel campo politico dei suoi studi. Sarà questa la chiave metodologica per la lettura delle buone pratiche avviate in Fattoria e per verificare differenze e continuità esistenti. La ricerca vuole appurare il valore politico delle pratiche innovative, delle tecniche inusuali, e in generale del carattere autonomo ma sempre rispettoso e mai eversivo della Fattoria; aspetto evidenziato anche nell’intervista a Salvatore Esposito. 3.1 L’antropologia politica: definire politica e potere L’antropologia politica, inizialmente strettamente interconnessa con l’antropologia sociale della quale era considerata solo un settore di studi, si è impegnata per identificare con più precisione l’ambito del politico, suo ambito preciso di studi: perfezionando e cambiando la stessa definizione antropologica di politica questa ha acquisito, nel tempo, lo status di disciplina. Si costruisce, nel corso della storia del settore, un’antropologia dinamica che considera le società politiche non solo dal punto di vista dei principi che ne regolano l’organizzazione, ma anche in funzione delle pratiche e delle strategie che le stesse politiche provocano. L’antropologo Georges Balandier ripercorre nel libro “Antropologia Politica” la storia degli studi antropologici 57 che hanno come oggetto della loro ricerca il campo del politico. Evidenzia così i limiti, le astrazioni e le difficoltà che hanno attraversato la concettualizzazione e la definizione precisa di questo campo di studio. Le prime ricerche svolte da antropologi e ricercatori in questo ambito pretendevano di analizzare il politico partendo da una dicotomia di massima con radice etnocentrica: si distingueva tra «società senza organizzazione politica/ società con organizzazione politica, senza Stato, con Stato, senza storia o con storia ripetitiva/ con storia cumulativa ecc»139. Il problema e la ricerca del politico era inevitabilmente connesso al problema dello Stato, creando opposizioni a volte ingannevoli. I primi antropologi interessati ai fenomeni politici hanno analizzato soprattutto le loro genesi senza mai, come denuncia Gluckman, affrontare realmente il problema politico. I primi studiosi di riferimento, molto discussi per le loro teorie, sono Henry Maine e Lewis Henry Morgan. Quest’ultimo nella sua opera “Ancient society” riconosce due tipologie di massima di governo distinte ed esplicative dell’evoluzione delle società: un governo fondato sugli individui e sulle relazioni personali, considerate una società (societas); un governo basato sul territorio e sulla proprietà, valutato in quanto Stato (civitas). Da queste definizioni si determina e si circoscrive la politica alle strutture territoriali, privando così della sfera politica un vasto numero di società studiate dagli etnografi. Soltanto dopo il 1920 l’antropologia politica riuscirà ad “emanciparsi” da alcune problematiche irrisolte. I lavori elaborati da MacLeod e da Lowie risentono però ancora di una stessa preoccupazione. Nel 1927 Lowie pubblica “The origin of the State“ nel quale l’autore indica la presenza attiva di fattori interni e di fattori esterni al corpo sociale, entrambi determinanti nel processo di formazione degli Stati. Ricordiamo anche Frazer che, studiando i rapporti tra magia, religione e regalità, si preoccupa di chiarire il rapporto esistente tra Sacro e potere. Questa fase embrionale dell’antropologia politica seguiva un procedimento di tipo genetico, ponendosi principalmente il problema dell’origine e dell’evoluzione delle società, focalizzando l’attenzione sul passaggio da una società arcaica basata sulla parentela, alla costituzione dello stato primitivo. Gli antropologi politici moderni ben presto hanno capito la necessità di scindere la teoria politica dalla teoria dello stato. E’ durante gli anni trenta, con il moltiplicarsi delle ricerche sul campo e delle successive elaborazioni teoriche, che avviene una 139 Georges Balandier, Antropologia Politica, Armando Editore, Roma, 2000 pp. 17 58 determinante rivoluzione antropologica. I numerosi studi dedicati alle società segmentarie o senza Stato, alle strutture di parentela e ai modelli di relazione che le regolano permettono una più precisa delimitazione del campo del politico, facilitandone anche la migliore comprensione in situazioni differenti dal contesto culturale occidentale. In ambito africanista gli sviluppi della materia compiono rapidi progressi. Infatti nel 1940 vengono divulgate tre opere fondamentali per la moderna definizione antropologica di politica. Evans Pritchard pubblica la sua ricerca sui Nuer, società nilotica apparentemente priva di governo, ma attraversata da una precisa rete di relazioni e istituzioni politiche, tanto da essere definita dall’autore “un’anarchia ordinata”140. Ancora Pritchard edita “The Political System of the Anuak”, che è il resoconto etnografico dello studio della suddetta popolazione Sudanese che prevedeva due forme opposte e concorrenti di governo. La terza opera è “African Political System”, una raccolta collettiva diretta da Pritchard e Meyer Fortes: un lavoro di comparazione di casi etnografici nettamente distinti tra loro. Nell’introduzione a quest’opera Max Gluckman definisce questo lavoro «il primo contributo volto a conferire uno statuto scientifico all’antropologia politica»141, e inoltre slega l’analisi del politico dalla teoria dello Stato. Ora il politico non è un ambito limitato solo alle organizzazioni con sistemi istituzionali politici e di potere. Nella seconda metà degli anni ’40 aumenta notevolmente il numero di politologi e ricercatori africanisti. Distanziandosi dall’ambito africanista, riveste una grande importanza l’opera che nel 1954 Edmund Leach dedica alle strutture e alle organizzazioni politiche dei Kachin della Birmania, “Political System of Highland Burma”. La novità inaugurata da quest’antropologo è l’elaborazione di uno strutturalismo dinamico che evidenzia l’instabilità relativa degli equilibri socio-politici, l’incidenza delle contraddizioni, il divario tra il sistema di relazioni sociali e politiche e il sistema di idee associato a queste ultime. Importanti progressi nella ricerca si hanno con l’introduzione del procedimento funzionalista, che identifica le istituzioni politiche considerando l’analisi delle funzioni assunte nel determinato contesto. Radcliffe-Brown considera l’organizzazione politica come un preciso aspetto dell’organizzazione complessiva della società. 140 141 E.E. Evans-Pritchard, I Nuer: un’anarchia ordinata, Franco Angeli Editore, Milano, 2002 Georges Balandier, Antropologia Politica, pp. 23 59 La definizione di politica viene ampliata, e l’analisi si applica tanto a istituzioni e strutture politiche propriamente riconoscibili, quanto anche ad istituzioni multifunzionali utilizzate a fini politici. Comunque anche questo procedimento favorisce ancora poco la comprensione totale del fenomeno politico, il quale è considerato come composto da due gruppi di funzioni: ci sono quelle che regolano e gestiscono la cooperazione interna per il mantenimento dell’ordine sociale, e quelle che assicurano la difesa dell’unità politica garantendo la sicurezza. Le diverse funzioni collaborano alla conservazione dell’organismo politico. Allo studio genetico e funzionalista si sostituirà uno studio politico orientato alla comprensione dei modelli strutturali. Si considera il politico come attributo di ogni relazione formale relativa ai rapporti di potere tra gli individui ed i gruppi. Questa metodologia di analisi si esplica in due momenti di studio: il riconoscimento delle relazioni strutturali proprie di ogni organizzazione del sistema, e poi l’interpretazione dell’insieme di queste cellule sistemiche studiate in un’analisi combinatoria. La critica avanzata a questo metodo d’esame è il riferirsi sempre alle strutture di sistemi d’equilibrio statici. Queste sono situazioni irreali perché non prevedono il cambiamento e le trasformazioni all’interno del sistema stesso. Il procedimento dinamista corregge e completa quei punti “scoperti” dell’analisi strutturalista. Si propone di cogliere la dinamica delle strutture, prendendo in considerazione le contraddizioni, gli scontri, il potere e il contro-potere, incompatibilità e il «movimento inerente a ogni società»142. Infatti Leach durante la ricerca invita a considerare gli aspetti contraddittori e conflittuali del sistema: «Questo orientamento si rivela necessario al progresso dell’antropologia politica, in quanto il politico nasce, in primo luogo, grazie al conflitto di interessi e alla competizione»143. Gli antropologi della scuola di Manchester, influenzati da Max Gluckman, impostarono le loro ricerche tramite l’interpretazione dinamista delle società. Nei suoi lavori Gluckman ha esaminato la natura delle relazioni esistenti tra il costume e il conflitto (“Custom and Conflict in Africa”) e tra l’ordine e la ribellione (“Order and Rebellion in tribal Africa”). La ribellione è considerata come un processo costante che condiziona le relazioni politiche, mentre il rituale è l’espressione del superamento dei 142 143 Georges Balandier, Antropologia Politica, pp.28 Op. cit. 60 conflitti attraverso l’affermazione dell’unità della società. Max Gluckman ha il merito di riconoscere «la dinamica interna come costitutiva di ogni società»144, ma non indica la sua portata modificatrice. La problematica che ha incessantemente attraversato le varie ricerche dell’antropologia politica è la caratterizzazione definitiva dell’ambito del politico. Le prime teorie furono dense di etnocentrismo, perché l’intera riflessione era incentrata sull’analisi dello Stato, precludendo ed escludendo così l’osservazione politica di molte realtà extra-occidentali. Filosofia politica significava infatti filosofia dello Stato. Balandier nel suo saggio riporta alcune delle domande e dei quesiti alla base di queste ricerche: «Come identificare e qualificare il politico? Come costruirlo se non è un’espressione manifesta della realtà sociale?»145. La questione preliminare è quindi la localizzazione e la delimitazione del campo politico. A questo punto la definizione di politica non può prescindere da un approfondimento/ragionamento sul potere. Stefano Boni affronta proprio questa questione, esaminando le molteplici innovazioni teoriche che le scienze umane hanno elaborato negli ultimi decenni. L’impostazione accademica porta a concepire il potere come un campo, un’entità scissa dalla società. Negli ultimi decenni si è definita una prospettiva che considera il potere non individuandolo solo nello stato o in specifiche istituzioni, perché esso pervade l’intero corpo sociale. Si inizia ad intendere il potere come la capacità di condizionare ed indirizzare i comportamenti altrui, ed è una potenzialità che tutti possono esercitare sebbene con mezzi e fini diversi. Il potere quindi non è descritto come un preciso ambito della società e in parte slegato da essa, ma come la dimensione effettiva di ogni relazione sociale. Esso inoltre ha la capacità di plasmare le società e le culture come le conosciamo, sia dal punto di vista delle pratiche che delle idee. Nella chiave di lettura proposta di Stefano Boni, il potere deve essere ripensato ed è necessario ridiscutere i limiti e le caratteristiche del politico. Si riconosce l’importanza dello spazio concettuale e simbolico, ambito fondamentale dell’esercizio del potere, distinguendo così due accezioni. La prima è la politica retorica, cioè il campo discorsivo ufficiale, espresso nel senso comune e contenitore dell’immaginario di coerenza e legittimazione del potere istituzionale stesso. La politica retorica è soprattutto funzionale ad occultare le reali azioni di potere praticate, e queste costituiscono il secondo ambito del politico. 144 145 Georges Balandier, Antropologia Politica pp. 29 Ibidem, pp. 31 61 Questa sfera del politico, definita socio potere e spesso sottovalutata, è la forma di dominio che maggiormente si dispiega nella vita dei cittadini con effetti concreti. Lo sguardo critico rivolto alla politica retorica permette di esaminare l’utilizzo e gli effetti del socio potere nella sua diffusione quotidiana, consentendo il riconoscimento della pervasività e della minuziosità dell’intervento di condizionamento e repressione. 3.2 L’antropologia anarchica e la rivoluzione L’antropologo Americano David Graeber, nelle sue opere realizza una precisa analisi della società e della politica contemporanea, riflettendo in profondità sulla globalizzazione e sui nuovi attivismi politici, al centro dei quali c’è l’anarchia. La sua opera “Frammenti d’una Antropologia Anarchica” offre innovativi approfondimenti teorici, in cui riflette sulle molteplici forme di etnocentrismo, esamina le peculiari caratteristiche della modernità occidentale, e propone originali riflessioni sulle teorie dello stato moderno e sulle organizzazioni politiche non centralizzate. Questo lavoro propone l’esperimento di incrociare l’antropologia con la filosofia politica anarchica, funzionale anzitutto a decostruire e svelare i meccanismi intrinseci delle forme di potere e di dominio. La disciplina antropologica che studia la varietà storica e contemporanea delle società umane, conferisce molteplici esempi di esperienze dirette. Alla base di questo testo c’è quindi la connessione tra Antropologia e Anarchia, espressa nei termini di uno scambio produttivo di conoscenze e potenzialità. David Graeber esprime il bisogno che l’antropologia ampli e indirizzi il suo sguardo sui numerosi mutamenti in corso, per comprenderli e dare loro una risposta. La scelta di questa disciplina non è casuale, ma necessaria perché l’antropologia come scienza ha sempre implicato un contatto diretto con la società umana. Un passaggio del libro molto interessante per una valutazione sulla Fattoria Sociale è quello dedicato alla ridefinizione del concetto di rivoluzione e di azione rivoluzionaria. L’antropologo organizza la sua considerazione su questi temi iniziando dalla decostruzione del significato “ufficiale” del termine rivoluzione. 62 Infatti è comunemente accettata la spiegazione che il filosofo della scienza Thomas Kuhn propone nella sua opera “La Struttura delle rivoluzioni scientifiche”: il filosofo considera la rivoluzione in quanto mutamento complessivo degli orientamenti teorici, delle assunzioni metafisiche, e delle procedure sperimentali che caratterizzano una data comunità scientifica. L’insieme di questi elementi è il Paradigma, e la prevalenza di un dato paradigma segna una fase di scienza normale. Per rivoluzione s’intende il passaggio da un paradigma all’altro. La rivoluzione apre un periodo di crisi caratterizzato dall’elaborazione di nuovi concetti e dalla ricerca di nuove ipotesi sperimentali. David Graeber propone un’idea di trasformazione e di azione rivoluzionaria fondata su un lento allargamento dei modelli culturali, quindi la creazione di nuove comunità con un conseguente svuotamento del potere statale. Non prevede perciò uno scontro violento tipico della teoria basata sui paradigmi rivoluzionari. La definizione comune di rivoluzione ha e deve sempre implicare l’idea di un cambiamento di paradigma, una netta interruzione con una frattura fondamentale nella natura della realtà sociale. Le rivoluzioni, come quella francese e industriale, hanno in comune soltanto di essere entrambe uno spartiacque con tutto ciò che le precedeva. Ma l’antropologo ritiene che non si possono far coincidere i grandi mutamenti sociali attribuendogli lo stesso valore rivoluzionario dato ad un grande mutamento tecnologico. Se così fosse, ogni giorno assisteremo ad una diversa rivoluzione (cibernetica, informatica ecc...). L’antropologo invece vuole centrare la sua attenzione sul concetto di rivoluzione sociale e politica, analizzandone le caratteristiche e prescindendo, a mio parere, da alcuni comuni idealismi. Le due possibili conseguenze di una rivoluzione armata sottolineate dall’antropologo, sono l’inimmaginabile spargimento di sangue che causerebbe, e l’insicurezza che essa porti ad un effettivo annichilimento del potere, non limitandosi a sostituirlo con altre forme provvisorie. Presenta allora la sua idea di rivoluzione, o più precisamente di azione rivoluzionaria, privandola della sua proprietà essenziale di rottura improvvisa di un determinato sistema e, a mio avviso, includendola in un programma riformista: «Cosa sarà allora la rivoluzione? (...) Una rivoluzione di dimensioni mondiali – prosegue Graeber - avrà bisogno di molto tempo. Ma forse è già in corso. La maniera migliore per rendersene conto è 63 smettere di pensare alla rivoluzione come a una cosa», (la rivoluzione, il grande cataclisma, il punto di rottura) e chiedersi invece: «Che cos’è un’azione rivoluzionaria? ». Ecco la risposta di Graber: «un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni 146 sociali, anche all’interno della collettività» . Stefano Boni, continuatore dei percorsi di ibridazione tra antropologia e pensiero anarchico, nel suo libro “Cultura e Poteri”, esamina la distribuzione e l’invadenza del potere analizzando le teorie sviluppate dalle scienze umane durante gli ultimi decenni. Il focus del suo lavoro è, quindi, il potere; la sua ricerca antropologica esamina i passaggi essenziali che hanno trasformato le primitive culture egualitarie portando all’accentramento del potere tipico dei moderni Stati nazionali. Nel suo lavoro lo studioso invita ogni cittadino a riguadagnare potere, in risposta alla progressiva sottrazione indebita della loro capacità decisionale. Denomina questo genere di poteri con il termine di socio poteri, identificando così non un tipo specifico di poteri o un settore preciso della politica, ma piuttosto l’insieme reticolare dei meccanismi di dispiegamento sociale e culturale del potere e del dominio, trasversale alle diverse ideologie e tipologie politiche e pervasivo in ogni società e cultura con diversa intensità. I socio poteri, già individuati da Focault, sono quella rete invisibile di obblighi, doveri e costrizioni che opprime il cittadino ma da cui è possibile affrancarsi servendosi di saperi, prassi e valori capaci di sovvertirla. Per comprendere il valore di questi discorsi è necessario un riesame delle prospettive antropologiche sul potere. In questa interpretazione il potere è certamente considerato attivo perché innesca dei meccanismi come la “sanzione”, e produce alcuni risultati come la modifica di stili di vita introducendo nuove condotte comportamentali sia individuali che sociali. A differenza del potere inteso nella sua accezione più immediata, quindi rivolto a momenti specifici della socializzazione, il socio potere è olistico, pervasivo e onnipresente nell’organizzazione completa delle cognizioni e delle pratiche. C’è una precisa e attenta “selezione culturale” per cui alcune nozioni vengono marginalizzate e, inoltre, tramite la dinamica della “standardizzazione”, viene limitato il margine di possibilità e libertà di non seguire le norme egemoniche. Questi processi hanno l’obiettivo di formare 146 David Graber. Frammenti di un’antropologia anarchica, Eleuthera, Milano, 2006 pp.45 64 l’immaginario del cittadino, creando delle credenze diffuse in un circuito culturale, che l’autore chiama “antropologie di senso comune”147. Le forme culturali e sociali che si affermano sono quindi il risultato dei singoli atti di potere che subiamo e pratichiamo quotidianamente. Lo studioso sostiene che solo riguadagnando potere possiamo limitare il grado d’invadenza dei governi occidentali, svincolandoci da antropologie di senso comune. Quindi bisogna estraniarsi da alcuni meccanismi culturali per mettere in discussione queste rappresentazioni. Stefano Boni sottolinea la possibilità di produrre un’antropologia rispettosa dei canoni di scientificità riconoscendo «la pervasività transculturale dei meccanismi di potere nella gestione dell’immaginario e individuando i principi di falsificazione del reale che nutrono il dominio»148. L’autore auspica che la conoscenza e la coscienza dei meccanismi di deformazione si diffonda, permettendo così una redistribuzione del potere in maniera orizzontale ed egualitaria; tale obiettivo comporta e implica una «riformulazione complessiva del paradigma culturale oggi dominante»149. 3.3 James C. Scott. “Il dominio e l’arte della resistenza” Scott, nell’opera “Il dominio e l’arte della resistenza”, propone un analisi molto interessante del potere, focalizzato particolarmente sul rapporto conflittuale tra dominati e dominanti. A giudizio dello studioso, la relazione tra queste categorie sociali, basata sul potere, è intrisa di inganno e dissimulazione, perché i subordinati tendono a manifestare e simulare deferenza verso i dominanti, e allo stesso tempo i detentori dell’autorità impongono e recitano la loro supremazia. Scott esamina le diverse recitazioni degli attori sociali nei ruoli che ricoprono. Distingue allora tra due momenti, a mio parere complementari, in cui emergono le strategie diversificate di entrambi i protagonisti, dominato e dominante. Riconosce l’esistenza di discorsi e pratiche adottate “sulla scena” pubblica, che definisce appunto “verbale pubblico”, e poi un “verbale segreto”, che rappresenta le attività e le concezioni che non possono essere dichiarate 147 Stefano Boni, Cultura e poteri, Un approccio antropologico, Cremona, Eleuthera, 2011 pp. 157 Ibidem, pp. 177 149 Ibidem, pp. 203 148 65 apertamente, e quindi limitate ad essere svelate soltanto “dietro le quinte”. Il comportamento pubblico del subordinato sarà modulato, per prudenza, paura o interesse, in maniera adeguata alle aspettative di chi detiene il potere. Entrambe le parti, comunque, sono attente a dissimulare il rispettivo verbale segreto, collaborando tacitamente ad una rappresentazione falsata. Più il potere sarà minaccioso, tanto più i subordinati devono essere fedeli e attenti al verbale pubblico, assumendo un «atteggiamento stereotipato, ritualistico»150. L’autore descrive questa dinamica, valutando che un potere aggressivo, produce nei subordinati delle “maschere impenetrabili”. Ritengo che in questi passaggi l’autore voglia sottolineare quanto la conoscenza del verbale pubblico offra una conoscenza parziale delle relazioni di potere. Il verbale segreto, costituito quindi dai discorsi fuori scena, conferma, contraddice o più semplicemente modifica ciò che appare nel verbale pubblico. Le relazioni di potere, però, non hanno caratteristiche univoche e sempre ordinarie, perciò non si può qualificare tutto ciò che è pertinente al verbale pubblico come falso e dettato dalla necessità, e tutto il contenuto del verbale segreto come veritiero e espressione di libertà. Certamente analizzando le discrepanze esistenti tra i due, si può avere una prima valutazione del grado d’ingerenza e coercizione del potere. Il verbale pubblico è l’autorappresentazione dell’elite dominanti, ed è solitamente programmato per sostenere e legittimare il proprio potere, nascondendo o edulcorando gli aspetti pericolosi o negativi del dominio. Di primaria importanza per la classe predominante, è la produzione della giustificazione ideologica del loro potere rispetto l’inferiorità dei sudditi. Dall’esame della distinzione tra verbali, si possono distinguere quattro varietà di discorso politico tra i gruppi di subordinati. Il criterio che guida questa differenzazione e la maggiore o minore conformità al discorso ufficiale. Individua innanzitutto la forma più sicura e pubblica di discorso politico, basato proprio sull’immagine prestabilita che l’elite da di se stessa. Una seconda forma, contrapposta alla prima, è quella del verbale segreto stesso, dove i subordinati, fuori dal controllo e dallo sguardo del potere, possono produrre una visione contraria a quella imposta. La terza varietà del discorso subordinato è quella che strategicamente si pone a metà tra i primi due. Questa utilizza il travestimento, e sfruttando l’anonimia si può manifestare in pubblico, esprimendo tramite pettegolezzi, storie popolari, barzellette e canzoni un doppio significato che 150 James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera, Milano, 2006 pp. 16 66 trasmette, celandola, parte del verbale segreto. Infine quel discorso, che a mio parere si può definire di aperto distacco e di polemica manifesta al potere, nel quale si rompe il cordone sanitario politico che sostiene e separa il verbale pubblico e quello segreto. E’ molto interessante per comprendere l’idea di resistenza tracciata dall’antropologo una riflessione sulla concezione d’“infrapolitica” delineata dall’autore. Nella sua opera Scott usa l’espressione dandogli un’importanza e un valore semantico basilare per una valutazione dei meccanismi di potere e resistenza. Al termine infrapolitica associa infatti l’idea di un aspetto poco evidente del conflitto politico: «(…) la lotta circospetta condotta giorno per giorno dai gruppi subalterni è, come i raggi infrarossi, al di là della banda visibile dello spettro»151. Se queste pratiche restano invisibili, secondo Scott, è per una scelta tattica di prudente attenzione a non intaccare gli equilibri di potere prestabiliti. L’infrapolitica comprende in questa accezione anche tutto ciò, che a livello culturale e strutturale è alla base di un’azione politica più visibile. L’autore quindi cerca di dimostrare come: «ogni ambito di resistenza aperta alla dominazione sia oscurata da una sorella gemella che mira agli stessi risultati strategici, ma il cui basso profilo si adatta meglio al compito di resistere ad un avversario che probabilmente potrebbe vincere in un qualsiasi scontro aperto»152. Propone in questo capitolo l’esame della teoria che definisce “della valvola di sfogo”, intesa come rovesciamento aperto di parte del verbale segreto in quello pubblico. Solitamente però, queste manifestazioni di sovvertimento, sono ritualizzate e inserite in canali gestiti e controllati. La possibilità data ai gruppi subalterni «di giocare alla ribellione entro certe regole specifiche e in tempi stabiliti»153, secondo Scott ha l’obiettivo di contribuire ad impedire forme più pericolose di aggressività. Aggiunge però, riportando nel testo alcuni casi specifici, che spesso la rabbia fuori scena o “permessa” è stata la preparazione per l’esplosione finale, e non un’alternativa soddisfacente. Non si può considerare quindi una regola attendibile che rituali di aggressione controllata spostino l’attenzione dal reale bersaglio. L’insufficienza di questa teoria è rintracciata nel fondamentale errore idealista che ne è 151 James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera, Milano, 2006 pp. 244 152 ibidem pp. 245 153 Ibidem pp.246 67 alla base. Esaminando il dibattito e strutturandolo nei parametri di una lotta concreta, materiale, è impossibile separare la resistenza simbolica e celata dalla lotta pratica per moderare o deviare lo sfruttamento. Il verbale segreto perciò non è descritto solo come una lamentela o una critica fuori scena, ma anche come pratica, che agisce tramite strategie di basso profilo. Il verbale segreto non si limita a chiarire o spiegare i comportamenti, ma contribuisce attivamente a formarlo. Spesso si manifesta nella pratica come scelta di esercitare i propri diritti «poco alla volta e senza rumore»154. A mio parere, lo sforzo che si propone l’autore in queste pagine è soprattutto far emergere l’incessante dialettica tra il verbale segreto e la resistenza pratica: «In sostanza, è più esatto vedere nel verbale segreto una condizione per la resistenza pratica più che un sostituto di essa»155. La forza e l’energia che può motivare forme di resistenza infrapolitica possono essere molteplici, per lo più inserite nello spettro che si forma tra il livello di rabbia e necessità della popolazione subordinata, e le contromisure di controllo e punizione. L’intensità della resistenza può variare in conformità con le circostanze, ma è molto raro che essa scompaia del tutto. Piuttosto l’autore afferma la pervasività del verbale segreto, che «come una massa d’acqua preme contro una diga»156. Le forme quotidiane in cui si frammenta la resistenza di basso profilo teorica e pratica incanalano gli sforzi aprendo la strada alla sfida aperta e collettiva. Un’osservazione eseguita nelle attuali democrazie liberali dell’occidente, anche considerando esclusivamente l’azione politica pubblica/aperta potrebbe cogliere molto della vita politica. Con la conquista storica delle libertà politiche di parola e associazione si è guadagnato molto in termini di espressione politica aperta. Ma comunque, riprendendo le parole dello stesso Scott nel “Dominio e l’arte della resistenza”, «la sola considerazione della resistenza dichiarata non ci aiuterebbe a capire il processo attraverso cui nuove forze e richieste germinano, prima di esplodere sulla scena»157. Invece l’autore accredita la tesi secondo cui l’infrapolitica, cioè quella forma di resistenza travestita, accompagna sempre silenziosamente anche le forme più sonore di resistenza pubblica. L’infrapolitica è intesa perciò sostanzialmente come la forma strategica che la resistenza dei subalterni assume contro censure e coercizioni del 154 James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera, Milano, 2006 pp. 251 155 ibidem pp. 253 156 ibidem pp. 257 157 ibidem pp. 261 68 potere. Il basso profilo, coerente con l’infrapolitica, significa per l’autore lasciare poche tracce del proprio passaggio, minimizzando o eliminando completamente prove che potrebbero coinvolgere il cittadino. L’autore valuta l’infrapolitica come la forma primaria, basilare di politica, nel quale si può elaborare un discorso contro egemonico con più sincerità, continuando a premere e saggiare i limiti del permissibile. «L’nfrapolitica è infatti vera politica»158. Questa attenta esegesi del lavoro di ricerca sul politico, mette in luce un aspetto metodologico per la completezza del determinato studio a mio parere molto importante: «Mettendo a confronto il verbale segreto del debole con quello del potente ed entrambi con il verbale pubblico delle relazioni di potere si ottiene la possibilità di capire in modo sostanzialmente nuovo la resistenza al dominio»159. 3.4 Peter Lamborn Wilson. Agricoltura e resistenza In questo paragrafo intendo brevemente evidenziare la riflessione, a mio parere stimolante e coerente con il tema del mio lavoro, proposta dallo scrittore e poeta statunitense Peter Lamborn Wilson. La fama di quest’autore è strettamente connessa con l’innovativo concetto delle “Zone Temporaneamente Autonome” (TAZ)160, di cui è il primo propositore. 158 James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale, pp.263 Ibidem pp. 11 160 Conosciuto principalmente per l’innovativo concetto delle “Zone Temporaneamente Autonome” (TAZ), che si basano sulla rivisitazione storica delle Utopie Pirata. Le TAZ delineano una tattica sociopolitica consistente nella creazione di zone temporanee, eludendo le strutture ufficiali di controllo sociale. Per consentire a questa zona di esistere, il lettore deve giungere preliminarmente alla comprensione di quale sia il metodo migliore per creare un sistema non gerarchico basato sulle relazioni: il suo compito è quindi di proiettare tutto nel presente permettendo a tutti di emancipare la propria mente dai meccanismi sovraimposti. L’informazione è un concetto chiave per la formazione di queste zone, perché una giusta e attenta informazione, libera da censure ed influenze del potere, permette di dubitare del sistema. Dal dubbio prende forma un nuovo “territorio mentale” nel soggetto, ma se questo si sviluppa in più soggetti può divenire reale. La permanenza e l’eccessiva durata di una TAZ è nociva, perché rischia di deteriorare sino a divenire un sistema strutturato, debilitando così la creatività individuale che si sviluppa nel processo di creazione. 159 69 In un piccolo opuscolo dal titolo “Avant Gardening”, l’autore affronta la tematica del contatto con la terra e con la natura ai nostri tempi. A suo parere l’esperienza diretta con la terra, nel giardinaggio e nell’agricoltura, possono offrire non soltanto una possibile zona di autonomia dai circuiti dominanti del commercio, ma in più rappresentano un’effettiva azione di resistenza. Ripercorrendo le teorie di Charles Fourier, rintraccia lo stretto legame che unisce l’agricoltura alla nascita della gerarchia e della separazione. L’agricoltura a suo parere, sin da quando ha preso il posto dell’orticoltura presente nelle società di raccoglitori, ha iniziato un percorso di mercificazione collegandosi sempre di più nel profondo all’idea di Capitale. L’autore in questa analisi si riferisce alle agricolture estensive che hanno sempre di più separato i contadini dalle loro terre e dai loro prodotti. E’ a mio parere un’analisi a-posteriori sul significato di agricoltura e terra nel mondo contemporaneo: «Le piante si coltivano ancora nella terra, ma il loro DNA può essere proprietà di multinazionali»161. Lo sviluppo ha portato alla moderna tecnica industriale che in nome del profitto, tramite le bioscienze, punta a rendere la natura sempre meno “caotica”, più omologata al mercato e distruggendo così tracce genetiche di biodiversità: «Un tempo lo stato di New York produceva 106 varietà di mele, ciascuna con un aspetto e un sapore diversi. Senza dubbio tutta questa varietà piaceva agli amanti delle mele, ma si ricavava parecchio inefficace dal punto di vista del mercato. Sarebbe stato molto più sensato se ci fossero stati solo tre o quattro tipi di mele. L’aspetto e la durata della conservazione sarebbero stati importanti, ma non il sapore. Anzi meglio eliminare il sapore, poiché a persone diverse piacciono sapori diversi. (…) Se invece tutte le mele hanno lo stesso aspetto e lo stesso sapore, ben presto tutti dimenticheranno che le mele siano state diverse»162. Si creano delle immagini, immagini globali che trascendono i corpi meramente accidentali delle varietà di mela. Una “gestalt” unica riassume tutte le forme possibili di mela. L’autore parla allora di “mistica del Capitale”, perché si trascende il corpo, il piacere e la vita nell’apoteosi del puro scambio commerciale. E’ per questo motivo che gli agricoltori e orticoltori liberi da questi processi rappresentano la prima linea di resistenza al capitale. La figura che l’autore definisce avant-giardiniere, usa il lavoro 161 162 Peter Lamborn Wilson, Avant gardening, Torino, Nautilus, 2011 pp.17 Ibidem, pp.22 70 sulla terra come una “via” spirituale e considera la sua attività un arte; allora, continua l’autore, deve esistere in questo campo anche una connotata dimensione politica, un livello chiaro di consapevolezza, perché: «curare un orto è diventato, almeno potenzialmente, un atto di resistenza. Ma non è soltanto un gesto di rifiuto. E’ un atto positivo. Una pratica»163. La terra è intesa come libertà, cibo, creatività e piacere. Lamborn Wilson nel suo testo offre spunti innovativi rispetto ai meccanismi globali, presentando pratiche come la “permacoltura”, descritta come «la più brillante sintesi di tutte le tendenze agricole alternative del XX secolo»164. Nata in Australia, la permacoltura è un processo integrato di progettazione, basata sui concetti di biodiversità, sostenibilità, equilibrio e piacere. Permacoltura significa quindi ecologia ed etologia, inventare e progettare il nostro essere integrati nel mondo. Secondo l’autore però, il limite della permacoltura «sta nella sua stessa perfezione. (…) non riesce a competere con un sistema globale apertamente basato sul saccheggio, sul monopolio, sull’immiserimento e sulla forza schiacciante del Capitale puro»165. Ritengo che questa breve analisi offra diversi spunti su cui ragionare. Innanzitutto è possibile rintracciare diverse coincidenze con il pensiero di Latouche, come nell’amara riflessione: «Quando la maggior parte di noi occidentali avrà capito la vera questione, potrebbe essere troppo tardi»166. Anche in questo autore, accanto al senso di inevitabilità opprimente, troviamo la severa critica al sistema produttivo che distrugge e devasta l’ecosistema mondiale. Soltanto un’agricoltura slegata da certe logiche di profitto e di potere e connessa con la vita stessa degli uomini può risollevare le sorti del pianeta. E’ in questo tipo di agricoltura e di produzione che si attua la reale resistenza. 163 Peter Lamborn Wilson, Avant gardening, pp.8 ibidem pp.10 165 Op. cit. 166 ibidem pp.19 164 71 3.5 Resistenza e politica nella Fattoria Sociale La Fattoria Sociale, attiva e innovativa nelle sue pratiche e produttrice di forme riformiste di sviluppo e resistenza, non può essere definita “rivoluzionaria” in ottica graeberiana. E’ vero che per diversi aspetti e per alcune finalità che riveste può rientrare nei confini della definizione proposta, ma certamente l’azione della Fattoria non è di scontro o abbandono completo di coinvolgimenti istituzionali così come prevede l’accezione graberiana. Infatti, se è vero che si riscontra un tentativo di affrancamento è anche vero l’intento, implicito e manifesto nelle buone pratiche, di apportare modifiche ed emendamenti a determinate insufficienze dell’azione statale; quest’ultime vanno rivisitate e corrette, attraverso una ridiscussione dell’azioni e delle finalità future proponendo una visione alternativa a quella imposta dalla politica ufficiale. Una forma di associazionismo autonomo e promotore di progetti innovativi non vincolati al paradigma dello statale, finalizzati alla creazione di nuovi rapporti sociali e di potere indicativi per una nuova comunità relazionale. La promozione di un nuovo modello di crescita/decrescita, di cittadino, di un nuovo rapporto qualitativamente etologico con la natura e l’intero pianeta, non coincidono tuttavia con una pressoché totale emancipazione dalle dinamiche statali. Si mantiene senza dubbio una distanza, e si sottolinea questo basso livello di sincronismo teorico e pratico, senza però orientarsi verso un totale abbandono. Non si riscontra quindi una coincidenza sufficiente con la proposta rivoluzionaria avanzata da Graeber, ma a mio parere questo non sminuisce la portata innovativa e riformista del progetto. Per alcuni aspetti ho considerato la Fattoria Sociale come un esempio di resistenza alle imposizioni culturali e sociali del nostro tempo. Ritengo infatti che la promozione di un diverso modello di sviluppo, di cittadino e di relazioni, si sottragga in parte dal discorso egemonico, presentando alternative altrettanto valide e soprattutto non circoscritte nel campo imposto dalla standardizzazione sociale. A mio parere questo passaggio ha un grande valore intrinseco perché, se pensiamo alle parole di Scott, un vero dominio non è tale se non convince i dominati che non esistano alternative possibili alla situazione presente. E’ per questo motivo che ritengo molto importante il ruolo sociale della Fattoria, come impegno per scoprire i limiti imposti dalla 72 standardizzazione culturale, evidenziando così le eventuali negatività e i possibili errori che si assumono automaticamente come inevitabili. Ricollegandomi all’analisi di Scott, ritengo sia molto interessante l’impegno attivo praticato dagli operatori della Fattoria; a mio parere infatti le finalità ultime, che connotano nel profondo le azioni che si implementano nella Fattoria, rappresentano la confluenza del “verbale segreto”, nell’azione pubblica. La Fattoria Sociale chiarisce, senza veli o maschere, i suoi presupposti, i suoi principi e i suoi obiettivi rendendo palesi, in questo modo, le preferenze e le scelte politiche e sociali che appoggia e desidera valorizzare. In questo senso, ritengo, è un movimento politico d’avanguardia e di resistenza, con rilevanti caratteristiche riformiste da prendere seriamente in considerazione. La fattoria sociale è un esempio di rottura di quello che Scott definisce cordone sanitario di separazione tra verbale pubblico e segreto. Ogni iniziativa e proposta politica/economica è un tentativo di rendere pubblico e fruibile quel sostrato teorico di cui è difficile delimitarne “il segreto e il pubblico”. Certamente, come spiega l’antropologo nel “Dominio e l’arte della resistenza”, con le libertà politiche concesse nelle democrazie occidentali, questo non è né un fattore esclusivo né comunque sufficiente ai fini dell’esame. La novità, probabilmente, è che proprio in questa concordanza si esplica la forza e la dignità del loro piano di lavoro. Nel corso dell’intervista con Salvatore Esposito ho avuto modo di delineare la visione politica della Fattoria. L’intervistato ha risposto alle mie domande sottolineando la totale estraneità e indipendenza dalle logiche di partito, da qualsiasi schieramento e ideologia politica con modelli di riferimento statici. Si tratteggia quindi un carattere politico profondamente dinamico, difficilmente implicabile e riducibile in definizioni categoriche. Politicamente la Fattoria non si schiera con i partiti, rifiutando sostanzialmente qualsiasi sistema di potere: «Contro chiunque usi la politica come logica di potere, strumento di controllo e strumento clientelare, come scambio di diritti e di favori»167. Il loro impegno si manifesta nello schierarsi sempre dalla parte dei più deboli, degli ultimi, ma soprattutto di leggere la complessità delle difficoltà e di progettare interventi 167 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista 73 partendo dalla loro angolazione. E’ questa secondo Salvatore Esposito la condizione prima che ci ha insegnato la politica della differenza. La politica, e soprattutto l’azione politica incentivata dalla Fattoria, è ed è in ciò che le loro stesse pratiche raccontano e rivelano: «la politica è nelle nostre pratiche sociali, nelle nostre esperienze di produzione sostenibile, di cittadinanza. Noi pensiamo, con la schiena dritta, che anche il terzo settore debba schierarsi per una politica di cittadinanza, per una politica del rispetto dell’uomo, della natura e delle altre specie viventi»168. Prosegue argomentando la sua visione politica con ragioni antropologiche e sociali: incoraggia un modello di uomo che non deve essere considerato come essere superiore ma come una risorsa consapevole di un nuovo equilibrio di rapporti, favorendo una nuova forma di rispetto per le risorse del pianeta. Il loro rapporto con le istituzioni segue questo filo rosso, perciò se l’istituzione rispetta e favorisce queste buone pratiche possono collaborare insieme con grande entusiasmo: «Non abbiamo governi amici, non abbiamo governi nemici, abbiamo governi che garantiscono un impronta ecologica ed etologica sostenibile, governi che rispettano e favoriscono le cittadinanze, e governi che no. Ci schieriamo su questi contenuti»169. Intervenire su temi come la politica e il potere, conduce a riflettere sulla nostra democrazia e quindi sulle problematiche ad essa connesse. Salvatore Esposito afferma che il punto più vulnerabile della nostra democrazia è proprio «la condizione di potere della democrazia, che sostituisce la responsabilità»170. Ogni cosa, la rappresentanza, il ruolo e la partecipazione dei partiti si gioca su questi punti. Distingue tra una buona rappresentanza, fondata e strettamente connessa con il pensiero della responsabilità, da una cattiva rappresentanza basata sul potere. Riconosce, manifestando consapevolezza e amarezza, che purtroppo nel tempo «si sono sedimentate molte logiche di potere che si separano dai bisogni»171. Conferisce un valore completamente differente alle logiche 168 Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista ibidem 170 ibidem 171 ibidem 169 74 della responsabilità, perché «interpretano, leggono e danno risposta ai bisogni fondamentali delle comunità e delle persone»172. Questo tipo di atteggiamento distaccato verso il governo e la politica è prodotto dallo scarso impegno dello Stato nell’incentivare il lavoro del terzo settore e dalla poca presenza sul territorio “reale”. Emerge chiaramente un atteggiamento in parte di avvicinamento e collaborazione, in parte di rottura e superamento nei confronti delle istituzioni. A mio parere, il resoconto dell’audizione in Senato della Fattoria Sociale, è un esempio esplicativo della loro concezione politica, e della compresenza di verbale pubblico e segreto. Da molte delle parole usate in questo breve testo scritto da Salvatore Esposito, è possibile afferrare il rispetto verso le “gerarchie”, che si unisce però alla consapevolezza e alla valorizzazione delle qualità e potenzialità insite nelle progettualità presentate. Il 27 marzo del 2012, accompagnati da Alfonso Andria, senatore del PD e vicepresidente della commissione agricoltura, una delegazione della Fattoria Sociale è invitata in Senato per presentare il Progetto. Nella descrizione di questo evento non si nascondono le difficoltà per “l’ambasciata” di sostenere l’approccio al “palazzo”, in più osteggiati dagli sguardi di alcuni senatori: «(…) Già Alfonso aveva consigliato di non essere troppo informali. Di rispettare i ruoli, di ringraziare. Chissà perché aveva voluto avvisarci. Forse la squadra appariva troppo disinvolta. Don Tonino aveva da poco finito, con molta franchezza, di mandare al diavolo un prete. Io arrancavo sofferente per un dolore di ernia. Luisa dissacrava ogni cosa solo con lo sguardo. Adriana commentava, con la solita auto-ironia, il nostro approccio al “palazzo”. Solo Enzo Sacco ci faceva una bella figura con un vestitino signorile e con uno stile distinto. Ma nel gruppo tutto si mischiava in una strana sensazione d’inadeguatezza (...)»173. Racconta questo disagio alimentato da quel «mondo lontano e separato» che gli ha concesso un’audizione solo grazie alla cortesia di Alfonso Andria. Superate le formalità, i diversi operatori raccontano le loro storie suscitando un vivo interesse da parte di molti dei senatori presenti. Continua la descrizione dell’evento, delineando i motivi che hanno animato la voglia di essere ospiti al senato. Inoltre è molto interessante la presa di coscienza e di consapevolezza verso i propri obiettivi e le pratiche per attuarli, che 172 ibidem http://www.cittasociale.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=117:senato-audizioneoperatori-sociali-fics&catid=2:uncategorised&Itemid=101 173 75 rimarca la presa di distanza e il non sentirsi dignitosamente implicati con le improduttive dinamiche statali: «Un´improbabile delegazione per parlare di storie poco di moda in Parlamento. Parco etologico, fattoria sociale, welfare e decrescita. Soprattutto povertà di cittadini e di operatori. (…) Come faccio a dire che gli indecenti sono loro. Come faccio a dir loro sul grugno che, noi, affrontiamo il potere e la camorra a viso aperto. Che mentre loro sono clienti degli evasori fiscali noi parliamo di Antonio Genovesi. (…)Voi siete i legislatori, provate a capire le norme di cui ha bisogno il Paese. Noi siamo il territorio, possiamo anche consentirci di essere un passo avanti al Parlamento. Voi dovete ascoltare con rispetto. Qui si tratta della vita di tutti i nostri figli. Si tratta di contrastare la criminalità e la camorra, di promuovere lavoro, di difendere diritti. Insomma, cari senatori, è vero che ci ha portato Alfonso Andria, ma non siamo clienti di nessuno e lavoriamo sodo per parlarvi di queste innovazioni, di imprese sociali libere e di questa ricerca sociale straordinaria ed unica nel Mezzogiorno. Ma vi rendete conto che questo sviluppo distruttivo non ci porta da nessuna parte? Che il Mezzogiorno ha bisogno di agricoltura sociale? Ma state capendo che la questione è seria ...? Guardate, noi oggi siamo venuti, ma non possiamo mica perdere sempre tempo con Voi. Su, datevi una mossa. Il quadro esplicito e implicito è più o meno questo. (…) Sono tutti senatori. Stanno tutti lì, a convivere, per sopravvivere come casta e come potere. Al bar dei nominati, prendiamo, schivi, solo un caffè. Ostentiamo una certa distanza»174. A mio parere nella riflessione politica suggerita da Lamborn Wilson, possiamo riscontrare delle coincidenze con il progetto della Fattoria Sociale. In entrambi i discorsi ritengo che il valore attribuito alla terra, intesa in quanto organismo da difendere e tutelare, presenta diversi aspetti in comune. Ancora è molto importante il significato del lavoro agricolo: nel pensatore statunitense è elevato ad un’attività a tutti gli effetti artistica ed estetica, una via spirituale e l’unico modo per una reale emancipazione e resistenza dai mercati e dalle logiche mondiali; ritengo che simbolicamente e concretamente sia questo il valore attribuito alle attività rurali praticate nella Fattoria. Da una parte infatti, si valorizza il lavoro d’agricoltura e sul territorio, nel senso di una vera e propria educazione all’ambiente. Dall’altra, inoltre, si creano e favoriscono con le proprie produzioni circuiti alternativi di scambio, favorendo la produzione locale e nel totale rispetto dei “bisogni” della terra. 174 http://www.cittasociale.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=117:senato-audizioneoperatori-sociali-fics&catid=2:uncategorised&Itemid=101 76 Conclusione Ho provato a raccontare in queste pagine un’esperienza densa di significato antropologico, approfondendo così la riflessione sulle questioni di crescita e modernità. La ricerca sul campo in Irpinia mi ha offerto la possibilità di cogliere il valore politico della Fattoria Sociale; infatti dalla mia analisi è emersa la natura dell’associazione: ho individuato che l’organizzazione ruotava attorno ai concetti di qualità dello sviluppo e di patrimonio ecologico ed etologico del territorio, proponendo un’alternativa al modello attuale di progresso e crescita. Certamente nella Fattoria Sociale si promuove un tipo di politica che è caratterizzata soprattutto, riprendendo l’etimologia greca del termine, dall’attenzione verso il “polites”, il cittadino, considerato nel suo essere soggetto attivo e partecipante per il benessere comune. La partecipazione di tutti intesa come una nuova consapevolezza della responsabilità politica delle persone e delle comunità verso i beni comuni, la libertà e la democrazia. La storia professionale di Salvatore Esposito, fondamentale per la comprensione della Fattoria Sociale, racconta bene la complessità politica e umana del progetto. Nel sua percorso esperenziale confluiscono le problematiche legate al contesto dei servizi sociali in Campania, unite all’impegno personale e alla collaborazione con altri operatori sociali per ricercare ed elaborare nuovi modelli organizzativi. La Fattoria Sociale infatti, gestita dalla rete FICS, individua la propria strategia di educazione e di rispetto all’ambiente e agli altri esseri viventi, immaginando e delineando i suoi interventi e le sue progettualità nell’ottica dello sviluppo sostenibile. Come ho spiegato già nel corso del lavoro, la posizione riguardo specifiche tematiche attraversa sempre importanti momenti di riflessione-critica e rinnovamento. Lo studio dell’opera di Serge Latouche e della decrescita ha favorito la discussione e la rielaborazione dello sviluppo sostenibile, inteso come reale priorità per il benessere dell’ecosistema abbandonando le logiche del profitto. La Fattoria Sociale alla luce di questo working progress, raccoglie le sollecitazioni e le intuizioni di diverse scuole di pensiero, ma non è soltanto un’iniziativa astratta che si nutre esclusivamente di teoria. Le attività già avviate e quelle che sono ancora solo in progetto, hanno come obiettivo la produzione di un’economia civile individuata sul territorio, per sostenere il Welfare locale. Quindi è 77 opportuno leggere le “buone pratiche” favorite dalla Fattoria Sociale con questa duplice chiave di lettura: riuscire a garantire oltre che l'assistenza e la cultura anche entrate economiche, riuscendo a sostenersi autonomamente. Nel corso del lavoro ho spiegato il significato di agricoltura sociale, attività che unisce al lavoro agricolo importanti programmi d’inclusione sociale. Tra le buone pratiche offerte, è prevista entro la fine del prossimo ottobre, l’apertura del Parco Etologico, canile rifugio che ospiterà randagi e/o animali abbandonati. Il Parco, struttura dai caratteri fortemente innovativi, è il primo esempio esistente in Campania e nel Mezzogiorno del Paese di esperienza zooantropologica, offrendo inoltre la possibilità d’interventi terapeutici legati a nuove concezioni del rapporto uomo animale. Nonostante le molte funzioni svolte dalla Fattoria Sociale, ritengo che la forza principale di questa impresa economico-sociale sia proprio nell’attenzione riservata al territorio in cui s’instaura. Purtroppo è noto che la Campania, dal punto di vista paesaggistico e tradizionale, è una regione molto a rischio per la poca attenzione verso le numerose particolarità naturali e culturali che conserva. Sono molteplici infatti le dimostrazioni che testimoniano una situazione complessa e difficile per la regione, escludendo alcune “oasi” dove l’attenzione all’ambiente e alla qualità della vita è maggiore. L’esperienza che racconto si sta implementando precisamente nell’Irpinia raccontata da Franco Arminio, autore che descrive la sua terra attraverso il viaggio nei paesi del territorio. L’Alta Irpinia, che ospita la Fattoria Sociale, conserva al suo interno un ricco patrimonio di tradizioni culturali e colture agricole. Infatti da centinaia di anni nelle sue terre vivono anche grazie alle fiorenti attività legate alla viticoltura, all’olivicoltura e alla corilicoltura. Tradizioni, relazioni e saperi centenari che rischiano di scomparire con l’avvento incondizionato di un modernismo distruttivo. A questo proposito, riprendendo Franco Arminio, esiste la paura che l’Irpinia venga ingoiata dall’industria del commercio e della globalizzazione. Pertanto la Fattoria Sociale, con le sue buone pratiche, ponendosi nel filone delle tradizioni locali, assume un ruolo centrale per la protezione delle tradizioni e la valorizzazioni di questi luoghi. Queste tematiche hanno indirizzato la mia ricerca verso autori, che con le loro elaborazioni e le loro intuizioni, incrociavano aspetti interessanti della mia ricerca. Infatti antropologi come George Balandier, James C. Scott, Stefano Boni e David Graeber, con i loro lavori mi hanno aiutato a sviluppare uno sguardo politico anche in 78 contesti dove apparentemente questo non è esplicito ed evidente. Loro testimoniano infatti quanto la rete del potere e i meccanismi di forza siano presenti con diverse intensità in ogni manifestazione sociale. Questi studiosi sostengono l’importanza di un’ osservazione politica pervasiva nella società. Il mio lavoro è consistito nel tentativo di analizzare le attività della Fattoria Sociale attraverso le chiavi lettura offerte dagli approfondimenti di questi studi. 79 Appendice Iconografica: Fig. 1 Raffigurazione geografica dell’Irpinia 80 Fig. 2 Progetto Piante grasse 81 Fig. 3 Planimetria generale della Fattoria Sociale 82 Fig. 4 Foto della Fattoria Sociale 83 Fig. 5 Progetto Parco Etologico. 84 Materiale REGIONE CAMPANIA - Giunta Regionale - Seduta del 6 luglio 2007 - Deliberazione N. 1210 - Area Generale di Coordinamento N. 18 - Assistenza Sociale, Attività Sociali, Sport, Tempo Libero, Spettacolo – N. 11 - Sviluppo Attività Settore Primario Definizioni delle caratteristiche funzionali della Fattoria Sociale per la promozione di programmi di sviluppo sostenibile nella Regione Campania. PREMESSO -CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 1042 del 1 agosto 2006 ha approvato il Documento Strategico Regionale per la Politica di Coesione 2007/2013, in cui constata che l’indice di dotazione delle infrastrutture sociali (sanitarie, per l’istruzione, sociali, culturali e ricreative, ecc.) evidenzia in Campania un forte squilibrio territoriale, e quindi rileva la necessità di potenziare e riqualificare la rete delle infrastrutture da destinarsi ai servizi sociali e di sostegno alle responsabilità familiari e di favorire un deciso ampliamento quali-quantitativo del sistema d’offerta di servizi, per avvicinarlo maggiormente ai bisogni dei cittadini. -CHE il Piano Strategico Nazionale per lo Sviluppo Rurale del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del 20 dicembre 2006, anche al fine del mantenimento dei posti di lavoro, propone la diversificazione dell’attività agricola e la promozione di attività e servizi innovativi per le popolazioni rurali, prevedendo nel terzo asse strategico, accanto ad interventi a favore delle economie locali, azioni finalizzate al miglioramento della qualità della vita attraverso la promozione dei servizi socio- economici (istruzione, servizi sanitari, ecc.), dell’animazione e dell’inclusione sociale; -CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 453 del 16 marzo 2007 ha approvato il Piano di Sviluppo Rurale della Regione Campania 2007/2013 relativo al FEASR, in cui la Misura 3.4 “Servizi essenziali alle persone che vivono nei territori rurali”, con il proposito di supportare lo sviluppo dei servizi essenziali per migliorare la qualità della vita della popolazione rurale e favorire lo sviluppo di attività economiche - sociali nelle aree rurali marginali, propone l’avviamento e l’ampliamento di servizi alla popolazione, individuando tra le tipologie di intervento la «fattoria sociale», quale impresa sociale 85 conduttrice di un fondo agricolo nella quale spazi e/o coltivazioni vengono dedicati a persone svantaggiate (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani, bambini e adolescenti, ecc) con l’esplicito proposito di coinvolgere soggetti con bisogni speciali, anche attraverso lo svolgimento di programmi di inclusione individualizzati. -CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 453 del 16 marzo 2007 ha approvato la proposta del Programma Operativo FSE per la attuazione della Politica Regionale di Coesione 2007/2013, in cui al fine di sviluppare percorsi di integrazione sociale prevede di agire con attenzione ai target ma anche alle condizioni di contesto che determinano i rischi di esclusione e marginalità, avendo riguardo alla costituzione e sviluppo di servizi di sostegno e di reti di solidarietà e di assistenza formali ed informali per favorire anche la diffusione della cultura della legalità. RILEVATO -CHE l’attività agricola condotta con modalità ecocompatibili ed ecosostenibili, per la molteplicità e la varietà di azioni esercitate, consentendo un’organizzazione del lavoro in cui possono essere valorizzate competenze ed abilità che in altri settori produttivi incontrano maggiori difficoltà di impiego, presenta un’ampia gamma di opportunità lavorative per persone diversamente abili, troppo spesso escluse da cicli produttivi in cui le performances richieste non tengono conto delle caratteristiche e dei bisogni individuali; -CHE l’attività agricola, condotta con etica di responsabilità verso la comunità e verso l’ambiente, per la molteplicità di situazioni ed attività in cui dar spazio ad una pluralità di esigenze espressive, per il significativo contributo ad un corretto orientamento spazio-temporale, per il favorire relazioni interpersonali in cui le diverse soggettività sono elementi di ricchezza, facilita la costruzione di percorsi di inclusione di soggetti deboli; -CHE oltre ad opportunità di immediato re/inserimento lavorativo, quindi, i servizi offerti possono: - anche attraverso puntuali percorsi formativi, favorire processi di ri/acquisizione di capacità, per cui persone diversamente abili ed in condizione di temporanea difficoltà possono acquisire competenze utili per favorire il reinserimento sociale; 86 - supportare i processi terapeutici e riabilitativi di persone affette da disabilità psichiche e/o motorie, grazie alle caratteristiche intrinseche dei contesti rurali, alle attività connesse all’agricoltura che, per i suoi ritmi, la sua varietà, e soprattutto per il rapporto con esseri viventi come piante e animali, ha significativi effetti positivi sugli equilibri psichici; - favorire la costruzione ed consolidamento di reti di protezione sociale, la diffusione di livelli di responsabilità sociale più estesi nelle comunità; CONSIDERATO -CHE la legge n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” dell’8/11/2000, prevede che per la realizzazione degli interventi e dei servizi sociali, in forma unitaria ed integrata, è adottato il metodo della programmazione degli interventi e delle risorse, dell’operatività per progetti, della verifica sistematica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni, nonché della valutazione di impatto di genere; -CHE nelle Linee Guida Regionali - Anno 2006 (V Annualità), approvate dalla Giunta Regionale con delibera n. 838 del 23/06/2006, viene indicato quale orizzonte progettuale la costruzione della “Campania sociale”, che presenta tra le condizioni di attuazione l’individuazione di scelte selettive di Welfare di comunità sia come strategia di contrasto alle dinamiche di esclusione, sia come strategia di promozione dell’agio e della qualità della vita in un Welfare positivo e della felicità; -CHE la Giunta Regionale con delibera n. 679 del 18/04/2007 promuove, tra le azioni a titolarità regionali, le buone pratiche sperimentali ed innovative di sviluppo sostenibile ed inclusione sociale delle fasce deboli; -CHE il D.D.L. regionale per la dignità e la cittadinanza sociale (D.G.R.C. n° 109 del 26/01/2006), licenziato dalla VI commissione Consiliare permanente in data 21/11/2006 (Reg. Gen. N° 63/I), disciplina la programmazione e la realizzazione di un sistema organico di interventi e servizi sociali, che si attua con il concorso delle istituzioni pubbliche e delle formazioni sociali, attraverso l’integrazione degli interventi e servizi sociali, sanitari, educativi, delle politiche attive del lavoro, delle politiche abitative e di sicurezza dei cittadini, dell’apporto dei singoli e delle associazioni; 87 RITENUTO -CHE gli interventi integrati in cui sono previste azioni: a) di promozione dello sviluppo sostenibile e di promozione dell’agricoltura b) di promozione e di inclusione sociale che insistono sulle aree di intervento del sistema integrato dei servizi sociali della Campania c) che favoriscono la diffusione della cultura della legalità si possono configurare come vere e proprie azioni di sistema fortemente innovative di interesse strategico per la Regione Campania; -CHE tali interventi possono essere promossi dalla «Fattoria sociale», intesa quale impresa sociale, economicamente e finanziariamente sostenibile, che utilizzando in gran parte fattori di produzione locali svolge attività produttiva agricola e zootecnica, ed al contempo in collaborazione con le istituzioni pubbliche e con gli altri organismi del terzo settore favorisce l’inserimento socio-lavorativo di giovani appartenenti alle fasce deboli; -CHE la «Fattoria sociale» così definita, favorisce l’attivazione sul territorio di reti di relazioni, creando mercati di beni relazionali, aumentando la dotazione di capitale sociale e offrendo risposte a bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono in grado di soddisfare; -CHE data la grande varietà di servizi che possono offrire le Fattorie sociali oltre all’inserimento socioriabilitativo, é necessario che ciascuna di esse nel proporsi come fornitore al sistema integrato di servizi sociali della Campania, formalizzi i propri interventi in un progetto in cui siano esplicitate le finalità, gli specifici bisogni territoriali che intende soddisfare, le sue caratteristiche educative ed assistenziali, nonché le modalità organizzative di realizzazione delle attività, le caratteristiche strutturali degli immobili e degli spazi ad essi destinati; 88 propone e la Giunta in conformità a voti unanimi DELIBERA per le motivazioni ed i riferimenti espressi in narrativa che qui si intendono integralmente riportati di: a) qualificare come «Fattoria sociale»: 1. una impresa no profit economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta con etica di responsabilità verso la comunità e verso l’ambiente; 2. una impresa che utilizza fattori di produzione locali e svolge attività agricola e zootecnica; 3. una impresa che nel proprio statuto prevede l’inserimento socio-lavorativo di giovani appartenenti alle fasce deboli, oltre che eventualmente la fornitura di servizi culturali e/o educativi e/o assistenziali e/o formativi a vantaggio di soggetti con fragilità sociale beneficiari del Welfare locale; 4. una impresa che soprattutto attraverso l’inserimento lavorativo nell’ambito di attività coerenti con il modello di sviluppo sostenibile è disponibile a collaborare con le istituzioni pubbliche e con gli altri organismi del terzo settore in modo integrato, attivando sul territorio reti di relazioni, creando mercati di beni relazionali, aumentando la dotazione di capitale sociale e offrendo risposte a bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono in grado di soddisfare; 5. laddove ciò è possibile, riutilizza i beni sottratti alle organizzazioni criminali e quindi promuove quale ulteriore valore aggiunto la cultura della legalità; b) arricchire l’offerta dei servizi sociali del Welfare campano con gli interventi innovativi della «Fattoria sociale», al fine di favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e delle comunità locali in cui opera; c) disporre che oltre ad attività di re/inserimento lavorativo, eventuali ulteriori interventi offerti dalle «Fattorie sociali» siano formalizzati in una proposta progettuale in cui siano esplicitate le finalità, gli specifici bisogni territoriali che intende soddisfare, nonché le modalità organizzative di realizzazione delle attività e le caratteristiche strutturali dell’immobile destinato, da inviare al Comune territorialmente competente al fine di ottenere la prevista autorizzazione; d) dare mandato al Settore 01 dell’AGC 18 “Assistenza Sociale, Programmazione e Vigilanza sui Servizi Sociali”, attraverso successivi atti Dirigenziali adottati d’intesa 89 con il Settore 03 dell’AGC 11 “Interventi sul territorio agricolo, bonifiche ed irrigazione”, di istituire il registro regionale delle «Fattorie sociali»; e) trasmettere il presente provvedimento ai seguenti Settori Regionali per quanto di rispettiva competenza: Settore 01 dell’AGC 18 “Assistenza Sociale, Programmazione e Vigilanza sui Servizi Sociali”, Settore 03 dell’AGC 11 “Interventi sul territorio agricolo, bonifiche ed irrigazione”, Settore 01 dell’AGC 03 “Piani e Programmi di Intervento Ordinario e Straordinario”. Il Segretario D’Elia Il Presidente Bassolino 90 Bibliografia Arminio, F., Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011 Balandier Georges, Antropologia Politica, Armando Editore, Roma, 2000 (ed. or. 1967) Boni Stefano, Cultura e poteri, Un approccio antropologico, Cremona, Eleuthera, 2011 Deseta Cesare e Buccaro Alfredo (a cura di) Iconografia delle Città in Campania. Le Provincie di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno, Napoli, Electa, Napoli, 2006 Graeber David. Frammenti di un’antropologia anarchica, Eleuthera, Milano, 2006 (ed. or. 2004) Lamborn Wilson Peter, Avant gardening, Torino, Nautilus, 2011 Latouche Serge Harpages Didier, Il tempo della decrescita, Eleutera, Milano, 2011 Latouche Serge, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano. 2007 91 Macry Paolo e Villani Pasquale (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania. 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